7. MITOLOGIA - RIFORME RELIGIOSE - SCIENZA


Il monte Olimpo - La dimora degli Dei

L'evoluzione delle idee religiose era nel sesto secolo arrivata sino al punto di concepire gli Dei come custodi dell'ordine morale nel mondo. Ma l'osservazione dimostrava che l'andamento delle cose era assai imperfettamente conforme a questo postulato. E l'antica dottrina secondo la quale la pena cui riesce a sfuggire il colpevole raggiunge i suoi discendenti innocenti non poteva più soddisfare il sentimento di giustizia di quest'epoca. Sorse così la credenza nell'espiazione dei delitti nel mondo di là.

Già l'Odissea, benché in un brano di origine assai tarda, ci dipinge i supplizi cui sono sottoposti nel regno dei morti Tizio, Sisifo e Tantalo, perché nel mondo si erano resi colpevoli contro gli Dei. Simili idee tanto più avevano la capacità di diffondersi in quanto il regno dei morti era già di per sè stesso per ogni vivo un luogo di terrore. Ed anche chi si sapeva esente da qualsiasi colpa di grave entità non poteva tuttavia attendersi altro dopo la morte che una esistenza d'ombra in mezzo a tenebre eterne.

Di fronte a questa aspettativa sorse ora e si impose il bisogno di un mezzo di riscattarsi da una simile sorte. Se il favore degli Dei, come aveva già cantato Omero, aveva sottratto alla morte alcuni eroi dell'antichità, come il biondo Menelao, e li aveva trasportati ai Campi Elisi ove continuavano a vivere in eterna beatitudine, perché un simile favore non avrebbe potuto essere accordato anche ad altri mortali ?
E se lo stesso delitto più grande di tutti, l'omicidio, poteva essere espiato con sacre funzioni, era naturale pensare che funzioni simili potessero aver la virtù di allontanare la figura paurosa della morte. A tal uopo naturalmente si fece capo ai culti delle divinità ctoniche, della madre-terra Demetra, di sua figlia Persefone, la signora del mondo dei morti, e di Dioniso, il dio della terra.

Fra le numerose località dove si svolgevano queste funzioni sacre o, come erano chiamati, «misteri» salì assai precocemente alla massima fama Eleusi presso Atene. Qui ogni autunno si rappresentò una specie di dramma della Passione, che aveva come soggetto il ratto di Persefone ad opera di Hades e la sua ricongiunzione con la madre; il credente doveva attingerne la fiducia che anche a lui sarebbe stata concessa la stessa liberazione dalle pene degli inferni. A questi misteri era ammesso soltanto chi aveva ricevuto l'inizia
zione, la quale peraltro si concedeva a chiunque la desiderava, non escluse le donne e gli schiavi. Chi non era iniziato rimaneva sotto la minaccia della eterna dannazione dopo la morte.

Queste idee religiose condussero poi nel sesto secolo alla formazione di un sistema teologico, del quale era ritenuto mitico autore il vate tracico Orfeo, figlio della musa Calliope; da lui e dal suo allievo Museo, figlio di Selene, la dea della luna, si credeva fossero state redatte le sacre scritture in cui erano consegnate queste dottrine. Vi si narrava la creazione del mondo e la genealogia degli Dei, ricollegandosi alla teogonia di Esiodo, ma sviluppando poi le idee qui contenute in modo diverso ed autonomo.

Cronos (il tempo) crea dal caos e dall'Etra l'uovo argenteo, dal quale si schiude il dio luminoso Fanes, detto anche Ericapeo ovvero Protogono (il primo nato) ; questi genera la notte e con essa il cielo e la terra, dei quali alla loro volta son figli Oceano e Teti, cui fan seguito poi Cronos e Rea; da ultimo il figlio di Cronos, Zeus, conquista il regno del cielo e divora Fanes, ne incarna in sé l'intera essenza e diviene il nuovo creatore del mondo. Egli genera con Persefone Dioniso o Zagreo, cui ancor fanciullo pone in mano lo scettro; ma il giovinetto viene dilaniato e divorato dai Titani e soltanto il suo cuore é salvato da Atena. Zeus lo ingoia e poi genera con Semele un figlio che altri non é se non Dioniso-Zagreo stesso tornato nuovamente a vita.

Anche la nostra anima - si affermava - é di origine divina ed un tempo visse in seno agli dei beati, ma essa vi commise un peccato e fu per scontarne la pena bandita e condannata alla prigionia del corpo, anzi essa deve abitare uno dopo l'altro i corpi dei più diversi animali ed uomini prima di potersi riscattare e tornare ad essere accolta nella cerchia degli Dei. Condizione di tal riscatto é una vita moralmente pura e una rigorosa osservanza dei precetti rituali, in ispecie l'astensione dal mangiare carne, cosa in cui la fede orfica dovette addirittura raffigurare una specie di cannibalismo. Questo solo peraltro non basta; la condizione principale é la consacrazione, mediante la quale il credente attira sopra di sé il favore degli Dei. Chi l'ha ricevuta ed entra nel Tartaro puro d'ogni peccato vi conduce una vita beata in giocondi conviti, mentre terribili tormenti attendono i peccatori e gli infedeli. L'anima però deve tornar poi ancora ad albergare in un corpo mortale, e soltanto allorché per tre volte si sia saputa mantenere immune dal peccato passa a vivere in eterna comunione con gli Dei nelle isole dei beati.

Se questa religione si sia sviluppata in modo affatto indipendente da influssi esterni su suolo greco, ovvero se sulla sua formazione abbiano avuto per avventura maggiore o minore influenza idee mitologiche e cosmogoniche dei vicini Traci e Frigi e dei popoli inciviliti dell'Oriente, non é possibile ancora decidere allo stato attuale delle conoscenze. Ad ogni modo la nuova fede trovò presto numerosi profeti che percorsero tutto il mondo greco, pronti a dispensare a chiunque volesse i loro tesori di grazia.
Essi sanavano mediante scongiuri ogni sorta di malattie e portavano con se in giro collezioni di infallibili responsi degli oracoli che potevano servire di regola in tutte le occasioni della vita, e come si davano pensiero della salvezza delle anime dei vivi, volevano essere anche in grado di liberare con le preghiere e i sacrifici i morti dai tormenti del Tartaro.

Naturalmente essi trovarono grande seguito fra la gente colta come fra le masse incolte; si pensi che Onomocrito, uno dei capi più eminenti di questo movimento religioso, fu ospite ben visto alla corte dei Pisistratidi, che persino un uomo come Pindaro professò le dottrine orfiche o per lo meno ne subì profondamente le influenze. Ed in generale le scritture orfiche vennero lette con fervore. Ma il popolo greco era troppo pieno di giovanili energie perché una credenza che nega il mondo di qua e trasporta la vera vita nell'altro potesse trovare generale accoglimento. Perciò le dottrine orfiche rimasero limitate alla cerchia, malgrado tutto relativamente ristretta, degli iniziati, senza riuscire a conquistare la minima influenza sulla religione dello Stato, neppure in quelle città che, come Atene, avevano accolto la celebrazione dei misteri fra i culti pubblici e li avevano posti sotto la protezione delle leggi. Doveva passare ancora tutto un millennio prima che queste idee, benché in una veste teologica certamente non molto diversa, riuscissero vittoriose nel mondo greco.

Mentre gli orfici cercavano di risolvere l'enigma dell'universo per via della speculazione teologica, gli stessi problemi vennero contemporaneamente affrontati dal punto di vista diametralmente opposto. Questi tentativi presero le mosse dalla Jonia, la parte del mondo greco che a datare dall'età omerica si trovava alla testa dello sviluppo economico ed intellettuale della nazione. L'attivo commercio coi paesi d'Oriente di antica civiltà, come l'Egitto e la Siria, che aveva subìto l'influenza babilonese e dall'ottavo secolo si trovava anche sotto la dominazione assiro-babilonese, fece penetrare nella Jonia la conoscenza degli elementi delle scienze matematiche ed astronomiche, quali si erano sviluppate sull'Eufrate e sul Nilo.
Ma, mentre queste conoscenze scientifiche in Oriente servirono semplicemente a scopi pratici, il sapere nuovamente acquistato divenne per lo spirito greco il punto di partenza per una nuova concezione dell'universo che abbatté e fece cadere in rovina l'antica e tradizionale concezione mitologica.

