SCHEDE BIOGRAFICHE
PERSONAGGI
ALESSANDRO MANZONI

LE PERSONE DEL ROMANZO
DON ABBONDIO I BRAVI E PERPETUA

Nel Manzoni voi avete tre grandi centri: quello del bene, rappresentato da fra Cristoforo e dal Borromeo; quello del male, da don Rodrigo e dall'Innominato; e l'intermedio, che ha un po' dell'uno e dell'altro, e che però si accosta di più al comune della vita.

Quale di questi tre gruppi sono usciti con carattere più geniale dall'immaginazione del Manzoni?
il gruppo intermedio, dove Manzoni sta più a suo agio : gruppo rappresentato specialmente da don Abbondio. Ed è questa la conseguenza del già detto.
Definiamo ora qual'è la genialità di questa figura. Vi sono due specie di comico: il comico dell'intelletto, che è la sciocchezza, ed il comico della volontà, che è la paura.
Il primo momento comico è Calandrino, ch'è il comico intellettivo, e rappresenta il risveglio dell'intelligenza negl'italiani, per cui tutto ciò che è ignoranza della plebe vien messo in ridicolo; è la borghesia progredita nell'intelligenza che si diverte alle spalle di quella. E all'ironia intelligente della borghesia di que' tempi offriva campo anche il prete, il quale, abusando dell'ignoranza della plebe, faceva credere ad essa tutto ciò che voleva per interessi proprii ed interamente mondani; ed accanto al prete avete il frate, la cui caricatura è nel fra Timoteo del Machiavelli. Sicchè la plebe e il prete erano le due basi comiche di que' tempi.

Dopo il Concilio di Trento il prete sparisce dalla scena: e poichè la volontà di far qualche cosa cresce a misura che una legge la proibisce, invece del prete, dopo il Concilio, trovate l'astrologo, il quale, come il primo, cerca d'ingannare gl'ignoranti per approfittarne. E dopo quell'epoca il prete non comparve più fino ai Promessi Sposi, se ne eccettui certi lavori osceni scritti anche da preti; e voi già indovinate io chi alludo: alle novelle dell'abate Casti.
Questo fondamento del comico subì una modificazione dopo il Cinquecento, perchè le classi comiche divennero due, la nobiltà ed il clero, e la prima ebbe il suo poeta in Parini.
Fin qui, comunque, abbiamo il comico dell'intelletto. Dopo il Concilio di Trento il comico è cambiato; chi prima metteva, ora è messo in caricatura, ed il comico va a riversarsi sopra la borghesia, che prima aveva posto in burla la plebe ed il prete: borghesia tuttora istruita, ma debole di fronte alla oligarchia, però ipocrita, carattere che conserva tuttora. Il Guicciardini, ne' suoi Ricordi, elevò con fine critica ad arte di saper vivere tutta l'abiezione di quella classe, e la sua formula è: stare col più forte; navigare in modo destro da non aver brutti incontri; la ragione sta nella forza, e simili.

