SCHEDE BIOGRAFICHE
PERSONAGGI
GIACOMO LEOPARDI

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CD-ROM CRONOLOGIA

Francesco De Sanctis "Antologia critica sugli scrittori italiani" e "Storia della letteratura italiana"

IL NUOVO LEOPARDI - RISORGIMENTO - SILVIA
( qui le due poesie "IL RISORGIMENTO" e "A SILVIA" )

Leopardi, tornato da Bologna a Recanati ai primi del novembre del 1826, vi rimase fino al 23 aprile del 1827. In questo tempo curò dunque la stampa del suo
Petrarca, lavorò intorno alla Crestomazia, e altre cose di minor conto. Ma in quel novembre era appena giunto a Recanati, che già desiderava tornare a Bologna. Il 13 dicembre scriveva al Brighenti : "sento qui un poco men freddo che a Bologna, di corpo; ma d' animo ho un freddo, che mi ammazza, e ogni ora mi par mille di fuggir via". Quel freddo dell'animo era la tristezza di una solitudine continua e assoIuta, come scrive il 9 febbraio.
E s'aiuta, scrivendo lettere, o qualche articolo per il
Nuovo Ricoglitore; cercando spesso notizie letterarie, ricordando con desiderio gli amici e le amiche di Bologna, soprattutto il Brighenti e il buon Pepoli e l'amorosa Antonietta Tommasini. Si affaticò tanto intorno alla Crestomazia; ai primi di marzo aveva già fatto lo spoglio di oltre settanta autori. Aggiungi le correzioni di stampa delle Operette morali che il fido Stella pubblicava in Milano. E, se si pon mente che qualche dolcezza gli doveva pur venire dall'usanza domestica, volendo egli un gran bene alla sorella Paolina e a Carlo, e che di salute non era male, cessatogli anche quel mal d'intestini che lo travagliava a Bologna; si vede che quel suo freddo d'animo e quella sua tristezza di solitudine non si deve poi prendere alla lettera. Poteva ben sentirsi tristo in certi momenti; ma la tristezza non era il suo stato normale in quel soggiorno di Recanati. E si vede anche dallo stile sciolto e ricordevole, se non affettuoso, che c'è dentro le sue lettere.

Di qualche importanza sono le due ultime lettere, che troviamo da lui scritte in Recanati. L'una è del 18 aprile, alla sua cara Antonietta Tommasini, in risposta ad una graziosa ed elegante lettera, nell'occasione del suo piccolo articolo stampato nel
Ricoglitore. L'articolo non era altro che il suo Discorso in confutazione del
Giordani, premesso al suo volgarizzamento dal greco di una orazione di Gemisto Pletone.
In quel discorso Leopardi stima non inglorioso e non inutile il volgarizzare, contro la sentenza di Pietro Giordani; loda Pletone, come vicinissimo agli antichi greci per bontà di lingua; e piglia occasione a magnificare la nazione greca che « per ispazio dintorno a ventiquattro secoli, senza alcuno intervallo, fu nella civiltà e nelle lettere il più del tempo sovrana e senza pari al mondo, non mai superata; conquistando, propagò l'una e le altre nell'Asia e nell'Africa; conquistata, le comunicò agli altri popoli dell'Europa.... all'ultimo, già vicina a sottentrare a un giogo barbaro, e perdere il nome, e per dir così, la vita, parve che a modo d'una fiamma, spegnendosi gettasse una maggior luce; produsse ingegni nobilissimi, degni di molto migliori tempi; e, caduta, fuggendo molti di essi a diverse parti, un'altra volta fu all'Europa, e perciò al mondo, maestra di civiltà e di lettere ».

In quel periodo la Grecia faceva grandi sforzi per vendicarsi a nazione, accompagnati dalla simpatia dell'Europa civile. Un lampo di questa simpatia splende nel magnifico elogio che Leopardi intona alla Grecia a proposito di Gemisto Pletone, lui alieno da distrazioni e da disgressioni. Pure si astiene da qualunque accenno alla immane lotta. E questo par freddezza all'entusiastica Antonietta, e gli grida che i greci sono nostri fratelli. Leopardi risponde: «Anch'io riguardo i poveri greci come nostri fratelli, e se più si fosse potuto dire in loro favore, lo avrei detto certamente in quell'articolo: nondimeno, considerato la impossibilità in cui siamo di parlare liberamente, mi pare di averne detto abbastanza».
Metto pegno che l'Antonietta non dovette rimaner contenta di questa secca risposta. Quel calore di cuore, che ispirò le canzoni patriottiche, non c'� più. Tutto ciò che vive al di fuori, opera tardamente e scarsamente sopra questo essere concentrato.
L'ultima lettera � a Puccinotti, secca al solito, e finisce in uno scoppio di bile :
« .... porca città, dove non so se gli uomini siano più asini o più birbanti: so bene che sono l'uno e l'altro ». E conclude: «La prima volta che in Recanati sarò uscito di casa, sarà dopodimani, quando monterò in legno per andarmene ».

Questo fu il suo addio a Recanati. L'anima era già a Bologna, in mezzo alla cordialità della famiglia Tommasini e Brighenti, tra cari e stimati amici, come il Costa, lo Strocchi, il Marchetti, il Pepoli, l'Orioli, il Maestri, il Colombo, il Taverna. Il povero Leopardi vi si sentiva stimato e amato, e questo era il balsamo che gli raddolciva il carattere.
La sua breve, ma lieta dimora in Bologna fu dal 26 aprile al 20 giugno. Alla sua Paolinuccia scrive :
« La stagione qui è ottima, e io mi diverto un poco più del solito, perch�, grazie a Dio, mi sento bene,... e perch� gli amici mi tirano, sono stato all'Opera già due volte ». Vi continuò lo spoglio degli autori e le correzioni dei Dialoghi, attendendo l'arrivo dello Stella.
Il buon libraio gli confermò le sue commissioni, coi soliti dodici scudi al mese. Voleva da lui anche un Cinonio; ma il Leopardi, che, dopo il
Petrarca e la Crestomazia non voleva sobbarcarsi ad un altro lavoro di schiena, promise di tentare il Costa, e non ne fece nulla, saputo esser l'uomo divenuto così pigro, che sarebbe quasi impossibile indurlo ad assumere una lunga fatica.
Ripartì lo Stella per Milano, recando con s� come trofeo la Crestomazia, alla quale non mancava altro che la prefazione. E Leopardi coi dodici scudi nell'immaginazione tutto lieto andò nella sospirata Firenze.
Viaggio ottimo. Ma appena giunto, quel suo
"brutto mal d'occhi invece di migliorare peggiora, e lo costringe a stare a casa tutto il dì, senza n� leggere, n� scrivere, e non può uscir fuori se non la sera al buio, come i pipistrelli". Aggiungi un mal di denti, che lo tiene inquieto: "la malinconia che mi dà questa sciocchezza da un mese in qua, non � credibile". L'operazione chirurgica gli sta sempre nel pensiero, "come una condanna da eseguirsi, e che lo spaventa come un ragazzo". Ma questi suoi incomodi, ch'egli dice senza conseguenza, non gl'impediscono di scrivere alla sorella il solito «grazie a Dio, sto bene».