A capo di questo movimento sta Talete di Mileto (verso il 600 a. C.). Egli é il primo Greco che sia riuscito a predire l'avverarsi di una eclissi solare e a dimostrare quindi la natura normale di questo fenomeno che aveva prestato sempre copioso alimento alla superstizione e mezzo secolo avanti era sembrato tuttora ad Archiloco un prodigio incomprensibile. Gli astrologi caldei avevano, é ben vero, fatto molte esperienze prima di lui e forse le loro osservazioni erano state quelle che avevano messo in grado Talete di fare le sue predizioni. Ma i Caldei si erano limitati alla semplice registrazione dei fatti senza smarrirsi nella fantastica supposizione che il corso delle stelle stesse con le sorti dell'umanità in relazione di causa ad effetto.

Talete invece tirò d'un tratto tutte le conseguenze dalla sua scoperta; alla sua mente apparve evidente che in natura tutto avviene secondo leggi fisse. Peraltro troppo scarse erano le sue conoscenze positive di scienze naturali perché egli potesse trovarsi in grado di costruire qualcosa di più che i primi ed imperfettissimi rudimenti di un sistema di spiegazione della natura. A suo credere, l'elemento primordiale da cui tutto il mondo si é svolto é l'acqua; é innegabile l'analogia che ricollega questa sua teorica al mito cosmogonico di Oceano e Teti. Il suo vanto consiste nell'avere arditamente spogliato quella dottrina della veste mitologica e ciò gli meritò la fama di fondatore di ogni scienza umana.

Talete trovò un successore nel suo contemporaneo più giovane e compaesano Anassimandro. Anch'egli era convinto che tutto si fosse svolto da un elemento primordiale unico ma comprese che questo elemento primordiale non poteva identificarsi con alcuno degli elementi esistenti. «Principio delle cose», egli dice, «é l'infinito, e là onde esse traggono il loro nascimento, colà devono fatalmente finire con la morte. Dopo di che esse pagano l'una all'altra in ordine di tempo la pena ed il fio della loro malvagità».

Come si vede, questo pensatore si aggira ancora in parte nel campo delle idee orfiche; come é chiaro che il suo « infinito », lasciato senza una determinazione qualitativa, non é altro che l'antico caos di Esiodo. Dall'« infinito » si sarebbero, secondo il suo pensiero, staccati anzitutto i quattro elementi in maniera che l'elemento solido (la nostra terra) venne ad occupare il centro dell'universo; attorno ad essa in seguito si dispose l'acqua per prima e dopo di questa l'aria; da ultimo all'estrema cerchia il fuoco, di cui sono composte le stelle. La terra aveva per lui la forma di un disco circolare piatto, che si mantiene sospeso nello spazio perché da ogni parte ugualmente distante dal limite estremo dell'universo.

Nella formazione degli esseri organici egli ammetteva una progressione dalle forme inferiori alle superiori; così secondo lui gli uomini sarebbero derivati per via di evoluzione dai pesci. È questo il primo barlume della teoria darviniana della origine delle specie.

Anassimandro si occupò pure profondamente di studi geografici, per i quali gli procurarono ricco materiale gli estesi rapporti commerciali della sua patria, Mileto. Egli é stato il primo che abbia abbozzato una carta della terra. In essa il Mediterraneo era già esattamente descritto come un bacino chiuso e del pari esattamente egli si pensava il margine della terra circondato tutt'intorno dal mare, probabilmente così per influenza delle concezioni mitiche di Oceano come per una geniale generalizzazione delle notizie che aveva sull'esistenza del mare al di là delle colonne d'Ercole e dell'istmo di Suez.

Anassimandro fu così il fondatore della geografia. Anche nella storia della letteratura greca la sua figura segna un'epoca, nel senso che egri fu il primo che ripudiò come un impaccio opprimente la forma poetica e scrisse in semplice prosa.
Nello stesso indirizzo di Anassimandro si trova il suo contemporaneo alquanto più giovane Anassimene, salvo che egli ritorna alla dottrina di Talete che muoveva da un determinato elemento primordiale, elemento ch'egli ritiene dover vedere nell'aria. Dappoiché egli dice «come la nostra anima é aria e per questo ci tiene uniti organicamente, così l'alito e l'aria abbracciano tutto l'universo». Da questo elemento primordiale nacquero poi le altre materie per via di condensazione e di rarefazione; di modo che esse altro non sono che modi di aggregazione di quell'unico elemento.
Con ciò era compiuto il primo passo verso una spiegazione meccanica della natura.

Non è che una modificazione di tale dottrina quella di un altro pensatore ionico, Eraclito di Efeso (verso il 500 a. C.) che ritenne principio elementare essere il fuoco. Tutte le cose, egli diceva, sono in continua fluttuazione e stanno fra loro in una lotta costante che però si svolge secondo leggi determinate; da ultimo esse si risolveranno nel fuoco da cui un tempo uscirono, ed allora il ciclo potrà ricominciare. Questo sistema venne da lui esposto con un linguaggio oscuro, talora quasi incomprensibile, condito di abbaglianti paradossi; inoltre egli attaccò nel modo più acerbo la religione nazionale e con pari calore i misteri e re cerimonie orfiche, nonchè i grandi poeti dell'antichità: Omero, Esiodo, Archiloco, e i grandi pensatori dell'epoca, Pitagora, Xenofane, Ecateo; per gli uomini in genere e per i suoi concittadini in specie, gli Efesi, il nostro filosofo manifesta il più profondo disprezzo. I libri di questo genere, nei quali ciascuno può credere di intravedere ed intendere ciò che vuole, hanno esercitato in tutti i tempi grande influenza, e infatti neppure ad Eraclito mancarono seguaci entusiastici; ancora due secoli dopo la Stoa mutuava da lui tutto il suo armamentario di principii di filosofia della natura. Peraltro un sistema così oscuro e pieno di interne contraddizioni non era certo adatto a far avanzare la scienza.

Tutt'altra strada tenne più tardi il samio Pitagora. Egli fu l'uomo più dotto del suo tempo, e nel campo delle matematiche la sua opera fu fondamentale; oltre al teorema che porta il suo nome, é dovuta a lui la fondazione della teoria dei numeri e la teoria dell'irrazionale.È poi sua la scoperta che la lunghezza della corda sonora sta sempre in un rapporto determinato con l'altezza del suono, ond'egli é stato il creatore della teoria matematica della musica.
Anche maggiori furono i suoi studi portati come astronomo; egli per primo insegnò che la terra avesse forma sferica e le attribuì un movimento proprio, per quanto dicesse che tal moto si compiva non attorno al suo asse, ma attorno ad un « fuoco centrare », che a suo credere costituiva il centro dell'universo, la cui luce era riflettuta dar sole, e che, se rimaneva invisibile, era perché il lato abitato della terra gli volgeva costantemente le spalle.

Egli dunque contribuì alla conoscenza della vera struttura del mondo più che ogni altro, dei suoi predecessori e contemporanei. Ma, appunto perché la matematica costituiva l'oggetto principale delle sue indagini e delle sue meditazioni, egli fu condotto a vedere nelle quantità matematiche, e specialmente nei numeri, la vera essenza delle cose, e a questo modo divenne il fondatore di un arido misticismo fondato sui numeri che costituisce la sostanza della sua teoria filosofica e che gli fece perdere il miglior frutto delle sue scoperte. Oltre a ciò egli era una natura profondamente religiosa; accettò con tutte le sue conseguenze la dottrina orfica della trasmigrazione delle anime e condusse alla maniera dei credenti in quella fede una vita ascetica.
Peraltro la sua patria ionica non era terreno adatto alle sue dottrine, e perciò Pitagora emigrò in Italia e fondò a Crotone una scuola che ben presto conseguì larga diffusione e continuò ad esistere per secoli e secoli fino all''epoca del tramonto dell'evo antico; gli studi matematici ed astronomici vennero in questa scuola coltivati per lungo tempo con ardore e con successo, sinché pure essa in ultimo degenerò nel misticismo.

