Nel 1914-15 una martellante campagna di stampa convince gli italiani alla Prima guerra mondiale
"LA MOBILITAZIONE GENERALE AVVIENE CON ENTUSIASMO"
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 UN MARE DI INCHIOSTRO 
 PER UN MARE DI SANGUE

"Senza i giornali l'intervento dell'Italia forse non sarebbe stato possibile". Lo scrive dopo la fine del primo conflitto mondiale ANTONIO SALANDRA, presidente del Consiglio dal 1914 al 1916, gli anni che videro l'Italia accendersi, a partire dal 1914, di violente polemiche sul dilemma "guerra-neutralit�" e infine la vittoria degli interventisti con la dichiarazione di guerra all'Austria nel maggio del 1915. 

Con questa affermazione l'uomo politico conferma l'importanza che ha l'intervento dei giornali, delle riviste, delle pubblicazioni d'opinione, attorno ai quali si coagula la cultura del Paese, sulla maturazione degli eventi e delle situazioni in una direzione piuttosto che in un'altra, sulle scelte finali politiche delle masse popolari. E, conseguentemente, sulla possibilità o meno da parte del gruppo che detiene il potere, o aspira al potere, di svolgere questo o quel tipo di azione politica.

Certo la cultura non è una determinante dell'evoluzione economica, tecnologica, politica di un Paese, ma tuttavia rappresenta, nella prassi, un agente capace di accelerare o di deviare un processo formativo di opinione collettiva. Come diciamo in altra parte di questa rievocazione, alla vigilia del conflitto la maggioranza dell'opinione pubblica italiana è decisamente schierata contro la guerra. Contro è il popolo cattolico guidato da una Chiesa storicamente legata alla cattolicissima Austria; contro è il popolo socialista che nella guerra vede l'estrema ratio delle esasperate competizioni economiche fra i capitalismi dei singoli Stati; contro è la maggioranza parlamentare, 300 deputati al seguito di GIOVANNI GIOLITTI, liberale attento ai fermenti socialisti.

Ma nel corso di poco più di un anno la situazione si capovolge. Sulle piazze d'Italia si riversano masse di studenti, di piccoli e medi borghesi, di insegnanti che inneggiano alla guerra fanaticamente, entusiasticamente, istericamente; non mancano, man mano che l'indrottrinamento bellicistico si fa sempre più serrato, frange di proletariato operaio e contadino, di cattolici e socialisti. Dietro questa metastasi della pulsione a guerreggiare, le martellanti prose del "Corriere della Sera", del "Secolo", del "Giornale d'Italia", del "Resto del Carlino", del "Popolo d'Italia" e dei vari piccoli giornali della provincia italiana.

E gli eleganti, suadenti, ispirati, messianici scritti dell'intellighenzia italiana del momento: il sociologo PARETO, il poeta D'ANNUNZIO, il filosofo GENTILE e lo storico-politico SALVEMINI, gli scrittori PREZZOLINI, SOFFICI, PAPINI, MARINETTI, PANNUNZIO, MALAPARTE, JAHIER. La somma di mesi e mesi di arringhe inchioda i neutralisti nel ruolo di "traditori della patria", Giolitti viene bollato d'infamia e additato alla maledizione generale.

E così il governo Salandra, invocando la "volontà popolare" può dichiarare in quel "maggio radioso" la guerra per la riconquista dei "sacri confini". In che modo le varie categorie di intellettuali hanno "lavorato" le masse per scatenarle alla guerra, quali sono state le loro argomentazioni, come hanno giustificato la necessità di un massacro? Prima di rispondere a questa domanda è giusto chiedersi per quali ragioni milioni di persone apparentemente pacifiche si trasformano in torme bellicose.

