SCHEDE BIOGRAFICHE
PERSONAGGI
GIACOMO LEOPARDI

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CD-ROM CRONOLOGIA

Francesco De Sanctis "Antologia critica sugli scrittori italiani" e "Storia della letteratura italiana"

LA PROSA, LA FILOSOFIA, I PENSIERI

La lettera a Jacopsenn, scritta nel ritorno da Roma il 23 giugno del 1823, a venticinque anni, mostra che tutte le sue idee metafisiche e morali erano già fin da quel tempo, non solo presenti allo spirito, ma coordinate ed architettate, sì da fare un solo organismo. La loro presenza è visibile nelle nuove Canzoni, che sono un'alterna vicenda di disperazioni e di entusiasmi su un fondo nero di malinconia. La scissura, che � l'essenza di tutto questo sistema, genera contraddizioni patetiche e momenti estetici, che muoiono senza sviluppo in quel languore della volontà, dinanzi ad un intelletto terribilmente attivo e acuto. Era quel tempo che il corpo era sano e l'animo tranquillo, e il pover'uomo, ponendo in pratica i precetti di Epitteto, ostentava una indifferenza che mal copriva la scissione interna.
E fu anche in quel tempo, che datosi perdutamente alle cose filosofiche, o, come egli dice, allo studio del vero, esprimeva tutto questo flutto di opinioni in pensieri, dialoghi, discorsi e volgarizzamenti, cercando a un tempo con coscienza d'artista quella eccellenza nella prosa che cercava nei versi.

Già fin dalla età più giovane, come si � visto, scriveva certe cosette satiriche, e pensieri e schizzi, un embrione che fecondato dagli studi veniva ora a maturità. E concepisce il disegno di porre in iscritto tutto quel sistema d'idee, che nel suo insieme gli appariva nuovissimo, e arricchire l'Italia, non solo di un contenuto nuovo, ma di un nuovo genere di prosa.
Leopardi stimava, che la prosa italiana fosse lontana ancora dalla sua perfezione, e che in molti generi fosse o mancante in tutto, o imperfetta. E nella sua solitudine, alieno da ogni commercio umano, non gli pareva impossibile di creare con lo studio e con l'ingegno la prosa italiana.

Il suo concetto � giusto. Stimava che la prosa italiana fosse stata efficace senza semplicità, o semplice senza efficacia; ed egli mirava ad una semplicità efficace. La quale efficacia credeva poter conseguire con quel vigore logico, di cui � visibile il difetto nella nostra prosa, vale a dire, con una forma limpida ed evidente, fondata su di una ossatura solida e intimamente connessa, come in un corpo organico. I nostri prosatori, per conseguire l'efficacia, sogliono aver ricorso a movimenti di immaginazione e di sentimento, che scoppiettano su di una ossatura fragile e scongegnata, vale a dire a spese della logica. E questo egli doveva notare principalmente in Pietro Giordani e Vincenzo Gioberti, i due suoi migliori amici, mirabili per lo splendore, ma non per la stretta conseguenza dell'ossatura.

Ora a Giacomo Leopardi la prosa pareva la voce dell'intelletto; e non gli si confaceva quello stile immaginoso e patetico, che si conviene a un poeta. - L'efficacia della prosa egli la cercava nelle qualità intellettuali, accompagnate con la purità e la limpidezza dell'esposizione.
La semplicità e l'efficacia sono le due qualità essenziali dello scrivere in prosa, che Leopardi trovava nella prosa greca, e ne' nostri trecentisti, i più adatti, secondo il suo avviso, a rendere quella divina prosa. Perch�, se in questi scrittori il pensiero � fiacco, e l'ossatura sconnessa, la forma nella sua mera estrinsechezza ha davvero semplicità ed efficacia; il contenuto � volgare, ma lo strumento � ottimo.
Ed egli lo ha saputo adoperare egregiamente nei volgarizzamenti che andava facendo dei moralisti greci. Nelle sue traduzioni, massime del Manuale di Epitteto e degli Avvertimenti morali di Isocrate e della Favola di Prodico, la lingua del trecento esce fuori propria e semplice, in uno stile vigorosamente intellettuale, che le dà evidenza, senza bisogno di colorito o di movimenti sentimentali. L'efficacia � conseguita non da altro che da questa evidenza, che investe tutto l'organismo e te lo rende visibile nella sua integrità, senza che occorra sforzo d'immaginazione o di sentimento. Perciò qui non trovi n� ellissi, n� contrasti, n� frasi scultorie, tutto ciò che solletica l'immaginazione e provoca il suo intervento. Al contrario, hai la ossatura completa, non solo tutte le giunture, ma tutte le ripiegature ed i particolari accidenti: sicch�, senza alcun tuo lavoro, le cose ti vengono davanti esse medesime in modo immediato, quasi che non ci sia trapasso del pensiero nella parola. Il traduttore che nei suoi versi condensa, ed abbrevia e scolpisce, sollecitando la immaginazione e il sentimento a riempire gli spazi vuoti, qui occupa lui tutto lo spazio, e ti offre all'occhio i minimi accidenti.

Si può dire che � il testo greco che lo indirizza in questa maniera di far prosa, nella sua pienezza così semplice e insieme così efficace. Se non che questa forma particolare di prosa diviene per lui tipica, vale a dire l'esemplare della prosa. E la trovi nei Pensieri, nella Storia del genere umano, nel Parini, nei Detti di Filippo Ottonieri. È la sua prosa, il modo col quale concepisce la prosa.

Voglio dare un esempio di questa prosa, e la tolgo dai Detti memorabili di Filippo Ottonieri.
"I libri per necessità sono come quelle persone che stando cogli altri, parlano sempre esse, e non ascoltano mai. Pertanto è di bisogno che il libro dica molte buone e belle cose, e le dica molto bene; affinch� dai lettori gli sia perdonato quel parlar sempre. Altrimenti per forza che venga in odio qualunque libro, come ogni parlatore insaziabile."

La novità e la giustezza di questo pensiero, illuminato da un raffronto nuovo ed evidente tra il libro ed il parlatore, attira subito l'attenzione. Del qual pensiero qui non hai che la semplice ossatura con le sue commessure ben rilevate, e con un collocamento di vocaboli propri, accomodato alla diversa importanza delle proposizioni. I legami ci sono tutti, e la struttura � perfetta; e tutto ti si pianta nello spirito naturalmente, quasi per uno svolgimento spontaneo e diretto di esso pensiero. Mancano colori, immagini, impressioni; � il nudo scheletro, congegnato con tanta esattezza di articolazioni e con così chiara esposizione, che ti ci stai contento e non desideri altro.

