Elezioni 2 Giugno 1946 - Quando a Napoli l’idea di repubblica divideva
( i tragici fatti che non trovate di sicuro nei vari libri, enciclopedie, nè alla Tv )



Morire per il re


di Orazio Ferrara


Il giovane che, oggigiorno, a Napoli si trovi a passeggiare per la spaziosa ed ariosa via Medina, probabilmente ignora che esattamente sessant’anni fa quella stessa strada fu tragico scenario per un’orrenda carneficina, passata alla storia appunto come la strage di via Medina. In quel triste episodio trovarono la morte molti giovani e giovanissimi, tutti di fede monarchica.

Certo oggi che l’idea di repubblica è largamente condivisa, quale patrimonio comune, dalla stragrande maggioranza degli italiani, può sembrare strano, addirittura inverosimile, che vi sia stato un tempo e un luogo, in cui l’idea di repubblica potesse non solo dividere, ma addirittura essere terreno di cieco scontro, tanto da provocare la fine violenta di tante giovani vite.

Eppure ci fu quel tempo e quel luogo.
Quel tempo fu il giugno del 1946, quel luogo la città di Napoli.

Tra il 2 giugno, giorno del referendum istituzionale tra monarchia e repubblica, e il 13 giugno 1946, giorno della partenza di re Umberto II di Savoia dall’Italia, il nostro paese fu seriamente sull’orlo dell’abisso di una nuova guerra civile. Le violente accuse, da parte dei monarchici nei confronti del governo, di brogli elettorali nel recente referendum, che aveva visto di stretta misura la vittoria della repubblica, accendevano oltremodo gli animi.

La situazione era particolarmente critica, se non pre-insurrezionale, a Napoli, per tutta una serie di ragioni. La città si era espressa, per più dell’80%, in favore della monarchia. E ciò non tanto per amore verso i Savoia, che d’altronde avevano regalato al Sud una mala-unità e recentemente i non troppo edificanti episodi della fuga di Pescara e dell’8 settembre, ma per quell’antico inestricabile coacervo, difficile da spiegare razionalmente, di sentimenti e nostalgie monarchiche, coacervo che affondava le sue radici nel tempo di Napoli capitale, dei Borbone e, prima ancora, delle grandi dinastie dell’Italia meridionale.
Questa tesi, a mio parere non peregrina e che forse scandalizzerà più di un monarchico filo-sabaudo, potrebbe rappresentare la giusta chiave di lettura anche per quel fenomeno ancora del tutto misconosciuto, ma assai interessante dal punto di vista politico, del Laurismo.

Comunque per controllare, in qualche modo, la situazione napoletana il governo italiano e per esso il ministro dell’interno, il socialista Giuseppe Romita, non aveva trovato niente di meglio che militarizzare la città, facendovi affluire numerosi reparti di polizia ausiliaria, la famigerata Celere.

Questi reparti, alle dirette dipendenze dello stesso ministro, erano formati prevalentemente da ex partigiani comunisti del nord. Da qui l’appellativo di guardie rosse di Romita. Essi ci andarono sempre con la mano pesante nei confronti della popolazione, considerata alla stregua di un nemico ideologico.

Da allora può datarsi quel diffuso sentimento anticomunista, soprattutto negli strati più popolari, che contribuì a rendere la città di Napoli una roccaforte della destra almeno fino a tutta la metà degli anni Sessanta. Poi solo l’insipienza di certi quadri della destra regalerà in seguito la città alla sinistra.

Quando tornerà la ragione, dopo quei drammatici giorni di giugno di sessant’anni fa, a Napoli si conteranno ben 11 giovani vite spezzate, tutte del campo monarchico, nonché decine e decine di feriti, alcuni anche gravi, in ambedue i contrapposti schieramenti. Una mattanza inutile, che per molti versi si poteva evitare. Non vollero evitarla la stolidità di certi capi monarchici, che usarono i dimostranti come massa di manovra senza avere mai una chiara visione strategica degli avvenimenti in corso. Essi spinsero a fondo sull’acceleratore della protesta, per poi lasciarla subito dopo senza guida.