Il Pitagorismo era una dottrina religiosa su fondamento scientifico; e tale fu pure il sistema che costruì verso la stessa epoca Xenofane di Corofone (570-470 all'incirca). Anch'egli non rimase fermo nella sua patria; per quasi settant'anni, come egli stesso ci narra, girò per il mondo greco, proclamando dovunque le sue dottrine. Buon poeta com'era, scelse per lo scopo la forma poetica, l'unica che in quel tempo non esistendo ancora un pubblico che leggesse, rendesse possibile una larga diffusione di un'opera letteraria; in ciò egli seguì l'esempio degli orfici, al contrario degli altri sapienti ionici dell'epoca, i quali scrissero o per una ristretta cerchia di amici, oppure, come Talete e Pitagora, si servirono per diffondere le loro dottrine dell'insegnamento orale.

Xenofane si manifestò apertamente contrario ed attaccò aspramente l'antropomorfismo inerente alla religione popolare greca: «Se i bovi e i cavalli - egli diceva - avessero le mani e potessero dipingere, si sarebbero dipinti Dei in forma di bovi e di cavalli », perfettamente come i negri si immaginano neri i loro Dei e i Traci se li raffigurano biondi. Né meno a fondo egli attaccò Omero ed Esiodo, quali principali rappresentanti di questo antropomorfismo, ed anche per le cose immorali che avevano narrato intorno agli Dei: «furti, adulteri e vicendevoli inganni». E concludeva «uno solo é il dio massimo, tanto fra gli Dei quanto fra gli uomini, dissimile dai mortali per la forma, dissimile per il pensiero ». Questa divinità, come non ha avuto un principio, così rimane anche immutabile e «perdura immota sempre allo stesso luogo»; «tuttavia senza posa essa agita il tutto con la potenza dello spirito ».

Inoltre anche Xenofane si studiò di porgere una immagine del modo di formazione del mondo e di spiegare i fenomeni naturali, al qual riguardo egli si richiamava fra altro alla pietrificazione di pesci e piante marine per provare che il mare un tempo doveva aver coperto tutta la faccia della terra. Ma a tutto ciò che insegnava non pretendeva di dare altro valore che di una opinione suggettiva; giacché, egli dice, «quanto alla verità, non vi é e non vi sarà uomo a saperla così per riguardo agli Dei, come per riguardo a tutte le cose di cui parlo; anche se eventualmente un uomo cogliesse nel giusto, non saprebbe egli stesso di aver indovinato poichè è apparenza quella che è diffusa su tutto
».

Xenofane trovò da ultimo una nuova patria nella ionica Elea nel lontano Occidente; originario di Elea è anche il suo miglior discepolo, Parmenide (verso il 500 a. C.). Egli spogliò la dottrina del suo maestro della veste teologica e la sviluppò facendone un sistema filosofico completo. Egli parte dal principio che non si può pensare se non ciò che è reale. Ora un nascere dal nulla ovvero un finire nel nulla é inconcepibile e quindi è anche impossibile. Con ciò veniva ad essere dimostrato il principio della persistenza della materia. Siccome il non-essere é cosa inconcepibile, non vi é che una sola materia che occupa uniformemente l'universo ed ogni movimento e trasformazione é impossibile.

L'esistente ha poi la forma di una sfera; giacché « se fosse sconfinato, sarebbe imperfetto ». In quest'ultima concezione si scorge chiara l'influenza pitagorica.
Questo é il mondo delle cose considerato in sé. Accanto ad esso poi si ha il mondo dei fenomeni, il quale non ha una esistenza reale ed é semplicemente un inganno dei nostri sensi. Parmenide ha tentato di spiegare anche questo mondo fenomenico, ma egli insiste espressamente a dichiarare che sotto questo riguardo non può offrire che delle ipotesi. Esse si aggirano sulle stesse orme già tracciate dai suoi predecessori ionici e possiamo astenerci dal fermarvi l'attenzione, tanto più che ne siamo informati assai vagamente.

Il sistema di Parmenide é la più profonda astrazione filosofica che lo spirito umano sia riuscito sino al suo tempo a concepire. Esso fu il primo passo sulla via della creazione di una metafisica scientifica. Per quanto i risultati di Parmenide possano poco soddisfare dal lato positivo, gli rimane nondimeno la gloria imperitura di essere stato il primo a riconoscere che dietro il mondo fenomenico esiste un mondo intelligibile il quale é il solo che sia reale, e di essere nel tempo stesso stato anche il primo a distinguere nettamente il sapere certo dall'ipotesi. A lui quindi spetta uno dei primi posti nella storia della scienza.

Mentre la filosofia dell'eleate Parmenide risente in parte di influenze della scuola pitagorica, l'Oriente del Mondo greco invece per il momento rimase estraneo alle conquiste scientifiche della scuola medesima. Qui si continuò ancora per lungo tempo a ritenere che la terra fosse un disco piatto. E tale infatti la riteneva anche il contemporaneo di Parmenide, Ecateo di Mileto, il primo che abbia scritto un'opera geografica. In questa egli porgeva una minuta descrizione delle coste del Mediterraneo, mentre naturalmente poco era in grado di sapere di sicuro dell'interno dei continenti e nulla addirittura sulle coste del mare esterno che non era ancora stato mai solcato da un Greco; a quest'ultimo riguardo pertanto egli si attenne, in mancanza di meglio, alla rappresentazione che ne aveva fatta Anassimandro nella sua carta. Inoltre Ecateo si occupò di storia, o di ciò che riteneva storia. E' pur vero che egli non dubitava della realtà storica dei miti che costituivano il contenuto dell'epopea, ovvero quelli narrati dai poeti o dal popolo; ma appunto per questo non poteva accettarli tali e quali erano stati tramandati e credette necessario eliminare le contraddizioni e le evidenti impossibilità della tradizione. «Io scrivo queste cose - egli dichiarò all'inizio deIla sua opera - in quella forma che ritengo vera. Poiché i racconti degli Elleni a mio credere sono in gran parte ridicoli ».

Coerentemente a tale principio egli razionalizzò il mito: Non é vero ad es. che Ercole sia disceso all'inferno, ma «esisteva sul Tenaro un serpente maligno che per il suo morso mortale era denominato il cane dell'Hades; é questo serpente che Ercole recò ad Euristeo». Occorreva inoltre portare un ordine cronologico nella confusione dei miti. Ecateo a tale scopo, seguendo il metodo dell'epopea d'Esiodo, si valse dell'ordine successivo delle generazioni, ragione per la quale anche la sua opera porta il titolo le «Genealogie».
Con l'aiuto di questi mezzi Ecateo ha dato in sostanza alla preistoria greca quella forma sotto la quale essa visse più tardi nella coscienza della nazione ellenica ed anche oggi si riscontra nella maggior parte dei nostri manuali, cioè a dire che all'inizio la Grecia era abitata da popoli barbari, soprattutto da Pelasgi; poi immigrati stranieri vi recarono l'Incivilimento e vi fondarono grandi regni; essi sono quegli eroi che secondo il mito vennero dall'Oriente, il fenicio Cadmo, l'egiziano Danao, il lidio Pelope. Seguì poi la spedizione degli Argonauti, la spedizione dei sette contro Tebe, e quanto altro l'epopea narrava di simili imprese. Dopo tutto questo, successe l'epoca delle migrazioni.

Omero non conosce ancora il nome di Tessaglia, e quindi i Tessali dovevano avere immigrato nella pianura del Peneo soltanto dopo la guerra troiana. Ad Argo ed a Sparta secondo Omero vi erano degli Achei con a capo re della famiglia dei Pelopidi, mentre i re di ambedue le città nell'epoca storica facevano derivare la loro stirpe da Ercole e il loro popolo si credeva di razza dorica; già i contemporanei di Tirteo avevano da ciò riferito che i loro antenati avevano in tempi antichissimi immigrato nel Peloponneso dalla Doride nei pressi dell'Oeta sotto la guida degli Eraclidi. La data precisa dell'immigrazione risultava dal fatto che Temeno, l'antenato dei re Argivi, derivava da Ercole in quarto grado, ed Ercole, secondo Omero, aveva vissuto una generazione prima della guerra di Troia. E siccome Creta e la Dorida dell'Asia Minore erano state colonizzate da abitanti del Peloponneso, la colonizzazione delle isole e della sponda occidentale dell'Asia Minore doveva di conseguenza essere avvenuta alquanto più tardi.

Così si ebbe l'illusione di possedere una storia prammatica delle epoche primitive elleniche. Se non che questo sistema ha tanto da vedere con la verità storica, quanto i sistemi dei filosofi contemporanei con le leggi della fisica e della chimica. Ma come l'importanza dei sistemi filosofici non sta nei loro portati positivi, ma nell'avere affrontato in genere il problema della spiegazione scientifica della natura, così ad Ecateo rimane il merito di essere stato il primo a sottoporre a critica la tradizione storica; ciò che ha fatto di lui il fondatore della scienza storica.

