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109 b - ALLA RICERCA DELLA VIA DELLE INDIE


I VIAGGI DALL'VIII AL XV SECOLO

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Col XV secolo incomincia l'esplorazione metodica e con grande determinazione della terra. Essa ebbe per scopo la scoperta della via per arrivare per mare alle Indie. Il trovare questa via era divenuta una necessità economica generale. Il consumo delle spezierie, degli aromi, della canna da zucchero, della seta, era cresciuto con l'aumento della ricchezza e del lusso, mentre la loro importazione si era resa straordinariamente difficile.

Soprattutto il Rinascimento poi, con le sue tendenze gaudenti, provocò un continuo acuirsi di questa crisi: pepe, chiodi di garofani, cannella, zucchero, noci moscate, zafferano, vennero consumati in quantità enormi per l'abitudine contratta di aromatizzare fortemente le vivande e il vino. Si generalizzò l'uso dell'indaco quale materia colorante. Per le droghe e gli aromi si pagavano prezzi altissimi, e il loro commercio fruttava spesso dal 300 al 500 % di guadagno.
Questo lucro tanto elevato fu di stimolo ad osare. Sinora il guadagno era andato a finire in sostanza tutto nelle mani dei veneziani. Questo perché dal momento che l'invasione turca aveva reso impraticabile la via di Hormus (all'incirca dalla metà del XV secolo) il commercio più importante, quello delle spezierie, procedeva a questo modo. I mercanti all'ingrosso indiani o arabi, muovendo da Calicut, l'emporio principale dell'India (da non confondersi con Calcutta), portavano la loro merce per mare sino ad Aden o a Gedda. Qui la rilevavano i mercanti arabi che la trasportavano per via di terra ad Alessandria, dove i veneziani l'acquistavano spesso barattandola con merci europee, e la recavano a Venezia.
Così questa città divenne il centro di tutto il commercio europeo in materia di droghe, zucchero, sete a altro; situazione che prolungandosi diventò sempre più gravosa, più odiosa, e ovviamente invidiata.

Accanto al bisogno di droghe la società del XV secolo sentì ben presto anche la necessità di aumentare il fondo di metalli preziosi in circolazione. I grandi progressi dell'industria e del commercio, nonché le gravi e lunghe guerre resero indispensabile la scoperta di nuove miniere d'oro e d'argento. Gli imperatori tedeschi erano eternamente in carenze monetarie; essi e tutto il mondo dovettero per forza prendere a prestito a tassi di usura tali che con l'andar dei tempo divennero intollerabili. I due ricchi banchieri, i Medici, i Fugger, dissanguarono il mondo con le loro disponibilità in contanti e diventarono più potenti che delle teste coronate e dei papi che a loro dovevano ricorrere, e dare perfino in gestione i proventi delle numerose e sempre più lucrose indulgenze. Lutero stesso tuonò focosamente contro il capitale.

Nei castelli dell'alta nobiltà, nei palazzi dei ricchi borghesi, gli scrigni celavano costosi vasellami ed utensili; le donne si caricavano a più non posso di monili. Per conseguenza aromi ed oro costituirono la parola d'ordine dell'epoca. Arditamente allora il marinaio esploratore si pose al timone ed accanto a lui si collocò il mercante tenace e calcolatore. E vicino a questo - minacciando ire divine - il religioso.
Il principale paese produttore di droghe era l'India, e particolarmente ricche d'oro erano ritenute le favolose isole Antilia e la non meno enigmatica Guinea che si supponeva esistente in qualche luogo ma molto a sud dell'Africa in mezzo alle popolazioni negre (e non si sbagliavano mica, qui - nel Trasvaal - infatti esistono le più grande miniere d'oro e di diamanti del mondo!).

Queste pertanto erano le mete cui dovevano tendere gli sforzi degli esploratori. La grande via commerciale che univa l'Europa alle Indie si trovava in mano degli Arabi, e con sdegno si erano visti questi nemici della cristianità accumulare milioni e milioni senza limite nella loro attività di intermediari del commercio orientale.
Tuttavia con costoro si poté almeno trafficare. Le cose cambiarono quando avanzarono i Turchi rozzi e brutali e nel 1453 conquistarono persino Costantinopoli, il punto di incontro di tre continenti. La possibilità di continuare nel commercio con il lontano Levante fu messa in grave pericolo. Urgeva trovare una nuova via idonea allo scopo.