Perché Umberto di Savoia non andò a Napoli, dove si moriva in suo nome? Per evitare la guerra civile, hanno scritto successivamente gli storici e forse hanno ragione. Ma a Napoli, in quei giorni, era già guerra civile.
Non vollero evitarla quella mattanza nemmeno gli americani, che pur avevano in quel periodo ancora cospicue forze d’occupazione in città.
La loro efficiente polizia militare intervenne solo dopo che a via Medina era avvenuta la strage. E sembrò un intervento fatto più per salvare, dalla reazione della folla esasperata, i militanti comunisti asserragliati sulla federazione che a garantire l’ordine pubblico.
Tra i fermati (o salvaguardati?) il sottosegretario alla presidenza, Giorgio Amendola, subito rilasciato per il pronto, autorevole intervento della Questura.

Infine non vollero evitarla certi settori del governo e del PCI, che messi sotto scacco dall’accusa di brogli elettorali ed ormai in evidente difficoltà, cercarono a tutti costi di creare un clima di terrorismo psicologico. Non per niente qualcuno (Nenni) aveva coniato lo slogan “o la repubblica o il caos”.
Così si faceva presa sulla “cavalleresca” debolezza di Umberto di Savoia, costringendolo, “per evitare ulteriori spargimenti di sangue”, a lasciare. Come infatti avvenne.

Ma andiamo alla cronaca di quei drammatici giorni.

Si comincia la sera del 6 giugno 1946 quando un uomo, che non verrà mai identificato, lancia una bomba a mano, nei pressi della chiesa di Sant’Antonio a Capodimonte, contro un folto gruppo di giovani, che torna da una dimostrazione monarchica. Sono ferite otto persone, di cui una in modo gravissimo. Si tratta di Ciro Martino, che morirà agli Incurabili quella stessa notte.

Sempre in quella notte, al mitico civico 311 di Corso Umberto I si costituisce il Movimento Monarchico del Mezzogiorno (uno dei nuclei fondatori del futuro Partito Nazionale Monarchico, il P.N.M.) e si adotta il famoso simbolismo della “Stella e Corona”.

La mattina del 7 giugno, rapida si diffonde in città la notizia dell’arrivo di Umberto II. Il re ha deciso di battersi per il suo buon diritto e ha scelto Napoli quale suo quartier generale. E’ un’irrefrenabile esplosione di gioia, tutti i napoletani monarchici sono in piazza. Bisogna accogliere degnamente il re. Ma dove si trova? Non c’è dubbio, o a Palazzo Reale o a San Giacomo.
Si forma un imponente corteo che, alle note della “Marcia Reale” suonata da un’improvvisata banda musicale, avanza lungo il Rettifilo e che si ricongiunge con il grosso concentramento degli studenti universitari, che aspettano presso la Federico II. A piazza Nicola Amore l’intoppo. Un grosso, impenetrabile sbarramento di camionette dei celerini di Romita.

Alla testa del corteo, che nel frattempo si è fermato titubante, un giovane scugnizzo di 14 anni, tale Carlo Russo, che si è completamente avvolto in un grande tricolore con lo stemma sabaudo. Non è armato Carlo Russo, se non di quella bandiera. Ed è deciso a passare, malgrado i celerini. Per questo avanza deciso. La tensione è al massimo. Poi i mitra dei celerini crepitano ad altezza d’uomo. Si contano molti feriti. Uno dei primi a cadere è proprio Carlo Russo, che, con la fronte squarciata, si accascia sempre avvolto in quel tricolore che sta per diventare ora il suo sudario. Solo il deciso intervento dei Reali Carabinieri permetterà poi ai celerini di sfuggire al linciaggio della folla inferocita. Intanto Carlo morirà, dopo un’atroce agonia, due giorni dopo.

