ALBANIA

SULLA VITA E I GESTI DI
GIORGIO CASTRIOTA SCANDERBEG (2 DI 2)

di TEODOR NASI

Nel 1446 toccò a Mustafà pascià e ai suoi 15 mila ad essere sconfitto.....ad opera di 5 mila albanesi il 27 settembre vicino a Dibra e a lasciare sul campo 5 mila morti e trecento feriti con le vettovaglie, le bandiere e l'accampamento.

Il 1447 passò in pace e, secondo tradizione, gli albanesi cominciarono a combattere tra di loro. Lek Dukagjini, figlio di Paolo e suo successore e, quindi, il più grande signore del paese dopo Scanderbeg, uccise Lek Altisferi, signore della piccola striscia di terra di Danja, situata al confine tra i domini di Venezia e del Dukagjini. L'Altisferi lasciava nel testamento i suoi domini a Scanderbeg se non avesse avuto eredi. Ma, né i Dukagjini, né i Castriota riuscirono a prendere Danja, perché i Veneziani furono più veloci facendovi giungere a cavallo una guarnigione da Scutari. Scanderbeg volle far valere i suoi diritti, ma i Veneziani non risposero. Iniziò così la guerra tra Scanderbeg e la Serenissima.
Non avendo mezzi da assedio, gli albanesi tentarono di prendere Danja per fame. Sconfissero nei pressi di Scutari un forte esercito della Serenissima ed assediarono anche questa fortezza. A questo punto un accordo segreto tra Venezia e La Porta ebbe lo scopo di mettere Scanderbeg tra due fuochi, ma l'esercito di 15 mila mandato di nuovo al comando di Mustafà pascià venne sconfitto ancora vicino a Dibra il 14 ottobre 1448, ad Oranico. Mustafà lasciò sul campo altri 5 mila morti, dodici alti ufficiali prigionieri, tutte le bandiere e l'accampamento. Era una fortuna la cattura degli accampamenti e degli alti ufficiali, poiché costituivano due ottime fonti di redito per pagare i soldati.

La vittoria su due fronti accrebbe enormemente la fama e il prestigio del principe. Venezia sbrigò i preliminari per la pace e la ottenne ad Alessio nell'inverno del 1448. Essa conservava Danja, ma concedeva a Scanderbeg una terra più ampia sulle sponde del fiume Drina, 1400 ducati di pensione annui e il rinnovo degli antichi tributi che i mercanti dovevano pagare ai Castriota per il passaggio nelle loro terre. Il nome dei Castriota venne scritto nel Libro d'Oro della Serenissima.
Murad II decise di intervenire di persona in Albania dopo aver ancora sconfitto Hunyadi duramente nella pianura del Kossovo. Centomila uomini, artiglieria d'assedio e armi da fuoco, l'intero corpo dei giannizzeri e il Sultano in persona muovevano verso Kruja.

Un tale esercito doveva colpire una volta per tutte la Lega dei principi albanesi. Per fare questo era necessario che cadesse Scanderbeg. Perché cadesse Scanderbeg era necessario che cadesse Kruja. Perché cadesse Kruja era necessario che cadesse una delle due importanti fortezze che sbarravano l'ingresso alla terra delle aquile: Dibra o Sfetigrad.
Informato per tempo delle intenzioni del sultano, Scanderbeg mandò l'archimandrita Pietro Perlati a Sfetigrad a capo di una guarnigione di duemila uomini e viveri per un anno. Mosè di Dibra rimase a difesa della sua città. A Kruja una guarnigione di 4 mila uomini era comandata da Vrana Conti con viveri per sedici mesi. Tutte le fortezze furono fortificate allo stesso modo. I contadini cominciarono a chiudersi in esse.

Murad II si presentò di fronte a Sfetigrad il 14 maggio 1448 con 80 mila uomini, due obici pesanti che lanciavano proiettili da 200 kg e metallo in sufficienza per fonderne altri. Fu invitato Pietro Perlati ad arrendersi. Al rifiuto iniziò il bombardamento. Dopo tre giorni, aperta una breccia abbastanza ampia, i giannizzeri iniziarono l'attacco generale. Furono massacrati in numero impressionante. Il puzzo dei cadaveri che avevano coperto la breccia si sarebbe sentito per mesi. Nel frattempo, Scanderbeg aveva inaugurato la tecnica di guerriglia con la quale avrebbe combattuto in tutti gli scontri con i sultani fino alla fine. Con dodicimila uomini colpiva all'improvviso, dove meno lo si aspettava. Faceva scorrerie nel campo nemico, tendeva imboscate, catturava chi si allontanava troppo senza scorta. Non lasciava il nemico in pace un momento per poi nascondersi sempre nelle vergini montagne intorno alla fortezza, che coprivano con la loro estensione quasi tutto il paese.

Era la stessa tecnica usata dalle tribù illiriche contro i romani, i bizantini, i greci, i serbi nei secoli. Solo che con il Castriota la sua efficacia fu esaltata a tal punto in una guerra difensiva che, leggendo le sue gesta da fonti turche, il generale James Wolfe poteva scrivere a Thomas Townshend (che più tardi diventerà Lord Sidney) il 18 luglio 1756: " Grandi nozioni d'arte militare si possono trarre dalla vita di Gustavo Adolfo e da quella di Carlo XII di Svezia...; e sarebbe un lavoro irrilevante se non si assicurasse a una sufficiente descrizione delle gesta di Scanderbeg, perché egli risplende tra i grandi generali dei tempi passati e odierni come condottiero di un piccolo esercito difensivo." La guerriglia organizzata, che tanta fortuna avrà nel ventesimo secolo, fu sperimentata con impressionante successo nell'Albania del quindicesimo.

Le linee di comunicazione dell'esercito ottomano erano del tutto insicure. Per garantire la sicurezza dei convogli venivano impiegati sempre più uomini, che venivano di guisa tolti all'assedio. Eppure non bastavano. Allora, per sostenersi, l'esercito turco si abbandonava a saccheggi, ma se il gruppo che partiva a procurar viveri non era abbastanza forte era spacciato. Scanderbeg sconfisse nell'ordine Ibrahim bey e Firuz pascià che gli furono mandati contro, uccidendo in due grandi imboscate quasi 8 mila turchi.

Alla fine di luglio erano morti 20 mila turchi e Murad II era pronto a levare l'assedio, quando un traditore consegnò la fortezza ai turchi. Le versioni sono discordi sulla modalità. La prima, quella più romanzata, dice che questi buttò un cane morto nell'unico pozzo del castello. Essendo la guarnigione di questa composta in maggioranza da bulgari ortodossi, questi, superstiziosamente, si rifiutarono di bere.

La guarnigione era, come sopra ho detto, composta da Dibresi di Dibra superiore, il qual paese quantunque soggetto a Scander-begh non era però abitato da gente albanese come la Dibra inferiore, ma da Bulgari, o sia da Serviani [Slavi]. Professava bensi questo popolo la Religione Cristiana, ma corretta dall'eresia, e non conforme ai dogmi della Chiesa Romana ch'erano creduti dagli Albanesi, e seguia con una specie di fascino molte superstizioni. Una delle quali era di non osare giammai bere, nè mangiare di tutto ciò che avesse toccato corpo morto di uomo, o di bestia, immaginandosi che quella cosa lor lasciasse una corruzione dentro il corpo che passasse insino all'anima (Biemmi).

