HOME PAGE
CRONOLOGIA

DA 20 MILIARDI
ALL' 1  A.C.
1 D.C. AL 2000
ANNO x  ANNO
PERIODI STORICI 
E TEMATICI
PERSONAGGI
E PAESI

( QUI TUTTI I RIASSUNTI ) RIASSUNTO ANNI 1935-36

(Oggi diremmo che sono di parte; ma questo leggevano gli italiani; non dimentichiamolo)
(Noi qui cerchiamo solo di capire)

* LA POLITICA COLONIALE DAL 1878
FINO ALLA CONQUISTA DI ADUA (giugno 1935)

(una lunghissima storia)
(PRIMA PARTE)


* NAZIONE-GOVERNO - POLITICA COLONIALE dal 1878 FINO ALLA CONQUISTA DI ADUA (agosto 1935)
(seconda parte)
* RAPPORTO DEI "13" DEL 6 OTT. 1935 della S. d. N.: L'ITALIA "HA AGGREDITO!" - SANZIONI! !

(gli articoli sopra in neretto seguono nelle successive pagine)
-------------------------------------------------------------------------------------------------------------
L'Italia, che era uscita con le « mani nette» dal Congresso di Berlino del 1878, che era rimasta impassibile di fronte alla occupazione francese di Tunisi nell'81, che aveva opposto un rifiuto all'invito inglese di collaborazione in Egitto nell'82, ai primi di febbraio dell'85 occupò Massaua.

I precedenti dell'occupazione sono abbastanza noti : preso inizio dalla proposta avanzata nel '59 da Monsignore Massaia di acquistare un punto sul litorale del Mar Rosso per fondarvi una colonia penale, attraverso le iniziative delle Associazioni per l'esplorazione dell'Africa in virtù delle quali all'idea originaria di avere una colonia penale era andato sostituendosi il proposito di organizzare una stazione marittima commerciale, la opportunità di possedere un po' di terra fuori dei confini della Patria aveva avuto finalmente una concretizzazione nell'acquisto fatto a varie riprese dall'armatore Raffaele Rubattino di una zona sul mar Rosso intorno ad Assab dove, nel 1880, si era insediato un governatore civile ; a due anni di distanza, tutta la zona, per un'estensione di 630 chilometri quadrati, era stata dichiarata « Colonia italiana ».

Dall'80 all'85 intercorre un periodo vivace di ricerche e di esplorazioni nelle quali il Giulietti e il Bianchi trovano la morte: l'eccidio, anzi, della spedizione Bianchi è il pretesto corrente che determina la occupazione di Massaua.
Così, grosso modo, sono cominciate le vicende coloniali della Italia costituita a Nazione.

Al Congresso di Berlino del giugno '78, le Potenze europee, impressionate dei vantaggi derivati alla Russia dalle sue vittorie e dal trattato di Santo Stefano, stipularono una limitazione degli acquisti russi nell'Asia, proclamarono l'indipendenza della Serbia e del Montenegro, dichiararono la costituzione della Bulgaria in principato tributario del Sultano, stabilirono la cessione di Cipro all'Inghilterra e la sottomissione della Bosnia e dell'Erzegovina all'Austria, concessero libertà di azione alla Francia per Tunisi e... si compiacquero, nell'intimo del loro cuore, che da tutto codesto pasticcio l'Italia del buon Cairoli se ne uscisse monda e linda con la coscienza evangelicamente pulita e con le saccocce squallidamente vuote : semplicità di francescani !

A Montecitorio il trattato di Santo Stefano fece fiorire una serie di rilievi, consigli, suggerimenti, pronostici : l'On. Miceli opinò che, in omaggio ai principi del Risorgimento, unica soluzione conveniente all'Italia per il conflitto orientale fosse che « le popolazioni (dovessero) essere le sole eredi della successione ottomana aperta in Europa » ; l'on. Musolino, spesso e da più parti interrotto, fece voto :
1°, che il Governo, messosi d'accordo con i Gabinetti inglese e austro-ungarico, propugnasse, in un eventuale Congresso, una politica comune,
2°, che fossero mantenuti vivi il trattato di Parigi del 1856 e la convenzione di Londra del '71,
3°, che le province europee e asiatiche dell'Impero ottomano venissero riconosciute e garantite neutrali da tutte le Potenze.
Visconti Venosta, accettato il concetto che l'Italia in Oriente non avesse ambizioni di sorta, visto e considerato che se le avesse avute si sarebbe posta in contrasto con i santi dogmi in nome dei quali aveva acquistato l'indipendenza, non si dispiacque di insistere sulla teoria del piede di casa anche perché non gli sembrava utile destinare forze e denari a scopo che non fosse lo svolgimento del « benessere sul suolo stesso della Patria » - e non mancarono i bravo e i benissimo alla paciosa dichiarazione - ; proclamò, tuttavia, la giustezza delle aspirazioni morali e commerciali italiane in Oriente le quali, a suo giudizio, solo con un savio equilibrio mediterraneo avrebbero avuto difesa e tutela.

L'On. Depretis, Presidente del Consiglio, impegnatosi a difendere l'opera propria e a tentar di mettere nell'imbarazzo il Visconti Venosta che, uomo di Destra, aveva pur maneggiato la politica estera fino a due o tre anni prima nei gabinetti Ricasoli, Lanza e Minghetti, esaltò retoricamente l'indirizzo seguìto dal suo governo nelle contigenze recenti : « politica di neutralità e di pace, - egli disse - d'umanità e di giustizia, giacché nei limiti del possibile abbiamo difeso e cercato di far prevalere sempre gli interessi della giustizia e della umanità, pur mantenendoci liberi per poter portare la nostra legittima influenza sia a ridonare all'Europa i benefici della pace, sia a difendere gli interessi morali e materiali che l'Italia ha e deve conservare illesi nella grande questione d'Oriente ».

