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CRONOLOGIA

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GORGIA - ANTIFONE - TRASIMACO
IPPIA - PRODICO

testi di Diego Fusaro

GORGIA

Nel contesto sofistico si colloca (come Protagora ) anche Gorgia : anche per lui il problema del linguaggio è centrale. Gorgia nacque a Lentini (nei pressi di Siracusa) verso il 480 a.c. , viaggiò parecchio per le città greche , un pò come il collega Protagora , ottenendo gran successo col suo insegnamento . La sua fama portò la sua città ad inviarlo in più occasioni come ambasciatore presso altre città (ad Atene , per esempio , dove lasciò a bocca aperta gli Ateniesi per la sua eloquenza ) . Morì in età molto avanzata (verso il 380 , in Tessaglia) , dove soggiornava presso il tiranno Giasone di Fere .

Come Protagora , anche Gorgia scrisse molto e i suoi scritti erano per lo più orientati verso l'orazione , come il
discorso Olimpico , proferito ad Olimpia per invitare i Greci a superare le loro discordie e affrontare uniti i barbari e l'Epitafio , finalizzato ad onorare gli Ateniesi caduti in guerra . Tra i suoi scritti va poi ricordato quello Sul non essere o Sulla natura , il cui titolo capovolge intenzionalmente quello dell'opera di Melisso ; molto interessanti risultano anche essere L'encomio di Elena e La difesa di Palamede .

Nel Non essere o Sulla natura troviamo le tre tesi fondamentali delle filosofia di Gorgia :
1) l'essere non è
2) se anche fosse , non sarebbe conoscibile
3 ) se anche fosse conoscibile , tale conoscenza non sarebbe comunicabile .
Quindi per Gorgia , a differenza di Protagora , tutto è falso . Egli arriva a trarre queste conclusioni esaminando profondamente la filosofia ed in particolare quella eleatica ; come gli eleatici , anche Gorgia si serve del ragionamento per assurdo : se l'essere ci fosse , sostiene Gorgia , non dovrebbe avere caratteristiche contradditorie , come invece gli hanno attribuito gli eleatici ; Gorgia ha notato che ci sono troppi contrasti tra i filosofi per quel che riguarda la questione dell'essere : l'essere è troppo contradditorio per esistere . Egli conclude che l'essere non è partendo dalle dimostrazioni che l'essere non è nè uno nè molti , nè generato nè ingenerato : in effetti sono affermazioni davvero contradditorie . Ma la conseguenza più interessata e radicale che egli trae è probabilmente quella secondo cui non è possibile comunicare tramite il linguaggio ciò che è . Il linguaggio non ha nulla a che fare con la verità , non è possibile dire ad altri come realmente stanno le cose . Supponiamo che l'essere ci sia : prendiamo un quaderno blu : io voglio comunicare ad un altro il colore del quaderno e quindi gli dico "è blu !" ; ma non è che nella testa dell'altro c'è lo stesso colore : magari è un blu più tendente al verde ; fatto sta che non potrà mai avere in mente la stessa cosa che ho io : l'essere oltre a non esistere , non è pensabile e non è dicibile . queste tre tesi di Gorgia sono l' anticipazione di quello che sarà il " nichilismo " , vale a dire la nullità dell'essere .

Questo "nichilismo" sembra essere una filosofia negativa e pessimista , ma in realtà non è così : il ragionamento conduttore è in sostanza che in assenza dell'essere l'uomo è onnipotente , non ha limitazioni . spieghiamoci meglio : se l'essere esiste , l'uomo trova lì un limite alle sue azioni ; ma se l'essere non c'è (non è conoscibile) l'uomo non ha limiti . E' su questo presupposto che si basa l'onnipotenza della retorica di Gorgia : se l'essere è ed è conoscibile non si può far conoscere alla gente ciò che si vuole (perchè ci si deve attenere all'essere) , ma se non c'è l'essere non si hanno limiti e si può convincere la gente di ogni cosa : chi può dire che una cosa sia falsa se non c'è un qualcosa a cui attenersi (l'essere) ?

La verità per Gorgia non conta niente perchè non esiste : ciò che conta è la capacità di argomentare . Gorgia era fratello di un medico e diceva che pur non sapendo nulla di medicina , riusciva più lui del fratello a convincere i pazienti a prendere le medicine . Il linguaggio è totalmente distaccato dalla verità : esso non consiste nell'enunciazione di conoscenze , bensì nella persuasione (nell'incomio di Elena Gorgia prende le difese di Elena , colei per la quale aveva avuto inizio la guerra di Troia : il discorso è in realtà un puro sfoggio di virtuosità oratorie ; Gorgia con l'arte persuasoria dimostra le cose più assurde) .

Per Gorgia la persuasione è indipendente dal valore di verità di ciò che viene detto , dal momento che la parola pronunciata esercita la sua influenza sull'apparato emotivo degli ascoltatori , non sulle loro eventuali capacità intellettive . La potenza della parola è equiparata da Gorgia alla potenza dei farmaci e degli incantesimi magici . Come detto , Gorgia diceva di essere più capace a far prendere le medicine ai pazienti di quanto non lo fosse il fratello medico : questo risultato può essere ottenuto sulla base di due presupposti . Il primo consiste nel rendersi conto della particolare condizione psicologica in cui si trovano di volta in volta i propri ascoltatori e di valutare il momento opportuno (in Greco " o
kairòs " ) per parlare e dire determinate cose . Il secondo presupposto consiste nella capacità di usare diversi tipi di discorso appropriati alle circostanze .

Il nucleo dell'insegnamento di Gorgia è proprio dato dallo studio delle differenti forme del discorso e della molteplicità delle figure stilistiche da usare .per ottenere gli effetti persuasivi desiderati . Gorgia elabora anche un'interessante teoria a riguardo dell'arte (fortemente positiva ) : prima di lui nessuno se ne era occupato : perchè ? l'età presofistica era un'età dove la filosofia era prettamente cosmologica : si cercava cioè di spiegare da dove fosse saltato fuori il mondo ; con i sofisti la filosofia assume istanze a carattere antropologico : l'oggetto della ricerca diventa l'uomo e tutto ciò che lo riguarda . In seguito anche Platone elaborerà una teoria sull'arte (fortemente negativa : per lui è meglio attenersi al vero e non lasciarsi trasportare dall'arte che stimola passioni e non è copia di ciò che è veramente ) e pure Aristotele (la sua è una visione più positiva) ; Gorgia parte dal presupposto che noi non possiamo conoscere l'essere : se l'essere esistesse , l'arte sarebbe solo una sua imitazione imperfetta ; ma dato che non esiste , da una parte non ho limiti e dall'altra l'arte diventa una mia creazione . Dato che non c'è un vero mondo (l'essere non c'è) , l'artista è un creatore di mondi : per Gorgia il buon artista è quello che riesce ad ingannare gli spettatori , ed il buon spettatore è quello che si lascia ingannare dall'artista : tutto questo perchè l'essere non c'è .

Una domanda che ci si è sempre posti analizzando Gorgia e tutti i sofisti , è se essi fossero conservatori o rivoluzionari . Politicamente Gorgia ha idee tipicamente conservatrici ,: alla domanda "Che cos'è la virtù?" rispondeva nel più tradizionale dei modi : " I giovani devono fare questo , i vecchi quello , le donne quell'altro...." . Come mai un tipo innovativo come Gorgia seguiva la tradizione ? Egli segue la tradizione perchè se non si ha un criterio per stabilire ciò che è giusto e ciò che è sbagliato (dato che l'essere non c'è), la cosa migliore da fare è seguire la tradizione , ciò che ci è stato tramandato dagli avi . Nonostante questo , i sofisti (ed in particolare Gorgia) rimangono rivoluzionari perchè seguono la tradizione solo perchè gli fa comodo . Nell'ambito sofistico emersero poi due diverse interpretazioni sul binomio
nomos-fusis (convenzione - natura) : esistono due tipi particolari tipi di leggi : quella decretata dalla natura e quella decretata dall'uomo . Facciamo un esempio : per legge della natura , il più forte tende ad avere la meglio sul più debole ; ma per la legge artificiale creata dall'uomo , questo non può accadere perchè si è tutti uguali ed è la legge stessa che protegge il più debole dal più forte .