La seconda versione più prosaica e razionale dice che il traditore indicò ai turchi il condotto dell'acqua che alimentava l'unico pozzo del castello, che fu prontamente tagliato. L'archimandrita Pietro Perlati mise ai voti la proposta di arrendersi. Il 31 luglio gli assediati uscivano e gli assedianti entravano a Sfetigrad. La porta dell'Albania era aperta. D'ora in poi nessuno avrebbe fermato le invasioni al confine, ma le battaglie si sarebbero combattute all'interno del paese.
La prospettiva non allettava il Castriota. Raccolse in fretta un esercito e chiese aiuto ai principi della Lega e agli alleati. Si misero al suo servizio molti volontari francesi, tedeschi, dalmati e italiani, che portarono anche della piccola artiglieria e armi da fuoco, di cui si era sprovvisti in Albania. Dai principi della Lega arrivarono 4 mila uomini e diecimila ducati; Alfonso di Napoli mandò 1200 uomini e un gran numero di provviste e armi sotto il comando di Giliberto Ortofano. Il messo mandato a chiedere aiuto al successore di Eugenio IV, Nicola V (1447-1455), tornò con tante promesse, lodi e benedizioni apostoliche. Il 25 di settembre 1449 Scanderbeg pose l'assedio a Sfetigrad, ma i suoi uomini non abituati ad assediare si logorarono per un mese e Scanderbeg levò le tende il 26 ottobre.

Agli albori del 1450 il principe perse anche la fortezza di Berati (Perati) sul fiume Vojussa, cui si riferirà cinque secoli dopo il canto degli alpini della Julia. Berati apparteneva a Teodor Korona Musacchio, membro della Lega, il quale, essendo vecchio e senza eredi, lasciò i suoi domini in testamento al Castriota. Abbiamo visto con Danja che la cosa non era inusuale. Mentre si trovava sul letto di morte mandò a dire a Scanderbeg di andare a prendere possesso di Berati e questi spedì un contingente di 600 uomini, i quali si stabilirono nel forte e la notte andarono a dormire tranquillamente, senza curarsi dell'esercito turco che s'intrufolò con un colpo di mano dentro le mura approfittando del buio e prese possesso del castello. I seicento vennero fatti prigionieri e il vecchio Teodor Korona fu impiccato.

Se tutto questo non bastasse, mentre si attendeva il colpo di grazia del sultano contro Kruja, quasi tutti gli alleati e i principi della Lega lo abbandonarono. Arianit Comneno era risentito perché il Castriota si rifiutava di chiedere sua figlia in sposa come aveva promesso e gli altri erano sobillati da Venezia, che aveva stipulato la pace con il sultano e che avrebbe avuto tutto da guadagnare da una guerra all'ultimo sangue tra Scanderbeg e i turchi, commerciando con entrambi nelle materie necessarie alla guerra. I piccoli signori confinanti il principato d'Albania la Serenissima li voleva in pace per garantire in quelle terre di collegamento il passaggio dei propri mercanti. L'Aragonese era impegnato in Spagna e non poteva concedere aiuti. L'arcivescovo di Antivari, mandato a Roma dal Papa, tornò ancora con promesse, benedizioni e l'assicurazione che Dio non avrebbe mai abbandonato il suo campione. Soltanto i Dukagjini mandarono qualche soldato.
Andava aggiunto a tutto questo che i soldati non saccheggiavano campi nemici da tempo e chiedevano di essere pagati.
Inoltre il panico si diffuse nella popolazione del principato. Sogni e incubi che premonivano disastri ed eventi sopranaturali infausti erano sulla bocca di tutti.

Questi tre problemi andavano risolti. Innanzitutto il denaro necessario al mantenimento di una esercito venne dai prestiti di mercanti ragusiani e napoletani, visto che i veneziani non si erano fidati a prestare soldi con un così alto rischio. Si erano fatti garanti il Papa e Alfonso d'Aragona.
In secondo luogo un'assemblea di soldati, contadini e preti venne raccolta nei campi intorno a Kruja. Scanderbeg narrò di aver sognato San Giorgio, protettore d'Albania, che gli donava una spada e lo esortava a difendere la sua terra e la cristianità. La predicazione del Vescovo di Drisht e futuro arcivescovo di Durazzo, Paolo Angelo, e di altri prelati fatta dopo la messa convinse coloro che si erano radunati a Kruja non solo che il pericolo poteva essere sostenuto, ma anche che la guerra era praticamente vinta. Il consiglio di questa messinscena era stato di Paolo Angelo. E' probabilissimo che il sogno una sorta di pia fraus, ma nessuno storico critico, che meriti tale nome, può ridere del fatto che la gente credesse che Scanderbeg avesse veramente sognato San Giorgio.

Era risaputo che la sua fede era profonda e lo ammettono tutti gli storici. Era la caratteristica della sua famiglia, basti ricordare i documenti di donazione di villaggi e terre da parte di Giovanni Castriota a monasteri e abbazie; lo stesso si riconvertì al cattolicesimo prima di morire, volendo morire in grazia di Dio e abiurando l'islamismo che aveva dovuto abbracciare per necessità; il fratello era andato a chiudersi nel monastero del monte Sinai ed egli stesso da anni continuava a rinunciare ad una comoda tregua col sultano in nome del ruolo di difensore della fede che aveva assunto sotto benedizione papale. Nel 1450 era stato abbandonato quasi da tutti, con un esercito e una popolazione demoralizzata. Non aveva altra scelta che chiedere a Dio qualcosa di più del solito.

La mancanza di uomini non era in ultima analisi un problema risolvibile per la semplice ragione che, per quanto si fosse messa in moto unitamente la buona volontà di Scanderbeg, dei principi della Lega, della Serenissima, di Ragusa, l'Aragonese, Hunyadi e gli altri, non si sarebbe mai raggiunto un numero sufficiente di uomini da sfidare in campo aperto i centomila veterani turchi che si sarebbero riversati su Kruja. Così, Scanderbeg decise che la cosa migliore era applicare di nuovo la sua tecnica preferita di guerriglia. Lasciò Vrana Konti con un forte contingente di quattromila uomini krujani a difesa della città, coadiuvati da artiglieri franchi volontari, tedeschi e un gruppo di inglesi comandati da un gentiluomo che l'Antivarino ci presenta come John of Newport, con una riserva di vettovaglie per trenta mesi. Gran parte della guarnigione era composta da uomini ben armati anche con armi da fuoco. Egli stesso, con 8 mila cavalieri veterani si diresse verso i monti intorno alla città, in mezzo a quei sentieri che conoscevano solo le capre e le aquile e dai quali poteva colpire ogni strada, ogni campo, ogni pattuglia, ogni distaccamento, ogni carro che si fosse avventurato senza avere una scorta di almeno 15 mila uomini.