Questo tipo intellettuale di prosa era anche il tipo di Niccolò Machiavelli; se non che certe abitudini letterarie, non riuscite del tutto a sradicare, e certe durezze di espressione gl'impedirono di conseguire quella limpidità e quella uguaglianza, che si ammira nella prosa leopardiana.
A Giordani e agli altri letterati poteva parere quella prosa un deserto non amabile, più uno scheletro che persona viva. Ed � chiaro che a questi tempi di fiori posticci e di salse piccanti, quella prosa deve parere arida e insipida. Sicuro, là non � che uno scheletro; ma era lo scheletro appunto che mancava alla prosa italiana, e nella esatta e solida formazione dello scheletro si vede quella virilità intellettuale, e quel vigor logico che, se non unica, è parte principale della buona prosa.

Leopardi volle fare così, si fissa in mente quel suo esemplare di prosa, e vi spiegò una assoluta padronanza della lingua e un insolito vigore intellettuale. Ne uscì fuori un monumento classico, di molta perfezione, a linee severe. Gli spettatori dicono subito: � un bel monumento; ma non ci si sente noi.
Questo � il difetto. Fondo greco, lingua del trecento, una famigliarità elegante di uomo superiore, appartato dalla moltitudine, elementi cavati dalla letteratura, e plasmati e fusi da una serietà intellettuale, che si afferma con pregiudizio delle altre qualità dello spirito: ecco un lavoro finito, degno di ammirazione, ma senza eco e senza effetto letterario, perch� frutto di solo ingegno, ci si sente la biblioteca, non esce dal popolo.

 

LEOPARDI COME FILOSOFO - I PENSIERI E I DETTI MEMORABILI

Lo scrittore pone ogni studio a bene occultare la sua personalità, sicch� le sue opinioni sembrino dettate, non da umore o singolare disposizione psicologica, ma da puro e disinteressato convincimento del vero. Questo non gli riesce in tutto, perch� l'umore scatta da quella sua attitudine freddamente ironica, e qua e là il velo è così trasparente che si vede dietro la sua persona. E se si fosse lasciato andare alle sue impressioni, innestando concetti e sentimenti, avremmo avuto un quadro vivo e interessante. Ma, parte il desiderio che la singolarità delle sue opinioni non sia attribuita a singolarità d'umore, parte il concetto rigido e astratto che si era formato della prosa, l'autore rimane, quanto gli � possibile, in una generalità scientifica.

Pure queste prose non destano un interesse filosofico, non hanno un valore seriamente scientifico. Mancano a Leopardi le alte qualità di un ingegno filosofico la virtù speculativa, familiare con le più elevate astrattezze, come fossero cose viste con l'occhio, e la virtù edificativa o metodica, da cui nasce un tutto sistematico, vigorosamente coordinato. Non ha l'intuizione del generale. o della legge, e non ci va, se non per via di esempi e di immagini e di sentenze; e giunto appena, ricasca in basso. Le sue cognizioni filosofiche non comuni, massime per quello che si appartiene all'antichità, erano rimaste nello stato di dottrina o di erudizione, vale a dire di semplice particolare; e non si vede che ci sia stato da parte sua nessun lavoro serio di assimilazione o di ricostruzione. Le sue osservazioni sulla natura umana mostrano acutezza e novità di visione, e destano un interesse che rimane con diversa intensità sulle singole parti, e non s'innalza a durevole interesse generale, cioè a interesse filosofico.

La contraddizione che era nella sua natura, invade anche l'intelletto, pur acutissimo e chiarissimo; e malgrado ogni suo sforzo non giunge a dominarla. Ivi penetra la sua volontà debole e scissa, spinta dal flutto delle impressioni quotidiane, e non lo lascia venire a conclusione stabile, a coerenza filosofica, sospeso e scisso tra un nichilismo assoluto e disperato, e velleità individuali e umanitarie: scissione visibile in questi Pensieri e Detti. Ora, se questa condizione della sua mente � ottima per il poeta, � infelice per il filosofo, la cui prima qualità è la coerenza e stabilità delle idee. E qui troviamo una singolare perspicuità nei particolari, e una non meno singolare scucitura e perplessità nell'insieme.
Ond'è che le sue prose non hanno interesse scientifico, e neppure oratorio. Lo scrittore non ha di mira i lettori, n� non vuol persuaderli, non cerca nessun effetto. Fa soliloqui, con un tal piglio sinistro, quasi godesse del dispiacere che ci fa a ricantarci sempre la trista canzone. Parlando degli uomini, sembra quasi che non sia uomo lui; e stia da parte a guardarci, non senza un certo risetto di beffa. Perciò, non essendoci calore e non comunione simpatica, l'impressione � fredda e talora anche sgradevole.

Si può domandare se questa posizione del suo spirito, insufficiente all'oratore e al filosofo, sia buona almeno a creare qui un interesse artistico. Ma di questa sua posizione egli non ha coscienza, e fa ogni opera per dissimularla a se stesso, quando per avventura gliene venga un barlume. Se si sentisse misantropo e parlasse così con libero sfogo, avremmo l'artista. Ma egli ha l'aria di cercare il nudo vero, e di esporlo nudamente, guardingo verso ogni moto d'immaginazione o di cuore che vi s'introduca di soppiatto. E se fosse così, se rimanesse davanti a quel nudo vero semplicemente, curioso e imparziale, avrebbe quella libertà di spirito che � necessaria all'artista. Ma quel vero � suo, che gli rattrista e gli guasta il suo umore e lo tiene preoccupato, e gli vieta la serenità dell'arte. Perciò manca a questa prosa l'interesse che viene da una sincera e calda, partecipazione personale, e l'interesse che viene dalla calma e serenità dello spirito. C'è quell'uomo tristo e che non ha potuto vincere nelle Nuove Canzoni, come s'è visto.

