SCHEDE BIOGRAFICHE
PERSONAGGI
GIACOMO LEOPARDI

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CD-ROM CRONOLOGIA


L'esterno di casa Leopardi, all'epoca di Giacomo

Francesco De Sanctis "Antologia critica sugli scrittori italiani" e "Storia della letteratura italiana"

LO SCHIUDERSI DELLA NUOVA POESIA
GLI IDILLI

* (qui PRIMO AMORE - LA SERA DEL DI' DI FESTA - L'INFINITO - ALLA LUNA - IL SOGNO )

C'è nella vita un momento che l'ingegno si schiude come un fiore, e guarda il mondo con uno sguardo suo e lo vede diverso di come gli era apparso prima. Si direbbe quasi che gli occhi si siano mutati. E la prima apparizione -dell'originalità o della personalità. Quel giovane, che poco più poteva leggere, aveva già quella nuova apertura d'intelletto che gli metteva il cervello in fermentazione e gli scopriva nuovi aspetti delle cose; e quasi puro spirito e padrone del suo corpo, passeggiando, fantasticando, concepiva disegni sterminati, ai quali non sarebbe bastata la vita lunghissima di un uomo sano. Aveva letto tante volte quei classici greci latini; e ora ci ritorna, ci sente un altro gusto, un altro sapore. Quei classici italiani, già tanto imitati e ammirati, gli si rimpiccoliscono, e tutto gli par da creare, e vuol crearlo lui ! Giordani gli raccomanda la prosa, lui scrive versi, e lascia Cicerone, e dà mano a Orazio, Omero, Virgilio, Dante; e quella lettura gli fa quasi ingigantire l'anima in tutte le sue parti e dire: questa è poesia l - «L'arte, - scrivendo egli a Giordani- non deve affogare la natura; e quell'andare per gradi e voler prima essere buon prosatore e poi poeta, mi par che sia contro la natura: non dona ella niente niente a quella mens divinior di Orazio? ».

L'uomo sentiva già agitarsi nell'anima la musa, e non lo nasconde, e prega Giordani che non voglia crederlo un temerario.
Questa nuova visione del mondo, che rinnovava e abbelliva gli aspetti delle cose, lo illuminava e dava calore alla sua propria esistenza. Lui, che andava cercando argomenti poetici al di fuori di sè, non sapeva che la principale materia poetica era lui stesso, e anche la più adatta al suo spirito, avvezzo da lungo tempo a concentrarsi e a contemplarsi. I suoi primi palpiti d'amore, i suoi spasimi di corpo e di spirito, l'appassire della sua giovinezza, le contemplazioni solitarie, le sue fantasie, le sue ricordanze, tutto questo gli viene innanzi, tinto da una luce nuova, e gli esce vivo sotto la penna. Sfoga se stesso in verso e in prosa, scrivendo al Giordani, parlando alla luna. Dovevano essere questi momenti belli in quella monotonia di vita, tra le annotazioni all'Eusebio dotte e acute, e le studiate lettere ai letterate del tempo, perch� si degnassero di gettare uno sguardo sulle due Canzoni. In quei momenti segreti di lavoro geniale, riandando se stesso, i suoi studi, i suoi scritti, i suoi infortuni, gli balzò davanti quella cara sua cuginetta, la Cassi, che prima gli ispirò amore, e intorno alla quale lo scolaro di retorica aveva ricamato non so quale cantica e non so quale elegia. Questa ricordanza, fissata sulla carta, ebbe per titolo:
Il primo amore.

Nella sua ingenuità esprime con meraviglia piena di bonomia gli straordinari moti de quell'affetto, così caldo e insieme così innocente. Innanzi a lei timido, taciturno, quasi non osa guardarla. Tutta l'eloquenza e tutta l'immaginazione gli torna sotto le coperte:
Oh come viva in mezzo alle tenebre
Sorgea la dolce imago, e gli occhi chiusi
La contemplavan sotto alle palpebre !


E non poteva dormire, e se chiudeva gli occhi, il sonno gli era rotto come per febbre. E si sente altro. Non ama più la gloria, e non lo studio, e non la natura; non gli � grato il riso degli astri, o il silenzio della quieta aurora o il verde prato. L'occhio è a terra chino, e per non turbare l'illibata immagine, fugge ogni vista di volto leggiadro o turpe. Ma viene il giorno della partenza. La notte, sospirando, lacrimando, palpitando, sta con l'orecchio teso; trasalisce ad ogni voce:
E poi che finalmente mi discese
La cara voce al core, e de' cavai
E delle rote il romorìo s'intese;
Orbo rimaso allor, mi rannicchiai
Palpitando nel letto e, chiusi gli occhi,
Strinsi il cor con la mano, e sospirai.
Poscia traendo i tremuli ginocchi
Stupidamente per la muta stanza,
Ch'altro sarà, dicea, che il cor mi tocchi?


Tutto ciò � narrato benissimo, ed in certi punti anche con novità d'immagini, come � il mormorare lungo, incerto tra le chiome d'antica selva, a cui paragona l'interno mormorio di moti e di pensieri; ed il dolore plumbeo che gli scende nel cuore,
Com'e quando a distesa Olimpo piove
Malinconicamente, e i campi lava;


e quella dolcezza nel suo dolore, e nutrirselo e tenerselo caro:
Solo il mio cor piaceami, e col mio core
In un perenne ragionar sepolto,
Alla guardia seder del mio dolore.


Se il giovane si fosse lasciato andare a seconda, cacciando via da s� forme e modelli preconcetti! Ma con i
se non si fa la storia. Questa naturale narrazione, e in certi punti commovente, � mescolata di personificazioni, di apostrofi, di sentenze, di forme convenzionali, di falsi splendori, tutta roba petrarchesca. L'anima del poeta e come avviluppata in una densa nuvola, e non può uscire che mescolata a quella. Pure qua e là quella nuvola si squarcia ed escono fuori versi stupendi, che allora un solo poeta faceva così, Vincenzo Monti.