Ora nessuno in Italia aveva prima del Manzoni rappresentata e messa in azione questa degenerazione del carattere italiano, e da ciò vedete la grande importanza del suo don Abbondio, il quale non è ridicolo perchè prete, ma perchè con la sua pochezza d'animo, col suo latinorum e con la pieghevolezza della schiena rappresenta in grado eminente l'altra forma di comico, non ancor rappresentata, il comico della volontà, la paura contro la forza.
Questo è, del resto, un carattere comune a tutto quel mondo intermedio del Manzoni: a Lecco su per giù tutto quanti erano un po' come don Abbondio. Voi vi rammentate il dottor Azzeccagarbugli, che cacciò via Renzo quando capì che si trattava di don Rodrigo, ed il Console che soggiace alle intimazioni de' bravi di questo tirannello, e ci avete perfino un oste. Sapete che quando Renzo e Gervasio stavano in quell'osteria a preparar la sorpresa a don Abbondio, il Griso ed altri bravi erano di fuori, aspettando il momento per far la sorpresa a Lucia e ad Agnese. Tutto meditavano una sorpresa. Renzo vede i bravi e domanda all'oste: « Chi :sono que' forestieri? ». E l'oste (a cui non erano ignoti) risponde che non li conosceva, e che la prima regola del suo mestiere era di non domandare il fatto degli altri : e che si starebbe freschi con tanta gente che andava e veniva, che l'osteria sembrava un porto di mare.
Il Griso, alla sua volta, si avvicina all'oste per sapere chi erano que' galantuomini arrivati; e l'oste «Buona gente qui del paese »; ed insistendo il Griso, dice i nomi di Renzo, Gervasio e Tonio. Il Manzoni soggiunge che, « osservando al diverso modo che teneva costui nei soddisfare alle domande » si vedeva ch'era « un uomo così fatto, che in tutti i suoi discorsi faceva professione d' esser molto amico de' galantuomini in generale; ma, in atto pratico, usava molto maggior compiacenza con quelli che avessero reputazione o sembianza di birboni. Che carattere singolare! eh ? ».

Torniamo ora a don Abbondio. Avete vista la magnifica messa in scena di don Abbondio. Il quale tornava dalla sua passeggiata, dicendo tranquillamente il suo ufficio, e tra un salmo e l'altro, chiudendo il breviario, e mettendo per segno l'indice della mano destra, e così proseguiva il cammino, buttando da un lato i ciottoli che facevano inciampo sul sentiero.
Volete ora vedere come in due parole venga innanzi tutto ciò che v'ha di comico in don Abbondio ? Ma bisogna prima fare un'osservazione. Chi ha la forza ha sempre ragione; è la massima di don Abbondio; e non di lui soltanto. Anzi debbo dirvi ch'io non ho potuto leggere senza ribrezzo i
Proverbi del Giusti; basta leggerli per vedere la degenerazione del popolo di Firenze. In essi non s'inculca altro che la pazienza, il chinare il capo alla forza prepotente; vi si vede che anche nel popolo è forte l'idea che l'uomo deve fare i fatti suoi, e scansar tutti i contrasti, e cedere in quelli che non si possono scansare, come faceva don Abbondio.

Chi ha dunque la forza ha la ragione, perchè si fa valere con essa; ma a poco a poco l'animo del prepotente si perverte in modo che prende l'aria di chi ha ragione veramente, come i re, che a forza di sentirsi dire che sono al di sopra degli altri uomini, lo credono davvero. E vi è di più, che il debole che ha la ragione di rincontro al forte, che fa valere la sua con la forza, prende l'attitudine di chi ha torto; che anzi giunge a tal segno da addurre scuse come se, con tutta la ragione, avesse commesso un delitto.
Ed ora vedete come Manzoni vi delinea in due parole l'animo di don Abbondio.
I bravi incontrano don Abbondio, ed uno di essi, con tuono come se avesse ricevuto un torto dal povero curato, gli dice: «Lei ha intenzione di maritar domani Renzo Tramaglino e Lucia Mondella ! ». E l'autore vi dà la parte plastica del bravo nelle parole « proseguì l'altro con l'atto minaccioso e iracondo di chi coglie un suo inferiore sull'intraprendere una ribalderia ». Don Abbondio, timido, avvezzo ad abbassarsi dinnanzi a' signori ed a' loro servi, se ne lascia imporre, e con voce tremolante risponde: « Cioè, cioè.... ». In questa parola voi vedete tutto il comico di quel personaggio.
Che cosa è questo « cioè»? È l'uomo che si mette subito nella posizione di chi ha il torto, perchè avvezzo a tremare dinnanzi al più forte, il quale piglia l'aria di superiore mentre egli piglia l'aria d'inferiore: quello ha il piglio minaccioso ed iracondo, ed egli risponde con voce tremula; quello ha il tono di accusatore ed egli si scusa; quello considera il voler fare il matrimonio di Renzo e Lucia come una colpa, ed egli dice: « Fanno i loro pasticci tra loro e poi.... e poi vengon da noi, come s'anderebbe a un banco a riscuotere". Don Abbondio dunque è già in quella posizione. Analizziamo ora psicologicamente questo fatto.