Quanto alla maniera dell'esposizione, o a quel suo tipo di prosa, faccio alcune considerazioni. Quella prosa è perfettissima in s�, ben rispondente al suo esemplare, di una solida ossatura, ma non è viva, non è moderna. La prosa italiana classica è finita nel secolo decimosettimo, quando appunto in altre nazioni si iniziava una nuova civiltà, a cui restammo estranei. Rimasta stazionaria, ed imbarbarendo sempre più con mescolanze strane, quando il nostro pensiero si risvegliava e si muoveva, l'ingegno italiano ricorse all'imitazione francese; quasi tacita confessione che la nostra prosa classica era divenuta stantia, e non rispondeva più alle nuove condizioni del nostro pensiero. Ben vi si provarono alcuni, e cito Antonio Genovesi, che filosofava in forma boccaccesca. Venne poi la reazione purista, e si tentò una restaurazione della prosa classica; e la soluzione del problema era in un cercato e non ottenuto innesto della prosa del trecento e di quella del cinquecento.

Dalla prosa di Alfieri e di Foscolo a quella di Giordani c'è una curiosa storia di tentativi sui morti, voglio dire sui classici. Ora a Leopardi, che aveva davanti il tipo semplice e insieme elegante della prosa greca, parve che quei tentativi non approdassero. Ma anche lui si ostinò a lavorare sul morto, e non poteva altrimenti, chiuso e solitario come era in Recanati. E gli venne una prosa, che per proprietà, per semplicità, per intima connessione è mirabile, ed è certo la miglior prosa di quel tempo, e in s� modello compiuto. Eppure non � difficile scoprire in questa prosa un certo artificio sotto a quella apparenza di naturalezza, qualcosa come fatto a studio e secondo norme prestabilite. E poi, ci si sente il morto, non so che stancante, mal corrispondente all'impazienza del nostro spirito moderno, alla velocità della nostra apprensione. I nostri classici vogliono tutto dimostrare e tutto descrivere; onde viene la necessità del periodo, che è quel voler circondare una proposizione di tutte le sue circostanze accessorie. Ora questo difetto sostanziale è rimasto anche nella prosa leopardiana, dove spesso una premessa chiara è sviluppata con lungo e sottile discorso; e trovi non solo le cose, ma tutte le giunture e le particolarità delle cose. La qual minuta esposizione genera impazienza negli intelletti moderni, usi a veder chiaro e presto al solo apparire delle cose, massime a questi tempi del telegrafo e del vapore. A quel modo che i dialetti si mangiano le sillabe, e con ellissi e stroncature e sottintesi riescono più vivi e più rapidi della lingua materna; oggi il medesimo lavoro si fa nelle lingue, e si cerca rapidità e brio, e si viene subito a conclusione, e si mangia le premesse. E' un progresso nel pensiero, che richiede uguale progresso nella espressione; e non c'� peggior cosa che trovar nella lingua processi e forme antiche, ritenute inviolabili, che ci costringono, ci arenano dentro il pensiero. Oggi, grazie soprattutto alla libertà politica, nasce una prosa più spigliata, di una elasticità conforme alle infinite pieghe di un pensiero più sviluppato, e con la sua base nel vivo della lingua in uso. E Leopardi vi si accosta, quando uscendo dai soliti andirivieni condensa e scolpisce in prosa, così felicemente come fa in verso.

Non è dunque meraviglia che queste prose, per rispetto e alle opinioni e alla maniera della esposizione, siano remaste senza alcuna azione sullo spirito italiano.
I
Pensieri messi a stampa sono centoundici. Altri se ne trovano nei manoscritti alla Nazionale di Firenze; altri, molti, si dicono smarriti.
Queste note, scritte in vari tempi ed in varie occasioni, non hanno un concetto unico, non un indirizzo chiaro nelle idee e nella espressione. Valgono a finire il ritratto del loro autore, dandoci le sue impressioni immediate e per dir così in veste da camera, che sono rivelazioni subitanee dell'animo.
Ma se le impressioni sono immediate, l'espressione � molto limata, e sembra che in vari tempi l'autore ci sia tornato sopra. Spesso vi si nota una precisione e una concisione, che pare naturalissima ma è il frutto di molte cancellature.

Alcuni di questi pensieri sono occasionali, derivati cio� da un fatto, che vien fuori mescolato con le sue impressioni. Fra gli altri � un modello di narrazione rapido ed efficace il
quarto Pensiero.
Altre sono riflessioni sopra studi fatti; e più sono osservazioni sulla natura umana, ispirate dalla varia esperienza della vita sociale, e ridotte a leggi, temperate da un
forse o da uno spesso, che allontana l'esagerazione e dà luogo alle eccezioni. Talora la legge ha uno scopo pratico e si trasforma in regola di vita. Tutto questo così come viene, senza un concetto e senza uno scopo predeterminato.

Nondimeno questi Pensieri, se non hanno un concetto ed uno scopo comune, hanno tutti la stessa fisionomia. E' una vista oscura del mondo, un parto dell'umor nero. L'autore tende a cogliere nell'umanità il ridicolo o il vizio.
Questa visione di misantropo non � però accompagnata da odio, da disprezzo, da beffe. Leopardi non odia gli uomini. Eppure l'impressione generale doveva esser questa. Ed egli cerca di purgarsi dell'accusa, che oggi pesa ancora sul suo capo nella opinione di molti. Se Leopardi avesse avuto vigore di odio o di disprezzo o genio comico, la sua vita sarebbe stata meno triste, perch� tristezza � scarsezza di forze vitali. Nemico del genere umano non poteva essere. Avesse voluto, gliene mancava la forza. Sentiva anzi una certa benevolenza verso tutti, e specialmente verso la gioventù, alla quale indirizzò molti di questi
Pensieri nei suoi tardi anni. Gli piaceva contemplare quella immagine di letizia e quelle ingenue illusioni, che lamenta perdute. N� la sua solitudine � prova di misantropia, perch�, com'egli nota, "veri misantropi non si trovano nella solitudine, ma nel mondo". E vuol dire che il cattivo concetto in cui ha gli uomini, nasce da persuasione filosofica e non da uso del mondo, che gli abbia ispirato disprezzo, odio, o simili passioni.