Questo primo amore, che nell'altra elegia sotto l' immediato impulso del fatto ha una espressione tumida, che vuol essere patetica, qui ritornato nella memoria, ha tinte soavi, e ti lascia in quella sua sincerità e ingenuità di sentimento una impressione pacata, di una dolce malinconia. Ciò che c'� troppo straziante nella realtà, viene trasfigurato nella ricordanza, diventa melodia.
A questa felice disposizione si debbono gl'idilli, brevi componimenti, schizzati in quei cari momenti di rifugio, in cui l'anima parla con se stessa: contemplazioni, impressioni, ricordanze, riflessioni, malinconie e dolcezze. Sono cinque quest' idilli :
L'Infinito, Alla Luna, La sera dei dì di festa, Il sogno, La vita solitaria.
L'idea e il nome gli vennero naturalmente dagl'idilli greci, a lui traduttore degl'idilli di Mosco. Si può credere che il traduttore fosse a sua volta autore, dilettandosi di comporre in quella giovine età qualche idillio, com'� quello delle Rimembranze, ultimamente pubblicato dal Cugnoni, lavoro affatto giovanile.

L'idillio leopardiano non ha niente di comune col significato, che si dà generalmente a questa maniera di poesia. Non � descrizione della vita campestre, con dialoghi tra pastori, o pescatori, opera spesso di civiltà avanzata e stanca che, mancato ogni degno scopo della vita, cerca nuovi stimoli negli ozi campestri. Forse per questo Leopardi più tardi cancellò quel nome d'idillii e diede a tutte le sue poesie un nome comune, Versi o Canti.
Fatto � che dapprima comparvero con quel nome, rivelando nel giovane autore una concezione sua propria dell'idillio. Esso � il motivo musicale e poetico, nella sua prima semplicità, di quello che più tardi, sviluppandosi, fu rappresentazione della vita pastorale, spesso in forma drammatica. E quel motivo è l'impressione immediata e nuova prodotta dalla contemplazione della natura su anime solitarie e malinconiche. Tale � il motivo dei popoli primitivi, dalle cui ingenue immaginazioni e contemplazioni uscirono quei primi scherzi della fantasia, che furono chiamate religioni.
Quel motivo, sperdutosi nel rumore della vita, ritorna nella solitudine dei campi, e rimane come la Musa occulta dell'idillio o della egloga nel suo sviluppo drammatico, com'è negl'idilli greci.

Da notare � l'idillio quinto di Mosco, tradotto da Leopardi giovanissimo, dov'è un primo indizio della sua poetica natura, e da cui uscì probabilmente l'esempio e la concezione di questi idilli.
Qui veramente si scorge una prima orma del suo genio. Perch� Leopardi, come lo conosciamo già, � un personaggio punto epico e punto drammatico, � un personaggio idillico. Non � uomo d'azione, non partecipa alla vita esteriore; non � atto a cantarla; essa non � altro che la tavolozza dei suoi colori. Anche nei momenti di maggiore entusiasmo trae di colà la semplice stoffa del suo spirito, nel quale unicamente vive. Quella � il mezzo, non � il fine. Tolto all'azione e alla vita esteriore, in quell'ambiente odioso di Recanati, si sviluppa ancora più in lui la concentrazione naturale del suo spirito in se stesso.
Così vien fuori una natura contemplativa, solitaria, a cui quegli studi, quel vivere, quel sentimento della sua infelicità porgono sempre nuovo nutrimento. Anime così fatte sono affettuose, perch� uomo senza società si sente vedovo, e cerca sollievo nella contemplazione della natura, e la guarda con occhio di amante. Da queste disposizioni nasce l'idillio, nel suo più alto significato.
Una prima contemplazione è l
'Infinito, tutta in versi endecasillabi, senza rima, com'è l'idillio quinto di Mosco, e gli altri che tradusse o compose. Si vede anche nel metro la filiazione.
La scena di questa contemplazione � il monte Tabor, dov'egli soleva passeggiare, fermandosi in uno dei siti più solitari, all'ombra di una siepe che nascondeva alla vista gran parte dell'ultimo orizzonte.

Siede e mira. La contemplazione ha la sua sede, non nella vista materiale circoscritta dalla siepe, ma nel suo spirito pensoso e concentrato. Vede un pezzo del cielo, ode lo stormire del vento, e non ci si acquieta e non ci si addormenta, come fa il pastore di Mosco sotto il platano chiomato, natura anche lui. Qui la vita naturale ed esteriore, � un semplice stimolo che sveglia il pensiero e dà le ali alla immaginazione. Perciò non � qui un vedere, ma un'immaginazione, un fingere:
io nel pensier mi fingo. La solitudine, la malinconia, la vista e l'impressione della natura suscitano una disposizione religiosa, la quale altro non � se non un alzarsi dello spirito di là del limite naturale verso l'infinito. E questa è davvero una contemplazione religiosa. Nello spirito non c'è un'idea preconcetta dell'infinito, alla quale l'immaginazione adatti le forme, come si vede nei poeti moderni, in cui fiuti sempre la presenza di un'idea astratta nel maggior lusso delle forme. Qui non c'è niente di filosofico, come sarà in poesie posteriori. È una vera contemplazione, opera dell'immaginazione, con la sua ripercussione nel sentimento, com'è lo spirito religioso.

In verità questo puro alito religioso, proprio dei contemplanti solitari, a cominciare dai romiti e padri del deserto, in quel tempo di scetticismo e d'ipocrisia, tu non lo trovi quasi che in solo questo giovane di ventun'anno. Innanzi a lui non ci sono idee, ma ombre, delle idee; non c'è il concetto dell'infinito e dell'eterno, ma ce n'è il sentimento. Appunto perch� la contemplazione � opera combinata dell'immaginazione e del sentimento, e non giunge fino al concetto, e non dà alcuna spiegazione, vi alita per entro un certo spirito misterioso, proprio delle visioni religiose. Il mistero aggiunge giunge all'effetto.
Ti sta davanti un non so che formidabile, che ti spaventa, un di là dall'idea e dalla forma. Tu non puoi concepirlo e non puoi immaginarlo. Vedi solo la sua ombra. Così i primi solitari scopersero l'Iddio!
Queste ombre e questi sentimenti sono immediati e inconsapevoli. Non nascono da un pensiero attivo, che li produca con la sua impronta; anzi sembra che naturalmente piovano nello spirito. Nessuna vestigia di elaborazione, niente di successivo e di sovrapposto a quelle ombre nella loro formidabile nudità, portano seco il loro colore e la loro musica. Appunto perch� il pensiero rimane inattivo, mentre il cuore si spaura, l'effetto � grandissimo. E questo spiega l'impressione profonda della chiusa così originale, in cui il pensiero riacquista la coscienza, solo per sentirsi dolcemente annegato:
.... tra questa
Immensità s'annega il pensier mio;
E il naufragar m'è dolce in questo mare.