Ma quale è quella giusta ? E' una bella domanda ! Platone stesso affronta questo problema nel primo libro della "Repubblica" : un sofista afferma che la legge artificiale è un' ingiustizia dei più deboli nei confronti dei più forti : essi cercano di limitare coloro che sono più forti e che per diritto naturale hanno diritto a prevalere introducendo le leggi artificiali .

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ANTIFONE
A cura di Daniele Lo Giudice

Ci furono almeno due Antifonte, l'uno oratore, e l'altro sofista; l'uno originario di Atene e l'altro originario di Ramnunte. Senza escludere l'ipotesi di un terzo uomo, autore, come vedremo, di un trattato sui sogni. Antifonte di Ramnunte fu, forse, più celebre al suo tempo e nei periodi immediatamente successivi ma, non si sa bene, ancor oggi, chi sia davvero l'autore di un'opera in due libri sulla Verità. Ragioni stilistiche portano ad escludere che l'autore possa essere l'oratore e che, quindi, sia il sofista l'uomo che cerchiamo, ovvero quel tizio che tra i primi affermò che le leggi umane sono tutte convenzionali e che l'uomo dovrebbe seguire le leggi di natura, posto che sia possibile stabilire quali sono. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, tuttavia, non fu questo l'aspetto più importante del contributo alla storia del pensiero di Antifonte.

Se l'autore è la stessa identica persona, come vedremo, la tesi delle leggi di natura non quadra del tutto con l'affermazione che si deve cercare l'accordo e la convivenza pacifica, perchè, seguendo la natura, è assai probabile che si affermino aspetti egoistici, e non accordi sociali armoniosi. Viene da chiedersi se siamo di fronte ad un filosofo contraddittorio e paradossale, oppure ad una inedita profondità di pensiero, che seppe bene, infine, mostrare la conflittualità intima cui si trova spesso ogni individuo che ragioni. Il secondo lavoro di Antifonte, Della Concordia, potrebbe risultare la continuazione necessaria della Verità, anche se, in proposito, si è osservato che lo stile è diverso, "più artificioso", in forma di dialogo e non di trattato. L'Untersteiner si confessa contrario all'ipotesi del dialogo e francamente non saprei pronunciarmi. L'opera Politico è di più difficile attribuzione perchè, come testimonia Senofonte nei Memorabili, rivelerebbe un uomo che vuole avere influenza sullo stato, quindi più il retore che il maestro di virtù. Ma l'Untersteiner è piuttosto deciso nell'attribuire anche quest'opera al sofista. Analogamente, egli sostiene che anche
Dell'interpretazione dei sogni mostra coerenza con la dottrina del sofista di nome Antifonte. Risultassero vere tutte le ipotesi dell'Untersteiner, saremmo di fronte ad una personalità notevole, da distinguere decisamente rispetto all'Antifonte retore.

Altre notizie sulla vita sono impossibili a trovarsi. Siamo di fronte ad un piccolo enigma della storia e la cosa è non poco sconcertante, come vedremo, perchè il pensiero di Antifonte costituì una prima ed importante risposta alla sfida di Gorgia ed alle sue posizioni provocatorie. Sia Platone che Aristotele, ma soprattutto quest'ultimo, ricorsero ad argomenti elaborati da Antifonte e ragionando su molti temi sollevati nei libri di Fisica dello Stagirita, si ha chiaro lo stimolo esercitato da questo pensatore. Antifonte riprese certamente l'ideale protagoreo della pacificazione della vita sociale nel libero confronto di opinioni, ma dovette obbligatoriamente misurarsi, con la dottrina gorgiana della negazione di ogni validità alle esperienze sensibili, ed anche a quelle più squisitamente intellegibili, sentendosi certamente contrariato e negato da questo attacco alle sue più profonde convinzioni. L'Untersteiner offre una citazione nella quale Antifonte riprese il pensiero di Gorgia, esponendolo per poi criticarlo: " di lui [cioè di Gorgia] apprenderai queste cose: « e che non vi è / per lui nulla che sia uno, fra quante cose può vedere con la vista più lungi e può pensare con l'intelletto chi più lungi può conoscere...»

In vista dell'obiettivo di rivalutare non solo sensi, esperienza e ragione, ma anche l'unità sostanziale dell'individuo, si può pensare che Antifonte abbia realizzato una contestazione puntuale ed articolata di tutte le tesi gorgiane, in particolare quella che affermava che né l'eternità, nè la corruzione siano predicabili dell'ente.

Come rispose Antifonte?
Egli pose, in modo davvero efficace, e prekantiano ante-litteram, il tempo come scienza del prima e del poi, misura degli eventi, ordine della loro successione. Gorgia aveva persino provato a negare l'esistenza del tempo, ma aveva sbagliato clamorosamente a confutarlo come esistente in senso ontologico, giacchè il tempo, disse Antifonte, non è sostanza, ma, certamente, sarà "misurabile" e noi lo misuriamo con giorni, ore, lune, cicli di anni. Indirettamente vi è una precisazione rispetto anche a Protagora: l'uomo che conosce il tempo non è solo misura soggettiva di tutte le cose, ma anche misura oggettiva, ovvero comune a tutti quanti abbiano il senso del tempo. Le esperienze si succedono nel tempo, dunque è possibile ordinarle e riflettere su di esse. Il loro verificarsi riporta ad un logos, una ragione per la quale, prima di questo, si è verificato quest'altro. Possiamo avere dubbi, avrà certamente concesso Antifonte, sulla validità di una singola esperienza o sensazione, ma non sulla loro concatenazione. Gorgia nega la legittimità razionale della concatenazione, Antifonte l'afferma. E l'argomento con il quale si volge contro Gorgia, e probabilmente vinse la contesa, fu che l'infinito non esiste in forma attuale, argomento che certamente convinse Aristotele, il quale l'elaborò in parte meglio ed in parte peggio. Tutto sta nel comprendere che, se si vuol dare valore ad un'esperienza, essa deve considerarsi finita. Così come cessiamo di osservare che quando il cielo si annuvola è possibile che piova, ma quando il cielo è sereno, è impossibile che piova. Non vi è alcun motivo per continuare all'infinito l'osservazione del cielo. Su questo piano, e solo su questo, ovviamente, la logica di Antifonte ebbe la meglio. Ma bastava ad andar oltre le difficoltà opposte da Gorgia al processo conoscitivo. Tutte le esperienze si attuano, si attuarono e si attueranno in parte per natura e per caso e in parte per arte Questo disse Antifonte, ed è evidente in questa affermazione lo sforzo per distinguere il carattere e le qualità di ogni singola esperienza.