C'è un punto che è luce in mezzo a questo cielo oscuro. Ed è la gioventù, l'età delle illusioni, perciò della sincerità e della virtù, e insieme l'età dalla salute e della forza e della letizia, incontro alla quale la gravità del viso nella età virile gli pare tristezza. Disapprova l'educazione monastica che si suol dare ai giovani, qualificandola "un formale tradimento ordinato dalla debolezza contro la forza", e porge loro utili consigli, perch� si premuniscano nei vari casi della vita.
Ma � luce fosca, la quale non dissipa l'oscurità del quadro, anzi la rileva. Perch� la simpatia verso la gioventù non � qui che desiderio sconsolato di un bene poco goduto, e non riscalda lo spirito, non se lo tira appresso, anzi lo spirito tristo vi getta dentro le sue ombre. Perciò � luce soverchiata da tenebre.

Nella persuasione dallo scrittore il mondo è tale, che i giovani anche ottimi debbono necessariamente divenire malvagi. Chiese Solone a Talete perch� non si ammogliasse, poteva addurre valida e ragionevole scusa, dicendo "
di non volere aumentare il numero dei malvagi". L'uomo � malvagio o ridicolo.

Questo lo afferma, non per esperienza singolare che abbia avuto dell'uomo, alieno com'era dall'umano consorzio, ma per lo studio della natura umana. Loda Guicciardini appunto per questo studio, e non ammette che la malvagità nasca da ragioni politiche, sì che il mutamanto di istituti politici valga ad emendarla, n� gli pare che nasca da ragioni peculiari, che si possono rimuovere. L'uomo � fatto così per una irrimediabile necessità della sua natura.
Perciò qui non trovi nulla che si riferisca a casi singoli, politici o sociali; nulla che si riferisca alla sua persona, o a questa o a quella nazione. Lo stesso destino pesa soprattutto, e le particolarità non hanno importanza. C' � qualche allusione, come alla tutela paterna, o al secolo, "
che presume di rifar tutto, perch� nulla sa fare", ma in forma generalissima e impersonale. Si direbbe quasi che egli cacci da s� qualsiasi moto di passione o di sentimento personale, per essere non altro che voce di fato. La placidità impassibile dell'esposizione in materia così commovente ha un certo senso ironico, quasi di scherno. L'ironia verso gli uomini e anche verso la natura non � tanto in qualche epiteto, quanto nello spirito occulto e satanico che anima il pensiero, e oscura e imbruttisce la faccia dello scrittore.
Sicch�, a dir cose così poco gradite, non gli basta la crudeltà di una espressione netta e frigida, ma l'aguzza per modo che sia come uno strale fitto nella carne. Non � già ch'egli lo faccia con questa intenzione; quel suo aguzzare il pensiero è in lui studio di artista e non compiacenza di misantropo; ma questo � l'effetto che produce. Va diritto e sereno nel discorso, come si trattasse di cosa indifferente all'umanità; poi ti condensa tutto in una frase inaspettata, che ti penetra come una spada.

Si può dire che l'interesse � appunto in queste frasi ultime abbreviative, che ti restano nella mente, come l'ultima pennellata che dà la vita ad un quadro. Ti straziano; eppure non le puoi allontanare da te, e resti con ammirazione, perch� spesso la novità non � nel pensiero, ma nel dirlo a quel modo.
Le cose da lui notate spesso ci sono davanti gli occhi e non ci sono parse degne di nota. Eppure in quella forma ci sembrano nuove. E non � già una forma aguzzata artificiosamente per fare effetto, perch� nessuno cerca così poco l'effetto come Leopardi. Le cose più ordinarie acquistano novità, quando il punto di vista sia nuovo. E ciò che qui interessa non � la cosa, ma il punto di vista o la visione visibile nella forma.

La celebrazione degli anniversari, quel voler leggere ad altrui i componimenti propri, e non saper parlare di altro che di s�, quel poco conto in cui si ha la semplicità dei modi, quel parlare in una maniera e operare in un'altra - o chi queste cose e simili non se le ha viste davanti cento volte? Sono fonti comuni di ridicolo, materia di ritratti o di bozzetti. Ma qui la materia si rinnova sotto una nuova visione. E' appunto questo mutamento di visione, che appare nella frase condensata leopardiana.

Talora la novità � nell'immaginare, com'� quel fiorentino, che, trascinando come una bestia da tiro un carro, gridava con alterigia alle persone, di fare largo. Il più spesso � nella virtù dei contrasti o delle somiglianze, com'� quest'ultima frase di un pensiero:
"
Gli uomini sono miseri per necessità, e risoluti di credersi miseri per accidente"; ovvero quest'altra: "Nessun maggior disegno d'essere poco filosofo e poco savio, che volere savia e filosofica tutta la vita".

"I Detti memorabili di Filippo Ottonieri" sono Pensieri dello scrittore messi in bocca a Filippo, nel quale ha voluto coprire se stesso. Questi sembrano scritti in continuazione, perch� sono uguali di tono e di colorito. Vi si nota qua e là uno stile più animato e un umore meno increscioso che non � nei Pensieri. La rappresentazione di Socrate, dove � manifesta l'allusione a se stesso, � uno dei tratti più felici.

Molti di questi "
Detti" sembrano Pensieri occorsi all'autore nella lettura di classici greci e latini; altri sono ragionamenti a sostegno delle sue tesi favorite, come che le azioni umane sono trastulli, e che i pensieri nascono da false immaginazioni, e che i peggiori momenti della vita sono quelli del piacere. Trovi anche qui novità di immagini, e un lavoro spesso felice di condensamento, come: "I fanciulli trovano il tutto anche nel niente, gli uomini il niente nel tutto".

Pensieri e Detti furono scritti ad occhi asciutti ma che portavano segno di avere versate molte lacrime. Sembra che l'autore si vergogni di piangere, o non ne abbia più la forza, o abbia fatto il callo e l'uso al dolore, e dice cosa talora tenerissima tranquillamente, quasi il cuore si sia cristallizzato. Nel principio del capitolo terzo narra di una disavventura, con chiara allusione a qualche suo caso particolare. Narra di una donna amata, morta a poco a poco; e prima trasformata che morta: "in modo che tutti gl'inganni dell'amore ti sono strappati violentemente dall'animo; e quando ella poi ti si parta per sempre dalla presenza, quella immagine prima, che tu avevi di lei nel pensiero, si trova essere cancellata dalla nuova".