L'annegamento del pensiero nell'infinito non è un concetto nuovo. E questa impotenza del pensiero innanzi all' inconoscibile desta sempre un sentimento di terrore, o, come dicesi, l'impressione del sublime, prodotta qui non solo dalle cose, ma dal ritmo delle cose. -
Interminati spazi, sovrumani silenzi, profondissima quiete. - Ciò che � nuovo in questo naufragio del pensiero � il sentimento di dolcezza. Il contemplante solitario si sente sperduto in quella immensità, e gli piace. Il piacere nasce non dalle cose che contempla, ma dal contemplare, da quello stare in fantasia e obliarsi e perdersi senza volontà e senza coscienza. E' la voluttà del Bramino, poeta anche lui, la voluttà dello sparire individuale nella vita universale.

Questa contemplazione � la prima grande rivelazione del suo genio, semplice insieme e profondo. E' un ritorno alla rappresentazione delle poesie primitive e popolari, dove disegno, colore e ritmo � una parola, e vista e impressione � sempre immediata. Certo, l'arte dei nessi, il vigor logico e la correzione della forma lo certificano poeta di un'età avanzata. Ma chi considera a quanta raffinatezza era giunta la poesia italiana anche nei sommi, e anche a quel tempo che molti gridavano semplicità e popolarità e nessuno ne dava esempio, può misurare il valore di questo schizzo, e giudicarlo come l'apertura musicale di una nuova era. Dico apertura musicale, perch� qui non � ancora chiaramente espresso un nuovo contenuto, nè una nuova forma, ma ce n'� come l'aria e il presentimento. Ci si scorge ancora una parentela con studi e modelli antichi. Manca a questa forma la bonomia e l'ingenuità, e la morbidezza, una compiuta chiarezza, come si vede nel secondo periodo, dove quell'atto collettivo del comparare e quel cumulo di oggetti aridi ti lascia freddo e perplesso, quasi abbi innanzi una forma logica, e non una visione chiara e immediata.

Maggior delicatezza di forma e un sentimento idillico più schietto � nei sedici versi
Alla Luna. Il concetto � il piacere della ricordanza nei giovani, piuttosto tristi; ond'è che quei versi furono prima intitolati: La Ricordanza, titolo poi dato ad altra poesia. Ma il concetto non è qui la sostanza, come nell'Infinito. La sostanza � un momento psicologico, la rappresentazione di uno stato dell'anima; e lo stesso concetto non � che quello stato in forma generale.
La scena � sempre su quel colle. Il giovane � in quello stato di dolce malinconia, che ti rende cara la natura, quasi persona, quasi la tua confidente. Guarda la luna, che pende sulla selva e la rischiara. E ricorda l'anno passato: lo stesso dì, la stessa ora ho visto la luna anche così!... Era chiara, pur mi appariva velata di una nube. Ma la nube era nei miei occhi lagrimosi; piangevo allora e piango ora.

Queste cose egli dice alla luna, come alla sua amica:
O graziosa luna ! Gli sembra una grazia in quell'attitudine. La malinconia gli aguzza il senso della bellezza, ed entra in colloquio con lei, e come un amante le ricorda con precisione dov'era lei, dov'era lui, e come la guardava - e ti guardavo così, perch� piangevo - e le confida che era triste, con una rassegnazione piena di grazia, sciolta la lacrima in un sorriso tenero; la graziosa luna diviene la sua luna, la sua diletta luna.

Non c'� solo il
noverar dell'età del suo dolore, il ricordare, che gli � caro, e gli asciuga la lacrima e lo fa sorridere. È ancora quel sentirsi giovane, disposto all'affetto, alla tenerezza, e parlare alla luna e farle le sue confidenze. Non � solo la ricordanza, � il modo della ricordanza.
Quella luna, così fissata e in questa corrispondenza di affetto, non la dimentichi più! E quel giovane nella sua malinconia contemplativa ed espansiva che vive di memoria, e canta l'età del suo dolore, e si nutre di questa vita, e ci si piace e ci s'intenerisce, � il fanciullo poetico, che porta già in fronte i segni di un pensiero nuovo, non ancora adulto, ancora in formazione.

Nella Sera del dì di festa la materia � la stessa, in tela più ampia.
E' un dato momento psicologico, da cui scaturisce un dramma che si rappresenta nello spirito del poeta. Il concetto astratto si può ridurre in questa forma: la festa � passata, e tutto passa.
Il giovane, che non ha preso parte alla festa, la sera si affaccia a guardare un bel cielo stellato, e la luna tranquilla sopra ai tetti e in mezzo agli orti, che rischiara i lontani monti.
In mezzo a questo chiarore tutto � silenzio, e dietro alle finestre tutto � oscuro. Questa scena lo ispira, e gli fa venire la lacrima e la voce. Egli non � un'anima oziosa letteraria che si affissi con diletto a quella scena e s'indugi a descriverla. Sono poche linee, ma sicure e precise, che ti dànno immagine e impressione tutt'insieme. E l'impressione � questa, che ti mette dolcemente in moto l'immaginazione ed il cuore, e ti concede lo sfogo e ti dispone ai cari soliloqui di un'anima troppo piena.
Saluto questo cielo così benigno in vista e l'antica natura che mi fece infelice
A te la speme
Nego. mi disse, anche la speme; e d' altro
Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.


Il cielo � così bello ed io sono così infelice ! Negli occhi miei non brilla se non la lacrima.
La notte chiara e dolce, la quieta luna, quella serenità di cielo appare agl'infelici quasi una provocazione. Vorrebbero tutto il mondo fosse in pianto, come loro.