Amurathes convocans Asiae Europae exercitus universos (Laonicus Chalcocondylas) si presentò d'avanti a Kruja. L'esercito non era minore di quello che avrebbe espugnato Costantinopoli tre anni dopo. L'intero corpo scelto dei giannizzeri era lì. C'erano cannoni portati da Adrianopoli e abbastanza metallo per fonderne altri sul posto. Questo lavoro tenne impegnati gli assedianti per due settimane. Alcuni di questi lanciavano palle da 600 kg e altri da 200.
La proposta di resa fu con sdegno respinta da Vrana Konti, che si permise di aggiungere, a detta di Barleti, che a Kruja non c'erano bulgari che temessero i cani morti.

Aperta dopo qualche giorno una breccia nelle mura, Murad II ordinò una carica generale che fu respinta con enormi perdite. Mucchi di cadaveri e di agonizzanti avrebbero con il solito olezzo nefando i dintorni del castello per mesi. Di attacchi se ne ripeterono moltissimi e furono sempre respinti. Nel frattempo Scanderbeg con i suoi 8 mila continuava a infastidire a tal punto il Sultano da portare questi quasi alla follia. Gli albanesi ebbero il coraggio di fare una improvvisa incursione nel campo nemico seminando morte, panico e distruzione. Cogliendo i turchi di sorpresa, riuscirono a bruciare molte tende e si avvicinarono a quella del sultano in più occasioni. Fu difficile per il principe trattenere i suoi. Come i Scots Greys e i Blues a Waterloo, le cariche degli imponenti montanari erano dei fuochi che bruciavano a fondo, ma che non erano facili da spengere. Molti cristiani morirono e per il piccolo esercito del Castriota le perdite, anche se esigue, erano pesanti. Egli stesso si trovò in mezzo a una turba di giannizzeri e solo a tremende sciabolate riuscì a divincolarsi e a fuggire verso le montagne.

Per i turchi divenne un'ossessione. Semper presens erat, ubicumque eius opera desiderabatur… cum regii quidam ascenderent montem. Scenderes eos agressus est, praelibaturque, opera memorabilia edens… Quamvis eum debellare occepis sit, vincere nequivit. (Laonicus Chalcocondylas). E lo stesso era l'effetto della baldanza degli assediati: Nec tamen (Turcae) superare potuerunt oppidanos, qui praeter spem fortissime pugnabant. (Laonicus…). Bisogna anche considerare che lo storico bizantino è, come tutta l'intellighenzia bizantina, cioè greca, ferocemente ostile agli albanesi, quindi le sue lodi valgono tanto.

Il comportamento dei mercanti veneziani fu vergognoso e infido. Non solo rifornivano i turchi, ma quando questi, stanchi di vedersi prendere quanto avevano comprato dagli albanesi nelle imboscate, pretesero che i Veneziani portassero tutto al loro accampamento, i mercanti della Serenissima non esitarono a portare le merci ai turchi ai piedi della rocca di Kruja. Pensavano che Scanderbeg non avrebbe mai permesso che un cittadino veneziano venisse attaccato per non trovarsi in guerra anche con la Serenissima, ma questi non ci pensò due volte. Gli albanesi, inferociti da tale comportamento, non fecero distinzioni e la guerra fu sventata solo grazie all'opera diplomatica indefessa dell'arcivescovo di Durazzo, il cui nome ci è ignoto, ma che Biemmi ci dice essere amico del Castriota. Egli riuscì, tra l'altro, a impedire ulteriori rifornimenti al campo turco.

In una disperata carica e nella successiva sortita il 25 giugno i turchi ebbero circa 8 mila uomini. Questa carneficina durò cinque mesi, senza speranza di vittoria per Murad II. Quando i tamburi della pioggia annunciarono l'arrivo della cattiva stagione, dopo aver tentato di comprare Vrana Konti, aver proposto a Scanderbeg di riconoscerlo re d'Albania con solamente l'obbligo di un piccolo tributo e aver ricevuto in entrambi i casi un rifiuto, levò le tende il 26 ottobre e giunse ad Adrianopoli a gennaio, dove morì poco dopo.
La notizia della vittoria si diffuse come un lampo in Europa. Papa Nicola V, il re d'Ungheria, il duca di Borgogna, ma soprattutto Alfonso di Napoli versarono oro a piene mani nelle casse del principe albanese con la speranza di garantirselo come alleato e difensore.
Come dice Fallmerayer, con la sconfitta di Murad II finì il primo atto della grande tragedia albanese.

II parte

A Murad II succedette Mehmed II, il più terribile dei discendenti di Osman. Fu lui ad inaugurare quella truce tradizione che vedeva i primogeniti del sultano uccidere o far uccidere i loro fratelli per evitare problemi di successione. Sognava di spazzare via il cristianesimo dalla faccia della terra e sapeva di averne i mezzi. Usando la solita tattica dei turchi basata sull'assioma secondo il quale, tagliando il capo, le membra muoiono da sé, si diede da fare a prendere Costantinopoli e Roma. E riuscì quasi a realizzare tutto il suo piano.

Il 26 aprile 1451 Scanderbeg sposò Andronica, figlia di Arianit Comneno. Il matrimonio fu alquanto sfortunato, perché il principe non avrebbe avuto un attimo di tempo, vista la mareggiata che gli si stava per rivolgere contro. Comunque, i primi due anni furono relativamente tranquilli, anche se la nuova famiglia del Castriota aveva posto le premesse per il tradimento dei suoi più fedeli compagni: Hamza Castriota, suo nipote, e Mosé di Dibra, il più valente dei suoi generali. Il primo sperava di ereditare i domini dei Castriota per diritto di sangue e per il valore e il carisma che aveva. Aveva indubbiamente le qualità militari e la saggezza politica per essere un secondo Scanderbeg. Era anche molto amato dai suoi uomini. Dei Castriota aveva ereditato tutto, tranne la bellezza fisica. L'Antivarino c'è lo descrive come piccolo di statura, curvo, occhi piccoli e neri mai fermi su un dato oggetto. Era nato da madre turca e ne aveva ereditato le caratteristiche fisiche. Gli mancava forse la stessa fede e la stessa lealtà ai principi che caratterizzavano lo zio.

Mosé Golem (in slavo significa "il grande", ma è più probabile che il nome derivi da un suo avo chiamato Guglielmo, a detta di Fallmerayer) Thopia, era di quella famiglia di feudatari dei Balsha e di Stefano Dushan che avevano dominato Kruja per molti anni prima dei Castriota. Era imparentato con i Musacchio, i Comneno, gli Angeli e i Balsha. Nel suo sangue c'era tutta l'antica nobiltà del paese. Il Castriota era un semplice montanaro, che forse negli occhi di Mosé non riusciva a scrollarsi di dosso una certa goffaggine da parvenu. Era il migliore generale che Scanderbeg aveva. Era indispensabile a Scanderbeg come erano indispensabili a Napoleone Lannes, Oudinot, Ney, Murat, Suchet, Davout, Soult e Berthier insieme. Temerario fino alla follia - lo aveva dimostrato a Torvioll - sapeva fare tutto in battaglia. Era logico che sperasse di guidare la Lega alla morte del Castriota. Entrambi, Mosé e Hamza, i futuri traditori videro le loro speranze svanire con il matrimonio di Scanderbeg, che faceva presagire la nascita di un erede che avrebbe avuto le carte in regola per diventare primo re d'Albania. La fecondità dei Comneno e dei Castriota era indubbia, quindi non si poteva attendere un miracolo di natura.