 

LA MITOLOGIA

Parlando di dei, vogliamo soffermarci ancora sui personaggi di quelle avventure, che diedero luogo ad una quantità di racconti e miti greci, il cui complesso costituisce appunto la cosiddetta MITOLOGIA.

Facciamo subito notare che la religione degli Dei greci era locale, e pur chiamato con lo stesso nome, il dio di una città non era lo stesso dio di un'altra città anche se vicina. Cosicchè Zeus, Apollo e gli altri Dei principali si moltiplicarono, distinti nei diversi luoghi con soprannomi diversi.
A creare una ulteriore confusione di nomi ci si misero in seguito anche i Romani. I Latini iniziati alle lettere e alle arti dai Greci confusero i loro Dei nazionali con gli Dei della Grecia. Cosicchè dai Romani noi ereditammo l'abitudine di indicare i Dei Greci con i nomi latini. Nelle righe sotto, citando le principali divinità greche, affianchiamo a ciascuna (dentro la parentesi) anche il nome latino:

Zeus (Giove) - Apollo (Febo) - Hera (Giunone);
Poseidon (Nettuno); Hades (Plutone); Demetra (Cerere); Artemide (Diana);
Ares (Marte); Atena o Pallade (Minerva); Afrodite (Venere);
Efesto (Vulcano); Hermes (Mercurio); Moira (Fato) ecc. ecc.

Innanzitutto Ma cosa significa MITO? Esso è un termine derivante dal greco myhos, che in Omero significa "parola, discorso" ma anche "progetto, macchinazione". In età classica Platone (in Repubblica 392a) afferma che è un "racconto intorno agli dei, esseri divini, eroi e discese nell'aldilà". E tale si conservò fino all''800 e '900, "quando il mito viene assunto o come narrazione e struttura religiosa fondamentale, o come modalità di fondazione delle istituzioni culturali, o infine, come forma di pensiero, come creazione ideale, distinta dal pensiero logico e scientifico.
Tuttavia nell'ambito di un preciso schema, il mito rimane uno dei fenomeni meno comprensibili nella storia delle società umane, e questo fa supporre che sia stato collocato dagli studiosi in un ambito e in uno schema errato alla radice, tanto da impedirne una reale interpretazione.
"Tuttavia, tutti coloro che hanno fino ad oggi studiato il mito, hanno, sia pure in modo diversi, sottolineato la sua importanza per la costruzione ideale e concreta delle istituzioni sociali e culturali"
(Mito - Enciclopedia della Filosofia, Garzanti, 1988)

Le forze della natura, non ancora spiegate dalla scienza, apparvero ai Greci come grandi esseri misteriosi, dotati di una volontà e di sentimenti simili a quelli degli uomini, e furono personificati in altrettanti Dei. Singolare è che i Greci pur essendo politeisti, riconobbero Zeus come il sommo dio, e tutti gli altri (Dee e Dei) soggetti a lui. Avevano sembianze umane, affetti umani, passioni umane. A differenza degli uomini erano però esseri immortali e avevano una potenza soprannaturale.
Il
"Culto degli Dei" pur provenendo da una oscura antichità ( e verosimilmente dalla Tracia dove alcuni nomi di dei esistevano mille-duemila anni prima delle conquiste greche) divenne ben presto una religione pubblica della Grecia, pur conservando i greci una religione domestica, cioè il "Culto degli antenati".

Nell'immaginazione dei Greci, gli Dei possedevano forza, intelligenza, bellezza, che non si alteravano col tempo, nè tantomeno perivano. Con la loro maestosità nell'aspetto, nel carattere nella statura, erano superiori alla natura umana; e come i sovrani in terra, vivevano in un grande palazzo situato sul monte Olimpo, il più alto che i greci di allora conoscevano.

Sulla sua vetta (che è posta a 2917), tutti gli Dei tenevano consiglio sotto la "presidenza" di Zeus, oppure sedevano tutti insieme per banchettare.
Proprio perchè possedevano sembianze, affetti e passioni umane l'immaginazione popolare attribuì a questi Dei consuetudini simili a quelle degli uomini: matrimoni, nascite, parentele, liti, atti eroici, e anche rivalità tra di loro nelle unioni, dove nascevano gelosie, rancori, odi, infedeltà, adulteri.
Tutti questi loro fatti, queste loro avventure, questi loro contrasti, partoriti dall'immaginazione popolare, diedero luogo ad una quantità di racconti: che nell'insieme, come già detto sopra, costituiscono la MITOLOGIA.

Dunque ZEUS è padre degli Dei ma anche degli Uomini, reggitore dell'ordine e dell'armonia dell'universo, arbitro della vita e della morte e, delle vicende umane con imperscrutabile consiglio, dispensatore di beni e di mali, vindice della violata giustizia, protettore degli ospiti e degli oppressi, ispiratore di senno e di pentimento.
Eschilo nell'Agamennone parla di Zeus con la più alta e, per così dire, cristiana spiritualità, poichè infatti nella concezione e adorazione di questo dio supremo del popolato olimpo greco si manifestò sempre la tendenza monoteistica non solo insita nelle coscienze più profondamente religiose, ma più o meno latente nelle molteplici manifestazioni del pensiero e del culto politeistico.

Eppure la storia mitica del dio supremo è scandalosissima: incesti e adulteri, per cui egli assunse anche forme di cigno, di toro, di pioggia d'oro, e tese insidie e inganni, e commise soprusi e violò ogni legge. Strano e stridente contrasto fra ciò che viveva nella fantasia pur lontana e ottenebrata tradizione e ciò che viveva nell'intimo della coscienza, quasi un'onda limacciosa che circondasse e battesse contro le pareti inviolate di un santuario.


Zeus ----------- Apollo ------------ Hera


ZEUS venne sempre raffigurato dall'arte con un aspetto maestoso di dominio, con ricca chioma e barba, con lo scettro, simbolo della sovranità, e col fascio di fulmini dell'ira sua; fra gli animali gli fu sacra l'aquila, fra le piante la quercia.
HERA o ERA, sorella e moglie di Zeus, è la suprema divinità femminile del cielo; alta espressione di matronale dignità, protettrice del vincolo coniugale, datrice di fecondità. La sua storia mitica è storia di gelosie verso il marito infedele e di accanite persecuzioni contro le rivali e contro i figli nati da esse. Bastò un primo germe naturalistico a far nascere l'idea di questo contrasto, se veramente Hera è l'etra luminosa, ma poi era facile alla fantasia poetica svolgere largamente e liberamente sul tipo umano il ricco motivo dei dissidi coniugali.

L'arte figurò la dea di matura, nobile e imperiosa bellezza. Ebbe anch'essa scettro a simbolo del suo potere regale, e le fu sacro il melagrano tra i frutti e il pavone fra gli animali.
Ma creazioni divine assai più caratteristiche del genio greco furono Pallade Atena ed Apollo.
Pallade Atena, balzata in armi dalla testa di Zeus, è dea della guerra, ma insieme anche delle arti, delle industrie e di tutte le attività dello spirito geniale, fusione di vigoria, di bellezza, d'intelligenza, ben meritò che Atene la scegliesse a protettrice. Ella è gloriosa di verginità, e la storia mitica di lei, mancandovi l'amore, è meno ricca e più vereconda.
Portò sopra la lunga tunica la corazza, elmo in testa, lancia e scudo, oppure l'egida, la pelle ornata con la testa pietrificante della Gorgone. Sacro era a lei l'olivo di cui aveva fatto dono ad Atene, vincendo contro Posidone che aveva donato il cavallo. Fra gli animali le era sacra la civetta.