Come fosse sperabile di conciliare tanti umanitarismi con la tutela degli interessi « morali e materiali » dell'Italia non apparve né appare chiaro, a patto che la soluzione non la si voglia vedere nella bella accademia che ebbe luogo nel gennaio dell'anno seguente quando l'On. Cairoli intervenne nella discussione sul Bilancio degli affari esteri per rispondere ai parecchi oratori che avevano criticato la sua opera di ministro.
Dire che tutti quelli oratori mostrassero di possedere una chiara visione della condotta che al Congresso di Berlino sarebbe stato doveroso seguire é un pochino azzardato : il Petruccelli della Gattina, ad esempio - oratore fecondo e ingegno brillante - pur riconoscendo che la Destra, cadendo nel '76 dal potere, aveva lasciato il Paese in buone condizioni internazionali, divagò nel muovere appunti, lui, Sinistro, al Visconti Venosta, non sufficientemente adatto, secondo il suo parere, a comprendere la convenienza per l'Italia di non vagheggiare eccessive velleità antirusse ; il De Renzis deplorò l'incertezza della politica estera governativa, e l'Alvisi chiese una maggiore lucidità nell'azione della nostra diplomazia ; suppergiù si espressero il Maurigi, il Pierantoni, il Musolino ; ottimista fu il Visconti Venosta che dichiarò : « il trattato di Berlino non ha offeso alcun interesse diretto e positivo dell'Italia ; noi non abbiamo avuto che un danno morale : il danno di assistere passivamente, di rimanere all'infuori degli accordi e delle intelligenze fra le grandi Potenze» (un'inezia !), e l'On. Crispi preferì - ahimé ! - di fare il processo alla politica estera della Destra fino al 1876....

Il Cairoli, asserito che l'insuccesso era dovuto più che alle deficienze degli uomini alla ineluttabilità delle circostanze, ricordate le dimostrazioni antiaustriache avvenute in quel tempo e riconosciuto il nesso della politica estera con la politica interna la quale « per essere buona, deve, col rispetto delle leggi, mantenere quello delle fondamentali libertà », si vantò di aver lasciato l'Italia, alla sua uscita dal Ministero, in cordiali rapporti con tutte le Potenze europee.
Il Depretis, poi, fece un lungo discorso in cui sarebbe assai disagevole rintracciare una documentazione storica qualunque della pur interessante situazione politica d'allora.
Né più sottili furono, in genere, gli oratori al Senato i quali, concedendo che l'Italia non fosse uscita menomata dal famigerato Congresso, porsero l'occasione al Depretis di prendere atto di simile facile accontentabilità e di sbrigarsela in cinque minuti con poche parole : « Mi pare che sia unanime il giudizio dei Senato, o almeno che sia l'opinione di molti oratori, che i nostri rappresentanti hanno fatto tutto quello che si poteva fare al Congresso. È stato anche ammesso - soggiunse - che dal trattato di Berlino un danno vero e reale non é fatto all'Italia. Mi pare che anche su questo molti oratori siano d'accordo ; anzi, parmi credano che questo trattato sia un miglioramento notevole che possa facilitare la soluzione definitiva della gran questione d'Oriente ».

Il Chiala informa che « le dichiarazioni dell'On. Depretis tornarono assai gradite a Vienna » e che il conte Andrassy ne trasse motivo per manifestare al generale Robilant - nostro rappresentante nella capitale austriaca - i suoi sentimenti di viva sodisfazione ( LUIGI CHIALA, Pagine di storia contemporanea, fasc. 2° Torino, Roux Frassati & C., 1895, pag. 30.), ma non ci informa se proprio quella sodisfazione non fosse la riprova- migliore della sconfitta della nostra politica internazionale.
La questione tunisina o, per essere più esatti, le macchinazioni della Francia per stabilirsi definitivamente e risolutamente in Tunisia e che avevano già formato tema di dibattito e offerto motivo di non infondate apprensioni, furono denunziate a viso aperto nel luglio del '79 dall'On. Damiani il quale elencò una bella filza di atti di imperio arbitrari dei quali uno solo avrebbe dovuto essere più che sufficiente a convincere dei veri intendimenti che animavano il Governo di Parigi e i suoi esecutori : sostituzione di uomini e di funzionari non abbastanza docili ai rappresentanti francesi, sviluppo di reti ferroviarie interne utili agli interessi della Repubblica, impianti telegrafici del pari richiesti da mire conquistatrici, servizi postali e di navigazione non tanto d'indole commerciale quanto d'indole strategica e militare, fondazione di istituti e costruzione di opere di non dubbia natura guerresca....

Alla denunzia, cui fecero corona rilievi svariati e richiami molteplici, non vennero opposte obiezioni di saldo valore : tra le riserve tacite e le riserve palesi, né il Depretis né il Cairoli seppero dimostrare la bontà dei loro propositi e la consistenza dei loro programmi : solite premesse e solita retorica : « conservare rettitudine nei rapporti con le Potenze estere », « adoperarsi affinché i patti corrispondano agli intendimenti », « avere una politica conciliante ma nello stesso tempo ferma, onorevole, degna dell'Italia » : contraddizioni e vuotaggini.
Le discussioni dell'anno dopo confermarono il senso di disagio e di malcontento che, a dispetto delle parole tranquillanti, era in fondo all'animo di ognuno : la stessa irrequietezza che portò nel marzo dell'80 Destri e Sinistri a rinfacciarsi crudamente i reciproci errori - veri o supposti che fossero -ne fu dimostrazione eloquente : il Cairoli accusò il Lanza di aver falcidiato nel '66 le spese per l'esercito quando più minaccioso si faceva l'orizzonte politico in Europa ; il Lanza ribatté dicendo di ignorare se il Cairoli, qualora si fosse trovato nel '66 al potere, avrebbe piuttosto seguito la politica di Aspromonte e di Mentana ; il Sella, tirato in ballo dal Cairoli, aggiunse che era molto comodo per il Gabinetto cercare dei punti di critica sulla politica della Destra anziché difendere con argomenti sostanziali la politica propria ; il Cairoli replicò richiamando la Convenzione di settembre e parlò di decoro nazionale non interamente rispettato, e il Visconti Venosta protestò esprimendo il sospetto che se il Cairoli fosse stato al Ministero degli Esteri dieci anni prima, l'Italia, il giorno in cui si fosse preparata ad andare a Roma, avrebbe avuto « il crudele imbarazzo di trovarvi i soldati e la bandiera francese ».