Il sistema che parve più naturale e pratico fu quello di tentare la circumnavigazione dell'Africa. Se essa riusciva, non si aveva più bisogno di ricorrere agli intermediari musulmani e il guadagno fluiva nelle mani dei cristiani. Oltretutto si immaginava pure che la via fosse più breve di quanto era realmente, ritenendo che l'Africa fosse più larga che lunga. Si pensava cioè che subito dopo la zona desertica la costa piegasse versa oriente.


Una carta portoghese dell'Africa apparsa a Milano nel 1508.
L'Asia appare accorciata enormemente; il corno africano (Somalia) e quasi alla longitudine della Cina.

 

I tempi erano favorevole alle grande imprese d'esplorazione perché le terribili guerre contro gli infedeli in Europa erano quasi alla fine. Il Portogallo era liberato dai Mori, la caduta del regno arabo di Granata era ormai questione di tempo (avverrà proprio nel 1492). Una quantità di elementi piene di spirito cavalleresco e avventuroso si rese disponibile ed aspirò a trovare uno sfogo alla propria attività.
Le scienze nautiche avevano fatto notevole progressi. Gli Arabi avevano inventato la caravella e da allora si navigava più sicuri e si era pure appreso, invece di inchiodare una sull'altra le assi della carena, a fermarle una accostata all'altra e poi a calafatare lo scafo.
Ad Amalfi era stata perfezionata la bussola, sottoponendo all'ago calamitato mobile la rosa dei venti, e Regeomontano vero il 1470 con le sue effemeridi e col perfezionamento dei metodi d'osservazione astronomica aveva agevolato la determinazione del punto ove il navigante si trovava sulla superficie del globo.
È gloria eterna di un uomo di avere intuito il momento favorevole e di aver compreso e seguito l'invito che l'ora rivolgeva al suo popolo. Alludiamo al principe Enrico di Portogallo (1394-1460) cheper la sua passione per il mare fu soprannominato « il navigatore ».
Egli guidò il suo popolo e l'umanità a compiere nobili gesta, egli iniziò tutta una nuova era; e tutto questo non a caso, ma coscientemente e con grande determinazione. Don Enrico, quinto figlio di re Giovanni I di Portogallo, era nato ad Oporto il 4 marzo 1394. Il periodo della sua gioventù cade nell'epoca in cui duravano tuttora le lotte contro i Mori, ed il valore e l'intelligenza di cui egli dette prova in queste lotte gli procurarono onorevoli proposte di assumere alti comandi in eserciti stranieri.
Ma sembra che fin da allora egli abbia presagito quale era il campo in cui la sorte lo chiamava ad operare, e quindi ebbe la fermezza di declinare tutte le offerte. Il principe Enrico non era affatto un
pigro cortigiano, non era uomo da tener compagnia a donne: una austera serietà spira dal suo occhio e dal suo magro viso col lungo naso sottile e i piccoli baffi. Ciò che lo attrasse fu il mare misterioso con le sue mille meraviglie e i suoi infiniti problemi da risolvere. All'estremo angolo del mondo allora conosciuto, al capo S. Vincenzo, sotto la protezione della piccola fortezza di Sagres, lontano dalla mondanità della corte, egli si costruì il suo castello sopra uno scoglio molto sporgente nel mare. Lo voleva vedere il mare in ogni istante, e chissà quante volte rimirando l'orizzonte avrà oltre questo fantasticato viaggi.

Nelle immediate vicinanze della sua dimora egli, uomo religioso e quasi ascetico, edificò una chiesa al suo Dio e una serie di padiglioni per la scienza, al cui sviluppo volle dedicare tutta la sua vita. Qui egli invitò coloro che condividevano i suoi sentimenti e le sue aspirazioni; qui furono studiate le leggi che governano il mare; da qui partirono le prime spedizioni verso il Sud, verso, l'ignoto, verso il regno delle speranze. Non gli fu agevole preparare e concepire tali spedizioni, non per mancanza di mezzi finanziari, di cui lo provvide il ricco ordine di Cristo, del quale il principe era Gran Maestro, ma per la difcoltà di arruolare marinai, giacché costoro si rifiutavano, temendo i pericoli mortali dell' «onda nera» o del «caldo infernale» che la credenza popolare pensava dominassero nel Sud.

Per conseguenza si dovette all'inizio rinunciare ai viaggi d'alto mare e accontentarsi di costeggiare la sponda occidentale dell'Africa cercando viaggio dopo viaggio di allungare il percorso. Per venti anni, si lavorò in questo modo seriamente e tenacemente; i risultati di ciascun viaggio venivano al momento del ritorno, sulla base delle notizie recate, vagliati scientificamente e fissati sulle carte nautiche, servivano a preparare la spedizione successiva.