Lo sbarramento poliziesco a piazza Nicola Amore è stato travolto. Ma a quale prezzo. C’è rabbia e dolore nei manifestanti. Si chiede del re. Ma il re non c’è. Era falsa la voce di una sua venuta in Napoli. Egli è rimasto a Roma, impigliato nella ragnatela dei “buoni consigli” di infidi cortigiani, che in cuor loro lo hanno già tradito.

Ma non è finita. L’8 giugno è la volta dello studente Gaetano D’Alessandro, di anni 16. Il giovane sta tornando a casa dopo una manifestazione monarchica di protesta per le violenze del giorno prima. Per questo reca a spalla un’enorme bandiera tricolore con lo stemma sabaudo. Nelle adiacenze di piazza dei Vergini, egli viene fermato da una camionetta di celerini, che gli intimano provocatoriamente di consegnare il tricolore. Con l’agilità propria della sua età il ragazzo sfugge ai poliziotti e si arrampica sul cancello di una vicina chiesa, sventolando la bandiera e gridando a squarciagola “viva il re”.

Accorre numeroso il popolo, che subito circonda minaccioso la camionetta. E’ giocoforza per i celerini abbandonare, scornati, il campo sotto un subisso di fischi e pernacchi da parte di una schiera di giovanissimi scugnizzi.
Ma un celerino, rabbioso, si prende la sua vendetta. Con fredda determinazione, che sa tanto di vera e propria esecuzione, con una sventagliata di mitra colpisce a morte l’impavido D’Alessandro ancora issato sul cancello. Nel cadere, il suo corpo si avviluppa in quel tricolore che aveva difeso a sì caro prezzo. Adesso anch’egli ha una bandiera per sudario.

E veniamo alla tragica giornata dell’11 giugno 1946.

Giornata di passione e di sangue. Al balcone della Federazione del Partito Comunista di via Medina, accanto alla consueta bandiera rossa con falce e martello, viene esposta una bandiera tricolore con l’effigie di una testa di donna turrita nel campo bianco al posto del solito stemma sabaudo. Per una città come Napoli, che come già accennato ha votato per l’80% monarchia, è una vera e propria provocazione. Potenza del simbolismo quando divampano le passioni politiche!
Fulminea si sparge la notizia per la città e a migliaia, spontaneamente, si dirigono verso via Medina. La stragrande maggioranza sono giovani e giovanissimi. Molti di loro hanno partecipato con coraggio, solo qualche anno addietro, alle quattro giornate di Napoli contro l’occupazione tedesca. E qualcuno ha le stesse armi di allora. Pietre, solo pietre.

Non c’è un piano preordinato in quella massa, che avanza a mani nude. In qualche modo si strapperà e si distruggerà quell’infame vessillo e poi si tornerà a casa. Questo è l’unico, vero obiettivo di tutti quei ragazzi che nereggiano alla testa del corteo. Sono tutti un pò scanzonati come solo i ragazzi di Napoli sanno esserlo quando c’è baldoria, foss’anche un corteo politico di protesta.
Ma dall’altra parte c’è qualcuno che ha deciso di farla finita una volta per sempre e di soffocare nel sangue quell’ennesima protesta popolare. E’ un piano preordinato? Non sappiamo. Una cosa è certa, in via Medina adesso, oltre le camionette, vi sono decine di autoblinde e i reparti della Celere sono in assetto di guerra. La stessa federazione comunista pullula di miliziani armati.

Intanto i primi gruppi di dimostranti, giunti in via Medina, cominciano col rovesciare i tram per rendere difficoltosi i micidiali caroselli degli automezzi della Celere. Salve di fischi, urla, improperi all’indirizzo di quella bandiera esposta. Poi un giovane marinaio di leva, Mario Fioretti, aggrappandosi ai tubi e alle sporgenze inizia a scalare il palazzo della federazione per arrivare al 2° piano e strappare quella bandiera. Con un’agilità insospettata, in men che non si dica è quasi giunto al drappo incriminato. Basterà stendere la mano ed impadronirsene e tutto sarà finito.