La discussione dei supremi interessi della Nazione degenerava, così, in un accusarsi e in un diffamarsi a vicenda : le beghe di partito e le acidità personali si sovrapponevano allo studio e alle indagini serene, ma sotto l'irrompere dei rimbrotti e sotto il rinfaccio degli insuccessi, c'era, a fondo comune, la sensazione dolorosa della sconfitta, la insoddisfazione generale per l'umiliazione subita che invano le chiacchiere tentavano di nascondere e gli sfoghi non decorosi cercavano di attenuare.
Era un malessere largamente diffuso di cui ciascuno era, un po', la causa e la vittima : causa e vittima del presupposto ridicolo di tutelare gli interessi dell'Italia e di fare, nel contempo, una politica a base di umanitarismi e di appelli continui alla giustizia, alla pace, alla libertà.

Solo il Crispi ebbe, la Dio mercé, il coraggio di indicare quale fosse la condotta per un Governo che si prefiggesse di difendere sul serio gl'interessi materiali e morali del Paese: essere forti per imporre all'Estero la propria volontà : « Per essere rispettati - e le sue parole a mezzo secolo di distanza hanno ancora il valore di un ammonimento - per essere rispettati all'estero bisogna essere forti, e non si può essere forti senza un potente esercito e senza avere una coscienza della propria forza. Non si ha la coscienza della propria forza quando si é troppo prosaici, cioé a dire quando, come l'usuraio, andiamo dietro al centesimo invece che occuparci dei grandi interessi, dallo sviluppo dei quali la Nazione può trarre inesauribili tesori... L'Italia con prodigiosa rapidità ed in tempo così breve che le Nazioni avvenire avranno motivo da meravigliarsene, giunse a unità di Stato... Ma all'Italia é mancato un uomo di genio il quale abbia saputo darle un saldo ordinamento politico. Da venti anni ci dibattiamo Destra e Sinistra e discutiamo questioni secondarie e trascuriamo le questioni importanti le quali, risolute, dovrebbero dare alla nostra Nazione non solo la potenza ma l'impronta della potenza, perché per essere rispettati non basta l'essere ma ci vuole anche il parere ».

Ma Montecitorio non cessò di restare sordo a simili voci.
Nel novembre dello stesso anno l'On. Savini rivolse al Ministro degli esteri, on. Cairoli, delle domande tassative : « Le nuove concessioni volute dalla Francia in Tunisia hanno paralizzato le concessioni italiane ? La concessione del porto di Tunisi é una utopia o una realtà ? Insomma, a Tunisi siamo o non siamo stati vinti ? » E il Damiani, anche se un po' ampollosamente, ribadì : « l'Italia non ha il solo interesse di impedire che l'Austria si avanzi nell'Adriatico ; l'Italia ha il grande interesse di impedire che la Francia si avanzi nel Mediterraneo. Mi stringe il cuore - spiegò - il pensare che l'Italia dai 28 milioni possa non tener viva dinanzi agli occhi la storia che scende dai più antichi padri nostri a quelli meno grandi e forse meno fortunati ; possa non scorgere la più terribile delle minacce, il più grande pericolo per la sua esistenza in una Cartagine che risollevi la testa dalle macerie in cui fu ridotta » ; ma il Ministro degli Esteri, dichiarata utopia la costruzione di un porto a Tunisi, si sbizzarrì in « distinguo » fra concessioni fatte alla Francia e concessioni fatte a Società francesi, ed ebbe la faccia fresca di dire che sotto le sue personali direttive la influenza italiana in Tunisia era rinata a nuova vita e a nuova prosperità.

Nell'incalzare degli avvenimenti, nell'aprile dell'81, il Di Rudini tornò a domandare:
« È vero che l'Inghilterra ha consentito alla Francia l'occupazione permanente della Reggenza di Tunisi ? È vero che Germania, Austria Ungheria e Russia conoscevano codesto accordo e lo hanno approvato ? È vero che il nuovo Gabinetto inglese - liberali contro conservatori - é solidale con gli impegni presi dal Gabinetto precedente ? È vero che le truppe francesi hanno già varcato i confini della Reggenza ? È vero che il Governo italiano ha permesso l'occupazione anche parziale della Tunisia ? »

E analoghe interrogazioni formulò il Damiani ; fatica sprecata : il Cairoli, dopo essersi lasciato sfuggire la imprudente confessione: «siamo davanti a un avvenimento improvviso e impreveduto», e dopo aver ricapitolato a modo suo la storia delle ultime vicende tunisine affermando candidamente che, rebus sic stantibus, non si poteva « negare alla Francia il diritto di difendersi alla frontiera » purché si fosse tenuta « nei limiti prefissi da questo scopo », di fronte all'ingrossar della tempesta tentò di salvarsi facendo chiedere dal Depretis, ministro dell'interno, il rinvio con lo specioso pretesto che una discussione su Tunisi, oltreché delicata e difficile, era anche prematura ! Ma la Camera non fu del suo avviso e il Gabinetto rassegnò allora le dimissioni che non furono, peraltro, accettate.

Nel maggio dell'81 scoppiò la bomba : la Francia aveva occupato Biserta.
Il concetto che ispirò il Mancini, ministro degli esteri, nella questione egiziana, fu chiaramente intravisto dall'On. Marselli in un discorso pronunziato alla Camera nel marzo del 1883 : « rispetto allo statu quo e conservazione dell'autorità Kedivale ; offerta di una cooperazione morale per aiutare simile autorità ; se un intervento fosse necessario, preferire quello delle forze ottomane che non potrebbe qualificarsi vero intervento ; coordinare siffatto intervento con la direzione suprema che al concerto europeo avrebbe dovuto essere riservata ».
E sopra una serie di presupposti di tal genere fu impostato il rifiuto all'invito dell'Inghilterra per un intervento a due nelle faccende egiziane.
Neppure dopo il bombardamento di Alessandria, il Mancini si ricredette sulla possibilità di un intervento turco, e proseguì in una politica incerta ed ambigua che, mentre a tratti era politica di raccoglimento e a tratti politica di intervento, rivelava un sostrato caratteristicamente assurdo : la speranza di difendere gli interessi italiani senza pericoli e senza spese con la illusione che gli altri avrebbero rischiato e avrebbero speso per noi.
Il Sonnino completò le non difficili induzioni del Marselli elencando le fasi della politica manciniana in Egitto: tentativo di cooperazione con la Francia e con l'Inghilterra che l'Italia avrebbe voluto riconciliare aggiungendosi ad esse per organizzare lo Stato ; sollecitazione ai tre Imperi per un'azione collettiva in virtù della quale una ipotetica quadruplice alleanza avrebbe ostacolato l'intervento isolato inglese; e, infine, rifiuto a un passo decisivo. E, prospettato l'avanzare inesorabile di tutte le Potenze europee verso obiettivi chiaramente fissati: la Russia verso il Bosforo, l'Austria verso l'Egeo, l'Inghilterra in Egitto e la Francia a Tunisi, si chiese angosciosamente che cosa facesse, che cosa pensasse di fare, in mezzo a tanti appetiti, l'Italia : l'Italia ?

