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CRONOLOGIA

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PLATONE
Idee, Cose, l'Uomo

testi di Diego Fusaro


Come appena detto nel precedente capitolo, il "Parmenide" affronta due tematiche: l'uno-molti, che viene discusso a livello astratto, e idee-cose.
Cosa significa in concreto che molte cose partecipano a un'idea sola ? Platone avanza diverse ipotesi e le respinge un pò tutte: per esempio ipotizza che il rapporto di partecipazione sia di presenza: un'unica idea sarebbe quindi presente in più cose, ma sarebbe molteplice e non più unità del molteplice: infatti ce ne sarebbero tantissime. Vi è poi la famosa argomentazione del "terzo uomo", nella quale si evidenzia la difficoltà nel rapporto idee-cose: Parmenide, dopo che Socrate ha esposto la dottrina delle idee, afferma che l'idea è quindi ciò che unifica molte cose, che il ragionamento è che tante cose insieme presentano una cosa in comune: gli uomini hanno una cosa in comune: l'idea di uomo. Ma l'idea di uomo, che rappresenta l'unità, dovrà per forza avere qualcosa in comune con gli uomini: gli uomini sensibili si assomigliano perchè imitano l'idea di uomo; ma un rapporto di somiglianza non c'è solo tra gli uomini sensibili, ma anche con l'idea di uomo: se ci sono gli uomini e l'idea di uomo e sono tra loro simili, ci deve essere per forza essere qualcosa di comune all'idea di uomo e agli uomini che li rende simili, che li accomuna: ci deve essere un terzo uomo; questa argomentazione può andare avanti all'infinito perchè ci dovrà sempre essere qualcosa in comune.

Vi è chiaramente una contraddizione nella dottrina delle idee, che era servita per semplificare la realtà ma che la complica ammettendo la molteplicità: gli enti invece di ridursi si moltiplicano all'infinito. Vi è poi una terza argomentazione: Parmenide chiede a Socrate di che cosa ammette che ci siano le idee e lui risponde citando le cose astratte quali la giustizia, la bellezza, gli enti matematici. Dice di non essere certo che esistano idee degli oggetti sensibili veri e propri: l'idea di albero, di cavallo, di cane. Platone era ricorso a queste idee: per spiegare l'attività di un artigiano aveva perfino ammesso che le idee potessero essere create dall'uomo: Platone si era occupato del problema delle tecniche e aveva ammesso che ci fossero delle tecniche di produzione e delle tecniche di uso; chi costruisce le briglie per i cavalli mette in atto la tecnica di produzione, il cavaliere che cavalca quella di uso. Il cavaliere deve sapere come le briglie devono essere usate, come funzionano, come devono essere: dà le indicazioni all'artigiano che le fa come vuole il cavaliere. Chi applica la tecnica di uso crea un'idea che l'artigiano deve imitare: egli guarda ad un'idea creata da chi mette in pratica la tecnica d'uso.

Platone sembra ipotizzare la produzione delle idee: l'idea di tavolo, per esempio, è una sorta di idea che gli uomini si fanno. Chiaramente in una ipotetica scala gerarchica chi usa è più in alto di chi produce. Socrate dice che certamente non esistono le idee delle cose spregevoli ed insignificanti: ad esempio, il fango ed il capello che corrispettivo possono avere nel mondo delle idee, dice Socrate. Ma Parmenide gli dice di pensarci bene e forse un giorno capirà. Socrate stava evidentemente pensando alla valenza assiologica: l'idea è il punto cui le cose sensibili devono mirare, è il meglio verso cui tendere. Come si può tendere all'idea di fango ? Però Parmenide, ontologo per eccellenza, dice che se l'idea deve essere l'essenza di ogni cosa, anche il fango dovrà avere una sua idea. Parmenide fa qui notare che nel concetto di idea la valenza ontologica contrasta con quella assiologica, cosa che peraltro Platone sapeva benissimo: proprio per questo possiamo leggere il dibattito Parmenide-Socrate come uno scontro tra il Platone ontologico e quello assiologico. In effetti se pensiamo al piano assiologico pare impossibile che esistano idee di cose spregevoli: se però consideriamo quello ontologico, così come un cavallo esiste nella misura in cui compartecipa all'idea di cavallo, anche il fango o la sporcizia esistono nella misura in cui imitano l'idea di fango e di sporcizia. Parmenide poi mette definitivamente a tacere Socrate con un'ultima obiezione: comunque venga concepita, l'ipotesi della compartecipazione pare in contrasto con l'assunto della separazione delle idee; in effetti se le idee rimangono davvero separate dal mondo sensibile, esse saranno in relazione tra loro soltanto ma non con il mondo sensibile degli uomini, come d'altronde anche le cose empiriche si porranno le une in rapporto alle altre senza alcun genere di contatto con le idee. Pertanto se vi è questa separazione nettissima che Platone (qui Socrate) aveva sempre predicato tra mondo sensibile e mondo intellegibile, nessuna partecipazione tra idee e mondo sensibile sarà ammessa e così neppure nessuna conoscenza delle idee per noi uomini sarà possibile.

Questa difficoltà è indicata da Parmenide come "la più grande di tutte" ("megiston dè tòde"): le idee devono per forza rimanere in sè e per sè, radicalmente separate dal mondo sensibile, perchè la separazione ne preserva l'assoluta superiorità ontologica, stabilendo un'incolmabile discontinuità rispetto alle cose empiriche. Va notato che Platone, in ogni suo dialogo, prende spunto un pò da tutti gli altri filosofi e Parmenide non fa eccezione: l'idea platonica è unità e stabilità proprio come l'essere parmenideo. L'istanza etica di Socrate vuole idee solo positive e guarda alla assiologia, mentre Parmenide è interessato all'essere, al piano ontologico: d'altronde è risaputo che Socrate fosse un antropologo, una persona che si interessava ai valori. Platone si rende conto che è Parmenide ad avere ragione e non Socrate. Nel dialogo Parmenide discute sul rapporto tra l'uno ed i molti: è una discussione a tal punto tecnica e complessa che si è arrivati a pensare che si tratti di una parodia, una presa in giro da parte di Platone di alcune scuole. Comunque Platone mette in discussione la dottrina delle idee anche nell' " Eutidemo ", dove viene tirato in ballo un quesito piuttosto strano: se una cosa stando vicino all'idea di bellezza diventa bella, Socrate stando vicino a Platone diventa Platone ?
Tornando al "Parmenide", in esso comincia a trasparire una nuova accezione della parola "dialettica", tipica di Socrate e di Platone: originariamente designava il dialogo socratico, poi è passata a designare la tecnica argomentativa di Platone ed è anche divenuta sinonimo di "filosofia"; nel Parmenide" il significato si sposta da un certo modo di affrontare la conoscenza al rapporto tra le idee: non esiste solo un dialogo-scontro tra gli uomini (quello che dava vita alla fiamma) che aumenta la conoscenza, ma anche tra le idee: lo "scontro" si sposta dal soggetto della conoscenza all'oggetto. Il concetto dell'uno ed i molti si richiamano a vicenda: non si può conoscere pienamente il concetto di uno se non si conosce il concetto di molti e viceversa. Un modo per sintetizzare la filosofia di Parmenide può essere l'affermazione "l'uno è", la negazione della molteplicità ; Platone dice che quando si predica il concetta di uno lo si moltiplica: se non si predicasse affatto sarebbe davvero uno, ma se ne parlo non è già più uno, è già due: gli si aggiunge il concetto di essere. "L'uno è l'essere": affermo il molteplice perchè lo predico: nego e affermo nello stesso tempo. Le idee non sono una accanto all'altra, ma se le accosto dialogano e si scontrano. Questo è il nuovo significato di dialettica, che non designa più solo un metodo di indagine: diventa anche la struttura della realtà. Di conseguenza la dialettica è lo strumento migliore di ricerca della realtà perchè essa stessa è la realtà: c'è uno stretto rapporto tra la realtà soggettiva e quella oggettiva. Questo concetto viene trattato nel "Sofista" ancora di più che nel "Parmenide".