APOLLO o Febo, figlio di Zeus e Latona, che lo generò insieme ad Artemide nella ancor fluttuante isoletta di Delo, era il dio radioso della luce e dell'arte, dell'arco e della cetra, della poesia e della divinazione, della bellezza e della salute, e nessuna individualità divina impersonò meglio le più belle caratteristiche del genio greco perciò Roma non ebbe alcun suo dio da mettergli vicino.
I miti narravano di lui che giovinetto servì come pastore presso Admeto re di Tessaglia, e narravano poi numerose lotte vittoriose contro mostri come il gigante Tizio e il serpente Pitone, lotte certo simboleggianti quel contrasto fra la luce e le potenze tenebrose, sul quale s'imperniano tanti miti solari.
L'arte trasse da questo dio alcune delle sue più belle creazioni; gli diede una certa femminilità nell'Apollo Sauroctono e nell'Apollo Musagete, e una radiosa e snella vigoria piena d'impero nell'Apollo del Belvedere, che pare tradurre tutta la mirabile essenza di questo nume così profondamente ellenico. Ma già tanti secoli prima lo aveva "scolpito" il verso di Omero nel primo canto dell'Iliade
L'udì Febo e scese
Dalle cime d'Olimpo in gran disdegno
Coll'arco sulle spalle e la faretra
Tutta chiusa. Mettean le frecce orrendo
Sugli omeri all'irato un tintinnio
Al mutar de' gran passi, ed ei simile
A fosca notte giù venia.


Suoi attributi l'arco e la cetra; sacri a lui fra gli animali il cigno e il delfino, fra gli alberi l'alloro.

Sorella di Apollo è ARTEMIDE. Raccoglie in sè caratteri un po' eterogenei che si rivelano nella varietà stessa delle sue figurazioni. L'Artemide di Efeso sarebbe, come dimostra il simbolo, una divinità feconda della natura e delle sue forze nutritive; ma questa concezione, se ancor vi si cela, è trasfigurata nell'Artemide cacciatrice che gode errar libera in abito succinto per i boschi e per i monti inseguendo le fiere, seguita da un corteo di ninfe. Vergine come Atena, vanno a lei i voti delle vergini; ma in qualche luogo era venerata anche come dea della maternità, col titolo di Ilitia; fu detta anche Ortia e come tale ebbe nei Templi più antichi culto di sacrifici umani e sempre a Sparta davanti al suo simulacro venivano flagellati a sangue i giovinetti per la prova della forza virile. Sacra a lei è la cerva, l'animale che essa sostituì ad Ifigenia quando la rapi mentre stava per essere sacrificata dal padre.

ARE figlio di Zeus e di Hera, era il dio che si compiaceva di battaglie e di sangue, forse personificando le forze cieche e distruggitrici della natura.
Esizioso iddio
Che lordo ir gode d'uman sangue e al suolo
Adeguar le città,


.... lo dice Omero; ma l'inno lo invoca anche come «padre della vittoria, sussidio di Temi, condottiero dei giusti». II mito lo faceva padre del brigante Cicno, del selvaggio re tracio Diomede e delle bellicose Amazzoni; fu amante di Afrodite e nell'Odissea il vate rallegra la corte raccontando l'agguato del tradito Efesto ai due amanti presi nei lacci di una rete invisibile, fra le risate degli Dei accorsi allo spettacolo.

Pure figlio di Zeus e di Hera era EFESTO, il dio del fuoco nelle sue molteplici manifestazioni nella natura, e come tale protettore delle arti e delle industrie metallurgiche e di quanti usano il fuoco per la loro arte. Di lui narrava il mito che Zeus sdegnoso del suo intervento a favore di Hera, o Hera stessa vergognosa della sua deformità, lo avesse gettato dall'Olimpo in terra. Benchè fosse zoppo e poco seducente, il mito gli dava per moglie la bellissima Afrodite o una delle Cariti, ciò che per un'interpretazione allegorica ma arbitraria del mito potrebbe simboleggiare l'unione del lavoro e della bellezza. Fabbro divino, creò opere mirabili, come lo scudo di Achille, nella sua fucina dove aveva a ministri i Ciclopi, e fabbricava i fulmini a Zeus. Fu figurato vigoroso, barbuto, col berretto e la tunica d'operaio e cogli arnesi della sua arte, ma si prestò alle ragioni dell'arte meno dell'altro dio di pur modesti uffici, quale fu Hermes.

HERMES nacque in Arcadia da Zeus e da Maia e fu il dio della scaltrezza pratica e del lucro, della parola faconda e delle prudenti deliberazioni, del commercio e del traffico e quindi dei viandanti e delle vie, onde l'immagine sua, l'erma, frequente nei crocicchi e nelle piazze; come anche nei ginnasi, perchè egli era agile e destro negli esercizi del corpo.
Anche questo dio raccoglieva quindi in sè parecchi dei caratteri propri all'anima greca. Fu pure dio della pastorizia, poichè pastore fu egli stesso nella sua giovinezza, e dio della procreazione feconda. Molte imprese narrava il mito di lui a cominciar dal furto che ancor fanciullo egli fece delle giovenche di Apollo; la più importante fu l'uccisione di Argo dai cento occhi che teneva prigioniera lo, la fanciulla amata da Zeus e mutata in vacca errante da Hera; allegoria, dicono, del crepuscolo mattutino (Hermes), che spegne le luci del cielo stellato (Argo), fra cui brilla la luna cornuta (lo); ma per altri Hermes è il vento. Ebbe l'ufficio di messaggero degli dei fra l'Olimpo e la terra, e quello di psicopompo, ossia accompagnatore delle anime dei morti nell'Averno. Conciliava ai mortali il sonno e portava i sogni.
L'arte lo figurò o come pastore in atto di portar sulle spalle l'ariete, l'animale a lui sacro (Hermes crioforo), o Bacco bambino, oppure come palestrita, o come messaggero degli dei, colle ali ai piedi e al petaso e in mano il caduceo, cioè la verga d'araldo intorno a cui s'attorcigliano due serpenti. Un mirabile bronzo di Ercolano lo raffigura in attitudine di riposo prima di riprendere il volo, e il suo corpo è pieno di snella e leggiadra vigoria. Ma ci fu pure una raffigurazione di un Hermes maturo e barbuto.

Dal confluire di elementi diversi greci e orientali, come già si è detto, uscì la più bella delle divinità elleniche: AFRODITE, la dea della bellezza e dell'amore nelle sue varie espressioni, del più basso e sensuale (Afrodite Pandemia) come del più puro e ideale (Afrodite Urania); dell'amore e delle forze generatrici onde il mondo si perpetua. Fu detta figlia di Dione e di Maia, ma anche secondo l'apparente etimologia dei suo nome «nata dalla spuma», e questo nascita ebbe delle stupende espressioni nell'arte.
La sua storia mitica è un seguito di amori divini e umani da lei favoriti o contrastati, come quando favori Paride e Peleo innamorati, e punì Ippolito e Narciso restii; ebbe a marito Efesto e ad amante Are; orientale è il mito de' suoi amori con Adone il bellissimo giovinetto ucciso a caccia da un cinghiale e su cui pianse sconsolata Afrodite. Ha un lungo corteggio; le Ore e le Cariti ed Eros e Imero ed Imene, e sacri erano a lei fra gli animali le colombe, fra le piante il mirto.
Gli artisti greci espressero con Afrodite in capolavori insuperati (come la Venere Capitolina, la Medicea e quella di Milo), l'ideale della bellezza femminile in forme spiranti una grazia vereconda. Si veda come dalla testa della Venere di Milo, spiri nella bellezza sovrumana un senso ineffabile di pensiero e di impero.

Poca parte ha nel mondo divino e poca storia ESTIA, la sorella di Zeus. E' la dolce vergine dea del focolare domestico - che pur si disse estìa - dove arde la fiamma che fu il cuore della casa antichissima e il primo altare. Stanno quindi sotto la protezione di lei la famiglia ed anche lo Stato che è come una grande famiglia e possiede il suo focolare nel Pritaneo. La fiamma viva era la sua più diretta figurazione sensibile: scarse sono le figurazioni dell'arte.

A queste divinità maggiori dell'Olimpo s'aggiungono compagne e ministre molto minori ELIOS (il Sole) e SELENE (la Luna), EOS (l'Aurora) e i Venti, le nove Muse figlie di Zeus e di Mnemosine (la Memoria), create, dice Pindaro, a cantare la vittoria sopra i Titani, dee del canto e del suono, dell'armonia e del ritmo, dolce sollievo agli dei ed ai mortali; le tre CARITI, simboli gentili delle grazie che fanno miti i costumi e più cara la bellezza; EBE, la fiorente giovinezza, e GANIMEDE, il bellissimo giovinetto troiano rapito dall'aquila di Zeus e fatti l'una e l'altro coppieri ai conviti dell'Olimpo; EROS il piccolo e potente iddio dell'amore; e ASCLEPIO, figlio di Apollo, medico e risanatore, speranza di tanti infermi; e NEMESI vendicatrice d'ogni umana scelleratezza, e TYCHE, la Fortuna: tutto un nutrito popolo di numi celesti a cui, secondo i bisogni, si alzavano le mani dei supplicanti e degli adoratori.