Questo fatto è solamente coscienza della propria debolezza.
No, esso è qualche cosa di più.
L'uomo infatti può essere cosciente della debolezza propria, ma, se ha un po' di polso, misura il pericolo, lo affronta, lo gira; e quando sente ch'egli è inferiore ad esso, lo subisce con dignità senza abbassarsi. L'uomo coraggioso non è colui che vuole scalare il Vesuvio e prenderlo d'assalto; ma è colui che, come abbiamo detto, sa affrontare a tempo il pericolo, e sentendosi inferiore sa dignitosamente subirlo.
Ma in don Abbondio c'è quella qualche cosa di più, c'è il sentimento della paura.
E qual'è la forma estetica della paura?

Nell'uomo, c'è una forza di reazione contro le impressioni esterne; forza di reazione che risiede nell'uomo f o r t e , il quale in mezzo alle impressioni violente sa far valere la propria volontà e raggiungere il suo fine. Questo è ciò che si chiama essere uomo ; egli dice : Questo voglio e si afferma.
Quando poi l'uomo è "pauroso", quella forza di reazione è debolissima in lui; di rincontro alle impressioni esterne la sua volontà scompare, ed egli rimane come debole canna in preda alla violenza di esse. Che anzi, giungendo queste all'immaginazione, una specie di musa della paura agita la fantasia, la quale si raffigura cose inesistenti; si mescolano così pericoli reali con pericoli immaginari, ed allora le altre facoltà tacciono, l'intelligenza si oscura, la volontà scompare, e rimane l'uomo con la sola immaginazione di fronte alla violenza.

Ecco il fenomeno psicologico: e qual è il carattere esterno di quel fenomeno ? L'uomo che ha coraggio mantiene in mezzo alle impressioni quel che si dice il suo sangue freddo; e l'uomo che non ha coraggio soggiace ad esse, perde quasi la sua personalità, e smarrisce la calma. Per un esempio dell'uomo coraggioso, voi ricordate un motto di Napoleone, quando Canova gli domandava - Come volete esser ritratto? - Ed egli rispose: - Ritraetemi calmo sopra un cavallo sfrenato. - Vedete per contrario don Abbondio sulla mula, ch'era un agnello, al dire dell'aiutante di camera del Borromeo, quand'egli tornava dal castello dell'Innominato, dove la strada era delle volte su un rialzo o su un ciglione, donde don Abbondio «vedeva sotto di sè, quasi a perpendicolo, un salto, o, come pensava lui, un precipizio ». E notate che questo « come pensava lui » vi dice già che la paura gl'ingigantiva la realtà e gli faceva considerare precipizio quello che era un salto. La mula dunque, secondo l'uso de' pari suoi, pareva che facesse a dispetto a tener sempre dalla parte di fuori e a metter proprio le zampe sull'orlo, e don Abbondio tirava stizzosamente la briglia dall'altra parte, e diceva alla bestia: - Anche tu hai quel maledetto gusto d'andare a cercare i pericoli, quando c'è tanto sentiero. - Ma tirava la briglia inutilmente, continua l'autore, « sicchè, al solito, rodendosi di stizza e di paura, si lasciava condurre a piacere altrui ».