Un altro problema, molto astratto e legato alla possibilità di ragionare, che Platone affronta in età avanzata (e anche in gioventù) ed in diversi dialoghi è quello riguardante il vero e il falso, in parallelo con l'essere ed il non essere: si torna a problematiche parmenidee e viene messa da parte la figura di Socrate. La possibilità di poter distinguere il vero dal falso è legata al poter commettere errori ed il tema viene affrontato nel "Sofista" ; già dal titolo dell'opera si può intuire la solita critica platonica dei sofisti, già avanzata in gioventù: qui però è trattata con sfumature più ontologiche. Che cosa c'entrano i sofisti con il vero-falso e l'errore ? Si può sbagliare solo quando si può porre una differenza tra vero e falso: Gorgia e Protagora, i due maggiori esponenti sofisti, erano rispettivamente del parere che tutto fosse falso ( Gorgia ) e che tutto fosse vero ( Protagora ): per entrambe non vi è la distinzione tra vero e falso: o ce n'è uno o l'altro, si basano sul fatto di non poter distinguere il vero dal falso. Per Parmenide dire il falso vuol dire ammettere il non essere, le cose come non sono (il che è impossibile); per Parmenide si dice e si pensa solo ciò che, ciò che esiste. Questo spiega come un dialogo tutto incentrato sulla filosofia eleatica si leghi al sofismo: le tesi eleatiche e quelle sofiste mirano ad affermare che l'errore sia impossibile, che non ci sia la distinzione tra vero e falso. Sono posizioni differenti che portano alle stesse conclusioni, sebbene in modi diversi. Il "Cratilo" ed il "Teeteto" sono dialoghi dove si cerca di contestare la possibilità di non errare: se non esiste la possibilità di sbagliare tutti i discorsi saranno o veri o falsi; se tutto è vero o falso e non c'è la via di mezzo viene a perdere di significato perchè una cosa è sensata quando contiene un pò di verità, ma anche un pò di falsità, quando si trova in una via di mezzo (ancora una volta Platone assume posizioni intermedie); se non si ammette l'errore non si può ammettere la verità, che è ciò che non è sbagliato.

Il "Cratilo" prende il nome da un seguace di Eraclito, che però aveva radicalizzato le posizioni del maestro e si era molto soffermato sul "panta rei" (tutto scorre): a suo avviso è impossibile dare i nomi alle cose perchè cambiano di continuo: noi chiamiamo Pò un fiume ma non è corretto: non esiste qualcosa che si chiami Pò perchè cambia in continuo (è un esempio evidente perchè le acque si rinnovano in continuazione); si fissa artificialmente una cosa che non è fissabile perchè in continua mutazione. Cratilo con il "panta rei" arriva a dimostrazioni sofistiche: è impossibile conoscere qualcosa che cambia sempre. Quindi in teoria, dal momento che non si possono attribuire nomi, bisognerebbe solo indicare le cose. Secondo alcuni studiosi Platone stesso sarebbe stato allievo di Cratilo, il che può sembrare strano se consideriamo la dottrina delle idee, in cui viene ammesso un essere fisso, stabile e permanente. Pensandoci bene, però, non è poi così strano: Platone deve aver constatato che nel mondo sensibile non c'è nulla di stabile ed è ricorso alle idee. Platone nel "Cratilo" effettua un'ampia discussione sulla problematica della lingua. Al tempo dei sofisti vi erano state interessanti considerazioni a riguardo, legate al binomio "nomos"-"fusis" (convenzione-natura); questo della lingua è un problema tipicamente antropologico e di materia sofistica. Alcuni sofisti erano del parere che si attribuiscano i nomi in maniera spontanea, secondo natura ("katà fusin"), come se la natura stessa ci suggerisse la nomenclatura di cui servirsi nei suoi confronti.

Altri la pensavano in modo opposto: gli uomini attribuiscono i nomi in maniera assolutamente artificiale, secondo convenzione ("katà vomon"). Questa diatriba è in corso ancora al giorno nostro; Platone, dal canto suo, sostenne che attribuiamo i nomi un pò "katà fusin" e un pò "katà nomon". Nella tradizione ebraico-cristiana vi è il mito della torre di Babele; la lingua di Adamo (l'ebraico) sarebbe stata naturale ed i nomi corrispondevano esattamente all'essenza delle cose e proprio con i nomi si poteva cogliere l'essenza delle cose. Nella torre di Babele i linguaggi successivi sarebbero stati convenzionali e non vi era più piena corrispondenza tra i nomi e le cose. Platone è dunque del parere che la soluzione sia intermedia e noi moderni concordiamo con lui: vi è una mescolanza dei fenomeni. Esiste sì una derivazione naturale dei nomi: sono le cose stesse che suggeriscono i nomi da usare, ma le lingue parlate sono molteplici: una componente di arbitrareità ci deve per forza essere. Quindi le cose tendono a suggerire il nome con cui chiamarle ma dopo di che l'uomo ci lavora sopra correggendo il tutto con la ragione: ancora oggi, comunque, ci sono parole onomatopeiche, che suggeriscono l'essenza del soggetto cui sono riferite ("zanzara", "cornacchia". ). Si tratta di una teoria intermedia che mette insieme il lavoro razionale a quello naturale.

Ma cosa c'entra tutto questo nell'ambito del "Cratilo" e della discussione del vero-falso ? Più di quello che potrebbe sembrare: per Platone entrambe le possibilità per denominare le cose negano la possibilità dell'errore: le parole corrispondono esattamente alle cose; o sono totalmente artificiali o totalmente naturali: si arriva alla stessa conclusione. Se mi attengo alla teoria "katà fusin" un libro mi suggerisce la parola con cui chiamarlo ed è solo quella: non c'è possibilità di errore. Se mi attengo al "katà nomon" i nomi sono totalmente artificiali e quindi vanno bene tutti: lo posso chiamare libro, ma anche tavolo, scarpa. sarà in ogni caso corretto e anche qui non c'è possibilità di sbagliare: infatti in assenza di un arbitrio generale tutti i nomi risultano corretti. Il far corrispondere al meglio (con un misto di lavoro naturale e artificiale) il nome all'essenza delle cose consente di affermare che l'errore esiste e che la retorica (quella vera è ) è la filosofia.

Platone sposta poi il problema dalle cose alle idee: così come si possono dare nomi alle cose che si conoscono, si possono dare nomi alle idee che si conoscono: c'è una dimensione conoscitiva e vi è uno sforzo di attribuire nomi che esprimano l'essenza di ciò a cui si riferiscono. Il "Teeteto" è un dialogo dedicato alla matematica: il protagonista, Teeteto, è un giovane matematico che in futuro diventerà famoso. E' anche dedicato alla conoscenza sensibile e a quella intellegibile, che è quella vera e propria. Quando si parla della conoscenza sensibile viene citato Protagora, che sosteneva che le cose sono come mi sembrano e che l'uomo è misura di ogni cosa: si tratta del relativismo assoluto.
Platone è interessato a ciò perchè siamo di fronte al rapporto tra vero e falso. Per poter ragionare, come detto, occorre ammattere l'esistenza del vero e del falso. A supportare le tesi di Platone è un suo allievo, Aristotele; egli dice che con i sofisti non si può neppure discutere perchè, dal momento che sostengono che tutto sia vero o che tutto sia falso, nel momento in cui un sofista discute smonta le sue stesse tesi perchè in un certo senso ammette la distinzione tra vero e falso, la possibilità dell'errore: se infatti ci fosse solo il vero o il falso che motivo ci sarebbe di discutere ?

C'è anche chi vuole che il "Parmenide" sia in realtà una confutazione da parte di Aristotele delle teorie del maestro Platone: dunque Socrate rappresenterebbe Platone, mentre Parmenide Aristotele. In effetti ci sono numerosi indizi a sostegno di questa tesi: la stessa argomentazione del terzo uomo la ritroviamo in testi di Aristotele ed è quindi probabile che sia sua a tutti gli effetti. D'altronde Aristotele non condivise mai pienamente le teorie del maestro e se rimase nell'Accademia fino a oltre trent'anni fu solo per il rispetto che aveva nei confronti di Platone. Nel "Sofista" Socrate compare come interlocutore secondario in quanto il vero protagonista è lo "straniero di Elea", una figura misteriosa, che non possiamo far coincidere nè con Parmenide nè con Zenone, e che alla fine dovrà effettuare il "parricidio" di Parmenide: arriverà cioè a rivedere le tesi dell'ontologo Parmenide e ad ammettere il non essere. Perchè se il protagonista è un eleatico il dialogo si chiama il "Sofista" ? Evidentemente perchè sia gli eleatici sia i sofisti miravano a negare l'esistenza del non essere: per i sofisti ammettere il non essere è ammettere il falso, per gli eleatici (ed in particolare per Parmenide ) ammettere il non essere significa ammettere un' altra entità: per loro solo l'essere è e solo l'essere può essere detto. In linea di principio il tema principale del dialogo dovrebbe essere la ricerca di che cos'è il sofista tramite la ricerca di una definizione (è un processo che molto ricorda quello effettuato da Socrate).

