GENOCIDI DEL XX SECOLO

analisi-critica su

"LO STATO CRIMINALE"
A proposito di una pubblicazione

YVES TERNON, Lo Stato criminale. I genocidi del XX secolo
(Casa ed. Corbaccio, Cuneo 1997)

L'Autore, che dal 1965 si occupa di storia, in particolare dei genocidi ebraico ed armeni, nello studio qui presentato, in traduzione italiana. liber ex libris , fondamentalmente - descrive, interpreta e classifica i genocidi di questo nostro « breve » ma atroce sec. XX. Ternon è ben riuscito nel suo intento, nonostante si possano formulare, riguardo alla sua opera, alcune riserve, anche profonde a volte, e puntuali osservazioni critiche.
Si tratta dunque di una enciclopedia dei genocidi nel secolo XX, in miniatura, o, se si preferisce, di « un libro nero » al riguardo. È storia degli orrori di questo secolo, quando lo Stato si fa intenzionalmente assassino, lo Stato tout court, indipendentemente dal suo « colore » e dal suo « sapore ».

Come si sa, il termine genocidio appare per la prima volta in un volume, pubblicato nel 1944, di Raphael Lemkin, docente di diritto internazionale all'Università di Yale, nel quale egli presentava in primo luogo i massacri progettati dal governo nazista per distruggere le comunità ebraiche dell'Europa occupata. Quasi subito, però, sorse la questione se non ne esistessero altri, di genocidi. E così, nella ormai lunga sequenza di opere in tale tristissimo campo, ecco anche il presente lavoro, che si vuole quasi riassuntivo, aperto alla interdisciplinarietà. L'A., comunque, credo saggiamente - evita di trarre conclusioni definitive per quei casi in cui il genocidio non appaia in tutta la sua evidenza (egli fa perciò uso di altre pur analoghe categorie quali, per es.. il crimine genocidario, impegnandosi altresì per una chiara definizione della tragedia).

È tema, quest'ultimo, della I e Il Parte, dopo l'Introduzione, dal titolo « Il terreno del diritto » (pp. 11-51) e « Analisi del concetto di genocidio» (pp. 53-117), rispettivamente.
È un cammino che passa per una distinzione dai « crimini contro l'umanità » e per l'appello ad un diritto penale (delle infrazioni) internazionale, che limiti la sovranità degli Stati. Il dibattito al riguardo è universale ed ha « appassionato nel corso dei secoli giuristi, storici, filosofi », portando infine alla «legittimazione del diritto naturale, vale a dire di un minimo senza il quale verrebbe meno ogni legittimità dello Stato » (p. 16).
Dopo l'esame de « Il Diritto di Norimberga e il crimine contro l'umanità » con etichetta di «crimine di guerra», en passant, rilevo l'importanza delle affermazioni circa la conoscenza, già dal Maggio 1942, da parte dei governi statunitense e britannico, del programma di sterminio degli ebrei, ed altre pur dure e dolorose considerazioni: p. 26 - il Ternon tratta ampiamente della « Convenzione sul genocidio ». Egli ne rileva specialmente la definizione, nelle sue due precipue caratteristiche costitutive, cioè « l'intenzione particolare di distruggere un gruppo e il fatto che gli individui sono presi di mira in quanto membri del gruppo, in quanto tali" » (p. 40). Il genocidio appare quindi come un caso più grave del crimine contro l'umanità a causa appunto dell'intenzione rafforzata che lo caratterizza. Altro elemento da porre in evidenza è la « responsabilità personale »: « Sono degli uomini e non delle entità astratte a commettere i crimini la cui punizione si impone come sanzione del diritto internazionale » (p. 44).