Ed ecco un'altra schiera di forme divine, popolare le acque del mare. OCEANO marito a Teti, il più antico dio delle acque, padre dei fiumi; e PONTO, il Mare, che da GE, la Terra, generò NEREO, il vecchio dio pieno di senno e divinatore, abitante negli specchi profondi del mare, e PROTEO pastore di armenti marini, vaticinante a chi lo sapeva tener saldo nel suo mutarsi in molteplici aspetti di leone, di drago, di fuoco : e GLAUCO da pastore fatto dio marino per aver gustato una certa erba sulla spiaggia: e le SIRENE vergini con metà corpo pesce, muse del mare che ammaliavano col loro canto i naviganti traendoli a rovina, e infine il numeroso stuolo delle OCEANINE e delle NEREIDI, folleggianti fra le onde coN i TRITONI dalle biforcute code di pesci e soffianti nelle conche. Re di questo regno marino POSIDONE, fratello di Zeus e marito di Anfitrite. Scorreva maestoso sul suo carro tirato da verdi cavalli alati, impugnando il tridente, sollevando a tempesta o pacificando con il suo cenno le onde.

E' un quadro pieno di poesia, di colore, di plastica evidenza, ispirato alla fantasia dall'azzurra marina dell'Egeo, che coronava di spume le terre greche. Da meno remote fonti scendono i miti marini greci e per vie meno tortuose dalla visione della natura che nei vari aspetti, nel moto, nell'urto e nelle voci delle onde pare suggerire la creazione fantastica di personalità vive.

Nè meno popolata di numi la terra; la terra a cui l'uomo quanto più risale alle origini tanto più è strettamente avvinto e ne sente il mistero; che accoglie il seme gettato dall'agricoltore e il corpo dei morti; donde sorgono le biade e spuntano le fonti; che si ammanta e si spoglia di verde e di fronde in una perpetua vicenda che si traduce in una vicenda di letizia e di dolore. Oggi pure, d'altronde, nel linguaggio del contadino che parla del suo campo, è frequente la metafora che dà ai fenomeni naturali quasi un senso di vita intelligente.

Sono diverse personificazioni della terra divinizzata: GE o GAIA, l'infaticata madre, onorata in Atene come curotrophos, ossia nutrice di figli; e REA la figlia sua identificata colla frigia CIBELE, o Gran Madre IDEA, che piange morto l'amante ATTI di cui poi è celebrata con gioia sfrenata la risurrezione; e DEMETRA, propriamente la Terramadre, che piange anch'essa la perduta figlia PERSEFONE rapita da PLUTONE e la cerca correndo per il mondo e la ritrova, ma non la riacquista che per una parte dell'anno : trasparenti miti che traducevano il lieto rinnovarsi della vegetazione dopo i tristi mesi invernali. L'arte fece di Demetra, una nobile e severa immagine di madre dolorosa.

Dio della generazione e più specialmente protettore degli orti o dei giardini fu PRIAPO che dalla Propontide e dall'Ellesponto si diffuse coll'oscena sua figura in tutta la Grecia: a lui era vittima preferita l'asino.

« Ma nessun dio terrestre ha storia più ricca, più fortunosa, più drammatica di DIONISIO o BACCO, il dio delle energie germinative della natura, della vita in specie. Nato da Zeus e da Semele, affidato bambino ad Hermes, educato da Sileno, girò per il mondo a diffondere il suo culto orgiastico, spingendosi fino all'Indo, seguito da un corteo di satiri ebbri e di baccanti agitanti tirsi o fiaccole, fra cento avventure. Fatto prigioniero da pirati tirreni, a un cenno del dio la nave s'inghirlanda miracolosamente di pampini; trovata ARIANNA, abbandonata da TESEO, la fa sua sposa; e dovunque arriva diffonde il suo culto con terribili vendette contro i restii e gli increduli, come Licurgo e Penteo, e si fa maestro di più miti costumi e di una vita sociale e lieta.

In una più mistica forma, come dio di rinascimento spirituale, Dioniso ebbe parte anche ne' misteri eleusini col nome di JACCO a cui inneggiavano gli iniziati nei loro riti; ma poi nella loro teologia gli orfici lo identificarono con ZAGREO, il figlio di Zeus e di Persefone, di cui si narrava che fu fatto a pezzi e divorato dai TITANI, ma che avendone Zeus mangiato il cuore ne rinacque un secondo Dioniso : perciò eterna negli uomini, nati dai Titani, la lotta fra l'elemento titanico e il dionisiaco o divino. Fattori naturalistici, allegorie filosofiche, fantasie di poeti confluivano così a tessere la storia di questo dio, storia di avventure, di giocondità, di dolori, di glorie, che offrì un materiale inesauribile alla letteratura e alle arti figurative d'ogni tempo. Barbuto e d'aspetto maestoso lo figura l'arte più antica; poi prevalse un tipo giovanile e quasi femmineo.

Altro dio terrestre, che da modesta importanza fu innalzato poi dal misticismo orfico a simbolo dello spirito universale che dà vita al mondo, fu PAN, cornuto e dai piedi di capra, che amò le selve e i pascoli, la rustica zampogna e le ninfe.
E infine come le onde del mare così popolò la fantasia greca le pendici dei monti, i boschi, le fonti, di ninfe e di geni coi nomi di Oreadi, Driadi, Amadriadi, Naiadi, di Satiri e Panischi, onde furono animate le solitudini, e il credente sentì da ogni parte l'alito del nume.

E se dalla superficie della terra scendiamo negli inferi, vi troviamo la coppia divina di ADES e PERSEFONE.
Ades o Plutone, fratello a Zeus, Persefone, figlia di Demetra, e da Plutone rapita mentre stava cogliendo fiori, dominano nel regno delle ombre e delle tenebre, dove i mortali tutti devono discendere; ma poichè la terra nel cui seno scendono i morti è pure la madre della vegetazione fiorente, le divinità infere sono anche divinità ctoniche e Plutone con Persefone ebbero culto nei misteri eleusini accanto a Demetra. Scarsa del resto la storia mitica di questo dio tenebroso, scarsissime anche le figurazioni dell'arte.

Sede negli inferi hanno altre terribili sembianze come le ERINNI ed ECATE. Nate le Erinni - prima di numero indefinito poi ridotte a tre : ALETTO, TISIFONE, MEGERA - dalle gocce del sangue di CROMO mutilato, o figlie, secondo altri, della NOTTE, furono le terribili dee della vendetta che persegue il colpevole e non gli lascia riposo, agitandolo col rimorso : furono anche dette con parola eufemistica che valeva il loro terribile potere, EUMENIDI, le propizie. Dea tenebrosa e terribile fu anche ECATE, che sorgeva dagli inferi per aggirarsi fra i sepolcri, per i trivii, onde fu detta triodite, ossia trivia, destando gli ululati dei cani vaganti e aiutando le arti delle maghe: a placarla si ponevano nei trivii cibi di cui godevano i poveri. Fu essa personificazione forse della luna e dei misteri paurosi delle notti piene di ombre? La teologia orfica trasformò anche la concezione popolare di Ecate con elementi mistici e ne fece una dea potente in cielo, in terra e sul mare, onde fu detta trimorfa e fu invocata come dispensatrice di grazie, di felicità, di vittoria, di senno.

Ma più che tutti gli dei che si son venuti fin qui ricordando, ineluttabile impera sugli uomini la MOIRA, che i latini dissero FATO; concetto, più che persona, del destino più forte di ogni volontà umana, inutilmente libera contro la segreta forza che conduce alla morte, alla pena, al delitto. Oscillante è della Moira la concezione secondo i tempi: ora s'identifica col volere degli dei, ora è ad esso superiore, perfino a Zeus; ora è destino cieco, crudele, invidioso, ora suprema e inviolabile legge morale che governa il mondo : oscillazioni che sotto altre parole furori di tutti i tempi e di tutti gli uomini che meditarono sulla sorte umana e sul fatale andare degli eventi. Curioso a questo proposito è il passo omerico in cui a Zeus, incerto se salvare o lasciar morire Sarpedene, Hera così parla
Che pretendi? Un mortale, un destinato
Da gran tempo alla Parca, or della negra
Diva ritorlo alla ragion? Fa' pure
Fa' pur tuo senno; ma degli altri Eterni
Non isperar l'assenso...