Anche scienziati stranieri furono ospiti del principe: ricevendo da tutti i migliori collaborazione, e attuazione; come il motto che il principe recava sulla sua arma: «a Talent de bien faire». Il principe Enrico trovò modo di servirsi sempre di nuovi uomini per le sue imprese. E forse il continuo cambiamento di persone non fu fatto senza ragione veduta, giacché é probabile che fin da allora si sia iniziato a seguire quella massima (che Portogallo e Spagna adottarono nella loro politica coloniale, massima basata sulla diffidenza e che più tardi portata all'esagerazione maturò conseguenze poco benefiche) di non mandar mai la stessa persona due volte di seguito, a capo delle spedizioni nelle colonie, nel timore che essa diventasse troppo potente e quindi pericolosa.

I risultati delle spedizioni ricompensarono le fatiche e le spese. Nel 1431 si riuscì, dopo duri sacrifici, a girare il capo Bojador. Nel 1441 fu raggiunto il capo Bianco o Blanco. Sopra un'isola di quei paraggi venne impiantata la prima fattoria che sia sorta su territorio coloniale africano e si iniziarono gli scambi con i nativi.
Nel 1445 Diniz Dias riuscì finalmente a superare la vasta zona desertica ed a raggiungere il Capo Verde. Per la prima volta l'occhio europeo vide qui il paesaggio tropicale africano. Già il nome di Capo Verde esprime la generale sorpresa nel vedere sconfessati gli scritti di Strabone e di Tolomeo, creduti veri per tanti secoli, della inabitabilità dei paesi posti nella parte più meridionale dell'Oceano Atlantico. Nell'ammirare la meravigliosa vita che fioriva ai piedi di quelle soleggiate pendici montane, tutti i canoni dei due antichi cosmografi furono accantonati.
Pieni di speranza i naviganti allora si spinsero ancora più oltre. Naturalmente essi non furono così docili e pacifici come nella tranquilla fortezza di Sagres. Purtroppo la riduzione in schiavitù o il massacro degli indigeni sono fenomeni che accompagnarono fin dal principio le imprese di esplorazione e rimasero inseparabili da esse per molti secoli.
La ragione é che a tali imprese si accinsero avventurieri e spadaccini avidi di guadagno, i quali andavano a caccia di lucro e spesso ci rimettevano la vita. Ad ogni modo anche costoro hanno reso notevoli servizi alla scienza, come quel Juan Fernandez che si fece sbarcare sul continente africano, rimase molti mesi fra i negri, ne imparò la lingua, ne studiò i costumi e rimpatriò quando i compagni di viaggio tornarono a riprenderlo.
Egli riscontrò in parte l'esistenza di una cultura di vecchia data e fu il primo vero e proprio africanista nel senso moderno del termine.

Il principe Enrico visse ancora abbastanza per vedere i soddisfacenti risultati di una spedizione commerciale alle foci del Gambia. Nel 1460 egli morì piuttosto soddisfatto della sua opera. E l'opera da lui iniziata non era ormai più suscettibile di arresti; gli scherni che avevano accompagnato le sue prime imprese si erano ammutoliti; la via, dal seguir la quale dipendeva l'avvenire del suo popolo, era ormai segnata.

Nello stesso anno della morte del principe furono scoperte le isole del Capo Verde. In Portogallo la vittoria delle nuove idee divenne completa, e il governo la sanzionò ufficialmente, giacché re Giovanni II si pose a capo del movimento di colonizzazione. Lo scopo immediato ch'egli si propose fu la scoperta dell'estrema punta meridionale dell'Africa, e conseguentemente della via per le Indie.
L'uomo destinato a risolvere il problema non doveva tardare a rivelarsi. Ma prima era necessario preparare convenientemente il terreno ad una impresa così difficile ed audace, giacché il fine non si sarebbe potuto raggiungere senza una lunga navigazione d'alto mare; sopra ogni altro occorreva mettere i naviganti in condizione di poter determinare con maggiore esattezza la propria situazione geografica in alto mare. Perciò uno dei primi atti di re Giovanni fu quello di istituire una commissione astronomica, composta dei migliori scienziati dell'epoca, sotto la direzione del vescovo Diego Ortis, col compito di compilare tavole rettificate che facilitassero il calcolo dell'altezza del sole e degli astri nel cielo meridionale, dove le costellazioni erano diversamente raggruppate che nel cielo settentrionale. Il membro più autorevole di questa commissione fu il tedesco Martino Behaim.