In realtà per arrivare alla conclusione si fa un giro molto lungo dove si trattano numerosi temi, il più importante dei quali è l'essere (ricordiamoci che "lo straniero" è un eleatico). Che cos'è l'essere ? Lo straniero (quindi Platone) pone due possibili alternative di interpretazione effettuate da due diversi gruppi di persone: lo scontro tra i due gruppi viene paragonato al conflitto tra i Titani e gli Dei. Gli uni vivevano sulla terra e rappresentavano la forza terrena e materiale, gli altri in cielo. I due gruppi che si scontrano nel "Sofista" sono i materialisti (paragonati ai Titani )che sostengono che l'essere è solo quello materiale e gli idealisti (paragonati agli Dei)che affermano che il vero essere sia quello ideale (Platone li chiama "amici delle idee"). Chiaramente Platone fa riferimento alle teorie di Democrito, materialista per eccellenza: egli fu il primo a depurare la materia da concezioni vitalistiche e "ilozoistiche". Platone in qualità di filosofo idealista vede in Democrito un acerrimo nemico e la sua netta contrapposizione tra mondo sensibile e mondo intellegibile è un modo per dare contro all'avversario: è chiaro che se Platone fosse vissuto prima di Democrito non avrebbe formulato tutte le teorie che ci sono pervenute. I filosofi sono grandi o quando rompono decisamente con la filosofia a loro precedente o quando operano grandi sintesi dei loro "antenati" per creare un qualcosa di nuovo: è proprio questo il caso di Platone nella cui filosofia troviamo tutti i filosofi precedenti: Socrate, i sofisti, i pitagorici, Parmenide, Eraclito (questi ultimi due hanno addirittura concezioni antitetiche: il primo è il filosofo dell'essere, l'altro del divenire: per Platone le idee sono l'essere pieno mentre le realtà empiriche sono il divenire). Un grande filosofo si serve anche di chi dice cose opposte alle sue: è il caso dei sofisti che si inseriscono in modo "dialettico" nella filosofia platonica ; basti pensare alla questione della seconda navigazione (che Platone effettua perchè non può accetare la ricerca delle cause materiali) o alla reminescenza (che Platone tira in ballo partendo dalle affermazioni sofiste secondo le quali è impossibile imparare).

Già solo leggendo i titoli delle opere platoniche ci si accorge di come ci sia tutta la filosofia dell'epoca. Tra i personaggi che Platone cita, quello che viene sempre meno ricordato è Democrito, il cui nome di fatto non compare mai; Platone probabilmente lo conosceva benissimo e lo considerava il suo nemico naturale e l'espressione che compare nel dialogo platonico "l'essere non è nient'altro che il corpo" è senz'altro di Democrito, il materialista più convinto. Come detto, Platone contrappone gli idealisti ai materialisti: entrambe hanno torto, come dirà lo straniero, ma i materialisti sono un caso disperato ed irrecuperabile: sono teste dure con cui è impossibile il dialogo e quindi Platone dice che supporrà un dialogo fittizio con loro (immaginandosi materialisti più aperti e meglio disposti) perchè di fatto sarebbe impossibile parlare con gente così cocciuta e rigida, rigida proprio come ciò che sostengono, quasi come se la loro testa fosse piena di quella materia che vedevano ovunque: cercano di portare tutto sulla terra, come i Titani cercavano di far scendere dal cielo gli Dei. Democrito è quindi l'avversario più temibile e che più di chiunque altro va sconfitto e Platone costruisce la propria filosofia proprio per dargli contro; chiaramente non si sarebbe potuti arrivare ad una posizione idealista se prima non ci fosse stato chi sosteneva il materialismo: sono posizioni antitetiche ma l'esistenza dell'una determina quella dell'altra.

Sullo sfondo di questo scontro tra i due gruppi e tra le loro definizioni di essere, anche lo straniero dà la sua definendo l'essere come "dunamis" (possibilità, potenza): possibilità a fare che cosa ? Esiste tutto ciò che può agire o può subire una cosa: anche l'azione più piccola connota l'esistenza. A questo punto i materialisti affermano che solo ciò che è un corpo può subire o compiere azioni: essi non si limitano a dire che i corpi esistono, ma sostengono che siano le uniche cose ad esistere. Platone dice (muovendo una critica tipicamente idealista) che non è vero: se ammettiamo l'esistenza solo dei corpi cadiamo in una contraddizione. Se esiste solo ciò che è materiale, la giustizia esiste ? Platone si serve della dimostrazione per assurdo, tipica di Zenone: ammettiamo che la giustizia non esista: con che criterio diciamo che una cosa è giusta o sbagliata ? E' inammissibile che non esista in quanto le cose sono giuste nella misura in cui compartecipano all'idea di giustizia. Ammettendo che esista è alquanto facile dire che essa non sia una realtà materiale. L'ipotesi che l'essere sia solo materiale cade miseramente.

Anche "gli amici delle idee" hanno torto, ma chi sono ? Sono coloro che sostengono le tesi di Platone e che pur sbagliando sono aperti al dialogo: potrebbero tranquillamente rappresentare il Platone di tempi addietro, quando aveva appena scoperto la dottrina delle idee e non aveva ancora pensato ai problemi che potevano derivarne e gli pareva che tutto filasse liscio. Però gli "amici delle idee" possono anche rappresentare posizioni interne all'Accademia ma troppo rigide: essi stanno quindi dalla parte di Platone, che però li critica. Dove sbagliano ? Essi (ma anche Platone stesso nella sua giovinezza) sostengono la dottrina delle idee recuperando concetti tipici della filosofia parmenidea: le idee hanno infatti carattere di unicità, permanenza, eternità, immobilità. Platone evidenzia particolarmente un aspetto: la presunta immobilità e separazione reciproca delle idee. Come detto, "gli amici delle idee" sostengono anche l'esistenza delle cose non materiali e di conseguenza delle idee in quanto subiscono un'azione: vengono pensate e conosciute. Così, però, entra in crisi la concezione delle idee come un qualcosa di immobile: esse esistono nella misura in cui subiscono un'azione e di conseguenza è ovvio che ciò comporti il movimento. Le idee si muovono perchè subiscono l'azione dell'essere conosciute.
Dopo di che, Platone passa ad esaminare 5 idee di fondamentale importanza: l'essere, la quiete, il movimento, l'identico, il diverso.

Platone fa subito notare come queste 5 idee siano in rapporto complesso tra di loro ed è come se fossero vive perchè hanno rapporti complessi le une con le altre. Si arriva a dire che il mondo delle idee sia un mondo vivo, dotato di intelligenza (sennò come farebbero le idee ad avere rapporti complessi ? ); queste 5 idee sono tra l'altro molto importanti per esemplificare che il mondo delle idee non è affatto statico. Dapprima si considerano l'essere, la quiete ed il movimento: derivano tutte e tre dalla discussione precedente (l'essere e le 2 ipotesi, quella dei materialisti, secondo i quali l'essere è in continua evoluzione e non è mai lo stesso, e quella degli idealisti, secondo cui è un essere immobile )e si comincia una complessa e articolata indagine per analizzare i vari rapporti che intercorrono tra queste idee: ogni idea, infatti, partecipa di altre idee, senza però identificarvisi: è chiaro che solo l'idea di essere è l'idea di essere, ma tutte le altre idee ne partecipano: infatti tutte le idee esistono, sono. Solo l'idea della quiete è l'idea della quieta, ma molte altre ne partecipano(lo stesso vale per quella di movimento).
Si passa poi all'idea di identico e di diverso: ogni idea è identica a se stessa e diversa dalle altre, pur non identificandosi nell'idea di identico e di diverso. L'idea stessa dell'essere partecipa all'idea di non essere perchè l'essere è se stesso ma non è nessun' altra idea. da qui nasce il famoso parricidio di Parmenide: anche il non essere, esiste ; si evidenzia quindi la distinzione di essere con valore copulativo (quel libro è bello) da essere con valore esistenziale (l'uomo è): dire "una cosa non è" non vuol dire negare la sua esistenza, ma dire che è diversamente: la penna non è il libro. Nasce quindi la possibilità dell'errore, che prima pareva negata: sbagliare significa dire le cose diversamente da come sono. Vi è quindi il nuovo valore della parola "dialettica": le idee si richiamano le une alle altre e tra loro intercorrono comlessi rapporto: sono vive e "pensanti", in quanto si rapportano tra di loro secondo una logica.
Secondo Platone le idee sono come le lettere dell'alfabeto che si possono legare e formare un numero quasi infinito di parole, attenendosi però alle precise regole del discorso; così le idee si possono legare con altre idee (ma non con tutte) secondo determinate leggi e non a caso (come le parole unite a caso non hanno senso, così anche le idee). Le due mansioni che la dialettica deve svolgere sono la "
sunopsis" (sun + orao = vedere insieme -> unire ) e la "diairesis" (dià + aireo = dividere attraverso -> divisione ): per Platone bisogna agire come un macellaio che taglia le carni seguendo le articolazioni: occorre ritagliare il mondo delle idee, che si ricollegano, secondo confini reali: bisogna mettere insieme ciò che va messo insieme e tagliare ciò che va separato.