Il racconto ha una efficacia e una precisione, che non t'intenerisce, anzi ti fa male, perch� il tono � asciutto. E ci vuole molta finezza di fibra per sentire la lacrima sotto a quell'aridità. C' � un uomo disilluso, stanco di vivere, con apparenza di tranquilla rassegnazione, accompagnata dalla coscienza di s� e dallo strazio interno. Tale si rivela nella bellissima epigrafe, che � conclusione e spiegazione dei Pensieri e dei Detti:

OSSA
DI FILIPPO OTTONIERI
NATO ALLE OPERE VIRTUOSE
E ALLA GLORIA
VISSUTO OZIOSO E DISUTILE
E MORTO SENZA FAMA
NON IGNARO DELLA NATURA
N� DELLA FORTUNA
SUA

Se questa catastrofe di un'anima consapevole fosse meglio sottolineata in tanta rigidità di esposizione, prenderemmo interesse vivissimo a questi Pensieri e Detti. Ma l'autore vi seppellisce sotto se stesso in modo che poco o nulla traspaia. La sua prosa � una profonda superficie di neve che cancella ogni varietà del terreno, e dà a tutto un colore monotono e sonnolento. Ben trovi qualche intaccatura, qualche rivelazione subitanea, la quale ti giunge fredda e triste, perch� ti giunge attraverso un piglio ironico.
Perciò qui non � altro interesse che delle cose in se stesse, le quali variamente ti allettano, ora per l'importanza delle osservazioni, ora per la felicità dell'esposizione. Ma è un interesse disuguale, e direi quasi scucito e a sbalzi, che non può impedire una certa freddezza e sazietà, che ti viene dall'insieme.


IL VALORE ARTISTICO DELLE OPERETTE MORALI

Come i Pensieri, così i Dialoghi furono scritti in diverso tempo, e i primi tentativi risalgono all'età più giovane, quando egli annunziava a Giordani certe sue prosette satiriche, e notava negli italiani il difetto d'invenzione e vagheggiava una nuova prosa.
Alcuni comparvero nell'
Antologia di Firenze, e tutti insieme uscirono in luce a Bologna, un anno dopo la stampa dei suoi Versi, sotto il titolo di Operette morali. Nelle altre tre edizioni se ne aggiunsero pochi altri, scritti più tardi. Sotto nome comune vanno dialoghi, narrazioni, esposizioni, programmi, elogi. Ci troviamo la storia del genere umano, a modo d'introduzione, una "Proposta di premi fatta dall'Accademia dei Sillografi, i Detti memorabili di Filippo Ottonieri, l'Elogio degli uccelli, un Cantico del gallo silvestre, il Frammento apocrifo di Strabone da Lampsaco".
Gli altri sono dialoghi propriamente detti, talora mescolati col racconto, come "
Scommessa di Prometeo", o in forma d'insegnamento come nel Parini. A giudizio suo, come di Platone, il dialogo non richiedeva necessariamente un discorso o due, che � la sua forma diretta. In Platone il dialogo talora � narrato, e tal' altra le due forme s'intrecciano, e hai dialogo e narrazione. Nel Parini uno solo parla, ma perch� ci sia dialogo, basta che ci sia lì chi ascolti. Nel suo concetto più elevato il dialogo è un discorso dell'anima con se stessa, uno "a due", che ti presenti uno svolgimento analitico di un concetto nel suo pro e nel suo contro, ancorch� la duplicità non appaia al di fuori in due persone.
Base del dialogo � la duplicità del concetto, vale a dire il concetto e il suo contrario, o che sia la stessa anima nella sua scissione, o l'opinione volgare e alcuna opinione individuale, o il concetto stesso nella sua essenza diviso, come avviene nello scetticismo.

In qual modo Leopardi sia giunto ad una concezione sua della prosa e a quella forma artistica della prosa che si dice dialogo, si può desumere dalla storia del suo pensiero. Posto che i moti dell'immaginazione e del sentimento vengano da illusioni, atte non ad altro che ad oscurare il vero, si comprende la differenza netta e assoluta ch'egli fa tra poesia e prosa, l'una linguaggio dell'illusione, l'altra linguaggio del vero. E non solo vuole escluso dalla prosa ogni movimento poetico, ma ancora ogni elemento oratorio, ond'� della retorica avversario, non meno risoluto di Platone e di Socrate. Questi vedevano la retorica incarnata nei sofisti, che non inculcavano il vero, come viene dall'intelletto, ma ricorrevano a tutte le lusinghe che nascono dall'immaginazione e dagli affetti, e seducevano e corrompevano con i lenocini dell'arte.
Il dialogo socratico non � che la lotta dell'intelletto contro le false apparenze o illusioni, dette per antonomasia sofistiche, roba da sofisti. Leopardi aveva un complesso d'idee lontanissime dalle opinioni volgari, nate appunto da illusioni o false apparenze; e non � tutto solo col suo concetto, anzi ha dirimpetto a s� il riso della moltitudine, e vi risponde con un certo piglio ironico, che noti nelle sue prose anche più severe. Si trovava dunque naturalmente sulla via del dialogo socratico, e doveva sentire nella sua natura quel riso nascosto nelle stesse pieghe del ragionamento, che fu detta ironia socratica. Anche là, dove la forma � semplice, trattato o pensiero o racconto o esposizione, senti muoversi un lieve alito d'ironia, che annunzia la forma ulteriore dei dialogo, la presenza cio� nello stesso concetto di s� e del suo opposto, com'� nella
"Storia del genere umano". Il dialogo dunque non � in lui sola imitazione di erudito e di grecista; � anche un suo fenomeno psicologico, che v'imprime la sua personalità. Questa duplicità � anche nella sua poesia. Se non che qui � propriamente scissione interna tra il vero e l'illusione, chiarita tale dallo intelletto, pur desiderata, goduta, lamentata. Dove nella prosa l'intelletto regna solo, cacciate dall'anima tutte le illusioni, afferma la sua vittoria, con un certo risolino a spese del volgo, che lui incalza e deride dall'alto della sua superiorità.