Questa la spiegazione di Wilhelm Reich (1897 - 1957) lo studioso austriaco che dà alla psicanalisi una nuova frontiera: "Nello strato superficiale del proprio essere l'uomo medio è moderato, cortese caritatevole, conscio del proprio dovere, coscienzioso. Non esisterebbe una tragedia sociale dell'animale uomo se questo strato superficiale fosse direttamente collegato con il nucleo naturale. Purtroppo non è così: lo strato superficiale della cooperazione sociale non ha alcun contatto con il profondo nucleo biologico dell'uomo: esso viene sorretto da un secondo strato caratteriale intermedio che si compone senza eccezione di impulsi crudeli, sadici, sessualmente lascivi e invidiosi. Questo strato costituisce l'inconscio o il rimosso di Freud. La biofisica dell'energia riuscì a scoprire che l'inconscio di Freud, l'aspetto antisociale dell'uomo, non era altro che il risultato secondario della repressione di pulsioni biologiche primarie".

Su questo terreno, che ha vita eterna, lavorano i "persuasori occulti" interventisti. Vediamo ora le caratteristiche di questo lavoro. Già nel 1911 si hanno i primi segni delle posizioni dell'intellighenzia italiana sul problema guerra.

E' l'anno della conquista della Libia e della Cirenaica da parte dell'Italia e il periodo in cui vi sono le frequenti crisi provocate dalle spinte imperialistiche provenienti dal blocco austro-tedesco e dalla Russia. GIOVANNI AMENDOLA recensisce un libro che sembra prevedere il prossimo conflitto mondiale, "La grande illusione", dello scrittore inglese NORMAN ANGELL, che sostiene la tesi secondo la quale la guerra non può portare vantaggi di ordine materiale ai popoli, quindi è inutile. Il giudizio di Amendola è negativo: "Norman Angell ragiona come se la guerra fosse soltanto il risultato di fattori economici, e non vede, e non vuol vedere, che il fattore economico è soltanto un elemento e qualche volta nient'altro che un pretesto.

Ma gli uomini, nonostante sappiano che dalla guerra non avranno vantaggi materiali, continuano a prepararsi alla guerra, e c'è da prevedere, senza essere profeti, che si combatteranno per l'avvenire come si sono combattuti in passato. Ciò vuol dire in conclusione che alla filosofia del tornaconto preferiscono ancora quella del rischio e della lotta, e di questo c'è da rallegrarsi sul serio...". Anziché rifiutare la guerra, sostiene Amendola, è necessario ricondurla alla sua matrice spirituale, che è la stessa delle più alte manifestazioni dell'intelletto umano: "L'ascesi, la lotta contro la natura interna, la conquista del mondo dello spirito richiedono dall'individuo quelle virtù di sacrificio, di fortezza e di audacia che costituiscono il fondo del combattente, e che fanno dell'uomo di guerra, con tutti i suoi eccessi e con tutte le sue brutalità, un tipo infinitamente superiore a quello dell'accordo sibarita che trova nel culto della pace la migliore espressione della sua concezione voluttuaria della vita".

Verso la fine del suo discorso Amendola, liberale, ma di un liberalismo "archeologico", diventa brutalmente chiaro: "La massa degli uomini, ai quali l'ascesi e la spiritualità non sono possibili, mantiene intatta la virtù combattiva nella sua forma più comune: ed è grazie a questa folla semplice, incosciente ma sana, che libri come quello di Norman Angell, grazie a Dio non serviranno a nulla, e che, grazie a Dio, gli uomini continueranno a scannarsi piuttosto che a incanaglirsi".

A dar mano forte agli interventisti torna dalla Francia il "vate d'Italia", che per la borghesia colta, semi-colta o orecchiante della cultura, è il mostro sacro, l'idolo. D'ANNUNZIO si getta nella guerra per la guerra con l'ardore che gli è noto e fa vibrare tutte le note della sua incendiaria retorica, come nel discorso rivolto al popolo di Genova (4 maggio 1915): "Ebbene sì, compagni, porto un dono di vita e un annuncio di vittoria. Se vi fu tal romano che recava nel seno della toga la pace e la guerra, da scegliere, non v'è più scelta per noi. Ve lo dico già in questa prima ora, in questa notte di veglia. E vi dico che tanto la nostra guerra è giusta, da non potersene recare il pegno se non con le nostre mani velate, come delle cose più sacre usavano i padri nostri".