Si arriva a definire il sofista come "cacciatore di giovani" che va a caccia di giovani ricchi da cui spillare soldi: alla definizione si arriva mediante la "diairesis": in primis bisogna definire la categoria generalissima a cui appartiene la cosa che stiamo definendo: nel caso del sofista bisogna subito "ritagliare" la tecnica. Ma si tratta di una tecnica di produzione o di acquisizione ? Chiaramente nel caso del sofista è acquisizione. Ma si possono acquisire diverse cose: animali, commercianti. La "diairesis" consiste nell'individuare la categoria generalissima e da lì dividere sempre a metà: ogni volta si arriva ad un bivio e si deve scegliere da che parte svoltare, per poi trovarsi ad un altro bivio finchè non si arriva ad una specie ultima, quando cioè la divisione mi porterebbe a trovare solo personaggi (nel caso del sofista Gorgia, Protagora ). Nell'ambito dei dialoghi composti in età avanzata troviamo il "Timeo", che ha in comune con tutti gli altri dialoghi della vecchiaia il fatto che si facciano vedere le idee in una dimensione più dinamica e si evidenzino i rapporti che intercorrono tra le idee stesse (il "Sofista" ) e tra idee e cose (il "Parmenide" ).

Nel "Timeo" si parla in modo particolare del rapporto idee-cose e Platone si occupa del mondo fisico a tal punto che non è sbagliato definire il "Timeo" libro fisico (da "fusis", libro della natura). Infatti finora non si era praticamente occupato del mondo sensibile se non per affermare che è una pallida copia del mondo delle idee e per evidenziare la sua inferiorità rispetto al mondo intellegibile. Dato che era un argomento meno importante e che il "filosofo" si muove tra le idee, Platone dedicò solo un' opera al mondo sensibile, che ci viene presentato come "il mondo in cui si muove l'uomo". Il "Timeo" ci viene da Platone presentato come continuazione della "Repubblica": è come se dopo aver parlato dello stato ideale, Platone si cimentasse a descrivesse il mondo fisico in cui lo stato deve operare. Va poi ricordato che il "Timeo" e il "Crizia" sono i dialoghi del mito di Atlantide, città nemica della Atene preistorica che era vista come realizzazione dello stato ideale: chiaramente Atene è collocata in un tempo senza tempo, è vista come città mitica. Questo mito tutto platonico serve a far conoscere qualcosa che non è pienamente coglibile con il raziocinio (le idde sono l'essere pieno e quindi effettivamente conoscibili con la ragione: il mondo sensibile è in continua mutazione e di conseguenza non è un essere pieno e non può essere conosciuto con la ragione; così era anche per il mito della caverna in cui si parlava del bene in sè, che era al di sopra delle idee e quindi non era pienamente conoscibile con la ragione). Questo mito verosimile viene presentato in un contesto pitagorico (il protagonista, Timeo, è di Locri, nell'attuale Calabria; non si sa però se codesto Timeo sia realmente esistito o sia un' invenzione platonica come molti sofisti; fatto sta che Timeo rappresenta il "pitagorico" ) e presenta una cosmogonia (come è nato il mondo) e una cosmologia (come è fatto il mondo).

Descrivendo la nascita del mondo Platone si serve di una metafora (ricordiamoci che stiamo parlando di una "opinione vera") biologica: il mondo in cui viviamo ha un padre e una madre: il padre è il mondo delle idee mentre la madre è la materia (notare che la parola materia deriva dal latino "mater" = madre). Secondo Platone il padre fornisce la forma mentre la madre la materia ( a quei tempi si dava per scontato che l'aspetto più nobile della riproduzione fosse paterno, mentre l'aspetto materno era ritenuto inferiore sebbene essenziale). Dunque ci sono questi due elementi, il padre (ricordiamoci che la forma del mondo sensibile deriva, nella misura in cui ne compartecipa, da quella del mondo intellegibile) e la madre (Platone per definirla non usa la parola materia, in greco "ule", che verrà poi introdotta da Aristotele, ma "concausa", per il fatto che la madre ha un ruolo secondario rispetto al padre, o "causa necessaria", per il fatto che la materia è la condizione per la realizzazione di qualcosa: c'è sì il cavallo ideale, ma senza materia con cui plasmare non si può fare nulla). Tuttavia chiama la madre anche "ricettacolo delle forme" per il fatto che la materia è il luogo in cui vengono ricevute le forme, e "spazio" (in greco "kora" = regione, ma con valore astratto = spazio): la parola "kora" dà proprio l'idea dell'estensione pura, senza alcuna forma (il che comporta il fatto che può assumerle tutte). Sappiamo che le idee sono fuori dal tempo e dallo spazio: quando un'idea è compartecipata dal mondo sensibile si cala nello spazio.

Tutto il "Timeo" è incentrato sulla necessità di spiegare il mondo fisico e la sua compartecipazione alle idee: le idee sono perfette, le cose no: da un lato si predica il bene (le cose tendono alla perfezione ideale)dall'altro il male (non riescono ad imitare perfettamente): si crea così una sorta di ambiguità; si può accettare la frase non platonica ( é infatti stoica ) "viviamo nel migliore dei mondi possibili" in quanto il nostro mondo si avvicina più che può a quello intellegibile. Finora per quel che riguarda l'imperfezione del mondo sensibile ce l'eravamo cavata dicendo che un'imitazione, per definizione, non è mai perfetta: ma perchè il mondo non sarà mai perfetto ? Qual è l'ostacolo ? Platone era del parere che il nostro fosse un mondo buono, ma tuttavia era consapevole della sua imperfezione. Alla domanda che ci siamo appena posti Platone rispose così: per lui ciò che impedisce al mondo sensibile di essere perfetto è la materia; perchè il mondo empirico si realizzi e si plasmi occorre che si realizzi in qualcosa privo di forma: è come un metallo che deve essere lavorato: se avesse già una sua forma immutabile non lo si potrebbe lavorare. Quindi la caratteristica della materia è non avere caratteristiche. Platone dice che il ragionamento che ci porta a conoscere la materia è "bastardo", impuro, scorretto perchè se ad esempio guardiamo un cavallo, in realtà conosciamo l'idea: la materia la conosco come ciò che non è idea: si arriva alla conclusione in modo negativo perchè il ragionamento coglie solo una caratteristica: la materia non ha forma. Non potrebbe essere "ricettacolo delle forme" se avesse una forma definita (è come la cera sulla quale si deve attaccare un sigillo: deve essere molle e senza forma per poter così prendere quella del sigillo).

Se affermiamo che la materia per ricevere le forme non deve avere forme cogliamo simultaneamente un aspetto positivo e uno negativo: è di fondamentale importanza ma soffrirà sempre di una deficienza. Consente alla materia di avere forme, ma le riceverà sempre imperfettamente perchè è priva di forme, disordinata: le si darà una forma, ma manterrà sempre una componente priva di forma: è proprio questa componente a rendere il mondo sensibile imperfetto. Quindi la materia è contemporaneamente un aiuto perchè fa calare le idee nel mondo sensibile ed un ostacolo perchè, per inclinazione naturale, mantiene una componente di disordine. Tra gli "agrafa dogma" (le dottrine non scritte) di Platone troviamo la diade indefinita, alla quale abbiamo già accennato.
Platone è all'ultima fase della sua riflessione e risulta particolarmente influenzato dai pitagorici ; al vertice della realtà si trova il principio bipolare, in cui vi sono due poli come in un magnete: e come un magnete esiste solo quando ci sono un polo negativo e uno positivo che risultano essere indivisibili. L'uno è il vertice unitario, il due quello molteplice, diade indeterminata del piccolo e del grande. Platone ha spiegato che in fondo il mondo è uno, di parvenza molteplice: non è una dispersione di cose. Ma perchè, pur essendo uno, pare essere molteplice ? Come mai l'uno si moltiplica ? Vi sono due risposte: a) c'è di mezzo la materia, che genera scompiglio ed indeterminatezza, b) c'è la diade, che genera indeterminazione: se si ha della materia alla quale dare una forma, la forma stessa determina che essa sia nei suoi limiti, nè più grande nè più piccola di ciò che è: piccolo e grande sono una coppia di concetti simmetrici e polari, entrambe indeterminati (c'è sempre qualcosa di più grande e qualcosa di più piccolo): ricorda molto il gioco del limite e dell'illimitato dei pitagorici. La parziale differenza è che più che essere due principi, sono un principio solo bipolare, altrimenti se il mondo si moltiplicasse significherebbe che i due principi (uno-diade) devono essere impliciti nella realtà. Nel principio che genera il mondo (l'uno) ci deve anche essere la diade: l'uno non rimane uno (come invece era per Parmenide), ma presentando aspetti molteplici scende di livello: parte dal bene in sè, passa alle idee e poi si cala al mondo sensibile. se vogliamo, la materia rappresenta il male in quanto è elemento di disordine della realtà. Pare quindi che il male stesso sia parte del principio ; in verità c'è il principio da cui si origina il male, ma il male di per sè all'inizio non c'è: la diade indeterminata sta a significare che l'uno (il bene in sè) non rimane unitario, ma si cala nelle idee (che sono tante) prima e nel mondo sensibile poi. E' come se la potenziale negatività della materia si manifestasse gradualmente: quando è nell'uno non la si vede neppure, è ben inserita e quasi identificabile con lo stesso uno.
Nel mondo delle idee, invece, non si è ancora manifestata come male, ma solo come molteplicità (le idee sono tante, ma ordinate ).