Delle esperienze si può parlare in generale, ma rischiamo di fare d'ogni erba un fascio, se non le analizziamo e le classifichiamo una per una. Il caso va inteso in senso soggettivo. Alcune esperienze ci sono capitate per caso e non perchè le abbiamo volute e cercate, ma non per questo sono meno istruttive delle altre. Quelle per arte, sono dovute al fatto che siamo in grado di fare alcune cose, e l'arte di fare le cose è dovuta all'esperienza. Come potrebbe un inesperto costruire una casa od una trireme? L'Untersteiner aggiunge una sorta di completamento a questa tesi: "tutto quello che viene fatto secondo la legge e indipendentemente dalla legge viene senz'altro compiuto in dato tempo o è stato compiuto o lo sarà." Scrive a commento: " Il concetto unitario che ne risulta è chiaro: le esperienze, deve aver detto Antifonte, a qualunque ordine appartengano, sia naturale sia intellettuale, esistono perchè / si manifestano secondo quella successione temporale che, sola, rende possibile un giudizio di esistenza." Per Antifonte, quindi la percezione sensibile, la memoria che abbiamo di questa, è garanzia sufficiente della validità del conoscere, confutazione oggettiva a qualsiasi contestazione dell'inganno dei sensi. Non ci è dato di sapere a quale livello ci fu anche una polemica con Democrito e la sua teoria della soggettività assoluta in ordine al giudizio di dolce ed amaro, ma è probabile che Antifonte, mente analitica di eccezionale livello, come si sarà compreso, abbia avanzato qualche precisazione in ordine alla differenza tra sensazione elementare ed intensità di piacere o dispiacere che proviamo rispetto ad essa. All'affermazione gorgiana della impossibilità umana di distinguere tra ciò che esiste veramente e ciò che esiste solo nella nostra fantasia, Antifonte rispose per le rime, asserendo che solo ciò che esiste è visibile e conoscibile, mentre la fantasia non ha riscontro materiale e formale con la realtà. L'impossibile non può concretarsi. L'esempio avanzato fu quello di un letto di legno sepolto sottoterra, che per "putredine", producendo un germoglio, non si sarebbe mai duplicato come letto, ma semplicemente come legno. Anche su questo piano, sembra dire l'Untersteiner, Antifonte distinse natura ed arte, e probabilmente vide nell'arte intesa come tecnica di manipolazione, un'estensione della natura, alla maniera di Prodico di Ceo. Tuttavia, mentre Prodico negò e confutò l'opposizione tra natura e mondo dell'uomo, tra natura e civiltà, Antifonte ammise, anzi, affermò, che tutto ciò che è civiltà e legge, appartiene al mondo della convenzione, senza peraltro considerare che la convenzione stessa ha tratto origine dalla necessità di porre fine alla contesa tra uomo e uomo onde porre le condizioni della coesistenza pacifica.

Opposizione di natura e legge civile
Si è scritto che Antifonte fu particolarmente sensibile al tema della costrizione dell'individuo in abiti civili e formali, e che egli detestava l'eccesso di leggi, di obblighi, di norme che si moltiplicavano all'infinito, ignare ed irrispettose della natura umana, e persino della libertà. Non è chiaro, ovviamente, se questa particolare posizione fosse frutto di una contingenza storica e politica, il dilagare dei diritti del volgo e quella dittatura del conformismo delle masse deprecato da così tanti filosofi in ogni epoca, o se invece rispecchiasse una posizione più profonda e radicale. Comunque sia, il contrasto con Prodico è evidente, dettato da un'insofferenza per l'eccesso legislativo che aveva una qualche dignità filosofica. Antifonte non era un guerrafondaio, e non mirava a liberare belve bionde. Non teorizzò il diritto del più forte a fare i propri comodi nella società. Aveva di mira la concordia politica e sociale. Credeva nell'accordo e nel compromesso, proprio per il suo carattere convenzionale. E' pertanto da escludere che egli rappresentasse interessi forti compressi dalla legislazione populista.

Molto più probabilmente, egli vide che l'eccesso legislativo procurava effetti opposti a quelli desiderati: non più ordine e disciplina, ma caos, ingorghi giudiziari, sentenze contraddittorie, una macchinosità sempre più frenante e debilitante. Fu dunque chiaramente consapevole che la legge interpretata in questo modo cavilloso ed ossessivo portava alla moltiplicazione delle ingiustizie, anzichè a giustizia. E, per di più, esprimeva una visione totalmente pessimistica rispetto all'uomo vero, in carne ed ossa, all'uomo prodotto dalla natura e capace per questo, e non per educazione, di essere virtuoso. Intendiamoci: non buono di natura, nel senso predicato da Rousseau, ma virtuoso nel senso di virile, onesto, quadrato, fermo e responsabile. O per dirla con Aristotele, in grado di deliberare e di cercare l'eccellenza in ogni cosa.

La legge come divisione tra gli uomini e le città
Un altro punto interessante della critica che Antifonte rivolse alla legge intesa come nomos fu quello del particolarismo. Ogni città ha la sua legge, e spesso ciò che è giusto e legale qui, è ingiusto ed illegale là. L'eccesso legislativo è dunque un fattore di divisione, un'esasperazione delle differenze, un contrasto artificioso tra gli uomini. Nessuna legislazione particolare, portata all'estremo cavilloso, può considerarsi universale, e quindi davvero utile a metter fine alle incomprensioni, alle guerre.

Ateo
Pare certo che Antifonte si sia professato ateo. Si ricava questa impressione esaminando l'affermazione, riportata dall'Untersteiner, che "gli dei furono prodotti d'arte e non di natura". Del divino vi potrebbe essere esperienza, tuttavia, in quanto il nome di ogni singolo dio rinvia all'esperienza che noi abbiamo di determinate funzioni ed operazioni. Isolate ed astratte dal contesto generale delle attività umane e naturali, il forgiare i metalli diviene arte di Efesto, l'usare saggezza, prudenza ed astuzia è arte di Athena, vedere lontano è arte apollinea, e ... la musica espressione del dionisiaco.

Distinzione tra arti fantastiche e tecnica di cose serie
C'è qualcosa che non convince nel quadro generale disegnato dall'Untersteiner, ed è la presunta condanna che Antifonte avrebbe formulato nei confronti di musica e poesia. L'apertura mentale di Antifonte, se tutto quanto riportato fin qui corrisponde in qualche modo al vero, non può essersi improvvisamente richiusa di fronte al fenomeno artistico più spontaneo, naturale e genuino: il canto degli uccelli, il canto dell'uomo, la creazione di un testo che racconta esperienze ed emozioni. Forse, Antifonte, ebbe una personale antipatia per la musica e la poesia, ma non al punto da farne una questione di politica educativa. Supponendo, come l'Untersteiner, che Antifonte intendesse escludere dai programmi educativi musica e poesia, si viene di fatto ad ammettere una contraddizione radicale: ovvero l'intenzione di una legislazione per regolare l'educazione e fissarne a priori i contenuti, in maniera censoria. Pare accettabile l'idea della distinzione tra arti rivolte a produrre effetti artistici ed arti rivolte a produrre beni indispensabili, e quindi fondamentali. Poteva essere l'inizio di una riflessione sull'economia politica, ma non abbiamo alcuna notizia che giustifichi una simile ipotesi.

I sogni
Se l'Antifonte di cui abbiamo parlato finora sia lo stesso autore del trattato sui sogni non può essere certo nemmeno al 50%. Tuttavia, potremmo prendere per buone le affermazioni dell'Untersteiner, in mancanza di meglio. Il sogno è, in fondo, un evento naturale cui nessuna legislazione può imporre regole di svolgimento e tantomeno di interpretazione. La posizione di questo Antifonte fu paradossalmente opposta al suo credo fondamentale: sbagliata la divinazione naturale, corretta la divinazione artificiosa. Seguendo la prima, si ha che il sogno è propizio quando riporta eventi felici, e funesto quando propone situazioni drammatiche ed eventi funesti. Al contrario, la divinazione artificiosa prescindeva da questo semplicistico punto di vista, e consentiva di interpretare in senso propizio anche gli incubi notturni. Questo Antifonte cercò di evidenziare l'esistenza di una scienza mantica, e si disse in grado di padroneggiarla, ma francamente le argomentazioni dell'Untersteiner non mi risultano affatto persuasive e chiarificatorie. Ma è difficile dire che questo Antifonte sia lo stesso di cui abbiamo parlato finora.