Nel frattempo, mentre Mehmed II era impegnato in Anatolia e preparava la caduta di Costantinopoli, il Castriota, avendo per l'ennesima volta respinto le proposte di pace del sultano, volle portare la guerra in terra turca dopo aver conquistato Berati e Sfetigrad. Sottoposto il progetto alla Lega nessuno lo volle appoggiare, nonostante l'insistenza dell'Aragonese. Gli albanesi non sopportavano una guerra logorante da assedianti e non la sapevano fare. Il territorio turco non era territorio albanese e andava bene solo per essere saccheggiato occasionalmente, ma non per essere conquistato. L'esempio di Varna era ancora sotto gli occhi di tutti. Si credeva che stando buoni il sultano li avrebbe lasciati in pace, vista anche la rovinosa sconfitta ai piedi di Kruja che aveva subito. Inutili le insistenze di Scanderbeg. Il rifiuto fu netto, ma non unanime, e generò rivalità. Con i fondi di Alfonso di Napoli il principe riuscì a costruire due fortezze: Modriç, vicino a Sfetigrad, che dominava la pianura macedone e Rodon, vicino a Durazzo, sul mare, dove poter ritirarsi in caso di necessità con la moglie e la sua futura famiglia.

Mehmed II aveva capito che il pericolo alla frontiera albanese non era trascurabile e, non conoscendo i timori dei principi della Lega, si piegò al salasso di 25 mila uomini al comando di Tulip pascià da mandare contro il Castriota. Il comandante turco tentò una mossa mai tentata fino a quel momento dai generali turchi: distaccando 10 mila uomini al comando di Hamza pascià gli fece entrare da Sfetigrad. Lui, con i restanti 15 mila, entrò dal lago di Ocrida più a sud con l'intenzione di prendere il principe in una morsa. Avvertito dal cannone di Modriç e dal sistema di fuochi di segnalazione che aveva approntato, il Castriota trovò 14 mila uomini e mosse prima contro Hamza pascià dopo essersi infiltrato tra i due eserciti, attuando così, almeno nei principi, la tattica del centro mobile.
Approfittando della superiorità numerica, Scanderbeg sbaragliò i turchi in circa due ore, catturando il pascià, il suo campo e il suo entourage il 21 luglio 1452. Dopo aver fatto riposare i suoi uomini per circa altre due ore mosse contro Tulip pascià. Lo raggiunse il giorno dopo e lo distrusse con tutto l'esercito vicino al villaggio di Moçad. Barleti racconta come Mosé di Dibra risolse la questione di questa battaglia che si stava protraendo troppo per la stanchezza dei cristiani, caricando contro il centro dell'esercito nemico e tagliando in due con un fendente di propria mano il comandante turco. I turchi lasciarono sul campo circa 7 mila uomini morti, altrettanti prigionieri e feriti, le bandiere e gli accampamenti. Scanderbeg perse circa mille uomini.

A questo punto la certezza della propria potenza e della propria missione fece capire a Scanderbeg che ormai era il momento di farla finita con le separazioni all'interno della Lega. Soffiavano in questa direzione le insistenze del Papa. L'impegno del sultano a Costantinopoli era una manna dal cielo per l'organizzazione delle difese cattoliche nei Balcani. Nicola V era seriamente intenzionato a far finire le rivalità interne in Albania e ci riuscì, facendo riconciliare i Dukagjini con i Castriota, ancora in astio dopo la questione di Danja, dopo aver minacciato i primi di scomunica. Il concetto era chiaro: trono e altare avevano cose più importanti da fare che sottostare alle rivalità meschine tra piccoli feudatari montanari. Se volevano salvare almeno le apparenze dei loro privilegi in politica estera e le priorità tributarie e giudiziarie interne, dovevano sottostare al governo ufficiosamente assoluto del Castriota. Tutto questo senza considerare i fatto che questo era l'unico modo per salvare la propria anima. Ai principi rimaneva un solo modo per mettersi in mostra e guadagnare in prestigio: essere eccellenti combattenti agli ordini di Scanderbeg. Non più signori, ma feudatari dei Castriota nei fatti. Fu così che, grazie all'intervento dei messi papali, l'autorità di Scanderbeg e il denaro napoletano, la Lega non costituì un ostacolo dal 1452 in poi. Fu un semplice Consiglio di Guerra con qualche prerogativa in più. A sua volta il principe albanese si circondò di una pompa e di una magnificenza regale. Lui e i suoi generali più anziani, i veterani nobili, avrebbero indossato da quel momento in poi il mantello rosso porpora. Barleti li chiamerà da questo momento in poi porporati.

Nella primavera del 1453 toccò a Ibrahim Bey essere sconfitto a Scopje e avere 3 mila morti e migliaia di prigionieri e feriti. Egli stesso, vecchio compagno d'arme del Castriota, morì per mano di questi. Questa era finalmente una battaglia fuori dalle terre dei Castriota e rappresentava un buon auspicio, ma il 29 maggio 1453 cadde Costantinopoli dopo una strenua e eroica difesa.
Pieno di sé e al massimo del successo, Mehmed II dichiarò guerra a tutti i suoi vicini. Invio eserciti ai quattro angoli del suo impero. Contro l'Albania si preparava il saggio Issà Bey Evrenos, ma i preparativi di questo esercito andavano per le lunghe e il Castriota decise di approfittare dell'ultimo momento di tregua. Grazie all'artiglieria fornitagli dall'Aragonese con millecinquecento uomini d'arme da fuoco e un elevata quantità di denaro, si risolse a porre l'assedio a Berati.

La scelta cadde su questa città solo perché era molto meno fortificata della più importante Sfetigrad. In questo modo le probabilità di riuscita erano maggiori, considerando anche l'effetto sorpresa. I turchi si aspettavano un attacco a Sfetigrad e Scanderbeg glielo lasciò pensare. Anzi, tranne i suoi più fedeli, nessuno sapeva qual'era il suo obiettivo.