Ma nelle opere di tragici il Fato diventa un alto elemento di drammaticità; il contrasto fra il senso della libera volontà così vivace nello spirito greco e l'impero cieco del destino crea situazioni piene di tragica terribilità, che destano la visione del formidabile problema che travagliava anche nelle pagine de' filosofi lo spirito umano.
Personificazione vivace, benchè più modesta e ridotta, del terribile concetto, furono le tre Moire o Parche, LACHESI, CLORO e ATROPO, filanti con legge inesorabile lo stame della vita umana che Atropo tronca quando il destino è compiuto.

Fra gli dei e gli uomini stanno gli EROI, creazioni pure esse caratteristiche della genialità greca, e che di quel popolo traducono alcune spiccate tendenze morali e non solo fantastiche: lo spirito avventuroso, l'amor della gloria, il valore, l'individualismo prepotente. Sono i cavalieri erranti del mito greco.
Nella maggior parte dei casi non dovette essere diversa l'origine dell'eroe da quello del dio, e in molti degli eroi è ancora visibile la personificazione del fenomeno naturale. È probabile anzi che la maggior parte di essi abbia avuto all'origine dignità divina da cui decaddero per ragioni a noi ignote. Che poi in alcuni abbiano concorsi elementi storici oscurati e confusi dalla leggenda non sarebbe da escludere, e più di un indizio ci avverte che in alcune delle leggende eroiche greche deve essere scritta, almeno in qualche piccola parte, la preistoria della nazione, così come nelle pagine dei Nibelungi vi è la storia e la preistoria della stirpe germanica.

Infine i Greci fecero tanti semidei dei loro, eroi, ai quali eressero altari e resero onori divini, in riconoscenza dei grandi servigi che quelli avevano resi all'umanità. Per esempio: HERACLES (Ercole), e gli altri di cui abbiamo già parlato nel capitolo.

TEMPLI E SACERDOTI

"Gli antri, i boschi, gli alberi, le cime dei monti, le cavità esalanti vapori, le fonti, dovunque un solenne o misterioso fenomeno di natura destasse un più profondo o pauroso senso di riverenza, lì gli antichissimi Greci sentirono primamente e adorarono la presenza del nume. Anche quando sorsero i più splendidi templi di marmo, quei naturali ricetti del dio non cessarono d'esser onorati di culto, e ne sono notevoli esempi, le grotte di Dikte e dell'Ida in Creta, sacre al culto di Zeus dalla più remota antichità giù giù attraverso i secoli fino all'età romana". (Così il De Marchi).

Il tempio greco, a differenza della chiesa cristiana, è piuttosto il soggiorno, la sede del dio, che non l'ecclesia ossia il luogo per l'assemblea dei fedeli; meta e centro di processioni e di feste anniversarie, non accoglie giornalmente le turbe dei fedeli, non è rifugio sempre aperto alle anime pie o smarrite; fatto più per il culto cittadino che per la mistica preghiera dei devoti.
II tempio aveva rendite da campi, case, capitali, e la sua proprietà era rigorosamente amministrata dallo Stato e difesa gelosamente con prescrizioni rigorose. Minacce dell'ira divina o di multe e altre pene difendevano da manomissioni la proprietà del Dio.

Informi o rozze o impacciate, da prima, le figurazioni delle divinità vennero assumendo, come abbiamo visto parlando delle arti greche, forme sempre più umanamente ideali. A differenza dell'arte egiziana che pare irrigidirsi in tipi stereotipi, la greca segue nella manifestazione del divino lo svolgersi del gusto e della coscienza, fino alle immortali creazioni di Prassitele e di Fidia. "La religione e il culto in Grecia come nell'Italia medioevale e dei Rinascimento furono continui ispiratori all'arte, e come in Italia così in Grecia si vede nell'arte religiosa l'evoluzione progressiva dall'ingenuità quasi infantile alla possente e vigorosa maturità".

Innanzi al tempio si elevava a spire il fumo degli incensi, o guizzavano le fiamme dei sacrifici dalle are sorgenti a cielo aperto, diverse di forme e materiali, da quelle improvvisate con zolle erbose a quelle ricche di marmi e di sculture, elevate su ampie gradinate.
Ai templi e agli altari non chiunque e in qualunque modo poteva avvicinarsi e sacrificare: vi erano particolari indicazioni incise ed esposte al pubblico le quali prescrivevano quale specie di offerta fosse lecita, quale proibita, e le condizioni di purificazione necessarie per compiere l'atto sacro, e quali persone fossero escluse.

« Il carattere pubblico e insieme inviolabile del tempio -
continua il De Marchi - ne faceva anche un archivio di atti pubblici e privati. Trattati di pace e di alleanza, convenzioni, arbitrati, manomissioni, diplomi di cittadinanza e di benemerenza, trascritti nel marmo o nel bronzo, erano collocati ed esposti entro o presso ai templi perché rimanessero sotto la salvaguardia divina; e vi deponevano gli Stati i loro tesori e i privati i loro documenti.
« Intorno ai santuari più celebrati veniva poi a costituirsi - come avviene pur oggi - quasi una piccola città sacra di venditori d'immagine, statuette, oggetti di culto, che traevano il loro guadagno dall'affluenza dei numerosi pellegrini ».
Custode e funzionario del tempio era il sacerdote (
ieréus).

Scriveva Isocrate, parlando del regno, che esser re «non è cosa da chiunque come esser sacerdote», e le sue parole non suonavano disprezzo per la classe e per l'ufficio sacerdotale, ma dichiaravano uno dei caratteri che distingue il sacerdozio greco dal cristiano. «Nessuna o vocazione o preparazione o attitudine particolare era infatti necessaria al ministero sacerdotale; non da seminari o da scuole teologiche usciva il sacerdote, ma poteva divenirlo da un giorno all'altro, a certe condizioni, ogni cittadino. Ufficio sacerdotale compie il padre nella famiglia, il magistrato nella città; essendo la religione funzione di Stato, il sacerdote è di questo un pubblico funzionario, un consulente, un esecutore, e come un funzionario assume e depone, anche annualmente il suo ufficio ».

Dalle assemblee politiche e non da concili di sacerdoti emanano i sacri canoni e sono indette le pubbliche feste; i sacerdoti greci sono depositari di un rito e non di un dogma, sono riconosciuti e investiti dallo Stato e non consacrati da una Chiesa. Inoltre sono essi ministri di un dio e di un tempio, non della divinità in genere o di qualunque divinità; non hanno un primate, non sono ordinati in gerarchia, non costituiscono, come altrove in Oriente, una casta, onde la loro azione come corpo spirituale di fronte al corpo politico è nulla.
Nessuna traccia vi fu mai negli Stati greci di teocrazia; mancò quindi la condizione di lotta fra il potere civile e lo spirituale. L'anima cittadina e la religiosa si riunivano, a dir così, nell'unico corpo dello Stato politico in un'unità di salda coesione.
E nemmeno fu il sacerdote pubblico delle città greche il regolatore di coscienze, il diffonditore di una dottrina. Nessun libro sacro sfogliarono le mani sacerdotali che non fosse il rituale delle preghiere, dei sacrifici e delle purificazioni. Ma questi caratteri del sacerdozio greco -- i quali dipendono in molta parte dal carattere ritualistico e formale della religione stessa - non fecero necessariamente del sacerdote un materiale esecutore senza dignità e senza morale influenza.
Se egli non tiene le chiavi del regno dei cieli, possiede però la scienza del rito o quella del responso, sa le formule con le quali il dio si placa o concede le sue grazie; dall'adempimento esatto dei suoi doveri dipende la fortuna dello Stato, dall'esatta interpretazione dei segni divini la fortuna di una battaglia, dal rito ch'egli solo può compiere la quiete di una cittadinanza.