Nelle sue lettere tocca appena di questi piccoli accidenti della vita, e se ne lamenta solo perch� gli tolgono di scrivere agli amici così spesso come vorrebbe, e perch� non gli � dato di vedere molte cose degne di nota di Firenze. La sua tristezza non gli reca impazienza n� dolore, come di uomo che vi è già abituato. La sua facoltà di affetto non pare scemata. Scrive con effusione a Carluccio, a Paolinuccia, alla cara Adelaide, alla signora Antonietta, e si ricorda volentieri degli amici di Bologna, nome per nome. Se non poteva veder Firenze, era pur visitato dai
"primari cittadini", da tutta quella compagnia di letterati ch'erano intorno al Vieusseux, e di cui dice: « sono tutti molto sociali, e generalmente pensano e valgono assai, più de' bolognesi ». Fra quelli era Giordani, Niccolini, Frullani, Capponi, Lambruschini Montani. Più tardi conobbe Manzoni, col quale si tratteneva a lungo: "uomo pieno di amabilità e degno della sua fama".
Impressioni molto vive non pare che ricevesse dalle amichevoli e interessanti conversazioni, di cui non vi è cenno nemmeno ai propri familiari.
Dice a Brighenti : « io vivo molto malinconico, nonostante le molte gentilezze usatemi da questi letterati: tra i quali tutti i primari, compreso Niccolini ». Scrive al papà che ha fatto conoscenza e amicizia "col famoso Manzoni di Milano, della cui ultima opera tutta l'Italia parla". Esposizione secca del fatto, quasi egli fosse marmo, tuttavia indovini la sua soddisfazione della visita del Niccolini, e la conoscenza del Manzoni. Questo stato armoreo � detto dall'autore stoico dei Dialoghi indifferenza filosofica, ed � quel medesimo che, giovane, quando sentiva più, chiamava con disperata energia ferreo sopore. Talora se ne stanca, e presente e chiama la morte:

"Sono stanco della vita, scrive al Puccinotti, stanco della indifferenza filosofica, che è il solo rimedio de' mali e della noia, ma che infine annoia essa medesima. Non ho altri disegni, altre speranze che di morire".

Il
ferreo sopore era pur poetico, perch� congiunto con la fresca rimembranza di un altro stato, e col sentimento e il dolore della privazione. L'indifferenza filosofica è affatto prosaica, divenuta una abitudine contro la noia, ed essa medesima noiosa.
In qualche momento d'umor nero Leopardi si ribella contro l'abitudine, sente il peso dell'indifferenza, e può dire: "certo � che un morto passa la sua giornata meglio di me".

Quel passar la giornata
con le braccia in croce, quell'ozio più tristo assai della morte, a cui lo costringe. il mal d'occhi, è talora più forte della sua indifferenza filosofica, e gli abbuia la vita, non sì che gli dia virtù di farne una rappresentazione poetica come fece già del ferreo sopore. Ma in generale la sua vita � tollerabile, messe le distrazioni che gli venivano dalle molte conoscenze e dai buoni amici, e più in là dalla vista di Firenze, quando lo stato degli occhi gli consentiva di uscire di giorno. Nelle sue lettere troviamo un umore uguale e prosaico, simile allo stato ordinario della maggior parte degli uomini, ciò ch'egli chiama indifferenza, il quale gli vieta o gl'inaridisce le impressioni; così tardo il sentire come � tardo il suo respiro e la sua digestione.
Scrivendo al carissimo signor padre il 4 ottobre, sappiamo che gli occhi sono migliorati e che comincia a uscire di giorno. Ma si affanna
per i quartieri d'inverno, perch� il clima di Firenze non � molto freddo, ma � infestato continuamente da venti e da nebbie, come a Recanati, e il vento � suo capitale nemico.
Cerca un clima caldo. Stella offre Como. Ma � troppo lontano. Pensa a Roma. Ma il lungo viaggio e la lontananza del
mondo civilizzato ve lo distoglie. Si risolve per Massa di Carrara, clima ottimo, simile a quel di Nizza non vi nevica mai, si esce e si passeggia senza ferraiuolo, in mezzo alla piazza pubblica crescono degli aranci piantati in terra. Ma nel più bello muta pensiero, ed eccolo in Pisa, spintovi da Giordani, ch'era tornato da quella città contentissimo. Ripartì per Firenze la mattina del 9 novembre, e fu nuovamente a Pisa la sera, viaggio di cinquanta miglia.
Scrive alla Paolina:

"Sono rimasto incantato di Pisa per il clima: se dura così, sarà una beatitudine. Qui ho trovato tanto caldo che ho dovuto gettare il ferraiuolo e alleggerirmi di panni.... Lung'Arno � uno spettacolo così bello, così ampio, così magnifico, così gaio, così ridente che innamora.... vi si passeggia poi nell'inverno con gran piacere, perch� v'� quasi sempre un'aria di primavera; vi brilla un sole bellissimo tra le dorature de' caff�, delle botteghe piene di galanterie e nelle invetriate de' palazzi e delle case tutte di bella architettura.... un misto di città grande e di città piccola, di cittadino e villareccio ; un misto così romantico che non ho mai veduto altrettanto. A tutte le altre bellezze si aggiunge la bella lingua. E poi vi si aggiunge che io, grazie a Dio, sto bene, che mangio con appetito, che ho una camera a ponente, che guarda sopra un orto, con una grande apertura tanto che si arriva a veder l'orizzonte".
Queste impressioni ripete, ora l'una ora l'altra, e quasi con le stesse parole, agli amici. Pisa � un
paradiso, il clima � divino. Il padre lo esortava a tornare a Recanati. Ma il figlio rifiutava, descrivendo la sua vita in Pisa.

"Qui non v'� mai vento, mai nebbia; v'� sempre ombra, e se s'hanno giornate piovose, � ben difficile che non siavi un intervallo di tempo da poter passeggiare. Infatti, dacch� sono in Pisa, non � passato giorno che io non abbia passeggiato per due tre ore : cosa per me necessarissima e la cui mancanza � la mia morte ; perch� il continuo esercizio di nervi e muscoli del capo, senza il corrispondente esercizio di quelli delle altre parti del corpo, produce quello squilibrio totale nella macchina, che è la rovina infallibile degli studiosi, come io ho veduto in me per così lunga esperienza. Qui per tutto dicembre abbiamo avuto ed abbiamo una temperatura tale, ch'io mi debbo difendere dal caldo più che dal freddo. Oltre la passeggiata del giorno, esco anche la sera, spesso senza ferraiuolo; leggo e scrivo a finestra aperta".

A Paolina scrive:
"Ho qui parecchi amici, e più ne avrei se volessi far visite, perch� dappertutto m'è usata assai buona accoglienza". In casa Cioni conobbe il Colletta, e conobbe anche il Carmignani e Rosini. E dice al padre:
"Qui tutti mi vogliono bene, e quelli che parrebbe dovessero guardarmi con più gelosia sono miei panegiristi ed introduttori, e mi stanno sempre attorno".

Questo non vuol dire che a volta non si lagni del mal dei nervi e dello stomaco e degli intestini, e che trema da mattina a sera, e che non può studiare. All'Antonietta dice: "Questi miei nervi non mi lasciano più speranza; n� il mangiar poco, n� il mangiar molto, n� il calore, n� l'acqua, n� il passeggiare le mezze giornate, n� lo star sempre in riposo: insomma nessuna dieta e nessun metodo mi giova. Non posso fissare la mente in un pensiero serio per un solo minuto, senza sentirmi muovere una convulsione interna."

Il 5 maggio del 1828, scrive a Giordani: "La mia vita è noia e pena: pochissimo posso studiare, e quel pochissimo � noia medesimamente.... la mia salute � sempre tale da farmi impossibile ogni godimento: ogni minimo piacere mi ammazzerebbe: se non voglio morire, bisogna ch'io non viva".

In questo modo di scrivere c'� del nuovo: non sono le solite lamentele, a cui l'indifferenza filosofica toglieva; ogni colore ! c'� qui dentro il sospiro e la lacrima, c'� la partecipazione dell'anima. Il perfetto scrittore italiano, come Giordani lo aveva preconizzato, continua così:
"Quest'anno passato (a Firenze) tu m'hai potuto conoscere meglio che per l'addietro; hai potuto vedere che
io non sono nulla; questo io ti aveva già predicato più volte; questo � quello ch'io predico a tutti quelli che desiderano di aver notizia dell'esser mio. Ma tu non devi perciò scemarmi la tua benevolenza, la quale � fondata sulle qualità del mio cuore, e su quell'amore antico e tenero ch'io ti giurai nel primo fiore de' miei poveri anni, e che ti ho serbato e ti serberà fino alla morte. E sappi, e ricordati che fuori della mia famiglia, tu sei il solo uomo il cui amore mi sia parso tale da servirmene come rifugio, una colonna dove la stanca mia vita s'appoggia".