L'A. conclude comunque che, purtroppo, « in assenza di una giurisdizione internazionale e di un sistema efficace di sorveglianza e di controllo, la detta Convenzione del 1948 è, palesemente, incapace di prevenire e reprimere il crimine di genocidio ... e che le dichiarazioni convenzioni rimarranno puramente formali fintantoché lo Stato rimarrà il solo giudice dei propri interessi e l'ONU non avrà i mezzi per opporsi alla sovranità di uno Stato quando questo viola i più elementari diritti naturali (pp. 50 e 51).
Dall'analisi del concetto di genocidio risulta evidente l'importanza de « mestiere » degli storici (p. 58), mentre si fa la seguente, dolorosa « confessione »: «Il genocidio è l'esempio più caratteristico delle contraddizioni che fino dalla formulazione dei diritti dell'uomo, impediscono a tanti Stati di rispettare
in ogni circostanza tali diritti. Numerose culture inoltre, specialmente in Asia, sono estranee a questi valori che l'Occidente ha imposto al resto del mondo, e che esso stesso ha ampiamente tradito. Esse le rifiutano anche per difendersi dalla sua penetrazione ideologica » (p. 60).
La disamina continua con i seguenti argomenti: il « totalitarismo », i gruppi minacciati, il paradosso della modernità (la logica dell'idea, la ideologia: pp. 74ss.), e ancora l'intenzione, l'esecuzione del crimine e la psicologia (anche collettiva) del genocidio (con qualche sfasatura per quel che riguarda la « liturgia della sottomissione»: pp. 106ss.), con approccio perfino psicanalitico e presentazione degli esecutori, dei complici e degli « spettatori ».

Nella III Parte il Ternon affronta « I genocidi del XX secolo » (pp. 117-244), iniziando dagli ebrei (pp. 119-166).
La trattazione è di buon livello, pur tenendo presente la estrema complessità della problematica soggiacente, a cominciare dalla sua « unicità » (= singolarità. Olocausto, con la maiuscola). L'A. abbozza così quel che egli chiama un «consenso storico»: «Hitler fu il principale artefice del genocidio degli ebrei: l'ideologia razzista portò all'idea di genocidio; le circostanze della guerra precipitarono l'intenzione; la vulnerabilità delle vittime facilitò il processo di esclusione; la burocrazia e la tecnica permisero la sua realizzazione su scala continentale. Un solo punto resta oscuro: la determinazione del momento in cui Hitler prese la decisione » (p. 126).
Segue l'analisi del movente (« il dogma nazista della razza »: p. 127), con accostamento del tema dell'«antisemitismo cristiano», direi in maniera piuttosto abrupta. Manca altresì la necessaria distinzione dall'antigiudaismo, e visione che ci riporta troppo frettolosamente al passato, alla crociata, all'accusa di deicidio. Per l'A. è Lutero stesso ad avviare il programma «che i nazisti applicheranno alla lettera».

Dopo le prime generalizzazioni, il Ternon peraltro aggiunge, con più sfumato giudizio, che «questo antisemitismo tradizionale d'ispirazione cristiana non ... certo estraneo all'antisemitismo nazista, ... non ne è la causa diretta. Quest'ultimo nasce infatti da un antisemitismo pagano, violentemente anticristiano, che vede nell'ebraismo il responsabile dell'alienazione imposta dal cristianesimo all'Occidente». Si mettono insieme quindi due tasselli, aggiungendo che «il pregiudizio antisemita si sviluppa in Europa tra il 1870 e il 1910 » (p. 128).
La struttura, lo Stato-genocidio, porta l'A. a porsi anche la questione del « totalitarismo », che però non riesce a mettere in evidenza « la differenza di struttura tra il nazismo e lo stalinismo », e che ha difficoltà pure ad interpretare il nazismo, nella sua complessità. L'avvertito e paziente lettore capisce bene quali gravi questioni e dibattiti storici, attualissimi, specialmente in Francia, siano sottesi a una tale «soluzione».
Si scandiscono poi le tappe del genocidio ebraico (esclusione, emigrazione, espulsione e raggruppamento, - con il massacro dei malati di mente, la politica antiebraica in Polonia, l'occupazione dell'Europa occidentale e l'operazione Barbarossa - e «dopo il 22 Giugno 1941»). Da rilevare che « la distruzione degli ebrei sovietici è un mostruoso bagno di sangue, la cui efferatezza rimane senza equivalenti, persino nella storia del genocidio degli ebrei » (p. 143).
Si passa, poi, a quello degli zingari (pp. 151-154), - «indissociabile dal genocidio degli ebrei», perché pure « a base razziale» (p. 151) - soggetti agli stessi regolamenti. La loro eliminazione è pressoché totale in Croazia, nei Paesi Baltici e in Bielorussia, eppure «alla fine della seconda guerra mondiale il genocidio zigano venne ignorato» (p.154).