Sulla legge
"[...] Giustizia consiste nel non trasgredire alcuna delle leggi dello Stato di cui uno sia cittadino; e perciò l’individuo applicherà nel modo a lui piú vantaggioso la giustizia, se farà gran conto delle leggi, di fronte a testimoni; ma in assenza di testimoni, seguirà piuttosto le norme di natura; perché le norme di legge sono accessorie, quelle di natura, essenziali; quelle di legge sono concordate, non native: quelle di natura, sono native, non concordate. Perciò, se uno trasgredisce le norme di legge, finché sfugge agli autori di esse, va esente da biasimo e da pena; se non sfugge, no. Ma se invece violenta oltre il possibile le norme poste in noi da natura, se anche nessuno se ne accorga, non minore è il male, né è maggiore se anche tutti lo sappiano; perché si offende non l’opinione, ma la verità".
(Fr. 87 B 44 A DK Papiro di Oxyrinco, XI n. 1364)

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TRASIMACO

Introduzione
Trasimaco nacque a Calcedone in Bitinia, una colonia di Megara e fu attivo soprattutto negli ultimi tre decenni del secolo V. La data di nascita potrebbe collocarsi intorno al 450, 460 a.C. Giovenale diffuse la notizia che morì malamente, pentito e rammaricato per le dottrine che aveva insegnato ma, non si è trovata alcuna conferma di quanto affermato successivamente dallo scoliaste, ovvero che si impiccò. Fu soprattutto un retore, un avvocato più che un sofista. Essendo uno dei personaggi protagonisti del dialogo platonico Repubblica, dobbiamo credere che le dottrine morali e politiche quivi patrocinate corrispondano al pensiero di Trasimaco, anche se non sempre Platone fu un testimone obiettivo del pensiero altrui.

Trasimaco è presentato come persona irruente, irriverente, antipatica, che nemmeno ama perdersi in chiacchiere. Dopo un primo passaggio, attacca frontalmente Socrate, sfidandolo a dire qualcosa di concreto anzichè perdersi in lunghi giri di parole sulla giustizia. Trasimaco ha la sfrontatezza di chiedere del denaro per dare quella risposta che Socrate dichiara di ignorare, secondo il classico schema dell'unica cosa che so è di non sapere. Trasimaco dichiara, al contrario, di sapere, ed afferma: " Io dico che la giustizia altro non è che se non ciò che giova al più forte...O perchè non mi lodi? ... Ma non lo vorrai." Socrate obbietta con ironia che se a Polidamante, il pancratiaste, giova la carne di bue, questo potrebbe significare che essa giova anche a noi, meno forti di lui? Trasimaco risponde in modo offensivo: "Sei un buffone, Socrate. Tu fingi d'intendere la mia definizione in modo da falsarla addirittura."
- "Tutt'altro, eccellente uomo; ma dì in modo più chiaro che cosa vuoi intendere."
"E non sai che alcune città sono rette da tiranni, altre dal popolo, altre da ottimati?"
- "E come no?"
" E in ogni città la forza non appartiene al governo costituito?"
- " Senza dubbio"
" Orbene, ciascun governo si fa le leggi che meglio gli giovano: le democrazie se le fa democratiche, la tirannide tiranniche e gli altri al pari, e fattele i governanti dichiarano giusto per i sudditi quel che giova a se stessi e puniscono chi trasgredisce i loro ordini come violatori delle leggi e colpevole di ingiustizia. Questo è dunque, bravuomo, quello che tutte le città io dico essere ugualmente giusto: ciò che giova al governo costituito, che è poi il potere dominante; e però chi ben ragiona deve riconoscere che giusto è dappertutto egualmente questo: ciò che giova al più forte."
Socrate chiede a Trasimaco se qualche volta i governanti sbaglino, e questi lo ammette. Ma ciò porta ad un'incongruenza: se i governanti sbagliano significa che emanano disposizioni che non giovano a loro stessi. Ciò porta Trasimaco a contraddirsi, ed ad affermare che i governanti non sbagliano mai, e che comunque il popolo deve obbedire. Ciò, secondo Socrate, contraddice ciò che avviene nelle scienze, nessuna delle quali osserva ed ordina quel che giova al più forte, bensì quel che giova al più debole, come la medicina. Trasimaco concede un assenso superficiale all'affermazione socratica, ma subito riprende da capo la sua teoria, asserendo che la giustizia è ciò che giova a chi comanda, mentre l'ingiustizia governa gli ingenui ed i giusti. I giusti, secondo Trasimaco hanno sempre la peggio; dunque chi osserva le leggi è un infelice, mentre il vero ingiusto è sempre felice, soprattutto quando sa comportarsi in modo da non passare per ingiusto.

Dalla lettura e dalla riflessione conseguente su questa prima parte del dialogo, mi pare evidente, che tra Trasimaco e Socrate, oltre ad una buona dose di antipatia, si registri anche una mancata comprensione del senso delle rispettive affermazioni. Quella di Trasimaco, infatti, non era una sorta di teorizzazzione dell'ingiustizia, ma una denuncia del carattere strumentale della cosiddetta giustizia. Gli uomini chiamano giustizia l'ipocrisia e la parvenza della legalità, che è dettata dal potere. Ma il potere fa sempre le leggi a sua misura. Trasimaco è dunque in linea con Antifonte ed Ippia, e riprende la loro denuncia del carattere di classe e di parte della legge civile. Socrate, nel tentativo di definire, al contrario, il concetto stesso di giustizia, urta contro la parzialità delle leggi senza, tuttavia, dar loro un gran peso, almeno in questa prima fase. Per lui, infatti, era fondamentale pervenire in primo luogo alla concettualizzazione della giustizia stessa, per chiarire in primo luogo che cosa si andava cercando.

Messo a fuoco il tipo e la qualità del contrasto tra Socrate e Trasimaco, viene in evidenza che il vero protagonista di questo primo spezzone del dialogo platonico è l'incomprensione. Socrate e Trasimaco hanno due linguaggi diversi e nessuno dei due sembra particolarmente interessato a capire il motivo dell'altro, anche se, ovviamente, Socrate esce (più apparentemente che realmente) vincitore della contesa. Non è infatti accettabile che l'ingiustizia possa diventare in qualche caso virtù e che un uomo che viola leggi della propria città sia da definirsi virtuoso. Trasimaco, dal canto suo, pur avendo una chiara e realistica visione di come vanno realmente le cose nel mondo civile, non sembra in grado di trarne delle conseguenze politiche. L'unico modo di salvarsi dalla giustizia delle città è l'ingiusto agire individuale di chi è abile a violare le leggi senza farsi scoprire. Non vi è in Trasimaco alcuna speranza di una giustizia giusta, a differenza, ad esempio, di Ippia, per il quale, un giorno, la legge naturale diventerà la legge giusta.

Il problema della giustizia
Nel primo libro della Repubblica Platone riferisce l’opinione di Trasimaco sul rapporto fra la giustizia e il potere. Dalla provocazione di questo sofista prende poi spunto il trattato sullo Stato, sviluppato da Platone nei successivi nove libri.
1 (10) [definizione della giustizia e del giusto]. Piú volte Trasimaco, mentre noi parlavamo, era balzato su per interloquire obbiettando, ma poi n’era stato impedito dagli astanti, che volevano star a sentire il discorso sino alla fine; ma come sostammo un momento dopo ch’io ebbi detto queste cose, non poté piú reggere, e ravvoltosi in se stesso come una fiera, si slanciò su di noi, come per sbranarci. Io e Polemarco dalla paura restammo agghiacciati; ed egli nel mezzo urlando: “Che sciocchezze andate dicendo da un pezzo, o Socrate?” gridò.
2 Io [Trasimaco] affermo dunque essere il giusto non altro che l’utile del piú forte.
3 (8) Trasimaco scrisse in un suo discorso qualcosa di simile, che gli dèi non badano alle cose umane; altrimenti non trascurerebbero il massimo dei beni fra gli uomini, la giustizia; vediamo infatti che gli uomini non l’applicano mai.

Frr. 85 A 10 DK (Platone, Repubblica, I, 336 b, 338 c) e 85 B 8 DK (Hermias Alexandrinus, In Platonis Phaedrum, ed. Couvrer, pag. 239, 21)

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IPPIA DI ELIDE

A cura di Daniele Lo Giudice

 

Introduzione
Ippia di Elide (443 - prima metà del sec. V) fu filosofo di multiforme ingegno speculativo e di grandi conoscenze enciclopediche, fece frequenti viaggi in qualità di retore e di rappresentante politico a Sparta, Atene, Olimpia e in Sicilia. Fu uno dei principali esponenti rappresentante di quella nobile sofistica di cui parla Platone nel Sofista. La sua filosofia propugnava il principio dell'"autarchia", cioè del bastare a se stessi, in una prospettiva individualistica, che sta alla base anche della sua filosofia della politica, il cui punto di partenza è l'antitesi tra legge e natura. Le leggi non hanno invariabilità e stabilità assolute, e inoltre determinano arbitrio e giustificano spesso la tirannide, quelle autentiche non sono dettate dall'uomo come concetto astratto bensì dalla stessa natura umana, legislatrice di regole non scritte, radicate nella nostra natura umana, ma che sono tuttavia preferibili perché uguali in ogni luogo e in ogni momento.