Nel 1819 diceva:
« io sono già vissuto », e scriveva gli idilli ; nel 1828 dice: « io non sono nulla », e indovini dalla forma insolitamente colorita che già risorge, già ha sacrificato alla Musa. C'� il sentimento della sua infelicità, non sonnolente nella sua indifferenza filosofica, ma vivo e poetico; e lo vedi in quell'amore tenero giurato nel primo fiore de' poveri anni, in quell'ora di rifugio, in quella colonna a cui s'appoggia la stanca vita. Giordani non ne capì nulla; non capì che il fuoco dalla cenere divampava, e gli rispose i soliti conforti. La dimora di Firenze, le nuove amicizie, le illustri conoscenze, le interessanti conversazioni, il vivo di una lingua divina, non gli furono inutili, e fiorivano insieme con la salute sotto il dolce calore del clima pisano. Acquista un'alacrità insolita. Messa da parte col consenso dello Stella l'Enciclopedia, non senza avere accumulato materiali per nuovi lavori che gli giravano in mente, e posta mano alla Crestomazia poetica, l'ebbe condotta a termine in poco tempo e insieme l'immaginazione gli si è svegliata, la facoltà del sogno ritorna, il passato gli si ripresenta, vivo, quel lungo torpore che egli chiamava indifferenza � cessato. I nervi lo molestano, ma il sangue circola più libero, più vivace tra quell'aria pura, e gli rimette in moto tutte le sue facoltà. Le sue passeggiate diventano poetiche; la via deliziosa per la quale suole andare, � battezzata dalla sua immaginazione, � chiamata la Via delle rimembranze. E così camminando sogna a occhi aperti, s'abbandona all'onda delle sue immaginazioni, gli pare d'esser tornato al suo buon tempo antico, come il 25 febbraio scrive, alla Paolina. E il 2 maggio le fa questa confidenza:

"Io ho finito oramai la Crestomazia poetica e dopo due inni ho fatto de' versi quest'aprile, ma versi all'antica, e con quel mio cuore di una volta".

Ció che non gl'impedisce di scrivere tre giorni dopo al Giordani quella triste lettera: "io non sono nulla"
Leopardi è risorto e canta il suo "RISORGIMENTO".
( qui la poesia "IL RISORGIMENTO" )
E cos'� questo risorgimento di Leopardi? Forse � divenuto felice?
No. Anzi � più vivace la coscienza della sua infelicità:
Mancano, il sento, all'anima
Alta, gentile e pura,
La sorte, la natura,
Il mondo e la beltà.

Forse gli volse un riso la speranza'? No. Anzi la sua convinzione � d'averla perduta per sempre
Ahi della speme il viso
Io non vedrò mai più.


Sono mutate le sue idee sul mondo?
L'immagine, l'errore, sono non più errori, ma cosa salda, sono la verità? No.
Dalle mie vaghe immagini
So ben ch'ella discorda:
So che natura � sorda,
Che miserar non sa;
Che non del ben sollecita
Fu, ma dell'esser solo....


La morte della speranza, l'impura vista della infausta verità, il sentimento della sua infelicità non � qui affievolito, anzi vi � ribadito e illuminato. Perch�, dunque, si sente risorto ? Cosa � risorto in lui? La facoltà di sentire di cui parlava a Jacopsenn, o come ora dice, il cuore. E perch� la vita non � di suo avviso altro che facoltà di sentire, d'immaginare, d'amare, � in lui risorta la vita; si sentiva morto, ora torna a vivere. E canta la risurrezione della sua immaginazione, del suo sentire.
Risorgono i dolci affanni, i teneri moti della prima età; rivede la bella natura, così come la vedeva allora, inesperto delle cose, e ora malgrado l'esperienza della vita e la vista della verità, sente con meraviglia in s� rivivere
gl'inganni aperti e noti. Questa rappresentazione del suo nuovo stato acquista rilievo da quello stato di sopore, ove le stesse cose gli comparivano innanzi morte. Ed hai una rappresentazione in antitesi della natura, così come compariva a lui in quel doppio stato, morta e viva.
Queste cose non le dice già con quel disordine, con quella veemenza, con quell'improvviso ch'� la parola dell'entusiasmo giovanile. Ha riacquistato i moti e i sensi della gioventù, ma non l'ingenuità di quella; ora sa troppo, e parla con ironia della sorda Natura, che pure allora benediceva:
Pur che ci serbi al duolo,
Or d'altro a lei non cal.


Il suo piacere non � puro e non � intero. Qui non c'� l'inno e non c'� l'ode. Il piacere � contenuto dal sapere, dalla presenza del vero, che vi appare come fosca nuvola in cielo sereno; con questo, che la nuvola qui è l'immutabile verità e il cielo � la mutabile apparenza. Che importa? Se l'apparenza dura, non chiamerà spietato l'autore della vita. Non � una riconciliazione e una concessione. Consente solo di non chiamarlo spietato, e sub conditione, se.
La situazione poetica non � nel primo momento dell'entusiasmo, quando egli si sente rivivere, ma in un momento posteriore o di riflessione, interrogando se stesso, riandando la sua vita, descrivendo e spiegando il nuovo uomo che s'� formato in lui.
Perciò la poesia prende una forma storica e riflessiva. Non si dipinge egli nel punto che piange e ammira e il cuore gli batte. Ha pianto, ha ammirato, ha palpitato. Ora ci riflette sopra. La mente rimane sovrana, e distribuisce con ordine e con chiarezza tutte le parti, con orditura semplice, con moto diritto e soave, senza indugio e senza fretta. Non c'� immagine e non impressione così viva che lo svii e gli rompa il filo del pensiero.

Le rimembranze non s'affollano, e non l'incalzano, ma si svolgono l'una dall'altra, come onde di mare. Diresti che riviva la sua vita nella sua naturale successione. I dolci affanni della prima età, e quando mancarono, il dolore della mancanza, e quando mancò il dolore, una tristezza ch' era ancora dolore, e infine il sopore, abbandonata ogni resistenza:
Quasi perduto e morto
Il cor s'abbandonò;


questi vari stati della vita gli tornano innanzi l'uno appresso all'altro, l'uno uscito dall'altro. Si può credere che ci sia un po' di sottigliezza in quel dolore che manca, e nel pianto del dolore mancato, che � una tristezza la quale � ancora dolore. Ma chi ha studiato bene tutte le diverse stazioni del suo martirio, vedrà che Leopardi � qui non meno acuto che vero esploratore del suo passato. La finezza e profondità dell'osservazione ti costringe a pensare per coglier bene così delicate gradazioni tra dolore, tristezza e sopore, e, pensando, gusti il piacere intellettuale di scoprirle vere. Tu senti, e acquisti insieme un abito riflessivo che ti dispone a spiegare quello che senti. E tale appunto � il carattere di questa poesia.

Or che gli sta tutto il passato innanzi, l'uomo nuovo ricorda quale gli appariva il mondo allora, e lo rifà coi più brillanti colori di una fantasia ridesta. Quella natura, che non valse a trarlo dal duro sopore, era pure così bella: il canto della rondine, la squilla vespertina, il fuggitivo sole, una candida ignuda mano; e ora la rivede con sentimento nuovo, e l'accompagna co' più cari vezzi dell'immaginazione. Questa rappresentazione vivace dà rilievo a quello stato d'insensibilità ch'egli caratterizza in pochi indimenticabili tratti, con una chiarezza uguale alla finezza. Certi contrasti e certi epiteti, come l'età decrepita e l'aprile degli anni, i giorni fugaci e brevi, imprimono in questa rappresentazione il moto del sentimento.
Con quel grido di meraviglia e di tenera commozione che il cieco senza speranza rivede improvviso il sole, con quel sentimento prorompe qui il grido del redivivo. Non c'� gradazione, non c'� il a poco a poco; il passaggio � brusco, violento, come innanzi a un miracolo. Non � una evoluzione, come si dice oggi; � una rivoluzione.
Chi dalla grave, immemore
Quiete or mi ridesta?
Che virtù nova � questa,
Questa che sento in me?