« L'Italia riassume tutta la sua arte di Stato nel motto inertia, sapientia ; proclama ai quattro venti grandi e virili propositi, e si ritrae per pochezza d'animo quando altri la prende sul serio e le stende la mano invitandola a tradurre le parole in azioni ; protesta, ingrossa la voce, ma senza volontà di operare, e compendia, in ultimo, la sua politica nel ripetere a sazietà, come spiegazione della sua eterna rassegnazione, che essa é e vuole essere un elemento di pace e d'ordine ; costretta, per tutto conforto ai suoi insuccessi, di compiacersi delle parole complimentose dirette all'On. Mancini, per cortesia tecnica, dalla diplomazia ufficiale o dai giornali esteri ufficiosi. Ma il nostro amor proprio nazionale - avvertì - patisce di tutto questo ; e siamo scontenti e abbiamo ragione di esserlo e tutti sanno che saremmo stolti a non esserlo ; sanno che quelle frasi di eterno disinteresse sono retorica e nulla più, retorica che mira a nascondere la inettitudine nostra sotto una parvenza di generosità di sentimento e a trovare acerba l'uva cui non abbiamo potuto stendere la mano. E poiché, non meno che gli individui, le Nazioni scontente di sé ed offese nel loro amor proprio sono pericolose per i vicini, ciascuno di questi diffida di noi e delle nostre intenzioni, e, non riuscendo a scorgere nettamente quale sia la méta che abbiamo prefissa ai nostri desideri, alle nostre ambizioni, e, quindi, alla nostra politica, sospetta che cospiriamo a danno di lui, che aspettiamo i momenti difficili per fargli il ricatto col ferro alla gola, e non crede alla nostra amicizia e fa voti per il nostro sempre maggiore indebolimento come garanzia di sicurezza per sé".
« È tempo - proclamò - é tempo di por fine a questa assurda maniera della politica dei Regno d'Italia : a questa politica inavveduta, e, soprattutto, inconseguente perché vanagloriosa e pusillanime ; che non é politica di raccoglimento ma di verbosa impotenza, che si crede operosa perché é faccendiera, che ha per solo ideale di fare la parte di mezzano tra i terzi, non accorgendosi che le mediazioni, per essere efficaci ed utili e dignitose, debbono essere condotte da un mediatore di forza almeno eguale a quella delle parti che si vogliono accordare».

L'on. Mancini, che al Senato l'anno prima si era rallegrato dell'esistenza di un patto, dovuto alla sua iniziativa, intercorso tra le varie Potenze e per il quale ciascuno Stato interessato si impegnava a non intraprendere in Egitto alcuna azione militare isolata senza il consenso e l'adesione degli altri ; il Mancini, dunque, che pur si era compiaciuto di codesto accordo sebbene l'Inghilterra l'avesse fin da principio svalutato accettandolo con riserve che lo distruggevano nella sua intima essenza, nei vari discorsi coi quali rispose al fuoco di fila dei critici che erano, in ultima analisi, gli ingegni più colti della assemblea nazionale, dichiarò che il rifiuto provvisorio - e insistette su questo aggettivo - alle offerte dell'Inghilterra si era inspirato non, come aveva lasciato supporre il Marselli, a difficoltà di indole militare ma a un insieme di ragioni radunabili in quattro gruppi : d'ordine politico, di eventualità internazionali, di ordine finanziario e di calcoli sul tornaconto degli sperabili compensi. E, agitando segnatamente lo spettro di un ripristino della tassa sul macinato e del ritorno del corso forzoso ai quali, a suo parere, sarebbe stato indispensabile fare appello per fronteggiare le spese dell'intervento, delineò la inanità di tanti sacrifici, visto che l'Italia, intervenuta, non avrebbe potuto mai - senza venir meno alle premesse ideali della sua risurrezione - chiedere annessioni, protettorati, occupazioni in terra egiziana.

Il Minghetti, in due discorsi pronunciati, l'uno prima del discorso del Mancini, e l'altro in replica ed a rettifica del discorso di quegli, confutò specificatamente gli argomenti addotti come capaci di sconsigliare un intervento italiano nella questione egiziana e, pur non negando, egli pure, la opportunità di subordinare sempre la politica della Nazione ai concetti che erano stati basilari per il Risorgimento, seppe porre a nudo la corrispondenza di consimili premesse con il caso specifico, osservando che nessuna comparazione era possibile fra la rivolta del 1881 in Egitto e la rivendicazione nazionale di altri popoli : una cosa - notò - é il popolo egiziano e altra cosa sono gli arabi e i turchi : arabi e turchi sono dei conquistatori che si sono sovrapposti alle razze dei vinti ; non v'ha luogo a questioni di natura nazionale : non si tratta che « di rivalità e di fanatismo ».
E precisò : «...l'aver invocato una così nobile idea come quella della nazionalità in sussidio di una cattiva causa, prova che, purtroppo, sentiamo ancora nel pensiero una parte di quelle idee astratte e generali che il secolo passato vagheggò sì ardentemente e ci tramandò in legato : idee astratte e generali che non sono ali a salire ma pesi che ci legano e che sono un impedimento allo svolgimento del programma liberale. Tali sono quelle dell'uomo naturale e perfetto, dell'onnipotenza delle istituzioni, dell'autonomia di ogni tribù, dei diritti politici ed imprescindibili di ogni uomo, e via dicendo. La scienza moderna é sperimentale, e, nella politica, l'esperienza é lo studio della storia ».