Ma il nostro infelice ha un'anima poetica e gode quella bellezza, e non maledice la natura, anzi la saluta.
Questo spoglia il suo lamento di ogni amarezza. Anzi il contrapposto tra il cielo tranquillo e la sua anima travagliata non gli viene neppure in forma di contrapposto; lo s'indovina, più nella situazione che nelle parole.
Ma il contrapposto si sviluppa e acquista maggior rilievo. Anche la mia donna dorme e non la morde nessuna cura, e non sa quanto io l'amo! Anzi, forse sogna la festa, e a quanti piacque e quanti piacquero a lei.
La placidità universale, concentrata ora nella traquilla immagine della sua donna che non lo pensa, gli fa sentire duramente la sua solitudine, non senza un movimento di gelosia inavvertito, e viene lo scoppio:
.......Intanto io chieggo
Quanto a viver mi resti, e qui per terra
Mi getto, e grido, e fremo. O giorni orrendi
In così verde etate!


Non è uno scoppio di collera, non incolpa nessuno giace sotto il suo dolore, senza eco nella indifferenza universale. In questa prostrazione la poesia sarebbe finita, ma ripiglia per nuova occasione. Ode il canto notturno dell'artigiano, che dopo i sollazzi torna al povero ostello, portandosi in capo ancora l'allegria della festa. Egli � contento, lui, ha goduto della festa, e gode ancora cantando, felice nella sua povertà. O cosa importa a lui il passato e l'avvenire ? Si gode la placida notte e la quieta luna, e canta e non pensa altro. Ma il giovane guarda il mondo con l'occhio del dolore, e quel canto di notte, nel silenzio di tutte le cose, ultima eco della festa, gli � il suono funebre della campana che gli annunzia che tutto passa
Ecco, è fuggito
Il dì festivo, ed al festivo il giorno
Volgar succede, e se ne porta il tempo
Ogni umano accidente


La sua anima stagnata in se stessa ripiglia vigore, si getta di nuovo in fantasia. Il suo fato si perde nel fato universale. Il suo dolore si trasforma e si raddolcisce in una malinconia meditativa.
La sua persona è scomparsa nel genere umano. Non � più la storia sua, � la storia del mondo. Gli compaiono davanti i popoli antichi, e Roma. Dove essi sono?
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
Il mondo, e più di lor non si ragiona.


Fantasia non nuova, e che sarebbe pedantesca, se non uscisse qui dalle intime tenebre di un cuore ferito, si che acquista un sentimento nuovo. Perch�, se la persona � scomparsa come materia della contemplazione ed è succeduta una materia nuova, questa � nata da quella e conserva nella sua forma quel calore e quel sentimento. Perciò non � un'astrazione, non una produzione dell'intelletto, ma � lo sviluppo di uno stesso momento psicologico particolare e personale. La persona in quella data disposizione dello spirito fa sentire dappertutto le sue vibrazioni. Quella considerazione del fato universale, suscitata da una impressione tutta personale del canto notturno, finisce con un commovente ritorno alla persona. E' un ricordo della fanciullezza; simile canto, simile stretta di cuore, simile fatto:
Nella mia prima età, quando s'aspetta
Bramosamente il dì festivo, or poscia
Ch'egli era spento, io doloroso, in veglia,
Premea le piume; ed alla tarda notte
Un canto che s'udìa per li sentieri
Lontanando morire a poco a poco,
Già similmente mi stringeva il core.


Allora non sapeva perch�. L'impressione cosciente dell'adulto � ripetuta nell'impressione ignorante della prima età, in una intonazione più soave, a quel modo le � il ritornello di un motivo, in suoni meno accennati e più melodiosi. Il dolore dell'adulto, tanto più acuto, quanto più intelligente, si smorza in una dolcezza malinconica di un candore infantile.
Abbiamo già la grande maniera di Leopardi, una vista del mondo in un movimento di fantasmi e l'impressioni generate da momenti psicologici sinceri e precisi in una forma idillica, voglio dire ingenua e semplice, di una bonomia quasi fanciullesca nella sua profondità.
Sono stonature, qualche passaggio brusco, qualche tono troppo solenne e fin tragico, qualche reminiscenza classica, soprattutto quella donna appena concepita che
gli aprì tanta piaga nel petto.

Con questi idillii si accompagnavano i soliti castelli in aria. L'idea fissa era lasciare Recanati. Ma come?, Andare a Roma, secondo il consiglio di Giordani? E come vivere?, giacch�
nunziature e cose tali sono per li preti. Entrare nell'Accademia ecclesiastica con quattordici scudi al mese? Ma con questo non hanno appena la metà del bisognevole, e mio padre � stradeliberato di non darmi un mezzo baiocco fuori di casa.
Tentò perfino una fuga in Lombardia, e fu scoperto e non fu lasciato fare. La noia derivata dalla impossibilità dello studio, le
orribili malinconie e i tormenti che gli procurava la sua strana immaginazione, la tirannide domestica, la differenza dei principii non appianabile, il sentirsi rimpiccolire in quell'angusto ambiente, desiderio di collocamento, di gloria, di vasti orizzonti spiegano quel tentativo. « Voglio piuttosto essere infelice che piccolo, scrive al padre, e soffrire piuttosto che annoiarmi ».

Tra questi vani pensieri c'erano progetti ancora più vani. A forza di dolore gli era riuscito di leggere l'apologia di Lorenzino de' Medici, e s'era confermato nel parere che le scritture e i luoghi più eloquenti siano dove altri parlano di se medesimo. Le sue idee sulla letteratura diventano più concrete.
Quei già così cari Cinquecentisti li chiama ora
miserabili, e la loro lingua � arrabbiata e dura per gli affettatissimi latinismi; dove quegli che parla di se medesimo non ha tempo n� voglia di fare il sofista, e cercar luoghi comuni, ch� allora ogni vena più scarsa mette acqua che basta, e lo scrittore cava tutto da s�, non lo deriva da lontano.
Con quest'occhio più acuto ripete il suo giudizio, che quasi tutto � da rifare. E i disegni gli si accumulano in testa, e può appena raccoglierli frettolosamente in carta, perch� non gli cadano dalla memoria. Volgeva fra l'altro in mente un trattato:
Della condizione presente delle lettere italiane; ma lasciamo parlare lui stesso:
"Tante cose restano da creare in Italia, ch'io sospiro in vedermi così stretto e incatenato dalla cattiva fortuna, che le mie poche forze non si possano adoperare in nessuna cosa. Ma quanto ai disegni, chi può contarli? la Lirica da creare...; tanti generi della tragedia, perch� dall'Alfieri ne abbiamo uno solo; l'eloquenza poetica, letteraria e politica; la filosofia propria del tempo, la satira, la poesia di ogni genere accomodata all'età nostra, fino a una lingua e a uno stile, ch'essendo classico e antico, paia moderno e sia facile a intendere e dilettevole così al volgo, come ai letterati.... Ma io da gran tempo non penso n� scrivo n� leggo cosa alcuna, per l'ostinata imbecillità dei nervi degli occhi e della testa: e forse non lascerò altro che gli schizzi delle opere ch'io vo meditando, e ne' quali sono andato esercitando alla meglio la facoltà dell'invenzione, che ora � spenta negli ingegni italiani. E per quanto io conosca la piccola cosa ch'io sono, tuttavia mi spaventa il dover lasciare senza effetto quanto avevo concepito. Ma ora propriamente son diventato inetto a checchessia: mi disprezzo, mi odierei, m'aborrirei, se avessi forza: ma l'odio � una passione, e io non provo più passioni".