Quasi non crede agli occhi suoi, non crede quasi ai propri moti. Dunque, � vero? dunque, il core � risorto ? Oh sì. E raccoglie e accumula le nuove bellezze e le nuove impressioni con così precipitevole impeto ritmico, che pare voglia tutto in un sorso assaporare il suo godimento.
Qui � il tuono più alto del sentimento, che va lentamente degradando. Comparisse il crudo fato, il triste secolo, l'ignuda gloria, la bellezza vuota. In lui non c'� altro di risorto che il cuore, se pure.... E in questo
se svanisce il canto, quasi in un sospiro malinconico, di una mezza soddisfazione.
Qui tutto � vero, tutto e a posto. Forse c'� di troppo l'insistenza sulla vanità della donna, dove sospetti qualche ricordo personale, che intorbida le proporzioni dell'armonia, chi sa ! un momento di cattivo umore contro le fiorentine, al quale dà sfogo in una lettera, o il disprezzo di quella strega bolognese, di cui scrive a Papadopoli. È un
reliquato, come dicono i medici, nella vita nuova. E ci trovi insieme un presentimento del l'Aspasia.

In questo Risorgimento non solo l'asprezza, il latinismo, la solennità e liquefatta, ma anche il metro e il ritmo. Ai settenari metastasiani, de' quali il primo versetto sdrucciola nel secondo, richiamato dalla rima nel terzo, che va a declinare subitamente nel quarto, formando periodi liquidi, veloci, e talora con ripigliate connessioni, di una movenza melodiosa. Le immagini sono vaghe, e le diresti note musicali, se nella loro generalità non fossero precise. E sono tutte attirate in un movimento ritmico, che, accompagnato dal gioco vario degli accenti, esprime le gradazioni del sentimento. Chi ha studiato bene il meccanismo de' nostri versi, e soprattutto del nostro potentissimo settenario, in cui la posizione dell'accento, quasi senza limite, ti dà le più varie intonazioni, ammirerà gli effetti musicali che ha saputo cavarne il poeta, come nota della intensità e della velocità delle impressioni. Perciò questa si può chiamare la poesia del sentimento o del cuore.
Essa � il preludio musicale alle nuove poesie, alla sua terza maniera.

IL NUOVO LEOPARDI

Leopardi nel marzo 1829, scrivendo a Colletta, pone tra' suoi castelil in aria, in primo luogo: «Storia di un'anima": romanzo che avrebbe poche avventure estrinseche, e queste sarebbero delle più ordinarie, ma racconterebbe le vicende interne di un animo nato nobile e tenero, dal tempo delle prime ricordanze fino alla morte».

Ora questa
Storia di un'anima non era altro che la storia della sua anima, le cui note fondamentali sono nel Risorgimento, dove con vivace profondità � rappresentata tutta la sua vita intima. Il mondo della sua mente � già fissato, ridotto a domma, il cui catechismo � nel Risorgimento. Egli � giunto alla conclusione della infelicità universale ed irrimediabile, come ha dimostrato già nei suoi Dialoghi. Ora non discute più, non dimostra, non lotta, non s'illude. Quel mondo, divenutogli chiaro e fisso come un assioma, � oramai il dato o l'antecedente di ogni sua concezione. E lo tratta come cosa sua, e lo situa e lo fa suonare, cavandone tutte le note che lo strumento può dare.

Questo concetto del mondo non gli viene innanzi così improvviso che induca nel suo essere una mutazione violenta. C'è giunto per gradazioni quasi insensibili, e, quando ci si � trovato in mezzo, gli � parso un fatto quasi naturale ed ordinario. Perciò non c'� alcuna proporzione tra un concetto così disperato e la sua vita divenuta per l'abitudine così tollerabile. Non � che i suoi mali fossero diminuiti; ma l'uso quotidiano ne aveva rintuzzato il sentimento. E non gli mancavano conforti preziosissimi, soprattutto quello dell'amicizia, che raddolcivano la sua ipocondria. Molte donne gli furono amiche vere, come l'Adelaide Maestri, e la patriottica Antonietta, e la Lenzoni, e più tardi la Paolina Ranieri.

Anche di alcune letterate ebbe l'amicizia, come la Franceschi e la Malvezzi. Furono relazioni brevi, perchè l'ultima volta che manda un saluto alla Franceschi, per mezzo del bravo Puccinotti, dice:
se se ne cura; e l'ultima volta, che parla di un lavoro della Malvezzi, si contenta di dire: povera donna! lo avevo già letto. Pare che la nobile signora volesse fargli correggere il manoscritto, e che egli se ne schermisse.
Pure, non gli bastava l'amicizia, voleva l'amore, e facilmente s'illudeva e s'impantanava facendo triste esperienza delle donne, e volgendo talora l'amore in disgusto. Così fu con la bolognese, intorno alla quale scherzava Papadopoli; n� incontrò meglio in Firenze; anzi scrive a Giordani:
"Questi viottoli, che si chiamano strade, mi affogano; questo sudiciume universale mi ammorba; queste donne sciocchissime, ignorantissime e superbe, mi fanno ira".
Scrive all'Antonietta:
"
Io non ho bisogno di stima, n� di gloria, nè di altre cose simili; ma ho bisogno d'amore".

E ne ha bisogno così tanto, che talora con gli amici e con le amiche prende linguaggio d'amore, col Giordani, col fratello Carlo, con la Tommasini, con l'Adelaide. Questo non era artificio e abitudine di frase, come in Pietro Giordani, ma sfogo inconscio di un cuore vergine. E meritò di avere intorno a s� non solo ammiratori, ma amici veri e caldi, come il Giordani, il Pepoli, il Tommasini, il Brighenti, il Puccinotti, il Papadopoli, lo Stella, il Capponi, il Ranieri, il Colletta. Così si era andato formando intorno al caro sventurato un ambiente morale, che gli ammorbidiva il carattere, e gli concedeva una espansione socievole.
Non � a credere che questi amici fossero tutti concordi nelle sue opinioni; anzi Leopardi in mezzo a loro spesse volte si sentiva solo. Un vincolo letterario c'era. I suoi amici stimavano perfetto esemplare di lingua le sue
Operette morali, trombettiere il Giordani, e non videro con piacere conferito il premio alla Storia d'America del Botta dagli Accademici della Crusca, i quali pregiarono più l'affettazione e l'esagerazione dell'uno, che la modesta naturalezza dell'altro.

Ma se lodavano assai le sue prose e poesie, soprattutto per l'odore di classicismo, o come dicevano, per bontà di lingua e di stile, in tutto il resto erano distantissimi dal loro amico. In quel tempo, gli animi, piegati dalla reazione che successe al Ventuno, s'andavano rialzando, massime in Toscana, dove parecchi esuli o emigrati illustri si erano raccolti, militando attorno al Vieusseux coi letterati nativi. Sotto a quel mite governo si rinfrancavano. E già l'Antologia aveva presa molta voga; dove scrivevano i migliori, non senza qualche allusione politica. E Colletta scriveva le sue vendicatrici storie, e Niccolini le tragedie. Si formava una letteratura, la cui eco, trasmessa dalle sette, s'insinuava all'orecchio, penetrando nelle scuole e nei convegni in tutte le parti d'Italia. Il programma dell'azione immediata aveva nesso il luogo al programma educativo, o evolutivo, come si direbbe oggi, e a quel fine Leopardi più giovane aveva scritto le canzoni
Per le nozze della sorella e al Vincitore nel pallone. I due programmi erano uno negli spiriti, sicch� s'andava dall'uno all'altro, secondo l'occasione. Le menti si volgevano a nuovi studi, alle scienze storiche, all'Economia, alla Statistica, e cercavano miglioramenti civili, o, come si dice oggi, sociali; vietati quelli politici.