Con queste tesi brillanti e originali Ippia realizza così una delle prime filosofie a base egualitaria, internazionalista, democratica. Per dare una soluzione al problema geometrico della trisezione dell'angolo, tracciò una curva definita successivamente quadratrice, perchè usata da Dinostrato per risolvere la questione della quadratura del cerchio. Alcuni storici della filosofia lo considerano autore dello scritto attribuito all'Anonimo di Giamblico. Scrisse molto, anche testi di carattere letterario, come odi religiose ed elegie, ma di lui ci sono pervenute solo testimonianze frammentarie e qualche titolo: il Troiano, il Registro dei vincitori ad Olimpia, la Raccolta e i Nomi dei popoli. È molto probabile che sia lo stesso Ippia protagonista dell'Ippia maggiore e dell'Ippia minore di Platone.

Il pensiero
Due dialoghi platonici -
Ippia maggiore ed Ippia minore - ci introducono ad un personaggio antipatico e pieno di sé, borioso, spavaldo e superficiale, che fa di una capziosa verbosità la propria arma argomentativa privilegiata. Ma, l'Ippia minore è un dialogo anomalo ed inquietante, nel quale Socrate sembra dare letteralmente i numeri, mentre lo stesso Ippia rimane sconcertato. Socrate avanza una strana teoria, che poi rinnegherà immediatamente, ma intanto l'ha detta, e dicendola la sostiene anche con qualche argomento. La cosa non quadra con una certa idea che abbiamo di Socrate e nemmeno con Platone. Ma c'è Senofonte a testimoniare la veridicità dell'episodio, a meno che non si ammetta che un ignoto burlone abbia scritto il dialogo speculando su quanto raccontato da Senofonte.

Di che si tratta? Socrate afferma che chi fa volontariamente il male, sapendo cioè quello che fa, è sicuramente superiore a chi lo compie involontariamente. Ippia risponde che persino le leggi (che lo stesso riteneva sempre insufficienti e mancanti) riconoscono che il dolo volontario è di maggiore gravità, e quindi puniscono l'autore di un crimine volontario con pene più severe. A questo punto Socrate confessa di non sapere a quale argomento appigliarsi. Eppure, preso da stato febbrile, propone ad Ippia di ascoltare qualcosa. Ecco che poco alla volta viene in chiaro cosa intendeva Socrate. Chi sa distinguere tra bene e male e tuttavia sceglie il male, è intellettualmente più dotato, più completo, diremmo noi: più consapevole. Dunque, la conclusione paradossale è che solo un uomo dabbene può fare il male consapevolmente.
Uno degli argomenti di Socrate è quello del medico di cui ci serviamo. Chiede ad Ippia: " E' meglio servirsi di un medico che fa male involontariamente o di uno che procura malattia volontariamente? " E quello, ammettendo che è migliore chi sa fare il male, prepara la risposta finale di Socrate. " E infine, della nostra anima non vorremmo che fosse quanto di migliore è possibile?" "sì" risponde Ippia. " E non sarà dunque migliore se fa il male volontariamente piuttosto che involontariamente?" Ippia risponde:" Ma sarebbe enorme, Socrate,..." Il dialogo prosegue ancora per un po', senza che le posizioni mutino sostanzialmente.

Ora, per quanto si sia riflettuto su tutta la vicenda, è impossibile trovare probabili che due alternative: o si tratta di un falso, redatto probabilmente da qualche acuto aristotelico, o si tratta di un'opera perfettamente compiuta, ovvero non di un lavoro tralasciato a metà da Platone. Il suo intento non era quello di trasmettere una conclusione, ma di far discutere, superando tutta una serie di luoghi comuni, non ultimi gli stessi luoghi comuni diffusi da Socrate in altri contesti, come quello che in genere fa il male chi non conosce il bene. Il vero obiettivo di Platone era evidenziare, allora, la profondità di Socrate e la pochezza e superficialità di Ippia, che intendeva il termine migliore solo in un senso etico e morale, mentre Socrate lo intendeva nel senso di individuo in grado di discernere, valutare le conseguenze delle proprie azioni, avere una mente lucida. La domanda che dovrebbe venirci spontanea di fronte all'affermazione sarebbe: migliore in che senso? Non venendo da Ippia alcuna reazione di questo tipo, ma solo un rifiuto moralistico, abbiamo un ritratto dell'uomo convinto di avere raggiunto grandi conoscenze e grandi certezze, eppure assai scarso di acutezza intellettuale.

Così vengono ad evidenziarsi due metodi assai diversi per introdurre non solo l'insegnamento della filosofia, ma proprio il concetto di educazione in generale. Per Ippia che, secondo l'Untersteiner, fu nientemeno che il fondatore del programmo educativo centrato sul quadrivio, la trasmissione del sapere è retorica, cioè discorso che fissa nella memoria concetti inquestionabili come il bene ed il male. Ed ovviamente si scandalizza di ogni possibile obiezione al dogma. Per Socrate la discussione e la ricerca dialettica sono invece l'unico modo per produrre non solo un sapere superficiale, una cultura di nozioni, ma una consapevolezza, un saggiare le questioni sotto molteplici aspetti. Insomma, è vera filosofia e vera pedagogia la via socratica e non quella di Ippia, niente più di un bravuomo molto preso da quella che poteva essere la sua missione ed il suo tornaconto, ma assolutamente inadatto a fare l'insegnante perchè incapace di suscitare la discussione e la ricerca, incapace di suscitare domande del tipo: in che senso intendi migliore? Non si può prescindere da questo Ippia rappresentato da Platone per parlare di Ippia di Elide, matematico valente, insigne maestro di virtù, tuttologo, sapiente enciclopedico, anch'egli sostenitore della gorgiana teoria che il retore potrebbe imbastire discorsi sensati e persuasivi su tutto lo scibile umano.

Socrate, nel vero Ippia, l'Ippia maggiore, sembra dilettarsi nel farlo a pezzettini, nel ridurlo alla statura d'un nano. Ma questa volta non riusciamo a comprendere Platone: non sapeva che riducendo il valore del contendente, veniva a deprezzare il valore di Socrate? Era davvero così scadente, superficiale e vuoto tale Ippia, il prototipo di un certo tipo di sofista, capace solo di discorsi generici e grossolani, ampollosi e vuoti? Qualche dubbio è lecito. Un matematico deve avere mente sobria e disciplinata, essenziale e logica. Ed Ippia fu l'unico tra i sofisti a poter vantare una solida preparazione matematica. Certo, non era di scuola pitagorica.

Ma il marchio di fabbrica del pitagorismo qualificava e certificava un matematico in modo particolare? Il primo punto da chiarire è allora questo: a differenza dei pitagorici Ippia ricevette un'educazione alla geometria, o meglio, che privilegiava la geometria rispetto all'aritmetica. Gli storici della matematica grosso modo concordano sul fatto che egli diede un'importante contributo alla quadratura del cerchio, anche se poi, la vera dimostrazione venne riconosciuta come merito di Dinostrato. E, forse, Platone detestava Ippia per la sua superiorità in campo matematico, o, forse, per il suo rifiuto ad insegnare (gratis) nell'Accademia. Ce n'è a sufficienza per capire come mai tra i due non corresse buon sangue. Probabilmente, la verità attorno all'Ippia maggiore è una sola: non un dialogo, ma un pamphlet, uno scritto polemico dovuto a circostanze particolari, persino rabbioso. A meno che, a differenza di tanti altri dialoghi, costruiti in atmosfere ideali e rarefatte, l'Ippia maggiore non fosse che un resoconto nudo e crudo di un vero scontro, un libro-verità su un Socrate più velenoso del solito, cioè il vero Socrate contro uno dei tanti Ippia rinvenibili sul mercato all'ingrosso delle scuole sofistiche.