Ma questa lotta di un intelletto superiore contro il comune degli uomini non vien fuori con la semplicità di uomo trascinato dalla sua anima, che si crei egli medesimo il suo pensiero e la sua arte. Non dobbiamo dimenticare che Leopardi si è formato sui classici, e che nella sua opera si vede lo influsso di certi modelli e di certi fini preconcetti.
Lui censurava nella prosa italiana non solo quella sua tendenza oratoria, non pura di una certa ricercatezza che si chiamava eleganza, ma ancora un'aridità e superficialità di esposizione, troppe frasche e fiori, sicch� pareva che gl'italiani lavorassero più con la memoria che coll'intelletto. Queste sono opinioni, più volte espresse nelle sue lettere. Ora egli voleva con questa nuova prosa instaurare, non solo la serietà del pensiero, ma anche la facoltà inventiva, così scarsa negli scrittori.
Indi � che il suo concetto par fuori in una esposizione dottrinale vigorosa e acuta, sicch� non sai quale ti desti più interesse, o il concetto o il ragionamento. Ma, oltre alle qualità logiche, lui cerca nella prosa anche gli effetti dell'arte. Al che giunge mediante posizioni fantastiche, che tengano desta l'immaginazione e la curiosità intorno al ragionamento, accompagnato da una forma nuda e semplice, che pare non abbia altra ambizione che mettere in evidenza il pensiero e annullarsi dietro a quello.
L'immaginazione � esclusa da questa prosa, come forza dello spirito, generatrice d'illusione, e contraria al vero. Ma ci sta in forma di mito o di favola, come un velo, di sotto al quale traspaia il pensiero, o come una base fantastica da cui scaturisca il ragionamento. Di questi miti e invenzioni lo scrittore trovava notabili esempi in Platone, e un ricco arsenale nella sua erudizione.

Nella "Storia del genere umano" il mito adombra in modo abbastanza trasparente il concetto che Leopardi si era formato del mondo. Nei dialoghi di Ercole e di Atlante, della Moda e della Morte, di un Folletto e di uno Gnomo, e in tutti gli altri trovi posizioni fantastiche, le quali o conducono a conclusioni esse medesime, o danno occasione al ragionamento.
Così questi "
Dialoghi" non hanno solo un contenuto filosofico importante in se stesso per il concetto e per il suo svolgimento, com'� in Galileo e in Leibnitz, ma sono vera opera d'arte.

 

LO SVILUPPO DIALOGICO NEI RAGIONAMENTI DEL LEOPARDI

Il concetto filosofico, che Leopardi ha del mondo e dell'uomo, non gli si presenta solo, ma in contraddizione con l'opinione corrente, ed � questa duplicità nel suo pensiero, che genera la forma del suo dialogo.
Il suo concetto � che l'uomo � un anello minimo dell'infinita catena degli esseri, di cui gli � impossibile penetrare il mistero; e che così com'è fatto, � necessariamente infelice: una necessità che più l'intelletto � adulto, più cresce la civiltà, e più si manifesta.
Ora egli non può concepire questo pensiero, che non gli venga innanzi la turba infinita di quelli che fanno dell'uomo il centro e la cima di tutti gli esseri, e della terra il centro immobile intorno a cui si muove l'universo, e credono l'uomo nato a felicità, se non in questa, in un'altra vita, di cui descrivono il "
quale" e il "quanto", come ne avessero avuta esperienza; e pongono virtù, gloria, sapere, a scopi reali della vita e conducenti a felicità. Questa opinione, generata dalla presunzione e dalla ignoranza, consacrata da tradizioni religiose e divenuta volgare, egli non può cacciarla dal cervello, quando gli appare il concetto proprio, la sua filosofia. II "Copernico" � uno dei dialoghi, in cui � meglio sviluppata questa opposizione tra lo scienziato e il volgo.

Ma egli sente di aver contro di s�, non solo questa opinione del volgo, ma anche l'opinione degli uomini colti, seguaci della filosofia dell'assoluto allora in voga, fondata su di un sincero umanesimo e sulla teoria del progresso. Quest'assoluto che pretende star da s�, e che infine si risolve nella dottrina della perfettibilità umana, e rifà il piedistallo all'uomo, e ridà corpo alle vane ombre dell'immaginazione, umanità, patria, libertà, virtù, sotto nome generale di progresso o di civiltà, � proprio il contrario dei suo concetto. Di rincontro all'opinione volgare e teologica � uno scienziato, e di rincontro alla scienza è uno scettico.

Che ne' dialoghi filosofici si scelgano due opinioni opposte, � cosa comunissima. Si creano due personaggi a sostenerlo, e si vede fin dal principio qual'� l'opinione favorita che deve vincere. La conversazione non è che un modo piacevole per condurci al ragionamento, e naturalmente il vincitore � colui che parla più a lungo e fa un discorso più sodo.
Già in questa posizione di due concetti contraria � tutta la sostanza di un'argomentazione, di cui il ragionamento non � che la veste esteriore. Come nei dialoghi comici, dei due attori l'uno � il protagonista e l'altro � messo là come semplice impulso all'azione, sì che tragga quello dalla sua quiete e lo muove all'opera; così nei dialoghi filosofici il concetto � uno, e il suo opposto � messo là per dimostrare quello. Si può dire che sia lo stesso concetto, che si sdoppia per meglio ritornare uno. Ora questo sdoppiarsi e ritornare s�, � la base dialettica del concetto, � appunto l'argomentazione o il ragionamento. Questa � la essenza del dialogo scientifico.
Il "
Parini" � una lezione, più che un dialogo. È un concetto che si va svolgendo in linea dritta senza deviazioni, n� opposizioni, tutto tirando dalla sua propria sostanza. Veri dialoghi sono il "Porfirio", dove � opposizione alla opinione volgare, e il "Tristano", dove c'� opposizione all'opinione dei dotti.

Nel Parini il concetto è che la gloria sia cosa difficile a conseguire, e quando sia conseguita, cosa vana. La conseguenza dovrebbe essere che sia meglio godere e vivere in ozio. Ma l'autore seguendo la morale stoica, pure ammettendo che gli scrittori grandi "hanno per destino di condurre una vita simile alla morte, e vivere, se pur l'ottengono, dopo sepolti", conclude a quel modo che fa Epitteto, con questa sentenza: « Il nostro fato � di seguire con animo forte e grande ».
Il ragionamento è fatto per via di osservazioni ricavate dall'esperienza del mondo, caso per caso, con una abbondanza di distinzioni che stanca. Le osservazioni generalmente sono comuni e riescono addirittura noiose per quella loro esposizione empirica e minuta, massime dove la tesi è chiara e ammessa. Talora ti sembra di avere innanzi una tesi accademica scritta da un cinquecentista. Che l'abitudine suole affievolire e fino a distruggere le impressioni prime, � cosa risaputa: aveva la necessità di spenderci sopra un capitolo?