Poi, nell'Arringa al popolo di Roma (13 maggio 1915) getta benzina sul latente fuoco delle frustrazioni, dell'impotenza sociale e politica, affidando agli ascoltatori un ruolo di potere, di giustizieri, di salvatori della patria, di eroi, eroi che debbono scagliarsi contro il "mestatore" Giolitti, colui che vuol venderli all'Austria "come greggia infetta": "Non ossi, non tozzi, non cenci, non baratti, non truffe. Basta! Rovesciate i banchi, spezzate le false bilance! Stanotte pesa su noi il fato romano; stanotte su noi pesa la legge romana... Le nostre sorti non si misurano con la spanna del merciaio, ma con la spada lunga.

Però col bastone e col ceffone, con la pedata e col pugno si misurano i manutengoli e i mezzani, i leccapiatti e i leccazampe dell'ex-cancelliere tedesco che sopra un colle quirite fa il grosso Giove trasformandosi a volta a volta in bue terreno e in pioggia d'oro. Codesto servidorame di bassa mano teme i colpi, ha paura delle busse, ha spavento del castigo corporale. Io ve li raccomando. Vorrei poter dire: io ve li consegno. I più maneschi di voi saranno della città e della salute pubblica i benemeritissimi. Formatevi in drappelli, formatevi in pattuglie civiche; e fate la ronda, ponetevi alla posta, per pigliarli, per catturarli. Non una folla urlante, ma siate una milizia vigilante".

Nei giorni roventi che precedono il "maggio radioso", l'attacco contro Giolitti e la maggioranza neutralista del Paese si fa sempre più serrato, più aggressivo, più protervo e violento, è una sobillazione alla rivolta, alla distruzione delle istituzioni della ancora giovane democrazia italiana. Nell'edizione del 15 maggio 1915 "L'Idea Nazionale" (un quotidiano romano portavoce degli interessi che puntavano al protezionismo industriale e al nazionalismo economico, contrapponendosi al sistema liberistico) spara un violento articolo di fondo, titolando "Il Parlamento contro l'Italia".

Eccone uno stralcio: "II Parlamento è Giolitti; Giolitti è il Parlamento: il binomio della nostra vergogna. Questa è la vecchia Italia, la vecchia Italia che ignora la nuova, la vera, la sacra Italia risorgente nella storia e nell'avvenire... L'ignora appunto perché è il Parlamento. Parlamento, cioè la falsificazione della nazione... L'urto è rnortale. 0 il Parlamento abbatterà la Nazione e riprenderà sul santo corpo palpitante di Lei il suo mestiere di lenone per prostituirla ancora allo straniero, o la Nazione rovescerà il Parlamento, spezzerà i banchi dei barattieri, purificherà col ferro e col fuoco le alcove dei ruffiani; e in faccia al mondo che aspetta proclamerà la volontà della sua vita, la moralità della sua vita, la bellezza augusta della sua vita immortale".

Vilfredo PARETO, matematico, economista, autore di un trattato di sociologia che ha inciso prestigiosamente nel mondo scientifico internazionale, sostiene che soltanto una grande guerra di dimensione europea può bloccare la marcia minacciosa del socialismo "che già sta corrodendo le basi dell'impero russo". Ma i socialisti italiani cosa fanno per arrestare e falciare la violenta offensiva degli interventisti? La loro scelta neutralista, fermissima in linea di principio, è esposta all'attacco dei commandos culturali nazionalisti, privo com'è il movimento operaio di canali informativi - eccezion fatta per l'"Avanti!", - e di intellettuali. E l'attacco degli interventisti mira a rompere lo schieramento, a convertire alla "santa causa" della guerra almeno una parte del proletariato italiano.