Dopo aver letto i dialoghi platonici si può nutrire nei confronti di Ippia un pregiudizio che non era sano. E' come quando incontri per la prima volta una persona che tuttavia ti è stata descritta attraverso aneddoti e resoconti sommari. Ha detto questo, ha fatto quest'altro, di solito è nervoso, aggressivo, parla troppo, gli piace la letteratura russa, ha la casa piena di quadri comprati lungo i navigli, non legge i giornali tutti i giorni, spesso mangia in quei bar dove si fa il brunch verso le 11 di mattina, ecc. So tutto di lui senza aver mai visto niente. O, forse, so niente? Merito dell'Untersteiner, indubbiamente, è la ricostruzione del probabile pensiero di Ippia in termini più oggettivi. Scrisse moltissimo, con incursioni in ogni campo, ma non rimangono che frammenti, oppure testi di seconda mano, che è sempre avventuroso riconoscere come legati al vero pensiero di Ippia. Certamente fu enciclopedico; aveva una cultura enorme, allevata da una memoria formidabile.

Ippia Nacque ad Elide in un molto probabile 443 a.C. Nel 399 era già famoso, ma dei suoi maestri non si sa nulla. Viaggiò molto, anche come ambasciatore e fu spesso a Sparta dove, secondo l'Untesteiner "sperimentò quella rigidità della legge, che doveva combattere nella sua teoria." Fu ad Atene almeno due volte, e in Sicilia esercitò una grande influenza, specie sul tiranno di Siracusa Dionigi il giovane. Ippia era di orientamento democratico, fece attivamente politica su scala internazionale. Fu ucciso mentre "tramava insidie contro la propria patria."

Aveva sposato una certa Platane, dalla quale ebbe tre figli. Scrisse moltissimo e le sue opere più importanti dovrebbero essere
Troiano, Consigli di Chirone, Nomi dei popoli, Registro dei vincitori di Olimpia. Le fonti per conoscere il pensiero di Ippia sono, secondo l'Untersteiner, oltre ai frammenti, il capitolo di Tucidide che interpreta i fatti di Corcira, l'Anonymus Iamblichi, le cui idee rispecchierebbero fedelmente il pensiero di Ippia. Ed il Proemio spurio ai Caratteri di Teofrasto sarebbe opera di Ippia. Su queste basi ecco un quadro del pensiero di Ippia. Un politico deve saper parlare in pubblico in modo elegante e persuasivo. Ma l'arte retorica non basta, occorre avere i materiali da plasmare: i contenuti. Essi si ricavano con la conoscenza di tutto, una conoscenza enciclopedica, e qui è la differenza con Gorgia, non solo perchè Ippia afferma che la conoscenza è possibile, ma perchè è anche comunicabile.

La meta della conoscenza, tuttavia non è la sapienza separata di ogni campo, ma la superiore visione della realtà, la quale è natura della realtà stessa. Ha la sapienza politica necessaria chi perviene a conoscere la natura, la physis della realtà. Questa natura della realtà corrisponde alla verità. Sembrerebbe, se non parlassimo di Ippia, che parliamo di Aristotele.

Gradi della conoscenza
La conoscenza della natura delle cose avviene attraverso tre gradini da salire: la conoscenza delle parole e del loro significato, la conoscenza dei numeri, il concetto di giusto ed il concetto in generale. La conoscenza delle parole deve essere analitica prima ancora che semantica. La parola si compone di lettere e fonemi la cui esatta pronuncia, con la giusta considerazione per ritmi ed accenti porta alla perfezione del linguaggio. La scelta delle parole è estremamente importante perchè è attraverso di essa che perveniamo alla precisione del discorso, la quale rispecchia l'acutezza del proposito, del cosa vogliamo comunicare. Il secondo gradino da scalare è quello della matematica, non solo il numero nella sua forma aritmetica, ma l'immagine sensibile delle cose, nella loro forma scheletrica e strutturale, la geometria fondata sulle immagini, le figure. Ippia privilegia l'impatto sensibile, l'esperienza della figura, rispetto ad una concezione idealistica.

In questo quadro si spiegherebbero i suoi tentivi, storicamente documentati di fornire una dimostrazione della quadratura della circonferenza, in un quadro dinamico, di geometria animata, di linee mobili, di curve. Il terzo gradino è quello rappresentato dalla conoscenza del concetto di giusto, in diversi significati: appropriato, conforme a norma naturale, regolato da leggi che rispecchiano questa conformità alla natura delle cose. Questo terzo gradino è certamente il più importante perchè Ippia vi fonda la sua convinzione fondamentale: l'aver egli stesso compreso la natura delle cose, e dell'uomo in particolare.

La critica alle leggi
Su questa base egli mosse una critica generale alle leggi, al nomos, asserendo, come Antifonte, che le leggi esercitano violenza sulla natura dell'uomo: siamo così agli antipodi da quanto teorizzato da Prodico di Ceo. Ma il senso dell'affermazione non è chiaro, anche se, muovendo da posizioni democratiche, sostanzialmente protagoriche e periclee, si può pensare che non volesse affermare il diritto del più forte ad esercitare prepotenze, ma qualcosa di radicalmente diverso, ovvero denunciare la gabbia legislativa che limita il libero sviluppo delle persone, proibendo quello che non deve essere proibito, ed imponendo quello che non può essere imposto, come, ad esempio, la religione ufficiale. Avremmo dunque un Ippia radical-democratico, una ragione di più, guarda la combinazione, per un intensa contrapposizione al giovin Platone, simpatizzante per l'aristocrazia e filo-spartano. E questa sarebbe ragion più che sufficiente per realizzare l'antipatia reciproca, se non fosse che, proprio tra i democratici ateniesi della fase post-Pericle, si fosse instaurata una convinzione del tutto anti-democratica, ovvero il diritto della maggioranza di esercitare una sorta di dittatura con la forza della legge. Ippia era un democratico, allora, ma per nulla in sintonia con i democratici reali, la nuova ondata di demagoghi, la canea dei sofisti dei secondo e terzo ordine che concionavano agli angoli delle strade.

Queste considerazioni concorrono ad arrichire il quadro già mosso e complesso, per nulla lineare. Raramente, nella storia, progressisti e conservatori hanno formato blocchi monolitici l'un contro l'altro armati, e men che mai questo accadde ad Atene. Raramente gli intellettuali si sono prestati ad essere "organici", cioè servi di strategie di puro esercizio del potere. Spesso hanno teso a criticare ciò che prediligevano, perchè delusi dai comportamenti dei capi. Come del resto oggi, in Italia, gli interessi puramente economici, il conflitto oggettivo tra le classi passa spesso in secondo ordine rispetto a problemi di potere, istituzionali, giudiziari, a vere e proprie vanità ed ambizioni di singoli, così in Grecia le cose non andavano tanto diversamente. Ecco perchè non convince fino in fondo il ritratto del vanesio disegnato da Platone: quando Ippia affermava di aver compreso la natura dell'uomo e di aver quindi trovato una ricetta, un farmaco alla crisi sociale, morale e politica, doveva, in effetti, aver scoperto qualcosa di importante e di nuovo. Le leggi scritte dagli uomini non riflettevano che in poco le leggi non scritte, ma scolpite nella natura umana.