Eccovi dipinta plasticamente l'una e l'altra forma la forma del coraggio ch'è la calma, e la forma della paura ch'è la stizza. La stizza dunque è la forma estetica della paura.
Prendete ora il Manzoni, e leggete il dialogo fra i bravi e don Abbondio. Alla domanda del bravo, ed al vedere quel piglio minaccioso ed iracondo, egli balbetta « Cioè.... ». Che cosa è che ha operato in lui? E quel modo di vestire, è il tono minaccioso, è l'aria di superiorità, è tutto quello che non imporrebbe per niente ad un uomo coraggioso, ma opera su di lui e gli toglie la calma. Egli risponde infatti con voce tremula, ed in tutto il dialogo fa de' discorsi incompleti, perchè gli manca la forza di dar fine alle proposizioni. Ora avviene naturalmente che quando un uomo pauroso comincia a discutere, e sente che il più forte discute, ripiglia un poco di coraggio; e infatti don Abbondio, discutendo, accenna a ripigliarsi un poco; ma l'altro compagno che non aveva ancora parlato, ricorrendo al ragionamento del più forte, ruppe il dialogo dicendo: « Ma il matrimonio non si farà, o.... » e qui una buona bestemmia,, « o chi lo farà non se ne pentirà, perchè non ne avrà tempo, e...." un'altra bestemmia.
Per un uomo che vive in una certa atmosfera civile, avvezzo a sentirsi rispettato, non c'è modo più forte per umiliarlo che usargli questo linguaggio.
Per vedere l'impressione che quel discorso ha potuto produrre sull' animo di don Abbondio, riempite quelle lacune; dove dice « e qui una buona bestemmia » metteteci una bestemmia qualunque, per esempio « Santo Diavolo », la bestemmia de' calabresi; ebbene don Abbondio rimane muto di spavento, non parla : l'impressione è stata tanto violenta, che l'altro bravo vede il bisogno di doverlo rassicurare, e dice al compagno « Zitto, zitto, il signor curato è un uomo che sa il viver del mondo; e noi siamo galantuomini, che non vogliamo fargli del male, purchè abbia giudizio. Signor curato, l'illustrissimo signor don Rodrigo nostro padrone la riverisce caramente ». Vedete come tutto questo è condotto dai due manigoldi.
Il nome di don Rodrigo è come lampo nel forte d'un temporale notturno, che illumina momentaneamente gli oggetti e accresce il terrore : don Abbondio riacquista la parola per dire : «Se mi sapessero suggerire»_.

E fin qui notate come da una parte stanno le impressioni violente, e dall'altra don Abbondio col suo « cioè ».
In quella frase « se mi sapessero suggerire » c'è un'idea sottintesa; ma la questione è ora di sapere come sotto quella pressione esce l'ultima forma di comico. « Oh !suggerire a lei che sa di latino ! » dice il bravo. Qui comincia un'altra manifestazione delle impressioni esterne, ch'è la beffa. E se la beffa è qualche cosa di più crudele per l'uomo coraggioso, per un uomo che ha paura è invece incoraggiamento, perchè quando l'uomo forte sorride, il debole crede di avere più sicurezza nel parlare.
E guardate come il bravo nel ridere a quel modo corregge la frase, perchè sente che don Abbondio potrebbe articolare qualche cosa, ed in mezzo al riso lampeggia la minaccia, e la ferocia. L'autore dipinge con due parole questa situazione, dicendo «interruppe ancora il bravo, con un riso tra lo sguaiato e il feroce ». E poi continua: « A lei tocca. E sopra tutto, non si lasci uscir parola su questo avviso che le abbiam dato per suo bene; altrimenti.... ehm.... sarebbe lo stesso che fare quel tale matrimonio.... ».
Voi vi ricordate quell' « ehm.... » che impressione ha fatta a don Abbondio; egli se lo sente ronzare sempre nell'orecchio, e non lo dimentica mai. Quell' « ehm » è il riassunto di tutto il dialogo, e non c'è cosa che faccia più impressione di ciò che non paia che dica nulla e dice tutto : quell' « ehm » infatti è il richiamare tutte le minacce fatte, è il ritornar al già detto riconfermando tutte le impressioni, è lo sguardo d'intelligenza che dice : tu mi capisci, o noi c'intendiamo. Questa parola d'intelligenza fa vedere che il bravo è già padrone della volontà di don Abbondio : è la parola che si rivolge ad una vittima. Quindi comprendete che il bravo non ha più bisogno di minacciare, e però dice : « Via, che vuol che si dica in suo nome all'illustrissimo don Rodrigo ? ».
« Il mio rispetto.... », risponde don Abbondio. E qui per istinto egli cerca di contentare i bravi, ma cerca una frase che non lo comprometta diversamente; onde il bravo ripiglia : « Si spieghi meglio !». « Disposto.... disposto sempre all'ubbidienza ». - E così in questa meraviglia di dialogo vedete don Abbondio che, domato dalle impressioni esterne, finisce per mettersi in mano a' bravi.
Qui il dialogo termina; i bravi se ne vanno e don Abbondio prende la strada che portava a casa sua, mettendo innanzi a stento una gamba dopo l'altra che parevano aggranchiate.