«Bianche erano di solito le vesti dei sacerdoti celebranti, -
continua il De Marchi - il bianco, secondo Platone, era il colore più conveniente agli dei; bianchi tutti od orlati di porpora i manti e le lunghe tuniche scendenti fino ai piedi, e come distintivo del loro ufficio portavano corona: corona di lauro, di mirto, d'olivo, di fiori, onde le espressioni « assumere la corona » e « deporre la corona » si incontrano a significare assumere o deporre la carica sacerdotale. Ma mutavano gli abiti di colore e di forme secondo la necessità dei riti, onde, ad esempio, il supremo sacerdote di Platea deponeva le vesti bianche e indossava le purpuree quando celebrava la solenne commemorazione dei caduti nella guerra persiana. E anche di maggior pompa e atte a colpire fortemente i sensi e l'immaginazione dei fedeli furono le vesti di certi sacerdoti, in certe cerimonie, come negli augusti misteri eleusini ».

IL CULTO

Tutti i mortali dovevano onorare le diverse divinità con lodi, feste, preghiere, offerte, sacrifizi. Chi in tal modo si rendeva caro agli dei era chiamato dopo morte a godere una eterna primavera nei Campi Elisi; coloro invece che se li rendevano nemici venivano precipitati nel profondo abisso del Tartaro. Dal che si vede che i Greci credevano nella immortalità dell'anima e ammettevano che vi fosse un premio eterno per i buoni e un eterno castigo per i cattivi.

Il popolo greco pregava molto. Senza preghiera non si incominciava alcun atto pubblico o privato d'importanza; la preghiera accompagnava i banchetti e le sedute del Consiglio, gli spettacoli teatrali e le assemblee di popolo, la battaglia e il giudizio, e la parola theói, « gli dei », scritta in testa agli atti pubblici suonava come una breve invocazione, che metteva sotto la protezione divina la cosa deliberata.
« Giustamente mi consigli, o Socrate - fa dire Senofonte a Critobulo nell'Economico - a voler ogni cosa cominciare con gli dei, essendo gli dei arbitri non meno delle operazioni di pace che delle operazioni di guerra ».
E nei Memorabili di Senofonte stesso è detto come Socrate insegnasse in qual modo si doveva pregare: «agli dei rivolgeva solamente la preghiera di concedergli il bene, ben conoscendo gli dei quale il bene fosse; e quelli che chiedevano oro, argento, potere e altre cose simili stimava non differire per nulla da quelli che chiedessero gioco di dadi o battaglie o altre cose di tal genere, manifestamente incerte nel loro esito ».

L'atto più importante del culto era il sacrificio (
ieron), che costituiva la funzione più solenne delle feste religiose e la manifestazione più alta della devozione. Molto si è indugiato sul significato e sulle origini di questa manifestazione del culto. « Fu la vittima - citiamo ancora il De Marchi - sacrificata e consumata dai fedeli un mezzo di comunione col dio, assimilandosi essi così l'animale sacro, il totem, che ne conteneva lo spirito? Oppure viene il sacrificio dal culto dei morti, concepiti come viventi e capaci e desiderosi di gustare dello stesso cibo di cui godevano i superstiti? Oppure è il sacrificio la naturale conseguenza della concezione antropomorfa del dio, che di esso doveva godere come un mortale, di cui gli si attribuisce l'anima e il senso? O il valore del sacrificio l'uomo sentì nel fatto di spontanea privazione di cosa a lui cara e necessaria?
Forse ognuno di questi sensi ebbe secondo i tempi e i luoghi e le persone una sua parte, ma basti dire qui che la prima opinione trova oggi largo seguito fra gli studiosi; benchè se mai un tal senso intimo e mistico ebbe il sacrificio, esso si era oscurato nei tempi posteriori e nella maggior parte dei casi, prevalendo il concetto già così esplicitamente espresso da Omero là dove parla di Nettuno che
... condotto a un'ecatombe s'era
Di pingui tori e di montoni ed ivi
Rallegrava i pensieri a mensa assiso.


Che se questa troppo materiale concezione offendeva gli spiriti più altamente religiosi, la funzione non cessava di essere un atto che traduceva in forma sensibile e tradizionale i sentimenti di pietà, di riverenza, di pentimento dell'uomo verso il nume, così come è la messa per tanta parte dei fedeli che sarebbero assai imbarazzati a dirne il mistico senso.
Le diverse fasi del sacrificio erano : la scelta e la decorazione della vittima, la purificazione dei celebranti, la consacrazione, l'offerta, il banchetto.
Le vittime dovevano essere scelte e senza difetti e non animali da lavoro, ma variavano di specie, di sesso, di età, di colore secondo il dio, la festa, il tempio.
La vittima doveva essere ornata di bende, di serti di fiori e anche le si indoravano le corna, come vien fatto nel sacrificio di Nestore, onde in un rendiconto finanziario del tempio di Delo vediamo segnate fra le spese: « foglie d'oro e mercede all'indoratore, dramme 125 »; e in alcuni rituali è prescritto che la vittima sia chrusókeros, ossia dalle corna dorate. Era segno sfavorevole se l'animale si avvicinava riluttante all'altare; ma gli animali piccoli vi potevano essere portati a spalla.

La consacrazione della vittima consisteva nello spargerle sulla testa la mistura sacra di orzo e sale, e anche nello sfoltire alcuni peli che venivano buttati sulla fiamma; poi l'animale era colpito a morte.
Nei sacrifici a cui si accompagnava il banchetto erano buttate nella fiamma ad ardere le parti non commestibili e alcune delle interiora, come il fegato ed eccezionalmente il cuore. Frequente fu l'offerta della parte posteriore dalla schiena, e della coda, ma l'uso variava, non solamente secondo i casi, i riti, gli dei, ma anche secondo la più o meno generosa pietà degli offerenti. Agli Spartani si rimproverava che nei sacrifici offrissero all'altare solamente le ossa spolpate.
Le parti della vittima che non erano consumate dalla fiamma e non spettassero di diritto ai sacerdoti, erano arrostite - cotte a lesso raramente - come nel sacrificio delle Hore ad Atene e imbandite ai celebranti e agli assistenti al rito; e il banchetto, vi prendesse parte la famiglia o la cittadinanza, costituiva parte integrante della cerimonia.

Il banchetto non accompagnava però i sacrifici di purificazione e di espiazione compiuti dai privati e dalle comunità sia per mondarsi da colpe commesse, specialmente da delitti di sangue, sia per stornare l'ira e i castighi divini; in tal caso la vittima era consumata tutta dalla fiamma e il sacrificio si diceva perciò
olókautos, parola che ebbe una lunga sopravvivenza metaforica nella nostra olocausto.
A placare l'ira degli Dei la Grecia ricorse anche ai sacrifici umani. Più frequenti nei Templi antichi questi furono via via sostituiti da forme simboliche più consone ai mutati costumi, ma del tutto non cessarono mai

Agli dei si offrivano anche primizie della terra, focacce di farina e di miele, che talvolta rappresentavano buoi o montoni, e oggetti d'ogni genere, spesso preziosi. Frequentissime erano le offerte votive di vasi, scudi, armi e perfino di chiome giovanili.

Da tutta questa rassegna non potevamo dimenticare LE ANFIZIONIE. Erano delle istituzioni originate dal sentimento nazionale; associazioni religiose e politiche, soprattutto fra Stati limitrofi, le quali mentre attendevano agli scopi per cui si erano costutuite, concorrevano pure a mantenere più stretti i vincoli di parentela fra gli Stati medesimi. La prima e la più celebre anfizione fu quella di Delfo, costituita dall'uomo che gli diede appunto il nome: Amfizione, fratello di Elleno.
Comprendeva 12 Stati della Tessaglia e dell'Ellade, ciascuno dei quali vi mandava i suoi deputati, e tutti insieme componevano il Consiglio amfizionico. L'incarico più importante era quello di amministrare il tempio di Delfo e di promuovere il culto della divinità; ma nello stesso tempo (come un odierno ministero degli Esteri) serviva a scopi politici, cioè regolava le relazioni fra le varie città, si interponeva nei loro interessi e nelle loro questioni, stabiliva dei premi per coloro che si rendevano benemeriti della Patria, e condannava chi l'aveva tradita o disonorata.

E la Patria dall'inizio del VI secolo, ebbe molto bisogno di benemeriti, anche se spesso -come vedremo- furono perseguitati dall'ingratitudine dei propri cittadini.
Ma di questo parleremo più avanti. Ora dobbiamo accennare al lungo cammino che stanno per intraprendere i due futuri e principali Stati con il loro governo: quello di Sparta e quello di Atene.

L'ASCESA DI SPARTA E DI ATENE >

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