« Non é meraviglia - disse il Bonghi parlando della crisi di Oriente - che essendo così vuota la mente del Governo, sia parsa così confusa la coscienza del Paese ; é reciproco il legame tra la debolezza dei reggitori e il disinteressamento incurante del pubblico: l'una cosa é causa dell'altra e viceversa : se un Paese non pensa, é difficile che nel governo si trovino uomini capaci di pensare in sua vece ; e, se, dall'altra parte, in un paese intellettualmente vivace non arrivino al governo uomini capaci di scegliere una delle direzioni nelle quali lo spirito di quello suol essere diviso e darle un efficacia rapida, é impossibile che si crei una opinione pubblica davvero potente ed atta a reggere la politica di uno Stato in una via diretta »
(RUGGERO BONGHI : Il Congresso di Berlino e la crisi d'Oriente.. Milano Treves, 1878, pag. 183)

La stampa quotidiana fu di analogo parere e, se pur concesse più di quanto sarebbe stato desiderabile alle mire ed alle esigenze di Partito, scorse, tuttavia, distintamente gli errori compiuti e i pericoli da evitare.
La Perseveranza, che interpretava notoriamente il pensiero dell'On. Visconti Venosta, in un articolo nel quale venivano parafrasati i concetti svolti dall'On. Sonnino e riportati qui sopra, fece una diagnosi degli abbagli che, per più di tre lustri, avevano distratto gli occhi dei vari Gabinetti di Sinistra dalla contemplazione serena degli interessi della Patria ; « Noi - rilevò - ci siamo atteggiati a malcontenti e abbiamo detto che uscivamo umiliati dopo il Congresso di Berlino. Veramente non si sapeva da che dovesse originare codesta nostra umiliazione, poiché avrebbero dovuto esserlo altrettanto, e più di noi, la Germania e la Francia, le quali uscivano, esse pure, a mani vuote dal Congresso. Ma tant'é ; s'é voluto ad ogni costo vedere una umiliazione là dove non c'era che una conseguenza naturale della nostra condotta. Più tardi, é venuta la questione egiziana: in essa il Depretis s'é mostrato inabile, imprevidente, contraddittorio non meno del Cairoli nella questione di Tunisi. Certo che ne siamo usciti con una discreta mortificazione ma se si voleva anche qui gridare all'umiliazione, per essere nel vero bisognava aggiungere che l'umiliazione non veniva dagli altri, ma da noi... Certo che dobbiamo essere umiliati ; ma di chi é la colpa? Codesto vago sentimento che continuiamo a suscitare e a tener vivo in noi, non é atto che a tenerci in una inquieta impotenza. Ci desta nell'animo il desiderio indistinto di una condizione migliore di cose, mentre, dall'altro canto, accasciati sotto il falso sentimento di umiliazioni che non sono che nella nostra fantasia o sono opera nostra, ci togliamo il nerbo per conseguire qualsiasi intento anche legittimo. E così oscilliamo tra uno scoraggiamento punto giustificato, e una presunzione, una aspirazione a delle mete che non sono in ragione delle nostre forze.

« La molta fortuna ci ha, per questo riguardo, grandemente nociuto. Poiché gli effetti ottenuti sono stati straordinariamente maggiori degli sforzi che abbiamo fatto per conseguirli, noi abbiamo perduto ogni sano criterio della relazione tra il volere e il potere ; noi non sappiamo commisurare ai nostri mezzi le nostre ambizioni ; abbiamo gli ardori impazienti ma fugaci, non abbiamo la costanza dei propositi. Sicché ormai ci siamo fatta nel mondo una delle peggiori reputazioni che un popolo possa avere; la reputazione di un popolo tormentato da una grande e irrequieta ambizione accoppiata a una non meno grande impotenza. E per poco che perduriamo in questa via, noi diverremo agli occhi altrui un popolo di fanciulli »
(La Perseveranza, 12 aprile '81).

E
L'Opinione, deplorato l'isolamento pieno di deficienze in cui l'Italia si era venuta a trovare, « a chi risale - domandò - la responsabilità di questa situazione ? » E rispose : « Segnatamente ai Ministri che prepararono e condussero a fine le pratiche del Congresso di Berlino. Vi sono state parecchie occasioni propizie che non si seppero acciuffare. Qualunque grande Stato avrebbe desiderato la nostra cooperazione cordiale e ci avrebbe dato in cambio la sua ; noi, per non conprometterci con nessuno, abbiamo raffreddato tutti. E assistemmo inutili al Congresso di Berlino, dove le altre Potenze già avevano ordito i disegn del trattato memorando. Ma perché gli uomini di Stato della Sinistra commisero questo errore ? Per la loro inesperienza e per le preoccupazioni della politica interna. Turbati continuamente dal pensiero delle crisi provocate dai loro stessi partigiani, il Governo debole, vacillante, perdette il senso delle lontane previsioni e delle forti combinazioni » (L'Opinione, 17 marzo '80).

Il popolo, cioè una parte del popolo, una via la prese e la batté risoluta, e si affannò nelle piazze a vociferare guardandosi bene, però, dal domandarsi - e i reggitori, dal canto loro si guardarono bene dall'insegnarglielo - come e quanto quelle vociferazioni conferissero ad accreditare all'estero la Nazione.
Quale meraviglia che, tra i Governi incerti, abulici, legati ai partiti e alla politica interna e le frazioni demagogizzanti che presumevano di gridar contro l'Austria mentre i Ministri rompevano ogni cordialità di rapporto con la Francia e l'Inghilterra, il grosso del pubblico se ne stesse sconfortato e avvilito, disinteressandosi di tutti e sazio di tutto ?

Lasciamo stare i cabalisti che speculavano sui se e sui ma e che attendevano da un ritorno di tramontati regimi a Londra o a Parigi un trattamento un po' meno sfavorevole dei nostri interessi.
La verità attestava che non era stata sconfitta la nostra forza ma che era stata sanzionata la nostra debolezza : Congresso di Parigi, Tunisi ed Egitto non erano episodi isolati, momenti distinti, ma anelli indissoluti e indissolubili di una identica catena, effetti logici e inevitabili di una politica che raggiunse l'assurdo perché sull'assurdo pretese di edificare.
Che il conte di Cavour già nel '55, in un discorso nel quale indicò il compito mediterraneo che i governanti d'Italia avrebbero potuto attuare con un lavoro di decenni, avesse denunziato il pericolo dell'isolamento all'estero e avesse dimostrato la indispensabilità di una politica seria e coerente all'interno, per molti egregi uomini contò meno che nulla.