Nel mondo sensibile le cose sono molteplici (e si sono moltiplicate in modo indefinito: mentre l'idea di cavallo è una, i cavalli sono tantissimi, un numero quasi infinito)e disordinate: la componente di imperfezione è presente in tutti i livelli, ma man mano che si scende è come se si "inspessisse" sempre di più. Comunque tutto questo discorso rimane avvolto da un' alone di mistero un pò perchè non sta scritto da nessuna parte, un pò perchè non è pienamente coglibile con la ragione. Dunque il mondo fisico deriva da un padre (il mondo delle idee) e da una madre (la materia, che è la condizione per l'esistenza del mondo fisico stesso ma che mantiene comunque una componente di indeterminazione): ma cos'è che fa da madiatore tra il mondo delle idee e la materia ? Cos'è che fa sì che le idee si calino nel mondo sensibile ? Platone mette a questo punto in gioco la figura del Demiurgo (dal Greco "demos", popolo, + "ergon", opera, = artigiano). Il Demiurgo è un divino artigiano: è colui che contemplando le idee plasma la materia sul modello delle idee stesse.

Platone introduce quindi una divinità a tutti gli effetti (fino ad adesso non ne avevamo mai realmente incontrata una). Il concetto che l'artigiano guardi ad un modello è tipicamente platonico (e aristotelico ): mentre gli artigiani umani guardano ad un modello che hanno nella loro testa, il Demiurgo guarda ad un qualcosa che è fuori da lui: dato che le idee sono il bene per la loro categoria, anche il mondo sensibile dev'essere per forza buono, sebbene indeterminato. Che rapporto intercorre tra le idee, la materia ed il Demiurgo ? Tutti e tre sono coeterni, sono sempre esistiti. A differenza della divinità cristiana, che crea il mondo, quella platonica si limita a plasmarlo e non è onnipotente: ha infatti due limiti: la materia, che gli impedisce di costruire un mondo perfetto, e le idee, che sono il modello a cui deve per forza attenersi. Il Demiurgo guarda sì al meglio, ma il suo comportamento è dato da qualcosa da lui esterno ed indipendente.

Nel Medioevo vi fu un grande dibattito teologico: le cose sono sante perchè piacciono alla divinità o piacciono alla divinità perchè sono sante ? In altre parole: la divinità è colei che riconosce le cose buone e le sceglie, o è colei che fa le cose buone ? Platone affronta questo argomento, legato al santo, nell' " Eutifrone": a suo avviso le cose sono buone ( sante ) intrinsecamente e non perchè c'è chi decide che lo siano: il bene in sè è il criterio per giudicare tutte le cose che possono essere buone; è buono ciò che partecipa alla super-idea di bene, come è bello ciò che partecipa all'idea di bellezza. Le idee sono il modello per gli uomini e per la divinità. Chiaramente la divinità vale di più rispetto all'uomo: essa riconosce facilmente il bene, mentre gli uomini hanno delle difficoltà e non sempre ci riescono.
Vi fu chi arrivò a dire che ciò che è giusto è giusto perchè l'ha deciso la divinità. Chiaramente se Platone avesse avuto modo di prendere parte al dibattito teologico medioevale, avrebbe affermato che le cose buone piacciono alla divinità perchè sono buone e non avrebbe potuto accettare l'idea che le cose sono buone perchè piacciono alla divinità. E' corretto affermare che la divinità per Platone è il Demiurgo solo entro certi limiti: se la divinità per definizione è il principio supremo, allora la divinità platonica dovrebbe essere il bene in sè. Se la divinità è principio della realtà, è evidente che non deve dipendere da nulla: ma il Demiurgo dipende dalla super-idea del bene e dalle altre idee che è costretto ad imitare: ne consegue che non è indipendente ma è al contrario limitato. Il bene in sè, invece, abbiamo visto che è illimitato ed è lui stesso il principio (bipolare) della realtà. Il concetto di divinità nella tradizione ebraico-cristiana attinge un pò dal Demiurgo e un pò dalla super-idea del bene.

Non a caso nel Medioevo il "Timeo" (che è appunto il dialogo dove compare il Demiurgo), a differenza degli altri dialoghi platonici, continuò ad essere letto e non cadde in disuso. Questo perchè il "Timeo" è l'opera platonica più vicina al Cristianesimo: c'è l'idea della plasmazione, piuttosto vicina a quella della creazione: inoltre la divinità in un certo momento crea il mondo (la divinità di Aristotele invece fa ben poco). Va poi ricordato che il Demiurgo è un dio-persona come quello dei Cristiani. Dietro a questo amore cristiano per il "Timeo", probabilmente c'è un fraintendimento: le interpretazioni del "Timeo" sono due e i Cristiani scelsero probabilmente quella sbagliata. Se si legge il "Timeo" alla lettere si incontra questo "plasmatore" divino: sembra che il mondo prima non ci sia e che ci sia solo la materia: si ha l'impressione che ci sia un tempo prima e un tempo dopo . Ma Platone credeva in ciò che diceva ? Se si legge accuratamente il "Timeo" ci si accorge che Platone ad un certo punto si pone un quesito: che cos'è il tempo ? Il Demiurgo tra le varie cose plasma anche gli astri, il cui movimento regolare si identifica con il tempo. Il tempo viene definito "immagine mobile dell'eternità": come il mondo sensibile è imitazione di quello intellegibile (il primo mutevole, il secondo eterno), così il tempo è imitazione dell'eternità.

Non a caso il tempo viene identificato con il movimento circolare: se si vuole rappresentare l'eternità con qualcosa di movimentato, senz'altro ciò che meglio la rappresenta è il cerchio, il movimento circolare in cui si compie un giro per poi tornare al punto di partenza: infatti il tempo è caratterizzato dal non essere eternità ma tornare sempre su se stesso. La cosa più simile a ciò che non si muove mai è quella che torna sempre su stessa, così come la cosa più simile che l'uomo possa fare per eternarsi è il riprodursi ciclicamente. Dunque il tempo è la plasmazione dell'eternità ideale da parte del Demiurgo. La conseguenza è che non c'è un tempo prima del mondo perchè è solo con la nascita del mondo sensibile che il Demiurgo ha calato nella realtà sensibile l'imitazione di eternità. Questa è una visione ben diversa da quella cristiana nella quale la divinità in un certo momento decise di creare il mondo. Va poi ricordato che Platone stesso all'inizio del "Timeo" dice che si tratta di un mito: di conseguenza i Cristiani hanno preso per vero qualcosa che Platone stesso dice non essere vero, ma solo un'immagine che rappresenta la relazione tra mondo intellegibile e materia. Quindi Platone non credeva assolutamente nella figura del Demiurgo ed il suo vero dio resta il bene in sè. Oltre ad esprimere la relazione tra idee e materia, il mito del Demiurgo esprime anche il finalismo: Kant direbbe "è come se" il mondo fosse stato elaborato da un artigiano. Il mondo sensibile è da sempre e per sempre un' immagine temporale del mondo delle idee.