Quest'uomo era una singolare mescolanza di scienziato e di cavaliere errante. Figlio d'un patrizio di Norimberga, egli rappresentava il tipo del mercante colto. Aveva studiato matematica applicata col famoso Regiomontano (Giovanni Müller di Kónigsberg in Franconia) ed ora cercava di rendersi utile alla vita pratica col contributo delle sue conoscenza. Alcuni viaggi d'affari lo condussero nei Paesi Bassi e più tardi a Lisbona. Le sue conoscenze astronomiche fecero rumore, e lo si nominò membro dell'accennata commissione.
Già pochi anni dopo egli ebbe occasione di sperimentare la bontà dei risultati ottenuti da essa con i suoi lavori, perché partecipò ad una grande spedizione d'esplorazione capitanata da Diego Câo. Essa prese formalmente possesso della costa della Guinea in nome del Portogallo ed eresse dappertutto pilastri con lo stemma portoghese. Dopo ciò la spedizione proseguì il suo viaggio verso il sud, scoperse le foci del Congo e non ritornò indietro se non dopo che ebbe raggiunta la Baia della Balena (Walfish Bay).
Allora fu preparata una nuova spedizione al comando di Bartolomeo Dias, e questa volta si riuscì a raggiungere la tanto agognata meta: l'estrema punta meridionale dell'Africa.

Qui terribili tempeste impedirono di procedere più avanti. Per questo Dias diede all'inospita regione del Monte Tavola il nome di «Capo delle tempeste»; ma il re, quando ricevette la lieta notizia che rendeva verosimilmente prossima la scoperta della via delle Indie, mutò quel nome esclamando: «No; deve chiamarsi Capo di Buona Speranza».
Si credette di toccar presto e senz'altro la meta finale. Ma vi si opposero complicazioni politiche, mutamenti di governo, e da ultimo delle competizioni da parte della Spagna che richiesero lunghe trattative diplomatiche. Quindi si cercò per intanto di sviluppare il commercio nelle colonie già acquisite e principalmente nella Guinea.
Behaim non prese parte a tutto ciò; egli andò nelle Azzorre, vi prese moglie, tornò più tardi per affari a Norimberga, compose durante questo rimpatrio il suo famoso «Globus» che dà una chiara idea delle conoscenze geografiche del suo tempo, ritornò poi alle Azzorre, e nel 1507 morì durante una visita occasionale fatta a Lisbona.

In Portogallo aveva in quell'anno 1495 cinto la corona re Manuel, che i suoi ammiratori chiamarono il Fortunato. I grandi successi di Colombo (di cui parleremo nel prossimo capitolO), che nel frattempo avevano stupito il mondo, l'attività con cui gli spagnoli proseguivano l'opera di esplorazione, spinsero i Portoghesi a far appello a tutte le loro energie. D'altro canto le colonie africane non rispondevano troppo bene dal lato commerciale; il pepe della Guinea era inferiore per qualità a quello delle Indie e non riusciva a farsi strada sui mercati. Bisognava ad ogni costo tentare il gran colpo. Ed esso riuscì.
Nella primavera del 1497 Vasco di Gama assunse il comando di una squadra composta di quattro navi, avendo come comandanti in seconda suo fratello Paolo e Nicola Coelho. L' 8 luglio lasciò il Tago e, primo tra i Portoghesi a staccarsi completamente dalle coste, entrò nell'Oceano e si diresse verso sud-ovest, esattamente calcolando che a questo modo avrebbe dovuto raggiungere la zona di quei venti di ponente che lo avrebbero portato al Capo di Buona Speranza.

Così difatti avvenne. Il 16 dicembre la spedizione passò davanti all'ultimo segno di presa di possesso eretto da Dias sul Capo; il giorno di Natale toccò il Natal (Dies natalis domini); l'11 gennaio 1498 la baia di Delagoa e il 22 gennaio le foci dello Zambesi. I rapporti con le città arabe, che la spedizione toccò costeggiando la sponda orientale dell'Africa, furono talora pacifici, talora ostili. Fortunatamente i Portoghesi trovarono nel sultano di Melinda un principe benevolo, il quale diede loro dei piloti che li guidarono felicemente al Malabar. Il 20 maggio la piccola flotta raggiunse Kalikut e rimase la massima parte dell'anno in parte qui. in parte nelle vicine città costiere.
Durante questo periodo i pacifici rapporti commerciali e le trattative diplomatiche si alternarono con seri conflitti che provocarono persino spargimento di sangue. Il viaggio di ritorno venne reso piuttosto difficile dal monsone contrario, e soltanto il 7 gennaio 1499 le navi gettarono nuovamente l'ancora dinanzi a Melinda, poi si mossero per ritornare in patria.
Anche questa seconda parte dei viaggio incontrò gravi ostacoli; una delle navi, avendo subito avaria, si dovette dare alle fiamme, una seconda si dovette lasciare indietro alle Azzorre, e Paolo di Gama soccombette ad Angra agli stenti e alle fatiche di due anni di navigazione. Ma Vasco e Coelho condussero felicemente le loro navi a Lisbona; e soltanto un terzo dell'equipaggio rivide la patria.
La via delle Indie era finalmente aperta con conseguenze incalcolabili a favore di un rapido futuro sviluppo del commercio portoghese. Assai preoccupato l'incaricato d'affari veneziano presso il Portogallo riferì appunto in questo senso alla Serenissima signoria, e dopo queste relazioni alla corte di Lisbona lo si guardò come una spia e lo si trattò in modo non troppo amichevole.