Mentre don Abbondio se ne torna con le gambe aggranchiate a casa sua, l'autore usa dell'intermezzo per aprire una digressione: e facendo una corsa storica in quei tempi, vi spiega don Abbondio.
Nelle tre pagine impiegate in questa digressione, dà il colorito storico al suo personaggio per mostrarvi che il suo è un prodotto reale e non dell'immaginazione. Veramente domanderei : che cosa importa se il suo è un prodotto storico o della fantasia ? Pure l'autore mette quel finimento storico, dà al suo personaggio il paese, i pregiudizi, la sua classe, tutto ciò insomma che nella scuola moderna si chiama il r e a l i s m o . In quella digressione dunque è, secondo l'autore, l'essenza di don Abbondio, quantunque don Abbondio sia stato già dall'autore meravigliosamente abbozzato fin dal dialogo coi bravi.
Diciamo per altro che quella digressione è bella, ma il dramma richiama la nostra attenzione, e però torniamo a don Abbondio. Questi se ne tornava dunque soletto : la scena paurosa in lui è cessata, e con essa il fenomeno psicologico.
Io vi ho detto che la differenza fra l'uomo coraggioso e l'uomo timido è che il primo ha la reazione contro le impressioni violente esterne, ed il secondo non ne ha. Ma ora vi dico che la reazione c'è, ma avviene ch'essa si sviluppi dopo l'incontro: il coraggioso reagisce sotto le impressioni, ed il timido dopo che gli è tornato il sentimento della sua personalità; e la reazione, che si opera in lui, si chiama s t i z z a . La differenza fra la collera e la stizza è la seguente : la collera è facoltà del forte, si rivolge contro le impressioni presenti per spezzarle, mette capo nella volontà, e dà per risultato la vendetta; la stizza è la qualità de' vili, de' fanciulli e de' paurosi : essa è la collera per la collera, ma senza scopo e solamente come sfogo. Coloro che hanno subìto la pressione violenta della paura hanno bisogno di sfogare: voi trovate perciò la stizza in don 'Abbondio, il quale ha subìto una pressione di quella fatta, ed ora sente il bisogno di cacciare tutto il fiele che ha in corpo. La stizza è come la valvola di sicurezza dell'uomo pauroso, che senza di essa scoppierebbe.
E vedete con quale gradazione si va mostrando la reazione nel povero curato.
Quando i bravi se ne sono andati e don Abbondio si avvia per la sua strada, se fosse stato un uomo di polso, avrebbe cercato di trovare un partito; ma in lui l'intelligenza e la riflessione sono oscurate, e c'è solo l'immaginazione piena tuttavia delle impressioni avute e notate come bellamente il Manzoni vi esprime questo momento quando dice : « Lo spavento di quei visacci e di quelle parolacce, la minaccia d'un signore noto per non minacciare invano, un sistema di quieto vivere, ch'era costato tant'anni di studio e di pazienza, sconcertato in un punto, e un passo dal quale non si poteva veder come uscirne, tutti questi pensieri ronzavano tumultuamente nel capo basso di don Abbondio ».
Ma dopo che la sua immaginazione fu calmata, incomincia la stizza, e questa si rivolta, credete voi contro di se stesso, accusandosi di vigliaccheria, come avrebbe fatto l'uomo di qualche coraggio? Niente affatto; essa si rivolta contro Renzo e Lucia, e non contro don Rodrigo ed i suoi bravi, ed esce a dire : «Ragazzacci ! che per non saper che fare, s'innamorano, vogliono maritarsi, e non pensano ad altro, e non si fanno carico de' travagli che mettono un povero galantuomo». Tutto ciò fa un effetto comico irresistibile, e poi continua : «Oh povero me ! vedete se quelle due figuracce dovevan proprio piantarsi sulla mia strada, e prenderla con me! Che c'entro io ? Son io che voglio maritarmi ? ... ».
Notate come quest'ultimo contrasto è grottesco.