In luogo di libertà si diceva civiltà e coltura; sotto altri nomi era la stessa musica; le piú umili e le più audaci aspirazioni si comprendevano tutte sotto il nome di
progresso. Comparvero liberali e democratici anche tra i cattolici, come il Tommaseo e il Manzoni. Pur allora erano usciti i Promessi Sposi, e il successo era universale. La finezza italiana capiva e celebrava tutti, così il religioso Manzoni, come l'ateo Giordani, e così i moderati, come i settarii e i rivoluzionari.
Or questo movimento degli spiriti non trovava più forza, capace di riceverlo, nell'anima stanca di Leopardi. Da questo lato si può dire veramente ch'egli era vissuto. Biasima un suo concittadino, morto per l'indipendenza greca. Antonietta gli scrive una lettera con ardore patriottico, ed egli la loda, augurando sentimenti simili alle donne italiane, ma con stile rimesso e ordinario; il cantore di Paolina non c'� più. A lui, ch'era giunto al concetto della infelicità universale, quelle economie e statistiche, quelle riforme civili, quelle teorie di progresso e di felicità de' popoli muovevano il riso, e gli doveva far male quella sicumera, quella burbanza de' più a sciorinar dottrine venute in moda. Ecco in che modo scrive da Firenze a Giordani, 1928:

"Mi comincia a stomacare il superbo disprezzo cha qui si professa di ogni bello e di ogni letteratura: massimamente che non mi entra poi nel cervello che la sommità del sapere umano stia nel saper la politica e la statistica. Anzi, considerando filosoficamente l'inutilità quasi perfetta degli studi fatti dall'età di Solone in poi per ottenere la perfezione degli stati civili e la felicità de' popoli, mi viene un poco da ridere di questo furore di calcoli e di arzigogoli politici e amministrativi; e umilmente domando se la felicità dei popoli si può dare senza la felicità degl'individui. I quali sono condannati alla infelicità dalla natura, e non dagli uomini, n� dal caso: e per conforto di questa infelicità inevitabile mi pare che vagliano sopra ogni cosa gli studi del bello, gli affetti, le immaginazioni, le illusioni. Così avviene che il dilettevole mi pare utile sopra tutti gli utili, e la letteratura utile più veramente a certamente di tutte quelle discipline secchissime, le quali, anche ottenendo i loro fini, gioverebbero pochissimo alla felicità vera degli uomini, che sono individui e non popoli; ma quando poi gli ottengono questi loro fini? Amerò che me lo insegni uno de' nostri professori di scienze storiche"
.
Qui ci � in germe la Palinodia.
Con questa disposizione d'animo e con queste opinioni, si può facilmente intendere che la corda patriottica non rendeva più suono, credendo egli così poco alla felicità dei popoli come a quella degl'individui. La guerra greca, la rivoluzione francese, i moti italici, i Tedeschi nello stato papale, sono cose quasi a lui indifferenti.
Essendo così scarsa comunione intellettuale tra lui e i suoi amici, si poteva credere che non gli fosse molto cara quella compagnia. Pure era là il suo conforto. Tornato da Pisa in Firenze, vi si sentiva come in un deserto, quando gli mancava Vieusseux e la sua compagnia; perch� in costoro l'amicizia copriva qualsiasi difficoltà di sentimenti. Già non poteva dissimulare a se stesso, quanto di nobile era in quelle loro aspirazioni. Poi, per indole era tollerantissimo e dolcissimo; nelle conversazioni non aveva pretensioni, n� ostinazioni, e non puntigli e non dispetti, com'era del Tommaseo; e s'accomodava col silenzio alle opinioni altrui, nemico di dispute e di brighe, e inetto a far proseliti, a far valere i suoi concetti. I sentimenti del Manzoni stavano a gran distanza dai suoi; pur sempre lo nomina con lode. Scrive al padre sempre in modo misurato e accorto, e talora con paterno linguaggio e sentire, per non dispiacergli. Il padre ritrova ne'
Dialoghi del figlio troppo abuso di miti e di forme velate; e il figlio risponde debolmente a difesa, quasi assentendo. Lo Stella gli comunica le critiche milanesi de' suoi dialoghi, e lui risponde pacato:

"Non mi riesce impreveduto. Che i miei princìpi siano negativi io non me ne avveggo; ma ciò non mi farebbe gran meraviglia, perch� mi ricordo di quel detto di Bayle, che in metafisica e in morale la ragione non può edificare, ma solo distruggere".

Così non venne mai meno l'amicizia tra quei nobili intelletti, dei quali alcuni volevano la Fede riconciliata con la Ragione, altre predicavano la Ragione creatrice e madre del progresso, e guardavano con affettuosa sollecitudine al povero Leopardi, che affermava la negazione e il mistero universale. Dissentendo, se amavano e se stimavano. Singolare fu l'amicizia verso di lui di due illustri medici, il Tommasini e il Puccinotti, che dovevano ben ridere di quel mondo teologico metafisico, che era il pensiero massonico e filosofico del secolo, e credevano più alla forza della materia, che della fede o della ragione. Leopardi aveva in molta reverenza il Tommasini, e si sentiva stretto verso il Puccinotti di un affetto eguale all'ammirazione.

Questo era quello stato tollerabile ed ordinario di vita che egli chiamava
indifferenza filosofica. L'ambiente contrario in mezzo al quale viveva, quegli studi statistici, quelle teorie di progresso, quelle vanterie filosofiche, lo trovavano triste o ironico, con qualche sforzo mal riuscito di buono umore. Si deve a questo stato psicologico l'ispirazione dalla quale uscì la Palinodia. E forse in questo tempo concepiva e abbozzava i Paralipomeni, ai quale metteva mano più tardi. L'indifferenza era quella quiete che nasce da uno stato di cose considerato inevitabile, effetto dell'assuefazione e della prostrazione morale.

È la sorte spesso dei vecchi, che lasciano correre le cose così come vanno, conservando in s� le antiche opinioni, senza colore e senza efficacia. E Leopardi in verità era invecchiato sotto il peso della sua tristezza. In quello stato di apatia morbosa, che egli chiama indifferenza, il suo intelletto rimane solitario e come ripiegato in s� in un ambiente non simpatico, anzi contrario.
Questa era la sua individualità e originalità, che lo rendeva singolare dalle genti. Il suo risorgimento non mutò il suo essere per rispetto a questo mondo esteriore, ma gli diede la forza di allontanarlo da s� come cosa estranea, e rimanere concentrato in quel solitario suo pensiero, che tornava a vivere innanzi alla sua immaginazione; ritornava l'antico
io con quel cuore di una volta.

Risorto dalla sua apatia morbosa, riacquistata la facoltà di immaginare e di amare, si sentì redivivo al cospetto del Fato e della Natura, con quell'amore dei campi, con quel bisogno di fantasticare e di amare, con quel dolore della speranza scomparsa e della giovinezza spenta, da cui erano usciti gli
Idilli. La società, in mezzo a cui era vissuto, non lasciava traccia nel suo spirito; gli era passata innanzi come ombra. Di vivo e di presente non c'era che lui con i suoi ideali, e l'universo con i suoi misteri. Risorto era il poeta dell' Infinito e del Sogno e della Sera; nessun vestigio rimaneva più del poeta delle Canzoni. Tutto quel moto di erudizione e di patriottismo, che lo aveva tirato fuori di s� e gettato in mezzo all'Italia moderna e antica, in mezzo ai Patriarchi e alle antiche favole, in mezzo ai Bruti ed alle Saffo e alle Virginie e ai Simonidi, non rende più una favella. Giovane, aveva creduto all'opinione volgare che il gran genere nella lirica fosse la Canzone, e sperava, affaticandosi in quello, di perpetuare il suo nome.

Ora sente che l'eccellenza non � nel genere, e lasciando lì canzone, idilli, elegie, inni, chiama le sue poesie CANTI, parola generica che comprende tutti i genere, perch� non ne comprende nessuno. E' vero che aveva in serbo per un'altra edizione due nuove canzoni, ma non furono più pubblicate, e debbono forse essere tra le carte di lui rifiutate. Finite sono le canzoni, e finite con esse le contraddizioni e i tentennamenti nel pensiero, la crudezza e lo spessore nei concetti, la solennità e sonorità nella frase, gl'involucri mitici e storici, il colorito locale, le varie apparenze di un mondo esteriore, un certo non so che di denso e nebuloso: tutte cose, che qua e là si notano nelle Canzoni. L'uomo ha gettato via una parte di s�, quasi mutilando se stesso, ma condensando in quello che rimane tutta la vita e tutta la luce. Abbiamo in questo mondo concentrato del dolore e del mistero situazioni nette e decise, spesso originali e interessanti, chiarezza e coesione nel pensiero, formazioni intere e diafane, semplicità e proprietà nel linguaggio, espansione ed emozione nello stile, nessun vestigio d'imitazioni, di costruzioni e di remeniscenze. Quel'umor denso di una malinconia nera e solida si era liquefatto in quella malinconia dolce, che fugge la sventura reale e cerca asilo nell'immaginazione. Il mondo esterno non era stato mai per lui cosa solida; ora � cancellata ogni orma di questo o quel mondo storico, della società contemporanea. Vive co' suoi fantasmi e co' suoi ideali, solitario; vive nella sua immaginazione forte e calda.