L'A. esamina quindi tre gruppi di persone ad esso connesse: i « perpetratori », le vittime e gli spettatori, così concludendo, con radicale giudizio: « Il genocidio non avrebbe avuto luogo senza Hitler, senza una società consenziente che egli manipolò con abilità diabolica, senza l'indifferenza generale alla sofferenza, all'umiliazione e all'uccisione degli ebrei » (p. 155). E a conferma si riportano le seguenti altrettanto radicali parole di R. Hilberg: «Tutte le componenti della vita organizzata tedesca furono coinvolte in quest'impresa. Ogni organismo dette il suo contributo; furono utilizzate tutte le specializzazioni e alla cattura delle vittime participarono tutti gli strati della società» (p. 156, v. pure p. 160: « L'atteggiamento dominante dei tedeschi di fronte alla politica di sterminio dei nazisti fu un'assenza di reazione, una complicità passiva, più che un'indifferenza »).
Direi qui che manca almeno qualche giusta distinzione, nella linea della odierna discussione storiografica, che del resto l'A. fa, almeno riguardo a certi Paesi, nei termini seguenti: « Un profondo antisemitismo, anteriore al nazismo, facilitò spesso il compito dell'amministrazione tedesca. Fu il caso dell'Ungheria, della Romania, della Polonia. Quando l'antisemitismo mancava, come in Danimarca, in Italia e in Finlandia, l'esecuzione del genocidio era ostacolata. Nei paesi satelliti, la determinazione dei nazisti nell'uccidere gli ebrei fu indebolita in modo decisivo a seconda che la popolazione locale collaborasse o meno» (p. 159, v. pure p. 161).
Circa le « vittime », l'A. asserisce che « eminenti storici hanno dimostrato in modo incontrovertibile che i dirigenti delle comunità ebraiche dei ghetti collaborarono con i nazisti per spianare la strada della deportazione e che lo facevano con le migliori intenzioni, nella speranza di preservare una parte della loro comunità » (p. 159). Quanto agli « spettatori » il Ternon rileva che « ci furono in tutta Europa, in particolare in Olanda e in Francia, migliaia di persone che rischiarono la propria vita per ospitare o nutrire degli ebrei, a volte famiglie ebree intere, e per procurare loro dei mezzi di sussistenza» (p. 161).

L'A. continua così nella mescolanza di elementi di giudizio, a volte opposti. Egli infatti osserva: «La percezione del genocidio fu pregiudicata dal rifiuto di una informazione considerata impensabile, da una mancanza di immaginazione, un'incapacità di ammettere che l'annientamento di un intero popolo venisse programmato nel XX secolo, nel cuore dell'Europa dei Lumi. Ma il movente più immediato, e insieme il più inconfessabile fu, per i governi occidentali, la paura di accogliere i rifugiati ebrei, e questa paura si manifestò a partire dal 1933 ».
Per «il Vaticano » il Ternon fa un processo alle intenzioni e propone un dato storico non provato (anzi il compianto, noto, P. Graham, poco prima della morte, ha espresso ancora una volta parere contrario alla posizione dell'A.). Esso, infatti, «pur avendo ricevuto fin dal 1942 informazioni molto dettagliate, rifiutò di intervenire presso i nazisti: era più preoccupato di salvare le istituzioni religiose che di difendere i diritti dell'uomo ». Peraltro è l'A. stesso a così concludere: « Acquiescenza degli uni, indifferenza degli altri, ignoranza dei più, il fenomeno non fu realmente percepito che nella primavera del 1945, quando il mondo scoprì con stupore la realtà del genocidio » (p. 162).

La « elaborazione del lutto tedesco » termina la trattazione, rilevandosi che « una volta aperta, la controversia assunse una colorazione nettamente politica » (p. 163).
Per il genocidio degli Armeni, « totale », « distruzione completa di una gruppo a opera di uno Stato» (p.167), il livello di approfondimento rimane buono. Cause, strutture, moventi, ne sono scavati con acribia, alla luce della storia di un popolo, che vive in una zona geografica strategica, della sua religione e di una lingua particolare. Viene poi l'esame dei fatti, con la loro dolorosissima sequela di morti. «È così che i due terzi degli armeni dell'Impero ottomano vengono assassinati» (p. 175) e non come «risposta alle provocazioni armene», ma quale «reazione ai disastri militari turchi e ... tappa della realizzazione della rivoluzione nazionale turca» (p. 176).
È fornita successivamente la prova dell'«intenzione criminale dello Stato guidato dai Giovani Turchi», fondamentale, come si diceva, per la definizione di genocidio che vince, con validi argomenti, «la negazione » di essa (pp. 180ss.).