Così segue stizzosamente, sino a che giunge alla sua casa. Ma tutto questo non è ancora uno sfogo, è soltanto gioco d'immaginazione, che rimane monco, perchè egli, don Abbondio, non ha ancora parlato.
Giunto alla porta di casa, fra il tumulto di questi pensieri, mise in fretta nella toppa la chiave; aprì, entrò, richiuse diligentemente, come se fosse seguito dalle figure de' bravi. Ed il primo sentimento che nasce in lui, ora che è in casa sua, è l'ansia di trovarsi in compagnia di una persona fidata, è il sentimento dello sfogo : ond'è che non ha messo ancora il piede sulle scale, che comincia a gridare: « Perpetua !... Perpetua! ». Osservate con quanta verità entra in scena Perpetua. Don Abbondio sapeva che Perpetua stava nel salotto ad apparecchiar la tavola per la cena; allorchè la chiamava, non era dunque per vedere se c'era, ma era il bisogno di aprire la bocca, era il bisogno di confidarsi. I francesi hanno un proverbio che dice : il se frotte toujours à quelqu'un, ossia che l'uomo pauroso ha bisogno del suo due, di qualcuno, cioè, che l'incoraggi; ed il due di don Abbondio era Perpetua, tipo che voi potete incontrare benissimo nella vita. Nelle case de' preti vedete sotto forma di governanti queste viragini, forti di corpo, goffe, di buon cuore, che avendo della confidenza col padrone s'immedesimano con lui, e dicono : noi, la casa nostra; e quando voi pensate al legame d'affezione che si stabilisce tra queste persone e il loro padrone, allora comprendete tutta l'importanza del grido di don Abbondio: «Perpetua !... ». Egli giunge finalmente col viso stravolto ed adombrato. Voi vi rammentate don Abbondio contento, che tornava dalla sua passeggiata, dicendosi l'uffizio, girando oziosamente gli occhi, e gittando i ciottoli sul canto della strada; ma ora è tutto cambiato; egli entra col passo ravviluppato e con quel viso, che non ci sarebbero nemmeno bisognati gli occhi esperti di Perpetua, per scoprire a prima vista che gli era accaduto qualche cosa di straordinario davvero. E notate quando l'autore dice « passo legato » : perchè avviene veramente che in una forte emozione le gambe tremanti cerchino di ravvicinarsi ed il passo si ravviluppi.
Io parecchie volte ho pensato che un pittore intelligente ci potrebbe fare una magnifica galleria di tanti quadri rappresentanti tanti don Abbondi, secondo le diverse situazioni, nelle quali lo ha messo il Manzoni. Il primo quadro rappresenterebbe don Abbondio che recita l'uffizio, il secondo quando sta per entrare in casa sua dopo quella brutta paura, e così via discorrendo. Se ne potrebbero fare circa quindici o venti, corrispondenti alle diverse situazioni psicologiche.
Egli entra dunque; ed appena entrato, si lascia andar tutto ansante sul suo seggiolone, quasi avesse durato grande fatica.