Leopardi ritrova così se stesso, quale la natura lo aveva fatto e quale s'era rivelato negl'
Idilli. Ritorna il pittore dell'anima, ma con un senso più spiccato di vivo e di moderno. La semplicità, la grazia, l'ingenuità, la dolcezza che si ammirano negl'Idilli, e che gli venivano non dalla sua natura, ma dal lungo uso degli scrittori greci, sono qualità ora spesso congiunte con un brio di espansione, con un calore e una disinvoltura, che lo rivelano moderno. Il commercio dei vivi, la dimora nelle principali città italiane non fu senz'effetto. Soprattutto dov� giovargli la civilizzatissima Firenze, alla quale egli contrappone Roma, così lontana dal mondo civilizzato. Quel dolce parlar toscano, così vivace e nella sua semplicità così pieno di grazia, quella dimestichezza di conversazioni con gli uomini più celebri, quel suo affiatarsi con gli scrittori più recenti, come Goethe, Byron, Sismondi, Manzoni; fino quegli studi per la Crestomazia poetica che gli misero innanzi antologie di altri paesi, come quella del Brancia, non furono senza effetto su di un'anima delicata, aperta alle impressioni. Giovarono forse anche i lunghi colloqui col Manzoni, che dovettero stornarlo da quelle forme solenni e clamorose, che egli aveva ereditato dall'uso de' latini, e da Monti e da Foscolo.

Tra i libri acquistati o ricevuti donati in Firenze, de' quali pensava arricchire la biblioteca paterna, c'erano le opere del Manzoni, che egli promette in dono al fratello più piccolo. Ma, più che altro, dov� giovargli la separazione della sua anima da tutti gli accidenti del mondo esterno e il suo ritiro assoluto in se stesso. Terminata la
Crestomazia poetica, prende commiato dallo Stella, ponendo fine a questi lavori di pazienza, ancorch� abbia davanti ricchi materiali intatti, e mulini progetti, che egli stesso chiama castelli in aria.

Consegnando i suoi manoscritti al Sinner, aveva già lasciati per sempre gli studi e i libri, vietatigli dalla cattiva salute. Nella sua vita solitaria e monotona ci sono intervalli felicissimi, nei quali si rivela il poeta che fantastica sopra se stesso, alzandosi all'universo, con ritorni frequenti in se stesso. La bellezza, l'amore, la rimembranza, l'uccello, il fiore, la lapide sepolcrale non l'interessano solo per s�, ma come motivo a perpetuo ritornello di s� e dell'universo; sono le variazioni di quella formidabile ripetizione.
Vita idillica, se mai ci fu, nobilitata dall'altezza del pensiero, dall'orgoglio dell'uomo nel dolore, dalla perfetta sincerità del sentire. Il concetto stesso dell'arte gli si era purificato. Quell'arte per se stessa, quel gioco dell'immaginazione, quello andar cercando generi, forme e modelli, gli doveva parere una profanazione. Era salito a quel punto di perfezione che la forma non ha più valore per s�, e non � che voce immediata di quel di dentro. L'uomo era venuto nella piena coscienza e nel pieno possesso di s�.

Si può credere che nota dominante di questo mondo psicologico chiuso in s� con frequenti ritorni degli stessi pensieri e sentimenti, fondato sulla infelicità universale, sia tristezza e monotonia. Ma il poeta ha ricuperato il suo cuore e con esso la facoltà di immaginare e di sentire. Questo regno della morte e del nulla � pieno di luce e di calore. Il poeta doveva sentirsi felice in quei rari momenti che poteva cantare la sua infelicità; e felice tu lo senti nel brio e nella eloquenza della sua rappresentazione. Riempie di luce i sepolcri, inspira la vita nei morti, anima la rimembranza, ricrea l'amore, con un tripudio di gioventù. Niente � più triste e niente � più gioioso. È la tristezza della morte, ed � la gioia dell'amore, fusi insieme in una sola persona poetica; come, non sai; ma � il miracolo dell'arte. Appartengono a questo tempo
Silvia, le Ricordanze, la Quiete dopo la tempesta, il Sabato del villaggio, il Canto notturno di un pastore errante nell'Asia, poesie nuove che comparvero, oltre il Risorgimento, nella edizione dei Piatti in Firenze, e forse anche il Passero solitario e il Consalvo. Questi caratteri si mantengono anche nelle altre poesie che comparvero nell'edizione di Napoli, e tutte insieme costituiscono il nuovo Leopardi.

A SILVIA
( qui la poesia "A SILVIA" )

Riacquistata la virtù della rimembranza, il poeta riandava a se stesso, e, indietro indietro, egli rivedeva la prima età dei dolci affanni e dei teneri moti, nella quale nazioni e individui sono felici, perch� credono alle illusioni: concetto da lui più volte espresso in verso e in prosa. La immaginazione, uscita più potente dopo il lungo torpore, gli rifà viva la memoria di quell'età. Forse, a Pisa, nella Via delle Rimembranze, passeggiando tutto solo, doveva dire a se stesso: - Ero felice allora ! e anche lei! e tutto finì ! - Il sentimento che accompagna questa memoria, è malinconia dolce, con quella lacrima, che è refrigerio. Perch�, se la felicità è passata, pure è un passato vivace, che egli può riafferrare e godere, in immaginazione, quasi presente. Così vengon fuori dei versi all'antica e col cuore di una volta.
Riandando anche noi i suoi versi, eccoci innanzi la
Sera del dì di festa. La festa � passata:
.... ed al festivo il giorno
Volgar succede, e se ne porta il tempo
Ogni umano accidente.

Il motivo è l'eterno sparire nel breve apparire, la fuga delle cose.
E, nel breve apparire, c'è lei, creatura ingenua, che è stata alla festa:
.... e forse ti rimembra
In sogno a quanti oggi piacesti e quanti
Piacquero a te.

Lui aveva allora ventun anno; non gode la festa, e neppure la sera, la dolce notte e la quieta luna:
anzi grida e freme:
. .. O giorni orrendi
In così verde etate!


C'è qui dentro un tumulto e un ruggito di gioventù, che il sentimento poetico trasforma e raddolcisce nella contemplazione dello sparire universale, con quell'effetto malinconico che ti fa il morire a poco a poco di un canto che si allontana.
In questo sparire universale c'è anche la speme:
.... A te la speme
Nego, mi disse, anche la speme; e d'altro
Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.


Quadro fosco, illuminato appena da quella cara giovinetta, che nella cheta stanza dorme, e non la morde cura nessuna, e ha goduta la festa, e, dormendo, sogna la festa. Nel Sogno, quella cara giovinetta � spenta.
.... Nel fior degli anni estinta,
Quand'è il viver più dolce, e pria che il core
Certo si renda, come � tutta indarno
L'umana speme.


Queste erano le donne poetiche di Leopardi, senza nome, senza contorni, vapori che il vento porta seco e non lasciano orma. Compagne di queste apparizioni effimere, le illusioni svanite, le speranze mancate, la giovinezza spenta, la vanità delle cose: materiali sparsi, che il poeta, giunto a trenta anni, fonde ora nel crogiolo della vita, e ne esce quella forma immortale, che si chiama
Silvia.
Queste illusioni, e la speranza e la giovinezza fuggite, questo sparire di tutte le cose, non ha qui, come per il passato, espressione d'idee e di concetto; l'idea � divenuta sentimento, incorporato nel fatto. Chi ricorda le canzoni, e anche gli idilli, vi troverà molta copia di sentenze come nel
Sogno : è la forma del pensiero, quando si affaccia nella sua purezza. Ma ora il mondo non � più per Leopardi quasi un complesso di pensieri; � un tutto organico e vivente, le cui idee sono vita, senso, carne, e sangue.
E tali sono in questa breve storia di due giovani colti nell'allegra serenità delle illusioni e dei sogni, la cui giovinezza fu spenta nell'una dalla Natura, nell'altro dal Vero. La fugacità della vita, e della illusione, e della speranza, e della gioventù, non � qui concetto ma impressione, e impressione senza espressione propria: è lacrima delle cose, � sentimento insito quasi in ciascuna immagine.