Chi si mette a quel tempo di parolai e di accademici, nota qui un gran progresso in quella sentenza che le lettere sono vana cosa, quando rimangono segregate dall'azione e dalla filosofia. Ma � più facile pensare il vero, che metterlo in pratica. E in questo dettato strettamente classico, spesso ozioso e incolore, non si sente n� azione, n� filosofia, voglio dire quello sguardo filosofico, che vede dall'alto e scopre nuovi mondi.
Meglio riesce Leopardi narrando o descrivendo. La "
Storia del genere umano" � una serie di fatti corrispondente a una serie di proposizioni filosofiche, illustrate da ragionamenti cavati dalla natura umana. Si legge tutta d'un fiato, e va letta attentamente da quanti vogliono impossessarsi di questa filosofia. L'autore condensa in poche pagine tutte le sue idee sugli uomini, in un tono asciutto, come cosa che non lo riguardi. Prosa classica, se mai vi fu, perfettissima di proprietà, d'ordine, di congegno, e anche d'insensibilità: sembra fatta da un essere solo cervello, estraneo al consorzio umano. Diresti che abbia voluto imitare lo stile semplice e asciutto della favola, e non c'� quel compenso che i favoleggiatori tengono dalla grazia e dalla ingenuità. Piuttosto � linguaggio artificioso d'imitazione classica, e di uomo solitario, increscioso e morto alle gioie della vita, pallido, con poco e tardo sangue. Un umore più attivo e più vivace generò il "Canto del gallo silvestre", e gli "Uccelli". Noti varietà di movenza e andatura più spigliata, e certi effetti d'immaginazione.
Nel "
Canto del gallo silvestre", sotto al quale indovini lo stesso silvestre Leopardi, vi si esprimono sentimenti alieni dall'umanità, e solo conformi a uomini stanchi che cercano la quiete del sepolcro, e sentono la dolcezza estetica di questo annunzio:
"Verrà tempo che nessuna forza di fuori, nessun intrinseco movimento vi riscuoterà dalla quiete del sonno, ma in quella sempre e insaziabilmente riposerete".

Ma l'umanità � allacciata alla vita, e sente orrore del vuoto, e la verità annunziata dal gallo le fa venire i brividi. Tutte le prediche funebri sono appoggiate su questi sentimenti, dai quali i predicatori ottengono l'effetto a cui mirano, il terrore e il raccoglimento. Il gallo quando col suo canto ci desta, � benedetto, perch� ci richiama alla vita; ma quando vuol filosofare sulla vita, e dice che la vita � una soma, che nessuna cosa � felice, che il fior degli anni � cosa pur misera, che la massima parte del vivere � un appassire, che ogni parte dell'universo si affretta infaticabilmente alla morte, e che tempo verrà che esso universo e la natura medesima sarà spenta, non seguiamo l'importuno predicatore, che mentre ci sveglia alla vita, ce l'avvelena.Eppuure quella potente forma di oracolo ci scuote e ci tira a questa meditazione della morte universale; così grande � l'efficacia della forma a dire anche cose comuni, delle quali ciascun uomo dice: purtroppo è vero! L'effetto artistico sarebbe maggiore, se il gallo cantasse di più e ragionasse di meno; bastandogli suscitare il ragionamento negl'intelletti, anzi che esporlo lui, come felicemente fa nel principio:
"Su, mortali, destatevi. Il giorno rinasce: torna la verità in sulla terra, e si porta via le immagini vane. Sorgete, ripigliatevi la soma della vita; riducetevi dal mondo falso nel vero".

Chi legge l'"Elogio degli uccelli", e vede lì rappresentata quella loro vita felice, può credere che sia ispirazione del buon umore. Non � difficile immaginare lo scrittore in una di quelle passeggiate solitarie per i colli, dove la bella natura gli rischiarasse la faccia, eccitando la sua immaginativa. Ma chi ben guarda, vede che anche questo � opera chiusa di biblioteca. In quell'elogio � rinchiusa una satira dell'uomo; non che vi sia espressa, o sia l' intenzione; ma il sentimento dell' infelicità umana, presente nello spirito, intorbida l'umore, e non rende facile una rappresentazione schietta e immediata. Troppo ha luogo il ragionamento in cosa che ha in s� visibile la sua ragione. Si vuol dimostrare una felicità, di cui manca il sentimento. E manca, malgrado alcuni tratti felicissimi, i quali sono piuttosto ricordanze di forme e di bellezze, che impressioni vive e presenti. Anche l'immagine della fanciullezza, alla quale � paragonata la vita degli uccelli, languisce. Pure in certi punti l'immaginazione segue la cosa e la riproduce con somiglianza, com'� del canto degli uccelli e della loro allegrezza e del loro moto.
Il dialogo propriamente detto � un concetto che si sviluppa per via dell'opposto. L'un concetto � il protagonista; l'altro serve a mostrar quello e metterlo in evidenza. Vinta l'opposizione, il concetto ritorna uno.

Il dialogo ha perciò due personaggi, espressione dei due concetti opposti. Può averne anche un terzo, che esprima il sentimento di ritorno, o un concetto superiore. Sviluppandosi, c'entrano pure personaggi accessori, come nel "Copernico".
Questi personaggi possono essere semplice espressione di concetti, e allora il dialogo non ha altro interesse che filosofico. L'arte ci sta come semplice esteriorità, come colore, lustro, movenza, che dia al pensiero un'apparenza grata.
Al contrario sono dialoghi sostanzialmente artistici, dove i personaggi sono concetti vivi, vale a dire trasformati in caratteri, passioni, temperamenti. Qui i concetti sono calati interamente nelle persone, non hai più concetti, ma veri uomini, hai una vera e propria commedia.
Della prima specie sono il "
Fisico" e il "Metafisico", il "Timandro", e due scritti più tardi, il "Plotino" e il "Tristano".
Nel primo dei citati dialoghi trovi l'opposizione tra il pensiero leopardiano della infelicità della vita e il pensiero volgare rappresentato dal "
Fisico", e in altro dialogo da "Timandro, e in altro dall'"Amico di Tristano". La stessa opposizione vedi in "Plotino" e "Porfirio".