A questo punto ci fu il tradimento di Mosé di Dibra. Le ragioni che lo spinsero le abbiamo esposte sopra. Per mostrare la fedeltà al suo nuovo signore, il rinnegato cominciò col dirgli i piani del Castriota su Berati. Il comandante del castello ebbe tutto il tempo di avvisare Issà Bey affinché accelerasse la preparazione dell'esercito ad Adrianopoli per soccorrere la sua città. Ignaro di quanto accadeva, Scanderbeg diede ordine di iniziare l'assedio secondo i piani con 14 mila uomini e, dopo aver aperto una breccia nelle mura diede l'ordine di un assalto generale. A quel punto il comandante delle truppe difensive propose di discutere la resa del castello in questi termini: gli si desse un mese di tempo e, se in questo lasso non fosse intervenuto qualcosa a cambiare i rapporti di forza, avrebbe ceduto il forte. La convenienza per gli albanesi stava nel fatto che avrebbero conquistato Berati senza più colpo ferire, bastava aver pazienza. Scanderbeg non volle assolutamente cascare nella trappola, ma i suoi porporati giudicarono la proposta ragionevole e, dopo accese discussioni, si giunse alla conclusione che al comandante turco sarebbero stati dati undici giorni di tempo.

Accettata questa controproposta dai turchi, Scanderbeg si ritirò con la guardia verso Dibra perché gli era appena giunta la voce, alla quale non voleva credere, del tradimento e della fuga ad Adrianopoli di Mosè e lasciò a capo dell'assedio Musacchio Thopia, suo cognato e marito di Mamica. La scelta fu indubbiamente una preferenza certamente non di merito. Thopia era totalmente inesperto e i porporati che Scanderbeg lasciò presso il giovane non lo aiutarono affatto. Accusavano il principe di averli posto sotto gli ordini di un bambino, sembrava volessero provocare la sua sconfitta per avere ragione agli occhi del principe.
L'esercito di fronte a Berati era allo sbando. Nessun turno di guardia, nessuna precauzione. Ogni principio di disciplina era svanito.

Fu questa la situazione in cui il bey, in arrivo con 25 mila, uomini trovò l'esercito albanese. Fu facile sgominarli e massacrarne 5 mila. Nessuno prigioniero fu risparmiato. Coloro che si erano arresi furono finiti a colpi di martello. Tutto il resto dell'esercito si mise in fuga. Tra i morti c'erano i 1500 di Alfonso di Napoli e il giovane cognato del Castriota.
Scanderbeg tornava da Dibra dove aveva trovato conferma dei suoi timori, ma al contempo anche l'assoluta fedeltà dei dibrani, che non avevano seguito Mosé Golem Thopia, quando incontrò i fuggiaschi di Berati. Diede ordine alla guardia di attaccare immediatamente senza dare tempo ai 25 mila turchi uniti con i 5 mila assediati di nascondersi nel castello o di riorganizzarsi. La sproporzione di 12 a uno era troppo anche per i più valorosi. Nonostante ciò, si riuscì a salvare i fuggiaschi e ad interrompere l'inseguimento da parte del nemico. Un drappello di duemila cavalieri che osò seguirlo fu massacrato in una carica furibonda della guardia. Barleti racconta che Scanderbeg aveva il labbro tagliato e il sangue gli scendeva copioso sulla barba. Caricava in modo furioso e massacrava a destra e a manca senza pietà.

Barleti e l'Antivarino ci assicurano che Kruja sarebbe stata perduta se Issa Bey Evrenos le avesse mosso contro. Invece il saggio comandante turco non si mosse. Fortificò Berati e ne pose a difesa i cannoni degli ex assedianti. Con calma tornò ad Adrianopoli poco dopo e fu accolto come un eroe ed era comprensibile perché era stato il primo a sconfiggere l'esercito di Scanderbeg.

Mosè di Dibra era giunto ad Adrianopoli prima di Issà Bey e si era vantato col sultano che sarebbe riuscito ad avere la meglio sugli albanesi del Castriota con un esercito di 15 mila uomini; e si sarebbe mosso se avesse avuto al promessa da parte del sultano che sarebbe stato fatto re del paese. Ottenuto quanto voleva, scese in Albania e pose il campo a Oranico, come Mustafà pascià nel 1448. Di fronte, il 20 maggio, si schierarono 12 mila albanesi con uno Scanderbeg impaziente di farla finita e di vendicarsi di Berati. La legenda vuole che la battaglia sia cominciata con un certo turco di nome Ahmed che sfida a duello un campione albanese. Lo affronta Zaccaria Gropa, uno dei generali della Guardia e lo stende dopo un lungo combattimento strozzandolo letteralmente, dopo che le armi si erano spezzate. Poi Mosè di Dibra sfida Scanderbeg, ma fugge non appena lo vede presentarsi d'avanti in tutta la sua imponenza. Secondo Barleti a questo punto il morale dei turchi è a terra e gli albanesi hanno gioco facile a vincere una battaglia che "prende il sangue" di Berati. Diecimila turchi muoiono.

Mosè di Dibra riuscì a fuggire, ma non trovò più credito presso il sultano. Tornato al pari del evangelico figliol prodigo dal Castriota, questi lo perdonò e gli restituì il suoi titoli e la sua dignità. Scanderbeg fece di più. Giurò di condannare a morte e di uccidere con la sua mano chiunque avesse ricordato in sua presenza il tradimento del suo amico e compagno. La faccenda fu dimenticata da tutti tranne che da Hamza Castriota.

Nel 1456 nacque a Scanderbeg un figlio che fu chiamato Gjon (Giovanni), come il nonno. La gioia dell'evento non durò tanto, perché qualche giorno dopo Hamza Castriota fuggì ad Adrianopoli con al sua famiglia. Scanderbeg "pianse, accusando più la sua disavventura nei suoi più cari che la perfidia del nipote." (Biemmi). Anche in questo caso le cause le abbiamo già viste.

Nell'estate del 1457 Hamza entrò in Albania con 50 mila uomini al comando di Isac Daut pascià. Scanderbeg aveva 12 mila uomini pronti e 5 mila ne arrivarono dagli alleati, 200 dal Papa con una grande quantità di denaro. I turchi si accamparono ad Albulena, nella pianura di Mat, ai piedi del monte Tumenisht vicino a Kruja, sul quale, durante l'assedio della sua capitale, si era rifugiato il Castriota. Il principe, con i suoi 18 mila si allontanò senza provocare in alcun modo il nemico. Dopo alcune settimane che rimanevano accampati senza muoversi e stando all'erta seguendo gli avvisi di Hamza, i turchi cominciarono a pensare che Scanderbeg si fosse veramente rifugiato ad Alessio, abbandonando il suo principato nell'impossibilità di difenderlo. Credevano eccessivamente nelle capacità del rinnegato Castriota e pensavano che la sua strategia di non far scegliere a Scanderbeg il campo di battaglia (Albulena era molto ampia e permetteva grandi manovre avvolgenti favorendo la superiorità numerica), mentre Hamza pensava che suo zio stesse preparando davvero qualcosa di mai tentato. L'attesa snervante finì per stancare i turchi e i turni di guardia all'accampamento, le ronde e i pattugliamenti si fecero da un certo momento in poi meno attentamente.