Fummo giocati perché credemmo di saper impunemente giocare : e cullammo, da prima, l'illusione di metter le mani, sol che lo avessimo voluto, sulla Tunisia, sulla Albania, sulla Tripolitania; sperammo, poi, di ottenere dei provvidenziali compensi per chi sa quali meriti oscuri, e, in fine, quasi sbigottiti di aver osato sogni così grandi, trepidi di farci perdonare le innocue ambizioni, ci demmo a reclamare la immobilità, lo statum quo nella Balcania, nell'Adriatico, nell'Africa e nell'Egeo, e ci avvolgemmo nei paludamenti delle frasi fatte e delle verbosità inconcludenti per rifarci una verginità che avevamo ormai irreparabilmente perduto.
Gli altri, al di là delle frontiere, ci guardavano stupiti, trovando una gioia pazza a turlupinare noi che essi giudicavano machiavellicamente disposti al tradimento, e sorridevano ammiccando fra di loro quando ci sentivano ripetere con melodrammatica insistenza gli appelli alla libertà, alla giustizia, al rispetto della indipendenza dei popoli.

I nostri reggitori, che in quel lasso di tempo si successero al potere, generalmente ingenui nell'intimo della loro anima, rimasero paralizzati nel turbinoso seguirsi delle vicende internazionali, e stimarono, spesso in buona fede, di governare la nuova Italia a loro modo, con metodi personali contraddittori.
Fu, forse, politica fatale, politica di buoni uomini che, nel diffondersi in Europa di una mentalità mercantile ed affaristica, continuarono a rimanere attaccati alle ideologie antiche nelle quali essi medesimi avevano fervidamente creduto e dalle quali era pur disceso il successo della azione italiana negli anni trascorsi ; fu, magari, politica necessaria, ma fu, in ogni maniera, politica estremamente misera nella sua fatale necessità : impotente, specie nei riguardi militari, la giudicò il Bismarck e impotente fu nelle altre attività sue dentro e fuori dei confini della Patria ; fu impotente non perché le facessero molto spesso difetto i mezzi materiali per la lotta, non perché la viziassero disorientamenti non illogici nell'irrompere della cruda e pratica politica d'oltrealpe, ma, e più, perché rappresentò il portato legittimo della impotenza morale della Nazione, della impotenza che la stampa e gli statisti della Destra deploravano ma che non davano affidamento alcuno di sapere, neppur essi, all'occorrenza, diminuire e ancor meno eliminare ; fu l'impotenza che deriva dalla dissennata sproporzione dei desideri e delle abnegazioni, della volontà di agire e della volontà di soffrire, dalla inconciliabilità della grandezza del fine e della pochezza dello sforzo, da una tendenza malsana a concepire piani arditi e smisurati escludendo rischi e pericoli.

Le preoccupazioni finanziarie prospettate dal Mancini per spiegare il rifiuto all'intervento italiano in Egitto e le riserve opposte dal Minghetti in proposito, sebbene in quantità diversa e con diversi spiriti, discoprono una affinità di timori che sono altamente pregiudizievoli quando si trovano in ballo i più gravi interessi della Patria.


L'occupazione di Massaua si intreccia con tutti gli episodi politici di questo periodo movimentato della nostra vita nazionale.
In tre mesi, sbarcati tre scaglioni di truppe, il colonnello Saletta occupa - oltre Massaua - Moncullo, Otumlo, Assab, Beilul, Arafali, non ostante le proteste egiziane e le opposizioni russe e francesi.
Estesa presto la occupazione ai territori limitrofi, il generale Gené, succeduto al Saletta nel settembre dello stesso anno, proclama sui territori la sovranità italiana.
Lasciato in vendicato il massacro della spedizione Porro nell'Harrar e occupate altre zone a sud di Massaua per impedire le razzie e i saccheggi, si hanno i primi contatti ostili con i luogotenenti del Negus che, respinti dal maggiore Boretti a Saati, distruggono il 16 gennaio dell'87, la colonna comandata dal tenente colonnello De Cristoforis a Dogali.
Leggiamo, con commosso animo, la relazione del Capitano Tanturri il quale, in quella giornata dolorosa, ricevuti due biglietti del De Cristoforis che prospettavano la gravità della situazione, presa con sé la sua compagnia con una mitragliatrice, corse in aiuto degli assaliti.
"...Poco dopo le tombe di Dogali vidi una cassa di mitraglia senza polvere e spolette, e quasi nel medesimo tempo i basci-buzuc che erano in esplorazione, segnalavano la presenza del nemico. L'interprete, interrogati due indigeni, mi disse che tutti i nostri erano stati massacrati, e che gli abissini erano ancora numerosissimi ed in posizione.
« Ciò mi sembrò esagerato, come di fatto (essendo l'interprete poco dopo fuggito pieno di paura), e proseguii la marcia. Giunto là dove la valle si allarga di un poco, gli esploratori tornarono di corsa avvisandomi che si avanzavano cavalieri abissini. Presi immediatamente posizione facendo staccare la mitragliera e formando la compagnia in quadrato. Nello stesso tempo mandai tre soldati nella direzione ove era stato segnalato il nemico. In questo mentre l'interprete e parte dei basci-buzuc scomparvero, i soldati tornarono presto dicendomi che non avevano visto altro che tre o quattro cavalieri abissini correre velocemente verso Saati.
«Per essere più sicuro, mandai il tenente Sartoro con una piccola pattuglia sulla mia destra, e questi ritornò riferendomi che non vi erano nemici, ma che aveva visto basti da cammello, un cammello morto, casse di cartucce vuote, scatolette di carne, ecc. Nello stesso tempo, feci arrestare un pastore Saortino che si trovava ivi presso nascosto.
« Questi, interrogato, alla meglio mi fece capire che gli abissini avevano attaccato i nostri, indicandomi anche la posizione da questi occupata. Immediatamente feci riattaccare la mitragliera e mi diressi a quella volta. Nessun segno, lungo il cammino, oltre quelli citati, di uno scontro ; solo cinque o sei tombe scavate di fresco indicatemi dal Saortino come quelle di abissini morti poche ore innanzi. Sul primo monticello, prima posizione occupata dai nostri, vidi un soldato ferito che mi disse trovarsi i nostri poco più su e tutti morti. Non credei alla funesta notizia e corsi con la compagnia sul sito indicatomi. Dietro la cresta del monticello superiore vidi l'immensa catastrofe. Tutti giacevano in ordine come fossero allineati ! »
(A. ORIANI, Fino a Dogali. Bologna, Cappelli, 1927, pag. 353.).