Segue, nel testo, un confronto tra genocidio armeno ed ebraico. Per l'A., giustamente, «paragonare non significa ridurre, ma definire somiglianze e differenze tra due eventi per inquadrare ciascuno di loro». L'A. conclude: «Al di fuori del genocidio degli zingari che si svolge nella stessa sfera, il genocidio degli armeni è, in questo secolo, il crimine più vicino al genocidio degli ebrei, quindi il più paragonabile a questo. Eppure, questi due avvenimenti sono più differenti che simili » (p. 186).

Il capitolo seguente tratta del genocidio cambogiano, (pp. 191-218) messo in esecuzione, dal 17 Aprile 1975 al 7 Gennaio 1979, dai Khmer rossi, che avevano preso il potere con un progetto di purificazione etnica e di pulizia sociale, derivante, contemporaneamente, dal nazionalismo e dal comunismo.
Anche qui si parte, giustamente, dal passato della Cambogia, proseguendo con l'analisi del movimento dei khmer rossi e la controrivoluzione (Lon Nol), per arrivare ai crimini perpetrati, allo «sterminio del popolo nuovo». « La Cambogia si trasforma in un immenso campo di lavoro, in cui la popolazione è brutalmente assoggettata a misure radicali, senza precedenti nella storia contemporanea » (p. 201). La volontà di distruggere la vecchia società è illustrata dall'estirpazione delle radici religiose buddiste, mentre si sopprimono le minoranze. « Il punto culminante del terrore è raggiunto quando la polizia di Stato comincia a divorare i propri figli, quando il carnefice di ieri diventa la vittima di oggi » (p. 203). La ricerca storica ha le seguenti scansioni: «Lo Stato dei Khmer rossi» (il sistema politico, l'ideologia), «Scoperta e negazione», «La prova del genocidio» di cui furono vittime tra 1 e 2 milioni di cambogiani, senza che l'ONU abbia «mai sollevato l'ipotesi di un genocidio commesso dai Khmer rossi». «Al contrario, nel settembre del 1979, l'Assemblea generale ne vota l'ammissione come rappresentanti della Cambogia» (p. 216). Lo studio termina con un'analisi sul « dopo 1979 », a seguire cioè all'occupazione da parte del Vietnam.

È la volta poi dei «Genocidi in Unione Sovietica?». Il punto di domanda indica immediatamente la problematicità della questione, tenendo presente la imprescindibile intenzionalità. L'A. è ben cosciente dei problemi soggiacenti alla sua domanda, per cui avvia il discorso con questa premessa: « La constatazione di un dramma immenso aiuta a eliminare il sospetto di banalizzazione del genocidio che sorge nel momento in cui si abbozza un confronto fra i due totalitarismi che hanno segnato questo secolo, anche se si sottolineano le profonde dissomoglianze ideologiche e strutturali tra il nazismo e il comunismo sovietico» (p. 219). La posizione è intesa! Quindi, pur ventilando la proposta di Rummel di introdurre il concetto di « democidio », che inglobi i morti per massacri, esecuzioni, deportazioni, relegazioni e reclusioni nei campi di lavoro ed escluda soltanto le vittime dei combattimenti della guerra civile e della Seconda guerra mondiale » (ibid.) il Ternon continua a chiedersi: « In questo amalgama di morti, furono perpetrati uno o più genocidi? ». E risponde: « Molto spesso le prove sono insufficienti e sarebbe opportuno parlare piuttosto di situazioni genocidarie, in cui è possibile riconoscere alcune componenti del genocidio, ma dove mancano elementi essenziali che permettono di pronunciare questa incriminazione» (p. 220).
L'A. è piuttosto « esigente », dunque, e anche concedendo volentieri che altri (Leo Kuper, Israel Charny, Frank Chalk, Kurt Jonassohn, per es., pur famosi sovietologi) la pensino in modo diverso dal suo, circa il periodo del Gulag, (v. conclusioni a p. 243) restringe il genocidio, «approssimativamente dello stesso ordine di grandezza del genocidio degli ebrei nella Seconda guerra mondiale» (James Mace: p. 229), alla carestia «voluta» in Ucraina nel biennio 1932-33. Egli lascia da parte quindi la repressione dei Cosacchi del Don, la «dekulakizzazione» (con 10 milioni di contadini morti o deportati, secondo la stima di Stalin), il periodo del Grande Terrore (la purga del 1936-38, che causò « centinaia di migliaia di vittime » - p. 236 -, se non milioni, come altri indicano p. 235 -) e la «relegazione dei popoli » (in cui però si presero misure genocidarie, come si esprime il Ternon - p. 236 ). Si deve infine ricordare la sorte dei 2.300.000 prigionieri di guerra sovietici, rimpatriati. Di essi «l'80 per cento viene ucciso, deportato in campi di lavoro o esiliato, al pari dei civili sovietici mandati come manodopera forzata in Germania. Solo il 20 per cento viene autorizzato a fare ritorno a casa. A queste vittime si aggiunge il milione di morti causato dalla carestia del 1946-1947, provocata dalle requisizioni del grano » (p. 239).