Il Demiurgo dunque comincia a plasmare nella materia (che Platone chiama anche "spazio") e arriva a generare tutta la realtà. Platone dice che la prima cosa che si crea nello spazio sono 4 solidi geometrici fondamentali: si tratta dei 4 solidi regolari (costituiti da facce uguali tra di loro). Platone è convinto che si possano ottenere tutti e 4 partendo da un triangolo rettangolo isoscele: ricombinandolo si possono ottenere vari tipi di figure ( se ne creerebbero 5, ma Platone una la scarta). Essi sono il cubo, l'ottaedro, il tetraedro, l'icosaedro (quello che scarta è il dodecaedro). Questi 4 solidi stanno a rappresentare i 4 elementi fondamentali di Empedocle (terra, acqua, aria, fuoco, che verranno poi anche ripresi da Aristotele ): ognuno dei 4 elementi di Platone è costituito da parti minime (non ulteriormente divisibili)e ciascuno è caratterizzato da una forma: per Platone la terra è il cubo, che suggerisce l'idea di regolarità, materialità, stabilità e compattezza. Il fuoco, per esempio, è invece rappresentato dal tetraedro perchè, dal momento che brucia, deve essere particolarmente spigoloso (il tetraedro è il più spigoloso) e la forma stessa della fiamma è simile a quella del tetraedro. Platone ancora una volta prende spunto dalla filosofia dei suoi precedenti mescolando in questo caso Empedocle a Democrito (che tra le varie cose riteneva che a stimolare i nostri sensi fossero le determinate forme degli atomi)e ai Pitagorici (Timeo è pitagorico e le forme degli elementi sono geometriche). Tra l'altro ci possiamo anche riallacciare alla gerarchia dei livelli della realtà: abbiamo detto (con l'aiuto del grafico) che i numeri erano a metà strada tra mondo sensibile e mondo intellegibile ; qui vengono utilizzati come collegamento tra mondo ideale e materiale.

Il Demiurgo plasma quindi l' Universo ed il Sistema (non è molto chiara la struttura astronomica che attribuisce al Sistema: pare che Platone abbia superato la teoria geocentrica; non ammette il movimento di rivoluzione, ma sembra ammettere quello di rotazione: è la Terra che gira). Platone introduce poi il concetto di "anima del mondo": il mondo delle idee abbiamo detto che è movimentato, intelligente, vitale: il mondo sensibile, nella misura in cui il Demiurgo lo plasma, non può che essere simile a quello intellegibile: ha un' anima sua. L'Universo è un grande essere vivente permeato interamente da un' anima. Tutto quindi è vitale, sebbene in diverse misure. L'osso è vivo perchè fa parte di un essere vivente, ma anche la pietra è viva perchè fa parte di questo grande essere vivente (l'Universo).
Platone insiste poi particolarmente sul finalismo ( il cavallo è nato per essere veloce, il cane per fare la guardia. ) e sulla stretta parentela tra uomo e animali (gli animali sono il frutto di incarnazioni infelici delle anime nell'aldilà: ricordiamoci del mito di Er ; di tutte le incarnazioni, Platone sostiene che la peggiore, dopo quella di donna e di animale, sia quella dei pesci).

Le ultime riflessioni di Platone sulla vita etica (quella del singolo individuo) e sulla vita politica (quella dell'intera comunità) le troviamo nel "Filebo" e nel "Politico": ci troviamo di fronte ad un Platone più scettico e che mette in discussione le sue stesse teorie. Si pensa che questi due dialoghi risalgano all'esperienza siracusana con il tiranno, ma c'è anche chi è del parere che questa "sfiducia" nelle sue dottrine sia dovuta solo all'età ormai avanzata: Platone, ormai vecchio, non è più entusiasta come quand'era giovane delle sue dottrine che erano nate per risolvere problemi, ma che in realtà ne avevano solo creati di nuovi. Probabilmente sono entrambe questi due fattori (l'esperienza con il tiranno e l'età avanzata) che fanno sì che Platone sia così scettico. Il "Filebo" non è un dialogo propriamente politico: viene posto l'interessante quesito: che cos'è la vita buona ? Dunque Platone riprende un tema tipicamente socratico ; si discute ancora una volta (come già nel "Gorgia" o nel "Fedone" ) se bene e piacere siano identificabili: a differenza degli altri dialoghi in cui aveva affrontato questo problema, nel "Filebo" Platone assume posizioni più moderate: anche qui nega l'identificazione, ma arriva tuttavia ad individuare diversi tipi di piacere, non necessariamente negativi: non tutti i piaceri sono per forza accompagnati dal dolore. Ci sono anche piaceri intellettuali (ad esempio la musica o quelle conoscenze che danno un senso di piacere) che non sono così strettamente legati al dolore: sono piaceri a dimensione positiva. In poche parole quando ci sono, sono un piacere, quando non ci sono sono un dolore. Secondo Platone bisogna privilegiare e coltivare solo certi piaceri. Una vita buona non può essere priva di piaceri (così avevamo anche detto a riguardo dell'anima: le passioni sono fondamentali).

Platone delinea così la "vita mista", basandosi sull'idea che la bontà consista in un equilibrio dato dalla mescolanza di elementi diversi che si mescolano secondo misura: da notare che misura, 1, numero etc. sono sinonimi per definire il bene in sè. La vita buona, per Platone, è mescolanza di intelligenza e piacere: questa mescolanza non è casuale, ma ponderata: bisogna vedere attentamente in che misura mescolare intelligenza e piacere. Per Platone l'intelligenza è superiore al piacere e tenderà sempre a prevalere per il semplice fatto che se si deve stabilire in che misura mescolare piacere ed intelligenza, è l'intelligenza stessa che ci indica la misura in cui mescolare. Quindi, di per sè, l'intelligenza è maggiormente presente nella vita buona. Se si presta attenzione alla filosofia platonica, ci si accorge che ritorna spesso l'idea che la spiegazione ultima di tutto è riconducibile ad un sistema binomio, ad un duplice principio. Prendiamo, ad esempio, la "Repubblica" e più precisamente la tripartizione della società: le classi in realtà sono due perchè i difensori sono i futuri governanti. E' la classe dei governanti che dà l'equilibrio alla sua classe e a quella dei produttori. Spostiamoci ora al "Fedro" e al mito della biga alata, metafora dell'anima: c'è un principio razionale (l'auriga: il fatto che sia uno solo sta a significare che la piena razionalità è nell'unicità) e due irrazionali (il cavallo bianco, che simboleggia la parte arazionale, e quello nero, che è emblema dell'irrazionalità: l'irrazionalità è data da due elementi, che simboleggiano la molteplicità): la ragione è ordinata e unica, l'irrazionalità è molteplice: il fatto che sia data da due cavalli implica la possibilità di andare in due direzioni diverse. Passiamo poi agli "agrafa dogma" (le dottrine non scritte) e al principio bipolare uno-diade: un polo (quello dominante) è l'unitarietà, l'altro è la molteplicità. Nel caso della biga alata, emerge il fatto che con la misura si controlla ciò che è illimitato: pensiamo ad un termometro ; le temperature sono pressochè infinite (in realtà non lo sono, ma facciamo conto che lo siano) e il termometro rende quindi definito ciò che è indefinito. Platone voleva scrivere una trilogia: 1) il sofista 2) il politico 3) il filosofo: il primo l'ha effettivamente ralizzato, il secondo l'ha iniziato ma non l'ha finito ed il terzo non l'ha mai neppure cominciato.

Analizziamo ora il "Politico": l'opera si intitola il "Politico" e non "la politica" (come si chiamerà invece l'opera di Aristotele ) perchè Platone era convinto che per avere uno stato perfetto occorresse che fosse governato da uomini politici perfetti. Ma chi è il vero uomo politico ? Platone parte dallo scartare la definizione omerica "il re è pastore di uomini" perchè implica una superiorità di razza da parte del politico e ciò lo si poteva accettare solo se si torna all'epoca mitica in cui gli dei governavano gli uomini. Così come nel "Sofista" (in cui il tema centrale era la possibilità di dire il falso, il non essere), anche nel "Politico" la definizione del personaggio passa in secondo piano e risulta scherzosa. Così come nel "Sofista", per definire si serve della "diairesis": quella del politico è una tecnica analoga a quella del tessitore che intreccia fibre di carattere diverso: intreccia trama e ordito.
Ancora oggi si suole usare l'espressione "tessuto sociale" per indicare che le funzioni si intrecciano.