Ad una fase nella quale, come ritiene l'Untersteiner, Ippia credette che le leggi umane fossero il metro di misura della giustizia, seguì una fase nella quale si persuase che le leggi umane negavano la vera giustizia, quella non scritta, ma rinvenibile in ogni uomo e nel logos afferrato da Eraclito. Ma il problema della traduzione di questa giustizia fisica in giustizia legislativa e diritto positivo non pare risolto, e non solo per impossibilità politica, ma per difetto teorico e chiarezza di intenti. Non ne abbiamo le prove, ma nemmeno l'Untersteiner potrebbe esibire prove in senso opposto. Ippia rimane un mistico della giustizia, con una fortissima idea confusa che non riescì ad esporre, se non negando la giustizia realmente esistente, forte delle delusioni e delle amarezze che procura. Solo su un punto egli seppe avanzare una proposta concreta: punire chi calunnia. Constatato che la legislazione delle città greche in generale non prevedeva pene contro chi avanzava accuse ingiuste, oppure spargeva dicerie contro qualcuno al fine di denigrarlo e renderlo odioso, Ippia se ne fece scrupolo e punto d'orgoglio, imbastendo una specie di campagna perchè la falsa testimonionza resa contro qualcuno diventasse un reato, tra i più gravi.

Basterebbe questo a smentire la stereotipata superficialità di Ippia? Credo di sì: egli disse, pressapoco, che è ancora più ripugnante chi sparge menzogne rivolte a denigrare altri di chi commette prepotenze: quest'ultimo agisce alla luce del sole; il calunniatore agisce nell'ombra, come Jago, che seppe suscitare i più bestiali sentimenti di gelosia in Otello, fino al punto da indurlo all'assassinio. Grazie a Shakespeare (ed a Giuseppe Verdi), forse anche Ippia può trovare finalmente il giusto riconoscimento. Punendo duramente chi calunnia, anche per legittima difesa, forse la legge umana incontra quella naturale, o divina, che dir si voglia.

La curva di Ippia
Ippia di Elide ideò una curva mediante la quale è facile risolvere sia il problema della quadratura del cerchio che della trisezione dell'angolo generico. Resta ormai chiarito che attraverso il solo uso di riga e compasso non si riesce a rettificare la circonferenza e quindi a quadrare il cerchio. Se, oltre alle linee elementari (segmenti, circoli), consideriamo linee che non sono tali, cioè facciamo ricorso a curve di ordine superiore a due, tracciati eventualmente con strumenti non elementari, allora si riesce nell'intento di rettificare la circonferenza. E' interessante vedere, fra tante almeno una rettificazione di circonferenza ottenuta senza l'uso esclusivo della riga e del compasso.

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PRODICO

A cura di Daniele Lo Giudice

Introduzione
PRODICO nacque a Ceo, un'isola delle Cicladi, tra il 470 e il 460; venne mandato dalIa sua città in diverse occasioni ad Atene, dove ebbe un grande successo come oratore politico, nonchè per le sue lezioni di filosofia e di retorica. Dovette essere un uomo di grande fascino intellettuale, se riuscì riunire intorno a sè molti giovani. Prodico è rimasto famoso soprattutto per i suoi studi di sinonimica e di etimologia, che inquadrò nel piú vasto problema del rapporto natura-cultura, allora assai sentito e dibattuto.
Il linguaggio - le parole - costituisce per Prodico un fatto naturale se considerato in sè (etimologia), ma anche un fatto convenzionale, se considerato nella sua applicazione pratica (sinonimica), all'interno di una società. Intatti l'etimologia, in individuando l'origine di un nome e collegando dei suoni a degli oggetti, a fatti naturali, stabilisce una stretta dipendenza della parola dalla cosa. D'altra parte, oltre a questo significato "naturale" di ogni vocabolo, v'è anche un significato "storico" che esso assume e che deriva dall'uso, cioè dalle condizioni ambientali e storiche in cui viene usato: questo significato storico è studiato appunto dalla sinonimica.
Ma Prodico è anche uno studioso della storia dell'uomo; egli ne disegna un profilo che va dallo stato iniziale di ferinità e di soggezione alla natura fino all'istituzione di società fondate sul lavoro e sulle leggi. Il fattore fondamentale di questo sviluppo è techne, cioè l'arte, l'attività lavorativa dell'uomo, che rappresenta lo strumento attraverso il quale - dall'agricoltura all'industria - l'uomo riesce a sfruttare ed a mettere al proprio servizio le forze della natura.

A questo proposito anzi Prodico elabora un'importante teoria delle religioni, che per lui sono la celebrazione dei benefici dell'attività umana e degli sforzi degli scopritori delle piú importanti technai, come Efesto del fuoco e della metallurgia.
"Il sole e la luna e i fiumi e le fonti e in genere tutto ciò che giova alla nostra vita, gli antichi li chiamavano dei per la loro utilità, come gli Egiziani fanno per il Nilo, e per questo il pane fu chiamato Demetra, e il vino Dioniso, e l'acqua Poseidone, e il fuoco Efesto e cosí ciascuna cosa che ci è utile". (DK 84 B 5)
La filosofia morale di Prodico, sostenitore di un'etica che punti sempre sulle virtù, sullo sforzo e sull'impegno dell' uomo a costruire un mondo di leggi adeguato alla sua natura, ci è testimoniata da un lungo frammento intitolato Le Ore, o Eracles al bivio, in cui si immagina che Eracle, posto di fronte all'alternativa di seguire la via facile del vizio o quella difficile della virtù, imbocchi decisamente questa seconda.

Il pensiero
Prodico nacque a Ceo, forse in un anno da cercarsi tra il 470 el 460 a.C. Fu probabilmente un aristocratico e venne inviato più volte ad Atene come ambasciatore. Secondo l'Untersteiner, ottenne un vivo successo nelle assemblee popolari ed ampio prestigio come retore ed insegnante. Guadagnò, inoltre, molto denaro con l'insegnamento. "Era, dunque, un vero sofista, ma libero da ogni interesse retorico - scrive l'Untersteiner - tant'è vero che definiva il sofista intermedio tra il filosofo ed il politico. " Questa definizione sembra implicitamente ammettere che già nel V secolo era palese la la distinzione tra vita contemplativa e vita attiva, cioè la partecipazione alla politica, e tra vita intellettuale e dimensione pratica.
Amante dei piaceri e cagionevole di salute, Prodico ebbe discepoli importanti come Socrate, Tucidide (al quale trasmise la sua passione per la storia), Euripide, Teramene, Isocrate e Damone. Basterebbe questo a rivalutarne la figura, ma nascono difficoltà spesso insormontabili per ricostruirne fedelmente il pensiero, data la scarsità dei testi disponibili e la carenza di testimonianze, alcune delle quali, come quella di Platone, decisamente riduttive. Prodico crisse un trattato intitolato
Wrai, Le Ore, dee della fecondità venerate a Ceo e significative dell'intero processo naturale. L'Untersteiner sostiene che gli scritti Intorno alla natura e Intorno alla natura dell'uomo erano parte integrante delle Ore e non testi autonomi.

Origine delle cose, umanesimo, forse un "senso della storia"
PRODICO guardò alla realtà del mondo con lo sguardo dell'uomo comune, ma per primo, ebbe consapevolezza della necessità di scrivere una storia in chiave antropologica. Fu uno dei primi pensatori a delineare il concetto di progresso, se non di "evoluzione", ed a tentare di chiarire i processi secondo i quali l'uomo, creatura originariamente fatta con il fango, fosse diventato in un certo senso signore della natura. Scrisse l'Untersteiner: "Nella sua massima opera, le Ore, ove il ciclo delle cose e la legge etica, che tutto regola, trovavano una loro visione unitaria, noi possiamo immaginare che il primo argomento fosse proprio quello dell'origine degli enti, fuggevolmente accennato in Protagora, ma di certo perseguito, in più precisi sviluppi, da Prodico." Secondo Prodico la condizione originaria dell'umanità era di "estrema fralezza" (Untesteiner), ma esso seppe progredire per opera di "scopritori" che, "con il loro errare, dopo che da essi erano state scoperte da poco le messi, giovarono all'utile degli uomini."
Il talento degli scopritori, secondo Prodico, era consistito nel conoscere la natura, e nel trovare in essa le più segrete risorse. Ne nacque l'arte dell'agricoltura, che fu preludio alla scoperta di tutte le arti. Secondo l'Untersteiner, Prodico si collegava alla religiosità misterica di Eleusi, che appunto predicava Demetra come la dea datrice dell'agricoltura e la poneva a fondamento di tutto ciò che di buono esiste al mondo. Non è chiaro, tuttavia, se Prodico debba essere considerato come un evemerista ante-litteram, ovvero se egli in qualche modo anticipò l'idea di Evemero di Messina, filosofo del III secolo a.C., secondo il quale gli dei erano stati solo uomini di grandi meriti, che gli uomini divinizzarono in seguito alla loro scomparsa.