La IV Parte concerne i « Massacri genocidari » (pp. 245-336). Si tratta in fondo di «dossier controversi », se si aderisce alla idea « stretta » di genocidio. Davanti all'obiettivo indagatore del Ternon, con breve digressione iniziale sui genocidi del passato, per i quali «la Bibbia sarebbe una fonte inesauribile » (p. 252); l'A. si rivela però povero esegeta e abbastanza superficiale medievalista, nonché storico limitato, anche volutamente, nel « moderno » - passano i dossier asiatici (Cina, « dopo i popoli dell'Urss nessun popolo, in questo secolo, ha sofferto più massacri di quello cinese »: p. 270 Tibet, India, Bangladesh, Birmania, Indonesia, Timor Orientale, Sri Lanka, Iran), quelli africani il ruolo della Chiesa, nei rispettivi Paesi, vi appare assai sfigurato, se non, in certi casi, stravolto (Africa del Sudovest, Namibia attuale, Nigeria, Sudan, Ruanda e Burundi, Uganda, Guinea Equatoriale ed Etiopia) e americani con accusa agli U.S.A di «copertura» a «regimi criminali che hanno commesso massacri genocidari»: p. 321 (Guatemala, Salvador, Colombia, Argentina, Paraguay e Brasile).

Una trattazione un po' particolare l'A. dedica, infine, agli indiani d'America. Pure qui direi che la posizione ecclesiale non è veramente conosciuta, anche se si accenna al Concilio Vaticano II, che avrebbe portato un «mutamento radicale di atteggiamento ». A volte l'A. sembra proprio fare di ogni erba un fascio.
Nell'ultima Parte il Ternon affronta la «problematica dell'intervento » (o «ingerenza umanitaria », visto da un altro punto di vista: pp. 337-379). Comunque per lui « la prima minaccia che incombe sull'avvenire dell'umanità è l'esplosione demografica » (p. 339). Voliamo piuttosto basso, proprio quando si parla di «genocidi »! Il I capitolo è dedicato alla questione curda e il II alla « catastrofe iugoslava ». Dopo aver richiamato il principio, pure per me fondamentale, secondo il quale « una psicologia sociale che non si focalizzi totalmente sulla storia è una psicologia cieca » (Anselm Strauss), l'A. si incammina nei suoi dedali attribuendo abbastanza equamente a ciascuno (serbi, croati e musulmani) il suo. Gli equivoci risalgono a ben oltre l'origine della Jugoslavia, anche se « nel corso della Seconda guerra mondiale un decimo della popolazione jugoslava 1.700.000 persone viene ucciso. È su questo terribile periodo che si concentra la battaglia delle memorie ... Il numero dei serbi uccisi nel territorio dello stato ustascia è valutato attorno ai 300.000» (p. 359). Ed è proprio nel contesto disastrato dello scontro post-titino che nasce una nuova, significativa parola: « urbicidio » (p. 363), che apre la presentazione de « la trappola bosniaca », « una Iugoslavia in miniatura » (p. 363). Nasce la tesi delle «lotte tribali ancestrali » (p. 369), significativa espressione della situazione creatasi.

L'ultimo capitolo è dedicato alla « Prevenzione del genocidio ». La problematica vi è bene abbozzata con qualche pista di soluzione auspicata, come, per es., l'istituzione di un « sistema di allarme precoce », attento a vari « indicatori, sintomi rivelatori di un pericolo » e con «frecciata» finale alle Chiese (p. 379).

L'A. esprime così, da ultimo, la sua «fede»: «Le utopie umanitarie non si infrangeranno sempre contro il granito delle sovranità nazionali » (ibid.).
Il volume è coronato da una cronologia « genocidaria », dai « Ringraziamenti », dall'indice dei nomi e da una « robusta » bibliografia (pp. 405-420), nonché dall'indice dell'opera.

Agostino Marchetto, Chiesa e Papato nella storia e nel diritto - 25 anni di studi critici
Libreria Editrice Vaticana, anno 2002.
Per gentile concessione (pag.571-578)

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