Così scrive a Pietro Giordani; e tra le linee leggi questa interrogazione: «Farò niente di grande? », che pure una volta gli venne sotto la penna.
In questi vani disegni passò quell'anno. È assai probabile che in quegli schizzi erano le prime linee dei suoi dialoghi e operette morali. Ma tutta questa azione nel vuoto, con nessuna speranza di concludere, doveva ancor di più aggravare la sua tristezza e fiaccargli ogni volontà. - Io non provo più passioni! - Non � più il giovane che sogna patria, libertà, virtù, bellezza, gloria. L'umor nero gli oscura tutt'i suoi ideali. Forse in questo tempo moriva anche la sua tessitrice, un suo innocente amore. Che cosa � la bellezza ? Che cosa � la virtù?

"I libri, e particolarmente i vostri, scrive a Giordani, mi scorano insegnandomi che la bellezza appena � mai che si trovi insieme colla virtù, nonostante che sembri compagna e sorella: il che mi fa spasimare e disperare. Ma questa medesima virtù quante volte io sono quasi trascinato di malissimo grado a bestemmiare con Bruto moribondo ! Infelice, che per quel detto si rivolge in dubbio la sua virtù, quand'io veggo per esperienza e mi persuado che sia la prova più forte che ne potesse dar egli e noi recare in favor suo".

La canzone di Bruto gli si andava già volgendo per il capo ! Una frase lugubre gli viene spesso sotto la penna: disperare di se stesso. Il niente, prima ancora che divenisse in lui una filosofia, era già una realtà. E forse nessuno ha concepito il niente in modo così spaventevole, come lo sente e lo rappresenta lui in questa lettera:

"Sono stordito del niente che mi circonda.... Non ho più lena di concepire nessun desiderio, neanche della morte ; non perch'io la tema in nessun conto, ma non vedo più divario tra la morte e questa mia vita, dove non viene più a consolarmi neppure il dolore. Questa � la prima volta che la noia, non solamente mi opprime e stanca, ma mi affanna e lacera come un dolor gravissimo, e sono così spaventato della vanità di tutte le cose e della condizione degli uomini, morte tutte le passioni, come sono spente nell'animo mio, che ne vo fuori di me, considerando che � un niente anche la mia disperazione".
.
A questa lettera spaventevole si scuote Giordani, e risponde:

"Mio caro Giacomino, io non so che dirti, e il caso tuo non � più da parole. E vedi bene che io nulla posso. Ma posso amarti e compiangerti; e credimi che il cuor mio si rompe dei tuoi guai. Con sospiri infiniti e con amore immenso ti abbraccio".

Parole che bastavano a risuscitare nel giovane il fervore dell'amicizia, e a rinnovargli la consolazione delle lacrime.
"Dove troverò uno che ti somigli? Dove troverà un altro, ch'io possa amare a par di te? O cara anima, o sola infandos miserata labores di questo sventurato!... Non vedo altra vita che le lacrime e la pietà, e se qualche volta io mi trovo più confortato, allora ho forza di piangere, e piango la miseria degli uomini e la nullità delle cose".

Fanciullo, gli pareva che l'infelicità venisse dalla malvagità, e sentiva sdegno contro i malvagi, e dolore della virtù sventurata. Ma ora nella sua tristezza non � più scintilla d'ira, e la vita non gli par più degna di esser contesa, perch� sono infelici tutti, schiavi e tiranni, oppressi ed oppressori, buoni e cattivi. Fanciullo, avea malanimo contro gli sciocchi e gl'ignoranti, e ora cerca di confondersi con loro, e tiene con ambe le mani afferrati gli ultimi avanzi della fanciullezza, quando sperava e sognava la felicità, e sperando e sognando la godeva. E quel tempo � passato,
e non tornerà più, certo mai più.
"Insieme colla fanciullezza � finito il mondo e la vita per me, e per tutti quelli che pensano e sentono; sicch� non vivono fino alla morte, se non quei molti che restano fanciulli tutta la vita".

È chiaro che questo giovane, il quale si sente infelice, perch� pensa e sente, e porta invidia agl'ignoranti e ai perpetui fanciulli, deve considerare come un
formidabile deserto un mondo senza ideali e senza scopo, e la vita, vacua di ogni speranza, poco diversa dalla morte. E si sente quanto strazio � in queste parole tranquille di un vivo che si sente morto:

"Non ti affannare per me, ch� dove manca la speranza non resta più luogo all'inquietudine, ma piuttosto amami tranquillamente, come non destinato a nessuna cosa, anzi certo d'essere già vissuto!.

Chi ricorda le prime lettere a Giordani, così eloquenti, con tanto spargimento di cuore, vedrà qual cammino si � fatto. Allora egli era un fanciullo; ora pensa e sente.
Il cattolico non c'� più e neppure il cristiano. La religione se ne andata nella sfera delle illusioni, raggiunta dalla virtù, dalla gloria, dalla bellezza, illusioni anch'esse. Regge il mondo una forza infinita ed eterna, arcana, ascosa alla ragione, e i viventi sono castelli di carta, ch'essa fa e disfa per suo trastullo. La vita non ha scopo e le azioni umane sono un'agitazione nel vuoto. Il niente solo �. Vita e morte sono una cosa. Sono il niente. Questo � il sugo del discorso.
Questa non � ancora una filosofia. È il cattivo germoglio della disperazione. È la secrezione dell'umor nero. È la sua malattia. Egli medesimo se ne accorge nei momenti di pacatezza, e ne fa una diagnosi come un medico. Interpreta la sua vita, cio� il suo modo di pensare e di sentire, fisiologicamente. A sentirlo, le cagioni del suo male sono: debolezza somma di tutto il corpo e segnatamente dei nervi, e totale uniformità, disoccupazione e solitudine forzata, e nullità di tutta la vita.
"Le quali cagioni operavano ch'io non credessi, ma sentissi la vanità e noia delle cose, e disperassi affatto del mondo e di me stesso".