Il soldato, ferito nella battaglia, attestò che il De Cristoforis, prima di morire, aveva ordinato ai pochi superstiti di presentare le armi ai caduti... Vittime o eroi ? L'uno e l'altro insieme
(Cfr. F. MARTINI, Nell'Africa italiana, Milano, Treves, 1891, pag. 47).
Dopo Dogali, il Gené é richiamato e sostituito dal Saletta, promosso generale, il quale, avuti circa cinquemila uomini reclutati tra volontari - il Corpo speciale di Africa - e un paio di migliaia di irregolari, fortifica il porto e la città e costruisce una ferrovia a scartamento ridotto ad allacciare Saati e Massaua.
Verso la fine dell'87, il tenente generale San Marzano, giunto dall'Italia con una nuova spedizione, riusciti di dubbia garanzia i patti conclusi dall'Antonelli e l'intervento di Sir Portal per conto dell'Inghilterra, procedendo con prudenza e con cautela, rimasto per alcuni giorni in vana attesa di un attacco del Negus sceso a fronteggiarlo, estende il raggio dell'influenza italiana all'orlo dell'altipiano.

Ritiratosi il Negus senza combattere, di San Marzano rimpatria insieme con buona parte del corpo di spedizione, lasciando in Africa il generale Antonio Baldissera che, distratto nell'opera di riordinamento della colonia da due incidenti -- l'opposizione del viceConsole francese alla applicazione dei tributi locali, più tardi sconfessata dal Ministro On. Globet, e l'accerchiamento della colonna del capitano Cornacchia a Saganeiti per opera dell'infido capobanda Debeo - mentre a Re Giovanni, morto combattendo contro i Madhisti, succede Menelich, occupa Kerer, Ghinda e l'Asmara.

Menelich, incoronato imperatore a Gondar, sottoscrive il due maggio '89 il famoso trattato di Uccialli che, con l'articolo 17, pone l'Etiopia sotto il protettorato dell'Italia e con l'art. 3 riconosce ai nostri possedimenti i confini di Arafali, Halai, Saganeiti, Adi Nefas, Adi Johannes, con prolungamenti verso ovest di questa località ; nell'ottobre poi, per una addizionale, messa al trattato, sono ratificate a favore dell'Italia, le nuove conquiste fatte nel frattempo dal Baldissera, ma, nel dicembre dello stesso anno, a dispetto del trattato e del codicillo relativo, Menelich - senza ricorrere al tramite dell'Italia - comunica direttamente alla Francia e alla Germania la sua assunzione al trono.
Il primo gennaio successivo un regio decreto riunisce tutti i possedimenti del Mar Rosso sotto una sola amministrazione, col nome di « Colonia Eritrea».
È stato asserito che la impresa africana non fu, alle origini, se non una pedina nel giuoco iniziato da tempo per una espansione italiana al di là dei mari, ma é evidente - dopo lo sguardo dato ai casi del Congresso di Berlino, di Tunisi e dell'Egitto - che la opinione peccava, almeno, di una eccessiva benevolenza.
Non é illecito ritenere, al contrario, che, come per le azioni precedenti, anche alla nostra andata in Africa mancò una adeguata preparazione materiale e morale tanto in alto che in basso, tanto nei dirigenti che nel pubblico.

Lascio da parte la «ricognizione su Khartum » (Cfr. F. MARTINI, Op. Cit., loc. cit.) che ai capi della spedizione il Governo suggerì di tentare appena sbarcate le truppe sulla sponda eritrea : la crassa ignoranza di allora può fare benissimo il paio con la ancor più crassa ignoranza di un Presidente del Consiglio all'indomani della rotta di Caporetto, il quale, sul treno che portava gli Stati Maggiori alleati al convegno di Peschiera, al Foch che, tenendo spiegata davanti una carta topografica della regione veneta, chiedeva dove fosse il Montello su cui si era già affermata con successo la resistenza italiana, non seppe che cosa rispondere : la geografia non é stata la scienza preferita da parecchi dei più loquaci governatori d'Italia.

Ma erano le antiche ideologie, era il vecchio giuoco di voler essere furbi, era la solita mentalità del fare e del non fare, e, soprattutto, era lo sperare non si sa mai da chi felici combinazioni che continuavano beatamente a inficiare e a invalidare tutta la nostra politica e tutta la nostra azione di guerra: alla vigilia di attacchi nemici in forze, si elargivano le più tranquillanti informazioni, limitandosi a prospettare la convenienza di avere poche centinaia di soldati in più per fronteggiare ogni evento ; alternative di avanzate e di ritirate, di occupazioni e di sgombri, di patteggiamenti amichevoli e di rotture improvvise, dalle quali unici ad approfittare erano gli elementi malfidi usi a sfruttare la nostra dabbenaggine e la nostra ingenuità, e, pessima sopra le altre, la abitudine di dar credito al primo imbroglione che ci si prosternasse davanti, di accoglierlo, di ospitarlo, di trattarlo da pari a pari, e, in ultimo, di armarlo... contro di noi, ecco le caratteristiche del primo periodo attivo della nostra azione africana che, fatalmente, doveva sfociare in altri lutti e in altri errori.

Il Ministero amò alimentare l'illusione che con l'occupazione di Assab in seguito ad accordi misteriosi, l'Italia si preparasse a grandi imprese capaci di assicurarle una parte preminente nel bacino Mediterraneo : amò diffondere la fiducia che la presa di possesso di due teste di ponte nel Mar Rosso fosse il principio di ben più vasto disegno, fosse anzi - come il Minghetti, nell'ultimo discorso sulla politica estera pronunciato alla Camera, denunziò - il mezzo per giungere a conseguenze più rilevanti di quelle che apparivano : la pacificazione dell'Egitto e la possibilità di esercitare una influenza maggiore e non lontana nei mari europei !
Insieme con siffatta fiducia, vaga ma largamente divisa, incerta ma ammessa e accarezzata, rimase in armi e non affievolita la mentalità, a base di presupposti ideologici, di premesse liberaloidi, di aforismi contraddittori quali il Brunialti -tra tanti altri - ora proclamando la santità del rispetto alla indipendenza di tutti i popoli, e ora, in aperto contrasto con sé stesso, concedendo che in certi momenti i popoli, abbandonati i metodi blandi, debbano far uso dei metodi forti a tutela del loro prestigio e della loro dignità, concorse a espandere e a rinsaldare.