Tra queste impressioni compare
Silvia.
La giovinetta della
Sera del dì di festa, e l'altra del Sogno sono poco più che schizzi, o embrioni: la forma completa � Silvia. Ella � appena entrata nella giovinezza, a quella età che la fanciulla sta per trasformarsi in donna. Quello che sente, non � ancora amore: � un non so che lontano e vago che la rende pensosa, ma non la turba, non fissa i suoi occhi, non le dà il lungo sguardo del desiderio. Il riso e il canto esprimono letizia di una vita appena uscita dal verde, tutta color di rosa. Il suo vicino, al suono di quella voce, lascia i cari studi e s'affaccia. Era il maggio odoroso. Quel canto, quella natura gli muove il core. Giovane anche lui, nell'età della speranza, e sogna d'amore e di gloria.
Che pensieri soavi,
Che speranze, che cori, o Silvia mia !


Ciò che unisce questi due esseri non è amore; è simpatia, il vincolo comune della giovinezza. I loro sogni sono diversi. L'una sogna le lodi delle negre chiome e degli sguardi innamorati, e i giorni di festa, e le compagne che le favellano d'amore. L'altro sogna:
Il diletti, l'amor, l'opre, gli eventi.

Diversi i sogni, ma il sentimento � uno. E pari � il destino. All'una il sogno � troncato dalla morte, e fra breve � troncato all'altro dall'apparire del vero.
Leopardi non aveva mai rappresentato la vita che nella sua fugacità, nel dolore di quella fuga, nella malinconia di quel mistero. La vita nelle sue gioie, nelle illusioni della giovinezza non � stata per lui altro che un sottinteso, un antecedente o un punto di partenza. Vi si � fermato alquanto nella
Vita solitaria, ma � una descrizione brevissima, mescolata di lacrime; non � la pura gioia della vita giovanile e non è una rappresentazione. Qui la giovinezza, nei suoi sogni e nelle sue brevi gioie, � colta dal vero e fissata in una scena drammatica. Pure, questa breve evocazione di una vita gioiosa ha già nel suo seno il tarlo della morte. Questo � passato, questo è rimembranza. E non una volta il poeta cade in oblio, mai non usa tempo presente; quel vedevi e avevi e solevi, quei passati in rima che dànno l'intonazione, ti fanno venire il brivido.

A nove anni di distanza tornano innanzi al poeta le memorie giovanili, gli torna il mondo quale lo fantasticava allora; e oggi può con ragione dire:
questo � quel mondo? Il passato, posto come passato, getta il velo funebre della sparizione su tutta la rappresentazione e vi imprime un carattere melanconico. E discorrere di quel passato con lei, chiamarla, parlare alla morta, come fosse lì, viva, innanzi a lui, aggiunge alla malinconia dolcezza e tenerezza.
C'� qui dunque tutta quella partecipazione d'animo che è necessaria per dare a questa storia un carattere d'individualità, quel finito, quel contorno che � proprio di cosa reale.
La situazione � così chiara come semplice, la formazione � completa.

Ma questa poesia oltrepassa il limite di un fatto individuale e prende proporzioni colossali. Non � questa la sorte singolare di due individui, ma � la sorte delle umane genti. La natura non ha ingannato solo quei due, ma inganna tutti i figli suoi. Non rende quel che promette. Questo � carattere comune a tutta la poesia leopardiana; il senso generale fa stacco a modo di sentenza o di riflessione, e talora raffredda l'impressione che ti viene dal particolare. Ma qui � fusione completa.
Il senso umano della poesia � così intimamente fuso col senso individuale che sembra parte di quello, e che venga fuori come eccitato e provocato nel vivo della passione, quasi in un crescendo. È un lampo che splende e passa. Ma, ancorch� fuggitivo nella espressione, lo senti sempre presente nella intonazione.
Perch� qui non è moto violento e tumultuoso di una passione strettamente personale che fissi la tua contemplazione sulla miseria dell'individuo; non c'è l'accento dell'amore o dello sdegno o della disperazione. Il sentimento è pacato e soave; il dolore prende la forma elegiaca di lamento. E quando, in ultimo, la speranza nel suo sparire indica con la mano
la fredda morte ed una tomba ignuda, senti una stretta al cuore con sentimento di uomo più che di individuo.

Questa personificazione della speranza può parere una freddura; ma non fa cattivo effetto, espressa come è in una forma punto esagerata. Più che di persona, ha l'aspetto di una statua immobile, in una certa attitudine, che esprime il suo pensiero senza parole. Può parere la statua dell'Umanità all'ingresso di un cimitero. Questa è l'ossatura e il congegno della poesia sottoposta al discorso della mente. Ma se la guardiamo nel vivo della ispirazione e nell'atto della creazione, troveremo che la sostanza della poesia è Silvia, e che tutto il resto � accompagnamento. Silvia non � questa o quella donna; � il primo apparire della giovinezza in un cuore femminile, in tratti generali, ma così fissati e precisi e vivi che le dànno un carattere e una fisionomia. Di tal natura sono quegli
occhi ridenti e fuggitivi, e quel lieta e pensosa, e quel salire il limitare della gioventù, ed il perpetuo canto ed il vago avvenire.

Silvia non ha niente di comune con Elena o Beatrice o Margherita. Ella si mostra pura di ogni elemento soprannaturale o spirituale o simbolico. E' la poesia nella verità della natura, nella realtà della esistenza. Non c'� più storia, non c'è più cielo, non c'� più redenzione. Siamo nel regno della natura. Nessuna differenza di famiglia, di nazione o di forma sociale penetra qui dentro. La scena è il mare e il monte in lontananza, il sole
che tramonta, gli orti e le vie dorate, bellezza e malinconia dì natura. E là si svolge questo idillio della vita, questo mistero della natura.

I NUOVI IDILLII

Comparvero per la prima volta nell'edizione in Firenze dal Piatti 1831, La quiete dopo la tempesta e il Sabato del villaggio. Nell'edizione posteriore di Napoli comparve il Passero solitario, collocato con un ordine stabilito dall'autore primo fra gli antichi idilli.
Il concetto e la natura di questi idilli antichi e nuovi sono così simili, che sembrano scritti di un getto e nello stesso giorno. Il
Passero solitario, anche per le circostanze di fatto, sembra concepito e abbozzato in Recanati, insieme con l'Infinito e con gli altri idilli che uscirono nella edizione di Bologna (1826). E se comparve solo nella edizione di Napoli, si può credere che il poeta l'abbia lasciato incompiuto nei suoi cartoni, e che più tardi vi sia ritornato sopra. Se è vero che la musa ispiratrice di quei primi idilli sia la contemplazione solitaria, nessun canto meglio del Passero solitario era atto a far da prologo. Il poeta contemplava e fantasticava solo, in quel modo che canta solo il passero. Nel dì di festa egli esce nella campagna e contempla il tramonto del sole, come il passero nella gioia della primavera sta in disparte pensoso e canta.

L'intonazione di questa poesia è una malinconia attiva, che mette in moto soave l'immaginazione, porgendo innanzi alla mente nelle forme più graziose ed eleganti l'esultanza primaverile della natura e la festa romorosa del villaggio. Sembra che l'immaginazione con crudele trastullo si diletti a scegliere i più vaghi colori per rappresentare quella vita allegra di natura e di uomo, nella quale si tengono assieme il passero ed il poeta. Questa inclinazione alla solitudine nella festa universale è rappresentata non come uno stato eccezionale e morboso, ma come uno stato di natura, non si sa come o perch�, come un
costume. Perciò questa rappresentazione � accompagnata con un sentimento pacato, pieno di ingenuità e non privo di grazia. Tutta questa materia � ordita e disciplinata dalla riflessione, che segue in tutto il cammino quel paragone tra l'uomo e l'uccello, e aguzzando scopre all'ultimo la differenza tra il costume dell'uccello, frutto di natura, e la voglia dell'uomo, seguìta da pentimento. Non � impossibile che questa differenza un po' raffinata sia una coda appiccicata dal poeta più tardi, e che la poesia in origine fosse solo una rassomiglianza tra il poeta e il passero, presso a poco come nel famoso sonetto petrarchesco del rosignuolo.