Nell'intrecciare i tessuti, ci sono caratteri più solidi ( coraggiosi, nella politica) ed altri più raffinati (intelligenti, nella politica): il politico deve sapere la misura per mescolare bene i diversi "strati" sociali. Ben emerge come Platone sia più rigido e meno sciolto (soprattutto nello stile) rispetto a quanto lo era in gioventù. Egli arriva ad affermare che nello stato perfetto non ci sarebbe bisogno delle leggi perchè esse sono quasi un "male necessario" che si introducono in assenza dell'uomo politico perfetto. Infatti la legge per quanto cerchi di cogliere le sfumature non ci riesce mai totalmente e non è mai assolutamente giusta: la legge dice di non rubare e di punire chi ruba con determinate pene: ma non dice, per esempio, di punire chi ruba due libri ed un quaderno con due mesi di carcere. Se ci fossero politici perfetti deciderebbero quale pena applicare in ogni determinato caso. Come il medico riesce a vedere in ogni frangente la cura da amministrare al paziente, così il politico, per Platone, deve prendere le decisioni senza essere vincolato dalle leggi. Ma nella realtà, dove è impossibile per definizione essere perfetti, Platone dice che le leggi sono necessarie: esse sono necessarie perchè è vero che danno norme universali e non sempre giuste in tutti i casi, ma comunque in questo vincolare danno delle regole alle quali attenersi. Seguendole non si otterrà un risultato perfetto (che si otterrebbe invece seguendo il politico perfetto), ma comunque buono. Platone crea poi nel "Politico" una nuova gerarchia dei governi: al vertice mette sempre il suo stato ideale ma subito dopo si trovano i governanti che regnano secondo le leggi. Negli ultimi posti ci sono i governi in cui si comanda senza leggi. L'ultima fatica di Platone è costituita dalle "Leggi", un dialogo rimasto incompiuto: si è curato della sua pubblicazione e di inserire l'ultimo libro un allievo di Platone: questo ci aiuta a capire il carattere pesante e ridondante dell'opera. E' di gran lunga l'opera più lunga: si tratta di una raccolta di leggi e pure questo aspetto contribuisce alla pesantezza dell'opera. Il problema del consenso che abbiamo affrontato nella "Repubblica" si trasforma nell'essere tutti d'accordo che le leggi sono buone: ogni legge viene preceduta da un preambolo, da un'argomentazione dove si spiega perchè quella legge viene elaborata, perchè è giusta: oggigiorno questo non c'è nelle nostre leggi, ma tuttavia nelle proposte di legge viene data una motivazione alle nuove leggi. Vi è anche chi dice che le "Leggi" fossero un manuale in uso nell'Accademia che assunse gran prestigio: pare infatti che le nuove città, o quelle rifondate o ancora quelle ricostituite si rivolsero all'Accademia per farsi varare le leggi. Abbiamo già parlato dello Stato Secondo: Platone cerca un compromesso tra lo stato ideale (che sa bene che sia inattuabile) e la realtà: egli elimina gli aspetti più scioccanti ed inattuabili (l'abolizione della proprietà terriera e della famiglia, sebbene sostenga che i governanti debbano vivere di tanto in tanto insieme). Per lo stato delineato qui da Platone si parla anche di "involuzione politica": lo stato di Platone, a sorpresa, diventa teocratico. Per Platone si devono venerare gli astri a causa del loro ordine e bisogna imporre la religione ai cittadini (anche con la forza: Platone può quindi apparire l'antenato degli inquisitori spagnoli). Ci troviamo di fronte ad un Platone molto conservatore (dice addirittura che chi non crede nella religione vada ucciso) e distante dalle posizioni di Socrate (che aveva idee religiose molto personali). La teoria delle "Leggi" che di gran lunga ha avuto più successo nella storia è quella della costituzione mista, che abbiamo già esaminato. Prendendo infatti i migliori aspetti di ogni forma di governo i difetti di ciascuna si attutiscono: vi è una sorta di equilibrio dei poteri. Dopo la morte di Platone, la sua scuola si continua per quasi 8 secoli, se vogliamo includervi anche la neoplatonica; ma non conserva in tutto il suo svolgimento lo stesso spirito nè si mantiene fedele alla dottrina del maestro. I successori immediati di Platone furono Speusippo e dopo di lui Senocrate, nei quali già comincia a manifestarsi l'influsso di Aristotele, almeno per quel che riguarda la necessità di dare un ordine più sistematico ed architettonico alla dottrina.
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IL SIMPOSIO

"Gli amanti che passano la vita insieme non sanno dire che cosa vogliono l' uno dall' altro. Non si può certo credere che siano solo i piaceri fisici la causa della gioia immensa che provano nella reciproca convivenza. E' chiaro che l' anima di ciascuno vuole altra cosa che non è capace a dire e perciò la esprime con vaghi presagi. (192 c-d)"

PERSONAGGI, CRONOLOGIA E LUOGHI
COMMENTO AL DIALOGO

Apollodoro, con cui il dialogo si apre, é un discepolo molto affezionato a Socrate che viene citato anche nel " Fedone ", in quanto piange quando Socrate beve la cicuta. Aristodemo che si reca con Socrate al simposio, e che nel dialogo ci viene presentato come uno dei più innamorati discepoli di Socrate, non viene ricordato in altri dialoghi. Ne fa menzione invece Senofonte ( Memorabili ) in un dialogo con Socrate sull'esistenza di dio. Fedro, invece, compare in un altro dialogo di Platone ( " Il Fedro " appunto ) ed é un giovane, amico di Platone attratto dall'arte oratoria. Pausania é un retore esperto.
Al suo discorso, che esprime idee allora in voga sulla questione d'amore, Platone dedica ampio spazio, in quanto esprime appunto quell'idea che Platone vuole superare. Egli é un amico intimo di Pausania. Erissimaco era un medico, figlio di acumeno pure medico, con idee vicine a quelle dei filosofi naturalisti, e in particolare quelle di Eraclito. Aristofane é il più celebre commediografo greco e di lui non c'è bisogno di dire altro, data appunto la sua notorietà.
AGATONE é un poeta tragico di cui ci sono pervenuti solo pochi frammenti. Nacque intorno al 447 a. C. La vittoria con la sua prima tragedia risale al 416 a. C. , quindi, quando ancora era giovane ( 30 anni circa ). Che fosse famoso ai suoi tempi é dimostrato, oltre che da quanto ci dice qui Platone e dal come lo tratta, anche dal fatto che ne parli Aristotele nella Poetica e che ne parli pure Aristofane. Aveva recepito alcune idee riguardanti lo stile da Gorgia, come qui Platone stesso ricorda. Alcibiade é il celebre uomo politico ateniese (nel dialogo ha circa 30 anni ), ricco di gloria e di denaro, avventuroso e al culmine della sua notorietà. Diotima, invece, non ci é nota per altra fonte e deve essere un'invenzione platonica. Il luogo in cui si svolge l'azione é la casa di Agatone ; nel prologo il luogo é la strada che porta alla casa di Agatone e l'atrio dei vicini. La data in cui si svolge il dialogo é quello della vittoria di Agatone con la sua tragedia ( 416 a. C. ), mentre la data in cui Apollodoro narra ciò che aveva udito da Aristodemo, verosimilmente, si colloca prima del 399 a. C. , ossia sicuramente prima della morte di Socrate. La data di composizione del Simposio non é facilmente determinabile. Sicuramente fa parte delle opere della maturità. Forse da collocarsi fra gli anni Ottanta oppure Settanta del secolo quarto a. C.


COMMENTO AL DIALOGO

Tra amore e filosofia c'è uno stretto rapporto, tant'è che l'amore è una metafora della filosofia: questa stretta parentela ( peraltro esaminata anche nel " Fedro " ) Platone la esamina meglio nel "SIMPOSIO"(dal Greco sun+pino=bere insieme), il suo capolavoro: Socrate si sta dirigendo verso la casa del tragediografo Agatone quando incontra un amico; allora invita anche l'amico e quando sono ormai arrivati, Socrate comincia a riflettere intensamente. Durante i simposi (all'epoca non c'era la TV e le serate si trascorrevano cosi') veniva nominato un simposiarca il cui compito era quello di dare un ordine alla discussione facendo passare la parola da un invitato all'altro e selezionare l'argomento da trattare. Si sceglie di parlare dell'amore: c'è chi dice che Eros è la divinità più giovane e più bella, chi dice che è la più vecchia in quanto forza generatrice di tutto, chi sostiene che sia una forza cosmica che domina la natura, chi suggerisce che sia un tentativo da parte di tutti gli enti finiti di eternarsi procreando, c'è chi è del parere che sia la divinità più valorosa in quanto riesce a dominare perfino la guerra, facendo riferimento all'episodio mitico secondo il quale Ares, il dio della guerra, sarebbe innamorato di Afrodite.

Aristofane, celeberrimo commediografo, narra una storia semiseria: si tratta di un mito secondo il quale gli uomini un tempo erano tondi, sferici e doppi: questi esseri si sentivano forti e perfetti e peccarono di tracotanza; gli dei per punirli li tagliarono a metà e per ricucirli fecero loro un nodo (l'ombelico) sulla schiena; poi lo posizionarono sulla pancia perchè si ricordassero di quanto era successo ogni volta che guardavano in basso: questi esseri sentivano il bisogno di ritrovare l'altra metà e la cercavano disperatamente. Quando la trovavano si attaccavano e non si staccavano più neanche per mangiare e cosi' morivano di fame; cosi' gli dei crearono l'atto sessuale che consentiva di trovare un appagamento da questa unione.