Annota Giuseppe Prezzolini, brillante scrittore e polemista dell'epoca: "Sarebbe vergognoso che l'unico socialismo in Europa a rifiutare le armi fosse quello italiano, quando l'andata al campo di tutti gli altri gli concede il più largo proscioglimento dagli obblighi di fratellanza. Ma io non so immaginare un Mussolini rifiutare di battersi contro l'Austria e credo che finito l'ultimo comizio per la neutralità, i socialisti faranno il loro dovere". Il cuneo di questo discorso, fatto nel 1914, si insinua nella incrinatura già aperta dal socialista BENITO MUSSOLINI, che nell'ottobre dello stesso anno scrive sull'Avanti!: "Se domani, per il gioco complesso delle circostanze, si addimostrasse che l'intervento dell'Italia può affrettare la fine della carneficina orrenda, chi fra i socialisti italiani vorrebbe inscenare uno sciopero generale per impedire la guerra che, risparmiando centinaia di migliaia di vite proletarie in Francia, Germania, Austria eccetera, sarebbe anche una prova suprema di solidarietà internazionale?".

Fra il becero e bellicoso vociferare delle gazzette e dei tribuni si leva anche l'alta voce di GIOVANNI GENTILE che in quel momento, assieme a BENEDETTO CROCE, è il grande maestro del pensiero filosofico italiano. Anche lui, nel 1914, scrive a favore della guerra: "La guerra non è il conflitto di un certo numero di Stati. Questo è bensì un carattere necessario, ma uno solo dei caratteri di essa; e non è neanche l'urto di due tendenze o forze della politica mondiale, possenti forze disciplinatrici del diritto del mondo. Non è, adunque, soltanto una crisi economica, giuridica e politica dei popoli europei, o di tutti i popoli della terra, accompagnata da sacrifizii proporzionati all'immane sforzo, è qualcosa di più.

E' un dramma che dovrei dire divino, se la parola non suonasse enfaticamente; è il cimento, per dirlo con parole più ordinarie, di tutte le forze che si sono organizzate sulla faccia della terra, ossia dell'universo guardato dal nostro centro di osservazione. Si tratta, si badi bene, come sempre, di uno sforzo in cui tutto, il Tutto, è impegnato: di un 'atto assoluto'... Atto assoluto, chi ben rifletta, è il dovere... La guerra, adunque, è il nostro atto assoluto, il nostro dovere, il nostro supremo, e, in questo senso, il nostro unico interesse".

Anche Croce, pur essendo l'unica voce valida della cultura anti-interventista, finisce involontariamente per dare una mano agli interventisti constatando (in "Moralità della dottrina dello Stato come potenza") che ciascuna delle parti in lotta ha in sé la propria ragione e il proprio diritto: ne consegue che "i componenti dei vari gruppi non hanno altro dovere morale che di schierarsi alla difesa del proprio gruppo, alla difesa della patria, per sottomettere l'avversario o limitarne la potenza o soccombere gloriosamente, gettando il seme di future riscosse".

Parole che nel contesto del discorso filosofico-morale di Croce non vogliono certamente significare una teorizzazione della guerra, ma gli interventisti non vanno molto per il sottile e se da un lato attaccano ferocemente Croce (lo scrittore Ardengo SOFFICI lo chiama boche, [zuccone], usando lo spregiativo con il quale i francesi definiscono i tedeschi) non esitano dall'altro ad extrapolare stralci dei suoi scritti facilmente adattabili alle loro tesi, per dimostrare che anche il Maestro dà il suo avallo al "santo conflitto".

Il 24 maggio 1915 la grande esplosione di entusiasmo degli interventisti: è l'entrata in guerra e sul fiume Judrio, in Friuli, al confine italo-austriaco, un soldato del re Vittorio Emanuele III spara il primo colpo di fucile contro un soldato dell'imperatore Francesco Giuseppe.

Com'è questa guerra che "eleva lo spirito dell'uomo ad altezze divine?".