La stessa intonazione è negli altri due idilli. Nel Passero, il poeta getta uno sguardo malinconico e pentito sulla sua giovinezza trascorsa in solitaria contemplazione, e per maggior verso l'immaginazione gli rappresenta la gioia e la festa di quella età. Nel
Sabato del villaggio � lo stesso concetto guardato con maggiore serenità e da un punto di vista affatto impersonale. Il poeta non rappresenta direttamente la giovinezza, la quale vien fuori come un termine di paragone. La materia � il Sabato, che precorre al giorno festivo, dove � già presentita, desiderata, pregustata la festa. La giovinezza è il Sabato della vita umana.

La descrizione di questo Sabato � una delle più leggiadre e care fantasie della musa italiana. È un quadretto di genere, nel modo fiammingo, dove tutto � realtà e dove tutto � ideale. Non so come a nessun pittore sia venuto in mente di rappresentare questa scena: una piazzuola dove i fanciulli gridano, saltano; la donzelletta che arriva col suo fascio sulle spalle e col mazzolino di rose in mano; la vecchierella che fila e ricorda la sua gioventù e il zappatore che giunge fischiando. Anche gli effetti di ombra e di luce, con quella luna recente, che biancheggia le case, sono ben còlti. Il tutto � rappresentato con ingenua semplicità piena di grazia, conforme alla natura di quella buona gente, inconscia e irriflessiva, tutta superficie ed espansione.

La coscienza c'� ed � fuori della scena; � nel poeta. A lui s'affaccia il suo Sabato, la giovinezza con
le sue brevi gioie. Poi quel suo volgersi al fanciullo, con aria non di pedagogo, ma di uomo mosso dall'affetto, esperto della vita, quel:
fanciullo mio; quello: altro dirti non vo', quasi non voglia turbare la innocenza di quella gioia, � cosa amabile in tanta serietà del pensiero. Questo � un quadretto dei più finiti, dove la forma ha l'ingenuità delle cose, con freschezza di disegno e di colorito.
Nella
Quiete dopo la tempesta, la scena è un paesello con gente rustica, aperta alle impressioni, con lontani orizzonti verso i campi e le valli. I particolari sono di una realtà comunissima, ma raggruppati e rappresentati in modo, che sembra per la prima volta ti balzino innanzi. Nelle cose penetrano i sentimenti, come � la gallina che ripete il suo verso, il ritorno del sole, il carro che stride e simili; prorompe una gioia tumultuosa, quasi la tempesta della gioia che succede a quella del cielo.
Questa bella descrizione � un po' turbata dalla riflessione. Il poeta vuol sostenere l'antica sentenza che il piacere non � in s� niente di positivo e che non è altro se non la cessazione del dolore: uno dei concetti fondamentali del suo sistema. Fortunatamente, questo � un concetto sopraggiunto, che non penetra nella descrizione e non guasta quell'armonia e quella intonazione.

Così il
Sabato e la Quiete rimangono due idilli deliziosi, usciti da una serena immaginazione appena increspata dalla abituale tristezza della riflessione. Questi chiari di cielo nel buio della esistenza, questi brevi idilli di una vita gioiosa nella tragedia universale, non mancano mai nella poesia leopardiana come mezzi di stile a contrasto o a rilievo. Ma in questi idilli la materia stessa della poesia ha una intonazione e un sentimento gioioso, che ce li rende cari e amabili, come rari intervalli felici nella amara esistenza.
Il poeta ha qui ritrovato il suo metro favorito quella mescolanza di endecasillabi e settenari, a rima libera, che gli concede ogni varietà di tinte e di effetti. La gravità dell'endecasíllalio è temperata nella sveltezza del settenario, e la rima, ove cade, compie l'effetto musicale.

E' assai probabile che il poeta abbia concepiti e anche abbozzati in prosa questi cari idilli così come il
Passero solitario. Essi sono molto simili per concetto alla Sera del dì di festa. Nell'uno, non c'è la sera ma il Sabato, il dì che precede alla festa; e nell'altro il concetto � a rovescio: � la tempesta prima e la quiete poi.

I tre idilli potrebbero dunque esser nati ad un parto; se non che due di essi non sarebbero stati compiuti e pubblicati se non molto più tardi. Ma, rimettendovi la mano, il poeta non ritrova più i furori e le disperazioni di quella prima età quando esclamava:
O giorni orrendi
In così verde etade!


Qui si vede una disposizione di anima pacata, atta a descrivere e gustare quelle brevi gioie.
Descrizione e riflessione stanno l'una fuori dell'altra, ciascuna al suo posto. La riflessione vien dopo, come la morale della favola, che non ha niente di amaro e di personale ed ha l'aria di una semplice visione filosofica.

Considerando bene questi nuovi idilli, che si ricollegano a una ispirazione antica e giovanile, ciò che in essi ci rivela uno spirito nuovo � quella virtù di concepire e rappresentare la gioia più che il dolore dell'esistenza, di modo che la stessa amarezza di una riflessione sopraggiunta rimane temperata ed addolcita.
Ma, dove appare nella maggior potenza lo spirito risorto del poeta, � nel
Canto del pastore errante, questo idillio degli idilli, nato sotto il cielo di Firenze e uscito fuori di getto solo.
Il motto di Saffo:
Arcano � tutto,
Fuor che il nostro dolor....

è qui il concetto della poesia. In una lettera a Giordani, se mal non mi ricorda, � fatta menzione di questo arcano con frasi che paiono tolte di qui. Forse, quando scriveva la lettera, aveva la testa già piena di questa poesia.
Spesso questo mistero delle cose gli si � affacciato in relazione con la sua persona, tirandogli accenti di sdegno e di dolore. Ma ora gli si affaccia in modo del tutto impersonale e prende quasi la forma d'una meditazione sopra i primi della vita universale. Chi medita, non � un filosofo, ma � l'anima semplice di un pastore, che sa nulla, e contempla innamorato la luna e le stelle, e fantastica sul fine e sull'uso della vita, incalzato da tanti
perch�, a cui non trova risposta. La profondità del concetto è questa, che in ultimo il filosofo ne sa tanto quanto il pastore, e che quello che appare una ignoranza e una semplicità del pastore, � appunto la verità.

Il pastore, che interroga la luna e vuole da lei sapere il perch� delle cose, ricorda le impressioni gagliarde che l'universo dovette fare sull'anima semplice dei primi mortali, quando la vista della natura svegliava in loro la curiosità del sapere. La poesia pare un poema biblico, una pagina del Giobbe. Il pastore prende le cose così come gli appaiono, le guarda con anima poetica, si esprime per via di paragoni e di brevi riflessioni, e parla alla luna come alla sua confidente di tutte le sere, che ne sa più di lui. Situazione originalissima, che illumina le vie tenebrose del mistero con la bonomia, la nativa semplicità, l'ingenua grazia del pastore. Anche il sentimento del mistero non ha strazio e non ha sdegno e non ha dolore; il pastore parla come rassegnato ad un ordine immutabile di cose contro il quale è vano cozzare, e dice le cose più terribili con semplicità tranquilla.

Uguale perfezione � nello stile. I concetti più profondi sono espressi con la chiarezza e la semplicità di quella prima forma di favellare tutta spontanea, che precede lo stile letterario. Chi legge, � costretto a fermarsi ad ogni tratto, lusingato da nuove bellezze; e ora la serietà delle cose gli annuvola la fronte, e ora la grazia e l'ingenuità dei sentimenti gli ride sulle labbra. Una delle mosse più graziose, di una carissima ingenuità, si sente in questi quattro versi:
Intatta luna, tale
E lo stato mortale ;
Ma tu mortal non sei,
E forse del mio dir poco ti cale.


E notevole come in questa poesia sia esclusa ogni personalità, e come nella rappresentazione d'una situazione originale l'autore abbia raggiunto una obiettività, che di rado gli � consentita dalla sua natura.

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