Non erano dunque idee, erano sentimenti. La malattia non era nell'intelletto, era nel cuore. Gli pareva di credere, e ora che il cuore � guarito e si sente come uomo sano, si accorge che quello non era un credere, ma un sentire.
"Ma se bene anche oggi io mi sento il cuore come uno stecco o uno spino, con tuttociò sono migliorato in questo ch'io giudico risolutamente di poter guarire, e che il mio travaglio deriva più dal sentimento dell'infelicità mia particolare, che dalla certezza dell'infelicità universale e necessaria".

E in verità, a quanti in certi momenti oscuri della vita non occorre di dover recitare anche il
vanitas vanitatum et omnia vanitas, l'infinita vanità del tutto? Poi risensiamo.
Il povero Leopardi, e per naturale disposizione e per un cumulo di condizioni fisiche e morali, era un martire della vita. E nessuna meraviglia è che egli la maledica e la chiami vana e quasi il medesimo che la morte. Per ora la malattia � nel cuore, e non ha invaso l'intelletto. Sente e gli par di credere. Ma non si scherza impunemente col cuore. A forza di nutrirli e di accarezzarli, questi sentimenti si fissano e diventano un vizio dell'intelletto, un dato modo di concepire o di giudicare; diventano le idee fisse. E chi guarda a queste lettere, vede già quanto progresso ha fatto il male.
Sono ancora sentimenti, è vero, ma così coordinati, con uno sviluppo così logico, in una forma pensata, che hanno già aspetto, non solo d'idee, ma di un sistema.
L'intelletto � già attinto, e il male � più grave ch'egli non creda, soprattutto in un intelletto predisposto da opinioni e dottrine filosofiche ancora in voga, e naturalmente acuto e meditativo.
Appunto perch� queste idee fisse nascono dal cuore, sono non astratte ed intellettuali, per le quali s'interessi il solo filosofo, ma sono vive, partorite in mezzo al dolore, e accompagnate dalle lacrime, con la loro ripercussione in tutte le forze e i sentimenti della persona. Il poeta � il primo martire delle sue idee, e fa sentire il suo martirio. Sicch� dietro al suo pensiero, anche nelle regioni più elevate, vedi sempre l'uomo che lo concepisce e lo rappresenta, non secondo criteri generali, ma secondo lo stato della sua anima. E questo rende la sua lirica sincera e interessante e vera poesia.
Si piglia un vivo interesse, non solo al poeta, ma all'uomo, suo inseparabile compagno.

Queste idee fisse, divenendo a poco a poco il suo modo abituale di vedere il mondo e, com'egli dice, il
vero, vanno a urtare in un altro ordine di sentimenti, divenuto già sua natura e parte indivisibile della sua vita. Perch� Leopardi a quell'età era già un essere morale compiuto. Non era più religioso nel senso volgare di questa parola, non aveva più fede in certi dogmi; ma aveva un sentimento vivo dell'infinito e dell'eterno e del mistero delle cose, ciò che � appunto il sentimento religioso. Questo sentimento si accompagna col disprezzo di tutto ciò che è finito, o, com'egli dice, mondano, piacere mondano; e nessuno più di lui ha così poca stima di tutti quei fini particolari, appresso ai quali corre il comune degli uomini, le cui azioni a lui paiono vane, e perciò vero ozio. Talora, a sentirlo a parlare della vanità della vita, ti pare un cenobita o un santo padre. La differenza � in questo, che quelli dietro a questa vanità pongono un'altra vita come vera realtà, e lui ci pone il mistero, religione anch'esso, anzi radice di ogni religione. Oltre a ciò, il giovane sentiva profondamente la virtù, la dignità di uomo, l'amore, la bellezza, la gloria, la patria. E tutto questo era Giacomo Leopardi, aggiuntavi un'estrema delicatezza e sensibilità, che gli rendeva più cari, più avidamente desiderati questi sentimenti.

Il desiderio non placato dalla speranza, anzi accompagnato con la disperazione, li mantiene vivi e intensi, talora sino al delirio di Saffo. Maledice la vita, perch� non può goderla, e la importanza del suo implacato desio � il segreto della sua maledizione.
Invano ora chiama vanità la vita, e illusioni la virtù, la gloria, l'amore.
Questa teoria dovrebbe tirarlo al suicidio, o alla misantropia, o alla compiuta indifferenza innanzi a ogni ordine morale. E queste conseguenze appaiono qua e là nella sua vita e nel suo spirito, come semplici velleità. Ma la sua natura è più forte della sua teoria, e resiste, e nasce un dramma interno del più alto interesse, una lotta tra la sua natura e il
vero; la quale in una sfera più elevata si risolve nella lotta tra il fato indegno e l'individuo. Malgrado il colore greco di questa lotta, essa � tutta moderna nella sua sostanza, ed ha le sue radici profonde nell'anima dell'uomo che ne è il martire. Talora la natura benefica gli ritorna il sapore della vita e la facoltà di amare, gli ritorna i fantasmi e i sogni della giovinezza e, com'egli dice, fanciullezza, e il redivivo fanciullo canta il suo risorgimento, canta la patria e l'amore e la gloria e la virtù. Tal'altra rimane come schiacciato sotto il Fato, pur maledicendo e pur resistendo. Dalla qual diversa disposizione dello spirito nasce diversità di disegno, di colore e di accento. Ma, vinca o l'una o l'altra di queste forze, rado � che siano scompagnate, e nel maggiore entusiasmo della vita penetra la morte come un tarlo che la rode; e quando l'anima � più oscura, vi brilla un raggio di luce. E questo naturalmente, non come concepimento estetico dell'intelletto, ma come un fatto quasi incosciente del suo spirito in questa o quella disposizione.
Questo dualismo � la forza dinamica della poesia leopardiana, la leva che la mette in moto e ne fa un organismo originale. Essa � insieme il canto dell'amore e della morte.