Questo conflitto d'idee, nel quale i personaggi non fanno quasi altro che prestare il nome, � la base del ragionamento dialogico. Il quale non � altro che un'argomentazione
sui generis, distinta dal sillogismo e dalle altre forme aristoteliche. O per dir meglio, queste compaiono nei particolari della discussione; ma la discussione � regolata da un principio superiore, che � lo sviluppo logico del concetto. Per esempio, sì il "Fisico" e sì il "Metafisico" usano sillogismi, dilemmi, entimemi; ma la base del ragionamento non � nell'uno e non � nell'altro, � nella natura dialettica del concetto.
Il quale, analizzando se stesso, trova nel suo corso un intoppo nel concetto opposto, che in fondo non � altro se non un'analisi più compiuta del concetto principale, la sua visione e la sua verità mostrata più chiara nella inanità della resistenza. Si può dire che la resistenza stia lì solo per dimostrare meglio la verità del concetto, come fa un fedele cortigiano, il quale usi la spada in modo che si lasci facilmente disarmare e vincere. Certamente il conflitto può essere più o meno simulato, e talora serissimo, sì che lasci una certa esitazione nell'animo tuo, com'� nel "
Plotino". Sono gradazioni, che non alterano la natura dell'argomentazione dialogica.
Questo svilupparsi del concetto per via di antitesi, è il modo della sua dimostrazione, il suo ragionamento. Di che infiniti esempi sono nei dialoghi scientifici.
Il ragionamento a due, espresso per via di personaggi, non � ancora dramma, ma ha del dramma la piacevole apparenza, più o meno vivace, secondo le inclinazioni dello scrittore. Talora l'interesse filosofico � così importante, che c'è l'arte, e hai dialoghi rigidi e severi, come pura scienza: di Platone e di Galileo, trovi così parecchi. Talora l'arte vi fa parte, a fine di aprire l'accesso alla gente meno colta, di verità note e ammesse nelle classi più intelligenti, com'� nei Dialoghi di Fontenelle, dove l'arte � volgarizzatrice e vi spiega le sue grazie e le sue veneri. Maggior luogo vi ha l'arte, quando qualche personaggio non rimane concetto astratto, ma rivela qua e là impressioni e sentimenti personali, come nel "
Tristano". Se non che in tutti questi casi l'arte rimane sempre un semplice ornamento, un accessorio; e la sostanza � nel ragionamento dialogico, cio� nello sviluppo del concetto per via dei contrari.

Prendiamo il
Fisico e il Metafisico. Non sono due uomini, ma due forme di concepire. Il Fisico guarda alla grossa, sta ai sensi e alle apparenze, e dice del Metafisico che guarda per il sottile. Il concetto � questo che la vita vacua, cioè a dire senza azione e senza affezione, � durare non vivere, e vale meglio la morte. E si dimostra, meno per se stesso che per la vanità del concetto opposto, secondo il quale la vita si misura dalla sua durata e non dalla quantità degli atti e delle sensazioni. Il Fisico desidera il "quanto"; il Metafisico desidera il "quale".

Se nel Metafisico sentissimo l'atroce sentimento che Leopardi aveva della noia, o se nel Fisico sentissimo il ridicolo dell'opinione volgare, l'arte avrebbe qui un gran posto. Ma l'autore, come si � visto, era in quello stato apatico, che non lo disponeva al riso e non gli consentiva il pianto. Non c'� dell'arte che la superficie, una forma piana e semplice, che la dimostrazione del concetto rende accessibile e piacevole. Se l'opposizione avesse qualche serietà, ci sarebbe maggior interesse, com'� nel Plotino, dove il pro e il contro si muovono come un dramma in seno allo stesso concetto. Ma qui l'opposizione � apparente, e il Fisico non ci sta se non per dare occasione di parlare al Metafisico, il quale poco gli bada, e prende l'infilata e se la discorre tutto solo. Del dialogo c'� l'apparenza, non la sostanza.
Qui Leopardi ha dirimpetto l'opinione volgare. Nel Timandro ed Eleandro dirimpetto a lui � la filosofia contemporanea, che teneva per dogma il progresso della stirpe umana, vale a dire proprio l'opposto di quello che egli credeva. La quale opinione � messa in bocca di Timandro, che non � un filosofo, n� uomo d'intelligenza elevata, anzi non esce dal comune, e ti snocciola quella filosofia come imparata nelle scuole o nei giornali, riuscendo di troppo inferiore ad Eleandro, sotto al quale nome si cela lo stesso Leopardi.
Incalzato e messo alle strette, Timandro non risponde se non mutando questione, e porge così il destro ad Eleandro di esaurire tutta la materia del suo discorso; sicch� Timandro come il Fisico, privo di ogni personalità e di ogni vigore intellettuale, � semplice personaggio comodo, posto lì per mettere in evidenza Eleandro.

Il ragionamento � costruito a modo socratico, cioè a dire per via di interrogazioni, a cui non si può rispondere che sì; di modo che di sì in sì si giunge a una conclusione, dalla quale l'interrogato non può sottrarsi, legato già dalle sue risposte. Timandro è costretto ad ammettere che le opinioni di Eleandro, ancorach� nocive, sono vere, e nascono appunto dalla maggior conoscenza del vero, in che e posto il progresso; sicch� � appunto il progresso della scienza, tanto a lui caro, che genera quelle opinioni, a lui tanto amare.
Ma l'interesse maggiore del dialogo � nella personalità di Eleandro, che �
Cicero pro domo sua!, o piuttosto Leopardi in persona, il quale si difende dalle accuse che sentiva mormorarsi intorno e che pone in bocca a Timandro. Non poteva dissimularsi che quelle sue opinioni sulla infelicità necessaria della vita e la vanità delle cose erano dannosissime nei loro effetti morali e dovevano procacciargli nome di misantropo, odiatore degli uomini, indotto a quel modo di scrivere da infermità, o ambizione, o ingiurie ricevute. Alle quali accuse oppone sul principio una ironia fredda, come di chi non si curi degli accusatori; poi innalza il pensiero a il linguaggio, discorrendo dalla sua sincerità, e ne esce una prosa calda e quasi eloquente, fluida e animata, più del solito. Pura, perch� quelle accuse erano presupposte nella sua immaginazione e non ne aveva ancora sentita la puntura negli attriti dalla vita, come fu più tardi, si sente in quel calore dal discorso non so che astratto, venuto da moto d'intelletto, anzichè di cuore.

Ben altro calore, vera passione d'animo troveremo nel "
Tristano", scritto a trentaquattro anni, nel maggior disgusto della vita a già maturo alla morte.


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