Alla suggestione delle frasi sonore e alla retorica accademica non poté naturalmente sottrarsi l'eloquente assertore del principio di nazionalità, il Mancini, il quale credette di combattere gli estremisti apologeti della libertà e della indipendenza altrui ad ogni costo, sottilizzando su l'uso e l'abuso, su popoli civili e su popoli incivili « quando - obiettò -- alcuni esprimono il timore che le imprese coloniali violino la libertà delle popolazioni indigene, si confonde l'abuso con la legittima azione dei popoli civili.
Certamente il penetrare anche in paesi non aperti alla civiltà, per offendervi la libertà delle credenze religiose, delle tradizioni di famiglia, delle costumanze che non siano offensive ai grandi principi di umanità e della giustizia, sarebbe, a mio avviso, non solamente un errore, ma un delitto. Ma i popoli che così procedono non sono colonizzatori, non sono mai riusciti nelle loro imprese di colonizzazione.
Vi ha, invece, un sistema di colonizzazione il quale sa limitare l'azione e l'influenza del popolo civile che viene a contatto con quello che ancora non fruisce dei benefici della civiltà e non ha ancora aperto gli occhi alla luce di questo sole dell'umana vita. E il merito di un popolo colonizzatore é riposto precisamente nel sapersi arrestare a questo limite ed é merito e dovere del Governo l'imporre ai suoi agenti, ai suoi soldati, quando anche sia mestieri adoperare la forza, di rispettare tutto ciò che merita rispetto nella umana personalità».


E non si accorse che, a furia di sottigliezze, si finiva con l'apparecchiare le interpretazioni più comode e i destreggiamenti più capziosi.

Di una larga e adeguata consapevolezza delle necessità improrogabili alle quali lo sbarco africano avrebbe dovuto assai presto far fronte, governo e popolo non mostrarono dovizia, neppure quando gli avvenimenti ormai incalzarono e situazioni politiche gravi si profilarono imminenti : il pubblico, sia per il suo temperamento portato all'entusiasmo e sia per la credenza maturata attraverso la condotta ambigua dei Gabinetti che qualche cosa di grandioso si preparasse e che la impresa africana segnasse i prodromi della realizzazione. di un piano pazientemente elaborato, salutò con plausi, con acclamazioni i soldati che partivano e dei quali reputava facile e non lontano il glorioso ritorno, mentre dai banchi del Governo, alla Camera e al Senato, fioccarono le dichiarazioni ottimistiche di aver tutto preveduto e di aver tutto approntato.
Il 24 gennaio dell'87, due giorni prima di Dogali, il conte di Robilant, che aveva preso il posto del Mancini nel dicastero degli Esteri, rispondendo al De Renzis e al Di Rudini che chiedevano notizie sulle possibilità di un attacco abissino e sullo stato difensivo della colonia, disse che le faccende africane andavano egregiamente, e che a proposito delle dicerie allarmistiche di cui gli interroganti si erano resi portavoci non gli pareva convenisse "attaccare tanta importanza a quattro predoni" che avrebbero potuto capitarci tra i piedi.
E il giorno stesso di Dogali, mentre cinquecento valorosi immolavano la loro vita alla insipienza dei reggitori e alla faciloneria dei pubblico, da un lato, il Di Rudini parlava con aria sprezzante di Ras Alula, e, dall'altro lato, il Di Robilant si vantava di poter dare, là per là, una severa lezione a quei "quattro predoni", già spregiati nella settimana precedente.

In un sole istante, Parlamento e Paese porsero prova di alto sentire : quando si diffuse la nuova della distruzione della colonna De Cristoforis ; comunicato il disastro nel pomeriggio dei 1° febbraio, la Camera, tolte pochissime frasi inopportune di due o tre oratori, votò in silenzio l'urgenza di un disegno di legge presentato dal Depretis e che autorizzava una spesa-straordinaria di cinque milioni per spedire dei rinforzi in Africa ; e, votata l'urgenza, riprese dignitosa e disciplinata la discussione del Bilancio dei lavori pubblici, temporaneamente interrotta.

La Nazione, dal suo canto, più sdegnata per la evidente insipienza governativa che preoccupata per i futuri pericoli, si astenne, di regola, da ogni dimostrazione incomposta.
Fu nei giorni successivi, quando venne in discussione il disegno di legge per i cinque milioni che a Montecitorio le rampogne dilagarono, sintetizzate nel grido : « via dall'Africa ! » e nel ritornello : « né un soldato, né un soldo ! » : la sfiducia verso i reggitori giunse al punto da far apparire non illegittimo il dubbio espresso da Andrea Costa, il quale, accennato alla asserzione formulata dagli organi ministeriali di non voler abbandonare la colonia prima di aver vendicato e riscattato l'onore d'Italia, si chiese quale garanzia fossero in grado di dare gli uomini che erano al governo, per una azione militare accorta e vittoriosa : « Io vi domando - disse - o signori che sedete al banco dei Ministri, a voi, o onorevole Genala, che sbagliate di un miliardo (il Costa alludeva ad un abbaglio preso dal Genala Ministro dei lavori pubblici), a voi, onorevole di Robilant, che confondete « quattro predoni » con un esercito agguerrito ; potete darci, voi, questa sicurezza che, quando avremo votato i cinque milioni, saprete rivendicare l'onore d'Italia ? No, o signori ; voi non mi potete dare questa sicurezza, ed io, alla mia volta, non vi darò un centesimo ».
E per le strade, la gazzarra antiafricanista fece la sua comparsa. Unico, o quasi, un'altra volta, il Crispi trovò la nota giusta avvertendo che, quali si fossero gli addebiti da compiere e le riserve da formulare, dacché soldati italiani erano andati in Africa, bisognava trarre profitto anche dagli errori : « dove é la bandierà tricolore, ivi é l'Italia ».

FERRUCCIO E. BOFFI.


segue la seconda parte


* NAZIONE-GOVERNO - POLITICA COLONIALE dal 1878 FINO ALLA CONQUISTA DI ADUA (agosto 1935) > > >

successivamente
RAPPORTO DEI "13" DEL 6 OTT. 1935 della S. d. N.: L'ITALIA "HA AGGREDITO!" - SANZIONI! !


 ALLA PAGINA PRECEDENTE

INDICE TEMATICO    CRONOLOGIA GENERALE