Questo mito originale ci spiega due cose: 1)in ogni epoca i rapporti sessuali sono sempre stati etero e omo. 2) il tentativo di ritornare ad una situazione primordiale. Notare che nel mondo greco la forma sferica è sempre vista come unità originaria perfetta (cosi' era già in altri grandi filosofi quali Empedocle, Parmenide). Se si leggono accuratamente tutti i discorsi ci si accorge che ognuno di essi contiene una parte di verità: il discorso finale di Socrate non sarà nient'altro che una sintesi in cui li unisce praticamente tutti. Egli racconta di essersi una volta incontrato con una sacerdotessa (Diotima) che gli ha rivelato tutti i misteri dell'eros: viene a proposito citato un mito riguardante i festeggiamenti divini per la nascita di Afrodite: tra le varie divinità ci sono anche Poros (astuzia, furbizia) e Penia (povertà). Essi, ormai ubriachi per l'eccessivo bere, si uniscono e viene così concepito Eros, che ha quindi le caratteristiche dei suoi genitori: è ignorante, povero e brutto a causa di Penia, ma sa cavarsela sempre grazie a Poros. Non è bello, ma sa andare a caccia della bellezza; egli sente l'amore ed è soggetto della ricerca della bellezza e dell'amore, svolge le mansioni dell'amante e non dell'amato.
Chiaramente se ricerca la bellezza significa che non la possiede: così il filosofo è privo e bisognoso del sapere (penia=povertà), ma ha anche le capacità di cercarsi e di procurarsi ciò di cui è privo (poros=astuzia, espediente); dato che Eros è privo di bellezza e le cose buone sono belle, manca anche di bontà; ciò che non è bello o buono, non è necessariamente brutto e cattivo; per Platone vi è un livello intermedio; tra il sapere e l'essere ignoranti la via di mezzo consiste nell'avere buone opinioni, senza però darne ragione; la posizione intermedia comunque non è un male perchè è uno stimolo per arrivare al top: chi si trova nella posizione più bassa sa di non potersi elevare e neanche ci prova, chi si trova in quella più alta non si deve impegnare perchè è già nella posizione ottimale: chi si impegna e lavora è chi si trova in una zona intermedia (i filosofi, che non sanno ma si sforzano di avvicinarsi al sapere).

Tutti gli dei, gli aveva detto Diotima, sono belli e buoni e di conseguenza Eros non rientra nella categoria. Anche da questo punto di vista Eros riveste una posizione intermedia: non è un dio, ma neanche un mortale: è un qualcosa che nasce e muore di continuo; è una metafora con cui si vuole dimostrare che non si può mai possedere totalmente l'amore; è anche metafora della filosofia perchè l'uomo non possiede il sapere, ma si sforza per ottenerlo; può riuscire ad avvicinarvisi, ma non si tratta comunque di una conquista definitiva: il pieno sapere è irraggiungibile. Dunque Eros è una semi-divinità intermedia. Nella struttura sociale dell'epoca l'omosessualità era tipica dei filospartani e di coloro che avevano un'impostazione culturale arcaica: è questo il caso di Socrate e Platone. Il rapporto veniva vissuto "pedagogicamente", vale a dire che era un rapporto di tipo maestro-allievo. A differenza dell'amore eterosessuale, di livello più basso in quanto volto al piacere fisico e alla procreazione materiale, quello omosessuale era di più alto livello in quanto volto alla procreazione spirituale: vengono fecondate le anime per procreare nuove idee.

Propriamente in Socrate non si parlava di amore, ma vanno tenute in considerazione le affermazioni a riguardo della maieutica (Socrate diceva di fare lo stesso lavoro della madre che era un'ostetrica: lei faceva partorire le donne, lui le idee): Socrate aveva quindi già in mente anime gravide da far partorire; Platone invece sostiene che ci sia una vera e propria fecondazione delle anime, che chiaramente non devono essere sterili. Ben si intuisce che la ricerca dell'amore combacia con quella della filosofia. Alla fine del Simposio irrompe improvvisamente il famoso Alcibiade, totalmente ubriaco, che racconta pubblicamente di aver fatto delle "avances" a Socrate, che però non ha accettato: lui, bello, giovane, aitante con un vecchio decrepito che non ci sta: il che sta a significare che la bellezza esteriore conta meno di quella interiore, ed è anche un modo per ribadire il concetto della scala gerarchica dell'amore. Socrate non ci viene presentato come un asceta: egli è totalmente immerso nella sua realtà, ma non si lascia catturare: ai festini lui partecipa tranquillamente, pur non identificandovisi; dagli altri si distingue perchè mantiene sempre la sua capacità di giudizio (nel Simposio è l'unico a non addormentarsi).

Emerge poi nel Simposio, ed emergerà anche nel Fedro, l' idea del bello: le anime migliori hanno un trasporto di gioia, dice Socrate, quando vedono nelle cose sensibili l'immagine dell' idea che stanno cercando ; perciò chi cerca l' idea del bello é preso dalla passione per gli esseri in cui scorge la bellezza e il raggiungimento dell' idea del bello non é che un approfondimento di questo amore ; l' idea del bello, inoltre, é quella più evidente anche nel mondo sensibile perchè facilmente coglibile con la vista e va interpretata come stimolo per indagare la realtà intellegibile e per scoprire tutte le altre idee. Non a caso nel Simposio Socrate dice: " La giusta maniera di procedere da sè o di essere condotti da un altro nelle cose d' amore é questa: prendendo le mosse delle cose belle di quaggiù, al fine di raggiungere il Bello, salire sempre di più, come procedendo per gradini, da un solo corpo bello a due, e da due a tutti i corpi belli, e da tutti i corpi belli alle belle attività umane, e da queste alle belle conoscenze, e dalle conoscenze procedere fino a che non si pervenga a quella conoscenza di null' altro se non del Bello stesso, e così, giungendo al termine, conoscere ciò che é il bello in sè ".

IL POLITICO

Platone voleva scrivere una trilogia: 1) il sofista 2) il politico 3) il filosofo: il primo l'ha effettivamente ralizzato, il secondo l'ha iniziato ma non l'ha finito ed il terzo non l'ha mai neppure cominciato.
Analizziamo ora il "Politico": l'opera si intitola il "Politico" e non "la politica" (come si chiamerà invece l'opera di Aristotele ) perchè Platone era convinto che per avere uno stato perfetto occorresse che fosse governato da uomini politici perfetti. Ma chi è il vero uomo politico ? Platone parte dallo scartare la definizione omerica "il re è pastore di uomini" perchè implica una superiorità di razza da parte del politico e ciò lo si poteva accettare solo se si torna all'epoca mitica in cui gli dei governavano gli uomini. Così come nel "Sofista" (in cui il tema centrale era la possibilità di dire il falso, il non essere), anche nel "Politico" la definizione del personaggio passa in secondo piano e risulta scherzosa. Così come nel "Sofista", per definire si serve della "diairesis": quella del politico è una tecnica analoga a quella del tessitore che intreccia fibre di carattere diverso: intreccia trama e ordito. Ancora oggi si suole usare l'espressione "tessuto sociale" per indicare che le funzioni si intrecciano. Nell'intrecciare i tessuti, ci sono caratteri più solidi ( coraggiosi, nella politica) ed altri più raffinati (intelligenti, nella politica): il politico deve sapere la misura per mescolare bene i diversi "strati" sociali. Ben emerge come Platone sia più rigido e meno sciolto (soprattutto nello stile) rispetto a quanto lo era in gioventù. Egli arriva ad affermare che nello stato perfetto non ci sarebbe bisogno delle leggi perchè esse sono quasi un "male necessario" che si introducono in assenza dell'uomo politico perfetto. Infatti la legge per quanto cerchi di cogliere le sfumature non ci riesce mai totalmente e non è mai assolutamente giusta: la legge dice di non rubare e di punire chi ruba con determinate pene: ma non dice, per esempio, di punire chi ruba due libri ed un quaderno con due mesi di carcere. Se ci fossero politici perfetti deciderebbero quale pena applicare in ogni determinato caso. Come il medico riesce a vedere in ogni frangente la cura da amministrare al paziente, così il politico, per Platone, deve prendere le decisioni senza essere vincolato dalle leggi.
Ma nella realtà, dove è impossibile per definizione essere perfetti, Platone dice che le leggi sono necessarie: esse sono necessarie perchè è vero che danno norme universali e non sempre giuste in tutti i casi, ma comunque in questo vincolare danno delle regole alle quali attenersi. Seguendole non si otterrà un risultato perfetto (che si otterrebbe invece seguendo il politico perfetto), ma comunque buono.
Platone crea poi nel "Politico" una nuova gerarchia dei governi: al vertice mette sempre il suo stato ideale ma subito dopo si trovano i governanti che regnano secondo le leggi. Negli ultimi posti ci sono i governi in cui si comanda senza leggi.

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