Come al solito, l'esercito si poteva muovere o solamente insieme o in blocchi di grandi unità per evitare fatali imboscate. Il che evitava una capillare razzia dei villaggi intorno. Isac Daut pascià non si sognava nemmeno di muovere verso Kruja, avendo ben presente la sorte toccata al sultano. Tutti questi elementi, col passare delle settimane, portarono al crollo del morale della truppa e della loro fiducia in un comandante che si mostrava indeciso. Era una fortissima guerra psicologica. Chi abbassava la guardia un istante era spacciato.
Approfittando di un momento di disordine all'interno dell'accampamento turco, dovuto alla pensata del pascià di incoronare in nome del sultano Hamza re d'Albania, dopo aver occupato di notte il monte Tumenisht e gli altri monti intorno ad Albulena, Scanderbeg piombò sull'accampamento all'improvviso da punti diversi. Nessuno tentò di resistere e la rotta dell'esercito turco fu completa. Ventimila morti (gli albanesi avevano ancora vivo il ricordo di Berati), 1500 prigionieri, l'intero accampamento nelle mani degli attaccanti. Furono catturati un sangiac bey di nome Messid e Hamza stesso. Come Davide per Assalonne, Scanderbeg aveva ordinato che il traditore della famiglia fosse preso vivo. Il bottino fu immenso. I turchi che riuscirono a fuggire furono massacrati in numero ingente dai montanari mentre ne attraversavano le terre.

Hamza Castriota fu perdonato alla pari di Mosè di Dibra. Dovette però tentare di tornare di nascosto ad Adrianopoli e portare in salvo la sua famiglia che vi si trovava, ma qui trovò la morte avvelenato l'anno successivo alla battaglia di Albulena.
Il sultano accusò il colpo. Il problema albanese si faceva serio e Roma non si poteva prendere senza aver tolto di mezzo la spina nel fianco. Deciso a farla finita una volta per tutte, non pensò più a mandare spedizioni singole, ma di scendere con un esercito ingente come il padre. Mandò quindi degli ambasciatori che proposero al principe una tregua sulla base dell'uti possidetis con la chiara intenzione di romperla nel momento in cui avesse avuto un esercito talmente forte da non lasciargli dubbi sulla vittoria. Mentre il consiglio discuteva la proposta, giunse un inviato del Papa, Monsignor Giovanni Navarro, che rese ufficialmente noto al principe l'intenzione del Papa di porlo a capo di una crociata contro i turchi che stava per essere organizzata. La scelta era clamorosa, ma assolutamente realistica. Tranne Hunyadi, nessuno riusciva a gareggiare in abilità nella lotta con gli ottomani di Scanderbeg. Vista l'improvvisa morte del principe ungherese dopo la splendida vittoria alle porte di Belgrado, la scelta era obbligata. La notizia fece votare unanimemente il consiglio contro la proposta degli ambasciatori del sultano e la guerra continuò.

Non volendo lasciargli il tempo di prendere l'iniziativa, il sultano adottò la tattica opposta. Decise di fiaccare il più possibile gli albanesi con ripetute incursioni. Furono però fermate al confine nell'ordine Sinan pascià con 20 mila uomini, Hussein bey con 30 mila, Jussuf pascià con 18 mila, Karagià pascià con 40 mila. Tornando sulla decisione precedente, il sultano propose di nuovo la pace. Scanderbeg non ci pensava nemmeno di iniziare i negoziati senza che il sultano evacuasse Sfetigrad e Berati, ma questa volta dovette cambiare idea e firmare perché Ferrante di Napoli, il successore di Alfonso, aveva bisogno di lui in Italia per sconfiggere i baroni che in rivolta appoggiavano il pretendente angioino al trono. Così una pace fu firmata il 27 aprile 1461 sulla base dell'uti possidetis. Con la firma di questa pace si conclude la seconda parte della grande tragedia albanese, per rimanere fedeli a Fallmerayer.

III parte

Per spiegare ciò che spinse Scanderbeg a impegnarsi in Italia contro Giovanni d'Angiò non sembra sufficiente addurre a ragione i suoi doveri di fedeltà alla casa d'Aragona. Vi è un motivo più convincente ed è l'insistenza di Pio II Piccolomini, il grande umanista, il più generoso dei Papi con Scanderbeg. Alleato con i Sforza e con la casa d'Aragona, insistette perché il Castriota s'impegnasse in Italia e facesse volgere a favore di Ferdinando l'esito del conflitto. Non ultima tra le ragioni che sembrano aver spinto il Papa è la sua convinzione che gli Aragonesi si erano distinti per il loro impegno contro i turchi. Vista l'incostanza della Serenissima, era necessario che Napoli rimanesse saldamente opposta all'Islam anche a scapito degli interessi commerciali e la garanzia migliore era mantenere al trono partenopeo quella dinastia che stava definitivamente scacciando i mori dalla Spagna.

Con 5 mila cavalleggeri Scanderbeg mise puntualmente in fuga i pesanti e medievali eserciti angioini nelle Puglie dall'autunno del 1461 fino all'estate del 1462, quando sconfisse, comandando l'ala destra dell'esercito aragonese, i francesi a Ursara il 18 agosto. Come ricompensa ebbe da Ferdinando una pensione di 1200 ducati all'anno e in feudo le città di Trani, Gargano e San Giovanni Rotondo per lui e per i suoi eredi. Oltre alle solenni benedizioni ebbe dal Papa la promessa di incoronarlo re d'Albania, Macedonia e Rumelia, quando fossero stati vinti i turchi nell'imminente crociata.

Tornato in Albania era pieno di speranze, ma nel suo paese trovò l'ostilità dei nobili del consiglio di reggenza che nel frattempo aveva aiutato la moglie del principe a governare. Essi si opposero risolutamente alla rottura della pace col sultano. Erano decenni che il paese non assaporava dei momenti di pace e l'ultimo anno aveva segnato una crescita di benessere notevole. Scanderbeg non riuscì a convincerli della necessità di lottare per un ideale più alto, come poteva essere quello dettato dalla fede. Ebbe un grande aiuto in questo da Paolo Angelo, arcivescovo di Durazzo, che fece acutamente notare che nulla avrebbe impedito al sultano di gettare la maschera pacifista e rinnegare la pace, quando avesse avuto quello che voleva dalle lotte nel resto del suo impero. Che speranze avrebbe potuto avere la piccola Albania cattolica di mantenere una favorevole pace col Sultano, se Roma fosse caduta alla pari di Costantinopoli? Questo convinse parte dei nobili.

La fondatezza del ragionamento era chiara. L'Albania era libera perché era unita dopo secoli, ed era unita dopo secoli perché era di una unica fede. Non si poteva nemmeno pensare di salvare la propria libertà, non vi sarebbero state ragioni per farlo, senza salvare la propria identità. Per tremila anni le tribù illiriche si erano unite solo quando si era trattato di opporsi ad un nemico esterno e, nei momenti di pace, si erano combattute tra di loro. Quell'ultimo anno aveva dimostrato come la riscoperta delle proprie fondamenta nel cattolicesimo romano garantisse non solo l'unità nel rispetto delle differenze (formalmente i singoli principi erano sovrani sulle loro terre, anche se uniti in una Lega e il rito liturgico continuava, assicura Noli riprendendo l'Antivarino, ad essere bizantino in tutta l'Albania con le uniche eccezioni di Durazzo e Alessio), ma anche una forte motivazione per continuare la lotta, senza la quale il popolo si sarebbe demoralizzato. Sembra quasi che una sorta di spirito di martirio avesse pervaso tutti negli ultimi decenni. Erano le campane che annunciavano l'arrivo del turco e i preti e i monaci ad organizzare il ritiro della gente nelle cittadelle. Era non solo una lotta per la patria, ma anche una lotta per la fede; anzi, era una lotta per la patria perché era una lotta per la fede.