Certo è che alla base delle convinzioni del nostro vi era un curioso impasto di filosofia di Empedocle e di tradizioni misteriche. Egli pose alla radice di una probabile cosmogonia la preesistenza dei quattro elementi e la comparsa del sole e della luna quali determinanti alla vita. Gli dei sono gli elementi stessi, ma nel significato più proprio di "radici" e non di entità sovrannaturali antropomorfe. Secondo l'Untersteiner, la debolezza umana postulata da Prodico come condizione originaria conduce ad un pessimismo cosmico, in singolare contrasto con "l'ottimismo" di altri sofisti come Protagora e Gorgia. L'osservazione non mi sembra molto pertinente, se non altro perchè fatico a comprendere dove stia l'ottimismo di Gorgia. Evidenzierei piuttosto, al contrario, che se, lentamente ed a fatica, si fa strada l'idea di progresso, proprio in Prodico, c'è una nota ottimistica che spezza la circolarità ciclica nella concezione del tempo storico nella mentalità greca, avvicinandolo ad una concezione, in questo caso davvero ante-litteram, ebraico-cristiana.

In Prodico la cronologia, visto che è ancora improprio parlare di storia (se
historia significava allora primariamente ricerca, e non narrazione e ricostruzione degli eventi), assume già un senso ed una direzione. E questa direzione è caratterizzata dal venire da un tempo di tenebre e di debolezza dell'uomo, ad un tempo di luce e di forza. La civilizzazione non è perdita, ma conquista. La cultura acquisita non è segno di una degenerazione della presunta natura umana, ma il frutto della particolare natura umana, che non è la stessa natura degli altri animali. Sono pensieri moderni, antropologici. Dunque, di fronte all'antitesi, presente in molti sofisti, tra legge (regole umane) e natura (impulsi ed istinti), Prodico mirò alla sintesi. La legge, il nomos, non è altro dalla prosecuzione della natura, come pure l'arte è la sua comprensione più efficace e raffinata. La riflessione consente all'uomo di superare e trascendere la condizione naturale, senza tuttavia abbandonarla del tutto.

Ovviamente, non si tratta di interpretare Prodico come fosse Hegel. La sua filosofia della storia è ancora rudimentale, quasi istintiva. In essa la categoria dello spirito umano, della tempra e della mentalità che sono immanenti all'uomo stesso, e non trascendenti, sono semplicemente in nuce. Prodico era ancora convinto della conciliazione reale, e non solo apparente e formale, tra filosofia e religione popolare. Mentre esaltava la divinità naturale come "insieme" e non come particolarità di nomi e di santi patroni (Hermes, Athena, Efesto ed Afrodite), non voleva muovere alcun attacco a tali sacre figure venerate dal popolo e dalla religione ufficiale delle città. Se la filosofia si presentava comunque come superiore alla religione, per Prodico, essa non aveva comunque un oggetto diverso: portava comunque al riconoscimento del divino, alla sua definizione concettuale di benefattore dell'umanità. Il grande merito di Prodico fu certamente quello di inaugurare la riflessione sul linguaggio e la sua origine in maniera feconda, anche se unilaterale. Convinto della continuità tra natura e cultura, egli sostenne con convinzione che le parole ed i nomi non hanno origine nell'arbitrio, ma vengono dalla natura stessa.

Molti hanno visto in questa impostazione una indiretta polemica con Gorgia, il quale, asserendo che la conoscenza era incomunicabile, aveva scavato un fossato tra nome e parola, tra significante e significato. Forse, nel tentativo di ricucire lo strappo, Prodico non trovò di meglio che cercare di rifondare la certezza del significante e del nome nella storia e nella genealogia della parola, evidenziando che gli equivoci e le imprecisioni non sono dovute alla debolezza della lingua, ma all'uso impreciso e sommario che se ne fa. Questa ricerca sul significato delle parole e sui sinonimi, se ci si riflette bene, potrebbe aver influito grandemente su Socrate, inducendolo a portare avanti la ricerca sul concetto, la definizione del cosa è questo di cui stiamo parlando. Non diversamente, secondo l'Untersteiner, Prodico, approfondendo la sinonimica, cercò di rispondere anche a Democrito, che aveva postulato l'origine convenzionale dei nomi, e quindi aperto a Gorgia la via della critica al rapporto tra pensiero, linguaggio e realtà.

C'è da dire che Platone fu molto critico con Prodico, asserendo che egli, aveva spaccato il capello, "esercitato violenza sulla lingua, senza pervenire all'essenza della cosa, al suo essere, e senza, allo stesso tempo, aver saputo destare autentico interesse filosofico per la vera sapienza e la virtù. E' arduo pronunciarsi sulla fondatezza di tale rimprovero se non fosse che l'intero approccio di Prodico all'insegnamento della filosofia, o meglio, della sua sophia, era certamente compromesso dal fatto che era a pagamento. Ma proprio da una polemica su tale questione, e sul connesso problema della ricchezza, venne dall'uomo di Ceo un insegnamento, a mio giudizio, di carattere fondamentale. A chi, come lo stesso Socrate, asseriva che la ricchezza era un male in sé, Prodico rispose che: " per la persona di perfetta onestà e che sa in quale occasione si deve far uso della ricchezza, essa è un bene, mentre per i malvagi che non lo sanno, essa è un male.
E' una tesi che riecheggia la risposta che Gorgia diede allo stesso Socrate sul valore della retorica. Un semplice strumento: c'è chi la usa bene e chi la usa male; non si può dare la colpa a Gorgia se chi impara a fare discorsi, si volge alla calunnia, alla menzogna, alle malefatte. Si tratta, com'è ovvio, di due approcci del tutto diversi e quello di Prodico, in apparenza solo più spregiudicato, era in realtà meno ideologico e più aperto, più aderente alla realtà nella quale è vero che non tutti i ricchi sono disonesti, anche se la ricchezza sembra portare in sé una qualche maledizione che se non colpisce i ricchi, colpisce comunque i loro discendenti, facendone dei "viziati". Questo inciso ci ha consentito di introdurci agli insegnamenti etici di Prodico che, nella concezione di Aristotele, sarebbe risultato forse più un saggio che un filosofo, un maestro di vita e non un maestro di scienza.

L'etica di Prodico, in realtà, è facilmente riassumibile nella storia che egli stessò raccontò, anche se non la inventò, quella di Eracle al bivio. A circa ventanni Eracle si trovò ad un bivio dove incontrò due donne, l'una alta e bella, dai lineamenti armoniosi simboleggiava la virtù; la seconda, bella altrettanto, ma dalle forme prorompenti e lascive, impersonava vizio e corruzione. Entrambe cercarono di attrarre Eracle, incitandolo a seguire una sola strada, vista l'impossibilità di percorrerle entrambe. Ed Eracle scelse la virtù. A prescindere dal fatto che virtù non significava per i greci del tempo, e nemmeno per Prodico, solo il bene, la castità, la perfezione e l'altruismo, ma qualcosa di analogo al valore, al coraggio, all'onestà, cioè a doti più virili che monacali, è evidente che in Prodico era maturata la convinzione che bene e male fossero qualcosa di distinguibile in modo molto più certo e meno relativistico che in Gorgia. L'antitesi, tuttavia, come già s'è detto, non era tra natura e cultura, o tra carne e spirito, ma tra due opposti richiami di carattere assai più primitivo, interni all'uomo stesso, alla sua umanità simboleggiata dalle due donne. Ciò che colpisce è che Arete, la donna virtuosa, il valore, non fece appello alla ragione, all'anima razionale, ma alla natura di Eracle, al suo carattere, alla sua capacità di decidere, in quanto uomo, su quale strada immettersi.

Pagine di Diego Fusaro
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continua

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