Il dualismo è invitto, non c'è eliminazione, non c'è soluzione. Se il poeta fa buon sangue e gode un istante di gioventù, non � già che rinneghi le sue idee e chiami sostanze reali quelle che il suo pensiero chiama ombre. Sono illusioni, il pensiero ha ragione; pur vi si tiene afferrato con ambe le mani, o le ama e le segue, come fossero sostanza. Parimente negl'istanti oscuri della vita non � già che le illusioni si dileguino affatto dal suo spirito, perch�, non fosse altro, sono presenti nel lamento che fa di averle perdute, presenti nella memoria. Quel lamentare e quel ricordare � pregno di desiderio, e te le rende più vive. Perciò questo non � propriamente un dramma, perch� il dramma suppone una eliminazione delle due forze e una soluzione; ma � lirica: un canto o un lamento generato da quella opposizione. Il dramma ci sta come mezzo per sviluppare la lirica, dov'� l'ultimo fine di questa poesia.

Ho detto che in questa lotta non c'� di greco se non il colore, voglio dire l'apparenza. Il poeta mette in mezzo il fato o il cielo, rappresentando al di fuori la lotta, ch'� tutta dentro di lui. Il vizio � nei vocaboli, che danno alla sua forma una vernice classica e talora la guastano. Ma il vizio si arresta alla superficie, e la rappresentazione rimane moderna. Quel fato e quel cielo � lui, e quella lotta non � se non la scissione della sua anima, dove coesistono inconciliati, il cuore e l'intelletto.
Così il mondo � guardato da un punto di vista nuovo, non solo in se stesso preso in astratto, quanto per i fatti psicologici, dai quali nasce, e nei quali si compie, internandosi nei più intimi affetti del poeta.
Questo lo rende viva realtà.

Il
Sogno e la Vita solitaria furono, come gli altri tre idilli, scritti nello stesso anno delle citate lettere a Giordani, quali prima, quali dopo, poco importa. Talora trovi nelle lettere frasi quasi testuali di poesie scritte prima; talora la poesia � come una eco sentimentale di concetti espressi nelle lettere. Certo � che il giovane scriveva così all'amico e poetava così: prosa e versi si spiegano e si compiono a vicenda. Nei tre idilli l'infinito e l'eterno, il mistero delle cose, l'alternare delle stagioni, la forza del tempo, il passare o il divenire delle cose, potrebbero parere luoghi comuni importati dai poeti greci e latini, se in quella forma personale e malinconica non apparissero voci dell'anima, e quasi preludii di una nuova vista del mondo; quale si manifesta nelle lettere a Giordani e troviamo già chiara e intera nel Sogno.

Chi sia la donna che gli appare in sogno, morta più lune innanzi, non � chiaro. Se la tessitrice morì in quest'anno, lei � l'amata, di cui parla nel terzo idillio, ed � anche lei che ora gli appare. Del resto, il giovine Leopardi non concepisce la donna nella pienezza della sua esistenza materiale, per la sua inettitudine a comprendere la vita nella sua esteriorità e per la sua tendenza ideale. Più che la tale e tale donna, � in lui la donna, e come la vede lui, secondo la
sua idea. Che questa donna sia Teresa, o Francesca o Giovannina, può solleticare la curiosità, ma poco può giovare a intendere il poeta. È assai più importante studiare la formazione successiva del suo ideale femminile.
La sua donna � una giovinetta quasi ancora fanciulla, candida, innocente, gioiosa, amorosa, a cui manca la vita, prima quasi che l'abbia gustata. È l'ideale naturale della donna, santificato nell'angelo, non modificato ancora dalla società, n� dalla esperienza della vita. Un ideale vaporoso, musicale, che quando sta per determinarsi nella esistenza materiale, sfuma. Perciò destino di questo ideale � la morte, in quella prima età.
Questo ideale di
angelette dal ciel discese � il tipo delle Mandette e delle Beatrici, reminiscenze e preludi del paradiso, a cui appartengono. La vita terrena è un breve sonno, e il morire è uno svegliarsi alla vita vera. Il concetto naturale della vita e della morte � capovolto dalla credenza in un'altra vita, dove solo � verità e felicità. Così la vita giovanile, immagine paradisiaca, che porta in s� il germe della morte, cioè del suo ritorno in paradiso, dove l'immagine diviene realtà, ha la sua vera poesia nella morte. Forma naturale da questa poesia è la visione, al sogno, l'estasi. La visione di Laura nel terzo cielo � il monumento più interessante di questo genere. Le immagini e i sentimenti, che scaturiscono da questo concetto del mondo, formano tutto un cielo poetico, successivamente trasformato, ma sussistente anche oggi nei suoi tratti fondamentali.

La prima volta che Leopardi concepì la donna fu nella canzone per una giovane inferma. Dico
concepì, così per dire; perch� in quei tratti vaghi e ottusa, pieni di reminiscenze, non � ancora una concezione personale.
Nel suo
Primo amore vediamo lui, non l'amata; e nella Sera del dì di festa vediamo più lui che l'amata, della quale solo per indiretto possiamo ricostruire i tratti. E va troviamo una vaga fanciulla, nel fiore dell'innocenza, che danza e sogna, e mira ed è mirata, e stanca della festa si addormenta, e nessuna cura la morde. La preoccupazione della sua infelicità gl'impedisce di contemplare e formare con serenità artistica questo bel tipo di fanciulla, che rimane nella sua mente fisso, e diverrà più tarda Silvia e Nerina.

Questo tipo da fanciulla � affatto naturale e reale, senza alcuna immagine di angelico o di celeste o di paradisiaco, come pur si vede in Dante e nel Petrarca è la donna nel suo primo apparire innanzi all'immaginazione innocente dei giovani, bella, pura, festosa, e se volessimo usare modi petrarcheschi, angelica, divina, celeste; modi che aggiungono a questo ideale naturale e giovanile nessuna qualità nuova, ma un nuovo effetto di luce e di melodia, quel carattere vaporoso e musicale, così bene corrispondente alle immaginazioni giovanili.
Questo tipo naturale non può conseguire quegli effetti che i poeti traggono dall'ideale celeste, se non in altri modi cavata pure dalla natura. Perch� lo stesso soprannaturale celeste non è che l'effetto naturale della nostra immaginazione; e non è l'angelo che ha prodotto l'ideale femminile, ma � l'ideale femminile che ha prodotto l'angelo.