Nell'inverno del 1915 il tenente Gualtiero Castellini così la descrive dal fronte: "Piove, piove, piove. Si diguazza nel fango, si è lordi di fango, si respira nebbia. Gli abiti sono sempre inzuppati; le tende, le baracche, le tane stillano acqua. Di notte si cammina sotto uno scroscio senza fine. Qualche volta la grandine ci flagella... La fatica che uccide e martirizza rimarrà, fra le impressioni di Oslavia, la dominante; resistere al proprio posto vedendo nell'avvenire una nebbia più fitta di quella che ci separa dal nemico, resistere nella trincea avanzata sapendo che si è una sentinella perduta di fronte al nemico... resistere con una malinconia senza nome in questo fossato di fango aperto verso il cielo, che si chiama trincea... Ricordarsi di essere stato fino a ieri un uomo con un lavoro proprio, una famiglia propria, una responsabilità propria ed essere ora un numero nel fango, consapevole del proprio sudiciume che non si lava, della propria stanchezza che prostra, del proprio avvilimento che toglie l'intelligenza, questo è il martirio di Oslavia".

di LIONELLO BIANCHI

Si ringrazia per l'articolo
(concesso a Cronologia)
il direttore di

vedi riassunti qui > >


 ( * ) Pochi erano gli italiani che volevano combattere questa guerra.  870.000 uomini disertarono, 160.000 furono i renitenti, 400.000 i processi di insubordinazione, 210.000 condanne, 15.000 condanne all'ergastolo, 4028 esecuzioni
con "fucilazione alla schiena". I morti alla fine furono 600.000, il quadruplo della 2a Guerra Mondiale. Esercito operante 4.200.000 uomini, mobilitati 5.500.000. (Quattro anni di tragedie e di sfacelo per poi ottenere alla fine, poco pi� di quanto era stato offerto, e debiti per 70 anni. Una "beffa")

Poca coesione, poca sentita partecipazione degli italiani, non proprio sovversiva, come si volle farla invece  apparire. L'inadeguatezza dei materiali, carenti e scadenti, provoc� non solo le cifre di sopra ma dal 1913 al 1918 abbandonarono il Paese 1.713.000 italiani per rifugiarsi con tutti i mezzi nei paesi d'oltralpe o in America, visto che CADORNA non operava per rendere meno sanguinosi gli enormi sacrifici dei bravi eroici, sfortunati soldati italiani, che non potevano per nessuna ragione al mondo operare una ritirata. Cadorna non perdonava.

La guerra far� anche  cambiare subito il clima nelle fabbriche. Si abolisce il diritto di sciopero e negli stabilimenti vige la disciplina del codice militare con ufficiali in divisa che sono  preposti: al controllo, alle denunce, a condannare per direttissima e ad applicare le pene. Orari di lavoro 70-75 ore settimanali, che permetteranno sia agli "imboscati" che ai "padroni" di fare lauti guadagni, ma anche ricevere per quattro anni il disprezzo di 4.200.000 reduci tornati dalla guerra che non troveranno un lavoro ma debiti . Gi� al primo anno di guerra l'Italia non ha soldi. Ricorre a un prestito nazionale di 1.000.000.000, poi a un altro di 1.070.000.000, e 1.250.000.000 li ottiene in prestito dall'Inghilterra. Siamo appena all'inizio di un indebitamento colossale che a guerra "vinta" si aggiungeranno gli spropositati conti degli aiuti americani tramite gli inglesi nell'ultima fase della guerra. Debiti per 62 anni. Fino al 1984.

Affari - ANSALDO (metallurgia) passer� da 4000 a 56.000 operai, la Fiat ( motori, carri, aerei, materiale bellico vario) da 4.000 a 45.000 dipendenti. Il clima di tutti i 600.000 operai militarizzati diventa di terrore, visto che si commineranno nel periodo bellico 1.650.000 multe e 28.600 saranno le condanne alla prigione. La produzione balzer� nei 4 anni dal nei 4 anni dal 5,6%, al 10,8%, al 21,6%, al 30,51% (!!). Un vero affare per pochi! E per quelli che hanno sottoscritto i prestiti che ovviamente la guerra non l'hanno fatta.

Impressionante invece l'aumento del costo della vita. Fatto 100 nel 1913, era gi� salito a 365,8 nel 1919, poi con un 
 drammatico balzo piomber� al  624,4 nel 1920. Il 100% in un anno! 
L'oro era a 3,49 lire al grammo nel 1913, nel 1919 a 5,82, nel 1920 a 14,05 (240% in un anno).
La soluzione anche se traumatica la trover� poi Mussolini con il fascismo.


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