Così, il tentativo del sultano di mantenere la pace ebbe come risultato una risposta di Scanderbeg che lo invitava a farsi cristiano. Per "bruciare le sue navi" come Cortes, saccheggiò le terre del sultano portando via 140 mila capi di bestiame e 3 mila cavalli. In questo modo i suoi uomini erano ben motivati, dato che non si poteva più tornare indietro dopo aver suscitato l'ira di Mehmed.
Per difendere le terre di frontiera il sultano mandò Sheremet Bey con 14 mila cavalieri, ma Scanderbeg li fece cadere in trappola vicino al lago di Ocrida e vinse di nuovo.
Tornato a Kruja si preparava a recarsi a Durazzo e accogliere il Papa che veniva insieme all'esercito crociato da Ancona. Ci sarebbe dovuta essere una messa nella cattedrale in cui Paolo Angelo sarebbe stato fatto cardinale e Scanderbeg incoronato Re d'Albania e gli sarebbe stato conferito ufficialmente il comando della crociata. Ma il grande umanista Pio II Piccolomini morì prima d'imbarcarsi ad Ancona e l'esercito crociato si dissolse. L'Albania e Venezia rimasero le sole implicate in una guerra tremenda e impari contro i Turchi, visto che da essa non potevano ormai più esimersi.

La sfortuna sembrava non aver abbandonato i montanari dell'antico Epiro. Mehmed II mandò al comando di 18 mila uomini comandati da quello che è il più valido avversario di un albanese: un altro albanese. Ballaban pascià Badera era stato prelevato da piccolo nel villaggio Badera dei Castriota e cresciuto nei giannizzeri alla pari di Scanderbeg. Era diventato, alla pari del suo connazionale, un esperta tale in guerra da diventare pascià. Era stato uno dei primi soldati ad entrare a Costantinopoli nel 1453.

Nel 1465 fu comunque sconfitto a Valcalia, vicino al lago di Ocrida, ma fu talmente abile nel manovrare da riuscire a fare prigionieri otto capitani del principe, tra i quali Mosè di Dibra, che dopo il suo tradimento aveva combattuto al fianco del principe Castriota con un forza e una fedeltà tali da fargli meritare una stima maggiore di prima. Mandati a Costantinopoli, il Sultano tentò per 15 giorni di convincerli diventare mussulmani e, non riuscendoci, "con una crudeltà delle più detestabili comandò che tutti si scorticassero vivi ed a liste, affine di rendere più durabile il tormento; e non saziato dalla pena dei vivi, fece gittare i loro cadaveri divisi in pezzi ad esser divorati dai cani."(Biemmi). Nessuno cedette. Avevano lottato da prodi e morivano da martiri.

Ballaban pascià tornò nel luglio dello stesso anno con altri 18 mila uomini ed entrò dalla parte del lago di Ocrida. Scanderbeg aveva posto il campo più a nord,vicino ad Oranico. Comprando le spie del principe lungo la strada che separava i due eserciti, Ballaban pascià riuscì ad arrivare di notte molto vicino al campo albanese e sferrò un attacco improvviso pensando di trovare i montanari nel sonno. Sennonché, sapendo bene con chi avesse a che fare e non fidandosi molto del suo sistema informativo, Scanderbeg era ben sveglio girava con la scorta personale intorno all'accampamento dei suoi 12 mila.
Lasciando la fanteria schierata di fronte all'accampamento aveva nascosto sotto la sua guida i suoi cavalieri nei boschi attorno. Quando Ballaban scatenò la carica dei suoi contro la fanteria albanese alle prime luci dell'alba, Scanderbeg lo prese di fianco e lo distrusse. Ballaban pascià fuggì con la sua scorta e l'accampamento nemico finì ancora per intero nelle mani degli albanesi.

Ballaban non si arrese. Tornò per la terza volta alla fine di luglio con 20 mila uomini entrando da Sfetigrad. Accampò vicino a tale fortezza. Senza dargli tempo di stabilire una strategia, Scanderbeg lo circondò con quello che restava dei suoi uomini (purtroppo nessuno ci dice delle sue perdite e di quanti uomini gli rimanessero) e attaccò da più parti contemporaneamente, usando la sua tattica preferita. La battaglia fu molto cruenta e gli albanesi ebbero molte perdite, ma vinsero ancora e Ballaban pascià prese di nuovo la via della fuga per tornare per la quarta volta con 24 mila uomini da est, mentre un altro esercito di 16 mila marciava al comando di una latro rinnegato, Jakup Arnaut Bey, da Berati, nel Sud. Si pensava di attaccare da due direzioni diverse, come fecero gli austro-russi nel 1849 contro i rivoltosi ungheresi. Rimesso in piedi il suo esercito fisso di 12 mila con nuove reclute, Scanderbeg mosse contro Ballaban pascià e lo sconfisse improvvisamente a Valcalia, dove Ballaban non s'e l'aspettava e proprio dove stati catturati Mosè e gli altri. Nel frattempo Jakup Arnaut era penetrato all'interno e si trovava accampato vicino all'odierna Tirana, a Kashàr, dove gli piombo addosso Scanderbeg con i suoi 8 mila cavalieri reduci della battaglia di Valcalia (la fanteria era lenta ed era rimasta indietro) mandandolo in fuga. Nelle due battaglie i turchi avevano perso 26 mila uomini e per quell'anno le campagne militari erano finite.

L'Albania però era a dir poco esausta. Mancava tutto e si aspettava per l'anno successivo che scendesse Mehmed II stesso con 150 mila uomini che stavano raccogliendosi a Costantinopoli, dopo le vittorie in Serbia, Bosnia, Trebisonda, Morea, Romania. Scanderbeg non aveva molto da pensare e adottò la stessa tattica che aveva adottato contro Murad II. Lasciò a Kruja 4400 uomini al comando di Tanush Thopia (l'ultimo grande generale che gli era rimasto dopo la morte di quel grande buon vecchio che era stato il primo difensore della capitale dei Castriota, cioè Vrana Conti) e con i suoi ormai soliti 12 mila si accampò nelle montagne intorno. A metà giugno del 1466 il sultano circondò Kruja e per 6 mesi commise gli stessi errori del padre. A fine agosto levò le tende e lasciò Ballaban pascià a continuare l'assedio con 70 mila uomini. Sulla strada del ritorno assediò Modriç, a est, e ottenne dalla guarnigione la promessa di uscire in cambio della sua parola di lasciarli andare. Ottenuto il forte massacrò 28 mila tra uomini, donne, vecchi e bambini.