Perpetua viene come contrapposto poetico di don Abbondio; contrapposto brutale e plebeo, come donna senza educazione. Essa non si è trovata mai negli attriti della vita come don Abbondio; è donna, come si direbbe ora, sana, non modificata dal mondo, e però grossolana e di prima impressione, che dice tutto senza rispetto alcuno : vivace contrasto con don Abbondio, il quale è tutto prudenza, tutto riguardi, tutto cautele.
Vedete ora come l'autore maneggia questo contrapposto. Per quanto grande è da una parte il bisogno di doti Abbondio di confidarsi, dall'altra ci è quel terribile «ehm! ... ». Un uomo di proposito sceglie quello che deve fare, e lo fa; ma un uomo pauroso rimane indeciso, e passivo, sicchè finisce sempre per far la volontà altrui.
Questa passività di don Abbondio si traduce in una sola parola.
« Misericordia !», grida Perpetua, « cos' ha, signor padrone? ». - « Niente, niente », risponde don Abbondio. Questa parola « niente » è caratteristica degli uomini, che hanno voglia di dir molto, ma che per prudenza non vogliono parlare, e dicono: niente! E chi lo dice sta già per palesare tutto. In lui c'è la natura che lo spinge a parlare, e la prudenza che gli ordina il silenzio. Ma dopo un'insistenza di Perpetua egli ripete : « Quando dico niente, o è niente, o è cosa che non posso dire».
Perpetua che sente « o è cosa che non posso dire », si mette ritta dinnanzi a lui con le mani arrovesciate su' fianchi, le gomita appuntate e dice: «Vuol dunque ch'io sia costretta di domandar qua e là cos'è accaduto al mio padrone? ».
Non c'era niente di più sicuro per far saltare don Abbondio dal seggiolone, che il dirgli che la nuova sarebbe stata portata in giro, e grida: « Per amor del cielo ! non fate pettegolezzi, non fate schiamazzi : ne va.... ne va la vita !».
A questo punto la scena diventa volgare; e però l'autore non la compie, ma ne accenna la fine dicendo : « Il fatto sta che don Abbondio aveva forse tanta voglia di scaricarsi del suo doloroso segreto, quanta ne avesse Perpetua di conoscerlo: onde, dopo aver respinti sempre più debolmente i nuovi e più incalzanti assalti di lei, dopo averle fatto più d'una volta giurare che non fiaterebbe, finalmente, con molte sospensioni, con molti ohimè, le raccontò il miserabile caso ».

Non so se vi ha fatto impressione questa forma epica, quando l'autore dice « con molti ohimè, le raccontò il miserabile caso », come se avesse narrato l'eccidio di Troia. E veramente per don Abbondio era stata quella la sua Iliade, e quando racconta il fatto a Perpetua lo dice poeticamente, come sta nella sua immaginazione esaltata.
Ma qui scoppia il contrasto tra i due caratteri, il carattere violento di Perpetua ed il pauroso di don Abbondio.
« Oh che birbone !» esclama Perpetua: « oh che soverchiatore !oh che uomo senza timor dì Dio !».
E don Abbondio: « Volete tacere? o volete rovinarmi del tutto? ».

Finalmente la scena si colorisce e si viene all'ultima spiegazione. Perpetua dice il suo parere con modo grossolano : « E io ho sempre veduto che a chi sa mostrare i denti, e farsi stimare, gli si porta rispetto; e appunto perchè lei non vuoi mai dir la sua ragione, siam ridotti a segno che tutti vengono, con licenza, a.... ». Potete immaginare che porcheria ci voleva attaccare; e don Abbondio
« Volete tacere? ».
Perpetua continua
« Io taccio subito; ma è però certo che, quando il mondo s'accorge che uno, sempre, in ogni incontro, è pronto a calar le.... ».
« Volete tacere? », ripeteva don Abbondio.
E qui vedete comparire in forma indecente in bocca a Perpetua il suo carattere violento.
Don Abbondio segue a far delle lamentazioni (egli è già diventato chiacchierone), non vuol saperne di cena, nè del vino che gli acconciava lo stomaco; prende il lume, e brontolando si avvia per salire in camera. Quando giunge in capo alle scale, ora che già s'è sfogato, sorge in lui novellamente la prudenza, ed in se stesso par che dica: - oh ! che ho fatto a parlare ! - Ond'è che si volta indietro verso Perpetua, e mettendosi il dito sulla bocca, dice, con tono lento e solenne « Per amor del cielo!».
Così finisce il capitolo.

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