Allorchè Vasco di Gama approdò in Asia, incontrò un ebreo di Posen di nome Gaspar. Costui, passando per Gerusalemme, Alessandria e l'Arabia, era arrivato in India alla corte del sultano di Goa, dove fattosi musulmano, viveva da 30 anni. Egli si presentò a Gama, chiese il battesimo, e si rese assai utile ai Portoghesi, non solo indicando loro dove potevano fare i loro acquisti di spezierie, ma anche dando loro informazioni sulle condizioni politiche dell'India che per il governo portoghese erano di grande valore.
Gama condusse con se il nuovo seguace in Europa, e costui poi accompagnò le successive spedizioni come consigliere. Anche Colombo nel suo primo viaggio ebbe a bordo un ebreo che aveva un talento speciale per le lingue e che infatti nelle Indie Occidentali si assunse con fortuna il compito di studiare le lingue di quei selvaggi e di cercar di intendersi con loro.

Anche i Medici domiciliarono a Livorno molti ebrei che contribuirono allo sviluppo del commercio fiorentino. Specialissimi servizi poi resero gli ebrei portoghesi nella colonizzazione del Brasile e nell'introduzione della coltivazione della canna da zucchero alle Antille. L'istinto mercantile aveva subito indicato alla stirpe italiana la promettente carriera.
L'anno 1499, che vide il ritorno dei primi navigatori che avevano raggiunto le Indie, segna una delle date più memorabili nella storia della geografia, del commercio mondiale e della colonizzazione.
D'un colpo il piccolo Portogallo si impadronì del commercio delle droghe e ne divenne arbitro. Esso poteva acquistare direttamente questa mercanzia dai luoghi di produzione; prendeva il pepe dalle Indie, la cannella da Ceylon, i garofani dalle Molucche: esso la trasportava in Europa sulle proprie navi senza trasbordi di sorta e risparmiava gli elevati dazi doganali che il passaggio attraverso altri paesi gli avrebbero imposto. Quindi poteva vendere la merce a un prezzo di molto inferiore a quello veneziano, pur facendo colossali guadagni.

Il consumo di spezierie aumentò in Europa in tal misura che l'emigrazione del denaro contante in Oriente destò la preoccupazione degli economisti europei.
Ai vantaggi materiali si associò un grande vantaggio morale; l'elevazione del sentimento nazionale del piccolo paese. Il popolo portoghese, sino allora illetterato e semi-barbaro; partorì dal suo seno un grande poeta come il Camoens, il quale in base all'osservazione fatta personalmente, creò quadri della vita marinara pieni di sentimento, di forza affascinante, di splendidi colori. Nella poderosa figura di Adamastor, lo spirito dei Capo, egli volle simboleggiare l'imperterrita baldanza che soggioga gli orrori e i pericoli della natura selvaggia. In un modo azzardato piuttosto altero egli pose la sua nazione a fianco dei Greci e dei Romani e disse, alludendo ai francesi, tedeschi ed Inglesi:
«Mentre voi, avidi e ciechi - o popolo folle! - non sapete lottare che coi vostri, la cristianità non manca di animosi in quella piccola razza lusitana. In Africa essa possiede lunghi e larghi tratti di costa. in Asia essa é più potente di ogni altra nazione, nel nuovo, mondo essa ara i suoi campi; e se altro mondo ci fosse, essa lo raggiungerebbe».

A parte l'esagerazione, in effetti la nazione portoghese aveva per la prima volta rivolto lo sguardo e l'animo agli Oceani, era divenuta la pioniera del traffico mondiale moderno, essa più di ogni altra nazione aveva cominciato a svelare i tanti misteri del globo terrestre.
Da questo momento il centro di gravità del movimento mercantile si spostò rapidamente dal Mediterraneo, fino allora suo campo d'azione predominante, alle coste dell'Oceano Atlantico.

Ritorniamo ora
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