Ballaban, alla pari della tattica di Tito nell'assedio di Gerusalemme, costruì una serie di forti intorno alla capitale a del Castriota e tentò di prenderla per fame. Non avendo mezzi per continuare ancora la lotta, Scanderbeg si recò a Roma, dove, dopo essere stato accolto come un eroe da Paolo II (1464-1473), ebbe qualche aiuto. Tornato in Albania, ruppe l'assedio con una carica disperata conquistando uno dei forti costruiti dai turchi (Kranja) e, dopo aver sconfitto l'esercito che guidava Jonuz Ballaban Badera, figlio del rinnegato che veniva in soccorso del padre, aver ucciso il comandante e aver spedito la sua testa a Ballaban a Kruja, cogliendo di sorpresa gli assedianti in preda alla disperazione, diede battaglia con una sproporzione di 5 a 1 a suo sfavore. La scelta era stata dura da fare.
Il Consiglio di guerra era favorevole, Scanderbeg no, conscio del fatto che i turchi si trovavano nella situazione di omnia timentes qui nihil timent.

Quando fu interpellato Lek Dukagjini, il grande signore del Nord, egli "disse con audatia: Embetha, che in Albanesco uol dir adosso, perché non gli pareua douerse usare misericordia uerso infedeli nemici, ma quelli in pezzi tagliare" (Anonimo). Barleti dice che Lek che non attese le indicazioni di Scanderbeg, ma mosse subito a cavallo a guida dei suoi montanari. Gli altri seguirono e così il Castriota per ultimo. Venuto a conoscenza dell'arrivo degli albanesi, Ballaban pascià fece una ultima disperata carica contro Kruja, ma fu sconfitto e vi trovò la morte. I resti dei settantamila presi alle spalle da Scanderbeg fuggirono, buona parte si fece coraggio e si aprì un varco nella fila albanesi, ma molti furono massacrati dalle genti delle montagne nella strada di ritorno a casa.

L'anno successivo Mehmed II mosse con altri 150 mila, ma non verso Kruja. Puntò su Alessio, Scutari e Durazzo, per fiaccare Venezia e togliere al principe l'ultimo alleato. Non riuscì a prenderle, ma le isolò. Poi mosse verso Kruja, ma fu ancora sconfitto come l'anno precedente.

Dovendo ripulire il paese dalle guarnigioni turche, Scanderbeg passò l'inverno a cavallo a capo dei suoi. Assicurata di nuovo la pace per qualche mese, fino all'estate che avrebbe significato ritorno dei turchi, riunì il consiglio della Lega ad Alessio per stabilire strategia e aiuti. Qui però s'ammalò di febbri e prese il letto. Era ancora inverno, ma a sorpresa 15 mila turchi mossero verso Scutari attraversando i monti innevati e l'avrebbero presa, se la guardia del principe non si fosse tempestivamente diretta contro di loro. Si dice che guardando i suoi porporati e i suoi imponenti montanari della guardia, i turchi pensassero che lui fosse con loro e furono sconfitti. La notizia giunse a Scanderbeg, che questi era moribondo. Noli s'immagina il suo sguardo sul letto di morte che misura i nobili che ha attorno, suo figlio e sua moglie e pensa che nessuno sarà capace di succedergli. Forse affidò in cuor suo il paese alla Provvidenza e spirò il 17 gennaio 1468. Come l'Aiace di Sofocle, uscì di scena prima della fine della tragedia.

Fu seppellito ad Alessio. La guerra durò altri 11 anni e fini nel modo in cui doveva finire. La fede e il ricordo di Scanderbeg mantennero unito il popolo, ma i turchi erano troppo forti. Kruja cadde nel 1478. Mehmed II fece massacrare gli uomini e fece schiave le donne e i bambini, per vendicarsi delle umiliazioni subite. Le fu anche cambiato il nome in Ak Hissar (Il Castello Bianco). Nel 1479 Venezia fece la pace coi turchi, cui cedeva tutto l'Albania ad eccezione di Durazzo. Molti albanesi fuggirono in Italia e i loro discendenti sono ancora lì oggi, mantenendo la lingua, la fede e i riti. I successivi tentativi di Giovanni Castriota di riacquistare il principato paterno fallirono.

L'importanza per l'Europa della lotta del Castriota è dimostrata da quanto accade poi. Nel 1480 Ahmed Gedik pascià sbarcò in Italia e conquistò per ordine di Mehmed II Otranto, massacrandone la popolazione. Si preparava a marciare su Roma, non appena fossero arrivati i rinforzi alla sua testa di ponte. Il Papa pensava di fuggire, ma Mehmed II morì il 3 maggio 1481, prima di coronare il suo sogno. I suoi successori o non furono interessati a conquiste, o ebbero da fare in Asia talmente tanto che nessuno si occupò con un piano premeditato dell'occidente fino al Cinquecento, quando il dilagare turco nel Mediterraneo fu fermato a Lepanto e la marcia di Solimano a Vienna.

Fino a Solimano il Magnifico, quindi, nessuno s'impegnò in occidente. Quei 25 anni di lotta in Albania avevano provvidenzialmente ritardato Mehmed II, che voleva entrare nella storia come colui che aveva espugnato Costantinopoli e Roma, che aveva tagliato le due teste della cristianità. Comunque queste sono considerazioni che esorbitano dallo scopo di narrare le nude vicende di Scanderbeg da cui eravamo partiti.
Quindi, la tragedia finisce qui.

NEMO ENIM TANTUM IGNARUS RERUM QUI NON SUMMIS LAUDIBUS AD COELUM TE EXTOLLAT, ED DE TUA NOBILITATE TAMQUAM DE VERO ATHLETA ET PROPUGNATORE NOMINIS CHRISTIANI NON LOQUATUR.
Papa Callisto III, 11 settembre 1457, in una lettera a Scanderbeg.

Estensore del testo: TEODOR NASI

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Il 17 gennaio 2004, in occasione dell'anniversario della morte dell'eroe albanese Giorgio Castriota Scanderbeg, presso l'Ambasciata d'Albania di via Asmara a Roma è stato presentato il libro
"Scanderbeg, un eroe moderno" (Multimedial hero)
di Gennaro Francione
con prefazione di Alessandro e Giulio Castriota Scanderbeg d'Albania.

L'evento ha visto la partecipazione di esponenti del mondo della cultura, della politica, della magistratura, nonché di vari giornalisti ed editori. Hanno presenziato il prof. Pellumb Xhufi Ambasciatore della Repubblica d'Albania presso il Quirinale, e il prof. Zef Bushati, Ambasciatore della Repubblica d'Albania presso la Santa Sede, nonché l'editore Costanzo D'Agostino, il prefatore del libro, il principe Alessandro Castriota Scanderbeg (diretto discendente dell'eroe) e l'autore Gennaro Francione. Il giudice, raccogliendo il messaggio dell'ambasciatore, ha indicato nell'antico eroe un simbolo di fratellanza tra italiani e albanesi, mediato dalla cultura e dalla lingua delle nostre comunità arbereshe, nate da antiche comunità albanesi migrate soprattutto nel sud Italia.


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