Tutti guardano con il fiato sospeso lassù, al secondo piano. Così tutti vedono, e le testimonianze a decine saranno concordi, uscire da una finestra della federazione un braccio armato di pistola, che a bruciapelo spara sul giovane marinaio. Mario Fioretti perde la presa, l'equilibrio e stramazza morto sul selciato, mentre dalla folla si levano urla di raccapriccio e di rabbia.

Ma non è finita. Altri giovani, per nulla impauriti dall’orrenda fine del loro coetaneo, iniziano anch’essi la scalata verso quel secondo piano. Intanto che un gruppo di dimostranti è salito sul balcone del primo piano dello stesso stabile e da lì, duramente contrastato da un nugolo di celerini, cerca di guadagnare le scale interne per salire al piano superiore. La situazione è ad un punto assai critico, tra poco quei giovani irruenti avranno la meglio. Ma ecco che dalla caserma di polizia, posta quasi di fronte al palazzo della federazione comunista, s’inizia a sparare contro quelli che sono quasi arrivati alla bandiera.

Probabilmente quei poliziotti, che sparano, sono dei tiratori scelti. Ed essi sparano per uccidere. Cadono uno dopo l’altro e si sfracellano al suolo: Michele Pappalardo, Felice Chirico e Guido Beninati. Michele Pappalardo doveva sposarsi il giorno dopo e invece è andato a sposarsi con la morte. Quella mattina, come testimonierà la sorella Maria, Michele aveva detto alla madre: “Mammà piglio ‘a bandiera e po’ torno…” Ed anche per Michele Pappalardo una bandiera tricolore diventa il suo sudario.

A via Medina è ora l’inferno. Decine sono i feriti per armi da fuoco. Muore in un lago di sangue, sempre colpito da proiettili, l’operaio di fede monarchica Francesco D’Azzo. Frattanto le autoblinde della Celere hanno avuto finalmente ragione delle rudimentali barricate, alzate dai dimostranti, e stanno per avventarsi con i loro terribili caroselli, quando la studentessa Ida Cavalieri fa barriera col proprio corpo inerme nel disperato tentativo di fermarne la folle corsa. Ma l’ordine per le autoblinde è disperdere la folla, costi quel che costi. A Napoli, quel giorno, la vita umana veramente non ha valore. Così Ida Cavalieri viene investita e letteralmente stritolata dagli automezzi blindati.

Vincenzo Guida cerca di organizzare un centro di resistenza, innalzando e sventolando una grande bandiera sabauda su di un palo. Viene colpito mortalmente alla nuca da un colpo di un moschetto, sparato da un celerino. Anch’egli è della Regia Marina, il più monarchico dei corpi delle forze armate italiane, che, in quelle tragiche ore, sta pagando il più pesante tributo di sangue.

Quando la strage è compiuta e le autoblinde slittano sul sangue, arriva la Polizia Militare americana che, unitamente ai Reali Carabinieri, in qualche modo riesce a sottrarre i celerini e i miliziani alla ormai esasperata collera popolare.
Alla fine della tremenda giornata campale, si conteranno, solo tra i manifestanti, oltre i morti circa 50 feriti gravi. Tra quest’ultimi, tutti colpiti da armi da fuoco, Gerardo Bianchi di anni 15, Alberto De Rosa di anni 17, Gianni Di Stasio di anni 14, Antonio Mariano di anni 12, Raffaele Palmisano di anni 10, Giovanni Vibrano di anni 11 e Tino Zelata di anni 8. Per gli altri feriti l’età media si aggira sui 20-30 anni.

Orazio Ferrara


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