In che modo Leopardi consegue quegli effetti nella formazione poetica della donna, vedremo poi.... Per ora, non abbiamo che uno schizzo appena, dei tratti sparsi, che bisogna ricostruire per avere una prima immagine di un tipo naturale della donna, così come errava nella sua giovane fantasia.
Nel
Sogno la fanciulla � morta da più mesi. È pur essa, quella vaga fanciulla festosa, nel fior degli anni estinta, quand'� il viver più dolce. Ma qui Leopardi ha già un concetto suo della vita e della morte. La vita giovanile è felice, perch� è l'età della speranza, non ancora sopraggiunti a disinganni, e non ancora sopraggiunto il vero a dissipare le care illusioni, e a rendere desiderabile la morte
A desiar colei
Che d'ogni affanno il tragge, ha poco andare
L'egro mortal ; ma sconsolata arriva
La morte ai giovanetti. e duro � il fato
Di quella speme che sotterra è spenta.


Che cosa è dunque questa fanciulla? Non è la creatura angelica che torna in cielo ond'è venuta, radiante di luce, più bella e meno altera. No. È una fanciulla infelicissima perch� tolta alla vita, quando amava ancora la vita. Ora � fuori da ogni allusione; pure lamenta che la morte l'abbia tolta alle sue illusioni e abbia abbreviata la sua felicità! Ciò che c'è di comune in questa fanciulla, è la morte in quella fresca età: un fatto pietoso, che ha ispirato molte elegie; morire quando appena si� assaporata la vita, � il concetto comune di questi lamenti. Ma c'è di nuovo questo, che la fanciulla morta qui� la voce della tomba, rivelatrice del vero. E già sappiamo cosa è per Leopardi il vero. È la vanità della vita e il mistero della morte, infelici tutti, salvo i perpetui fanciulli, che prendono le ombre per cosa salda, e ignorano il vero. La fanciulla era felice, perch� ignorante; ora è infelice, perch� sa quello che
natura asconde agl'inesperti della vita, cioè ai giovani. Così il fatto particolare di una morte immatura acquista significato universale, l'elegia s'alza a tragedia. Ma se a lei la morte fa conoscere il vero, cioè la vanità delle cose, il destino di Leopardi � ancora più tragico; perch�, giovane ancora, conosce la vanità della vita e si sente vecchio:
Giovane son, ma si consuma e perde
La giovanezza mia come vecchiezza.


Sono tutti e due infelici, e non per accidente o volontà di nessuno; sono infelici per la stessa cagione, per la quale sono infelici tutti, per la legge comune ai viventi, e che si chiama il Fato o il Vero. E' la tragedia della vita nel caso particolare dei due amanti:
..... Nascemmo al pianto,
Disse, ambedue; felicità non rise
Al viver nostro ; e dilettossi il cielo
De' nostri affanni.


Ma nella comune infelicità il sentimento � diverso, e dà una movenza al dialogo. La giovanetta non ha emozioni. Sul suo viso è l'immobilità del suo destino. Parla come una legge o un oracolo.
Quella sua tristezza � monotona, come l'impassibile voce del vero. E parrebbe un'astrazione intellettuale, se un'aria di dolce rassegnazione e di affettuosa pietà non desse alla sua tristezza una certa grazia, come di donna viva e bella:
Io di pietade avara
Non ti fui, mentre vissi, ed or non sono,
Che fui misera anch'io. Non far querela
Di questa infelicissima fanciulla.


Nel giovane al contrario la vita ribolle, quantunque si dichiari vecchio e conosca la vanità della vita. La vivacità delle sue impressioni contrasta con l'impassibilità sepolcrale di quella voce. Ella dice cose terribili, fra l'altre che il cielo si dilettò dei loro affanni; e lo dice in forma di sentenza, e non pare in lei o sdegno o dolore o ironia o altro movimento del cuore. Ma quei detti a lui schiantano il cuore. Anche lui sa che la vita � vanità, che vita e morte � il medesimo, che tutto � illusione, anche la bellezza, anche l'amore; e piange, e si lamenta, e gli si stringe il cuore e sente il tocco di quella destra, e gli si rinnova l'amore, nel seno della morte gli si rinnova l'amore, l'illusione ritorna nel regno del vero, e copre di baci quella destra, sino al delirio di un desiderio insoddisfatto
.... di sudare il volto
Ferveva e il petto, nelle fauci stava
La voce, al guardo traballava il giorno.


Così di faccia al vero sorge il sentimento, di faccia al disinganno un nuovo inganno, e si rivela sin da principio l'invitto dualismo della vita, com'� sorta nel cervello di questo giovane di ventun anni. Sembra quasi che quell'istante di oblio guadagni anche la morte, che lo guarda con tenerezza e lo chiama caro; una dolcezza di espressione, in mezzo alla quale ti scende sul capo, come una lama di coltello, la voce del disinganno:
Nostre misere menti e nostre salme
San disgiunte in eterna. A me non vivi,
E mai più non vivrai; già ruppe il fato
La f� che mi giurasti.


E chiaro che la giovinetta � una persona poetica, in bocca a cui Leopardi ha messe le idee intorno al mondo che allora gli pullulavano nel cervello, e di cui trovi una espressione così straziante nelle lettere a Giordani. Non ci si vede già la pedanteria o il piacere di aver ritrovato lui quelle idee, ma il dolore di quella conoscenza. Perciò, quantunque il tono della composizione sia severo e sobrio, vi alita dentro una emozione tanto più potente, tanto più contenuta. Il vero � annunziato in una forma chiusa in s�, di una terribile chiarezza, che non ammette repliche, e non osservazione, e non spiegazione, e non periodo; una forma originale, che non esprime alcuna impressione e ti fa una impressione irresistibile. E' forma di oltre tomba, che Dante ha saputo trovare in quel:
Lasciate ogni speranza. Accanto a questa voce del vero � il grido del cuore, grido di meraviglia, di dolore, di amore; l'illusione brilla in seno alla morte, come luci fosforiche innanzi ai cimiteri. Le idee perdono il loro carattere astratto, diventano sentimenti, investono tutta la persona. È la vita guardata da un nuovo aspetto, di un colore fosco e cupo, un colore di morte, sotto il quale conserva tutto il suo calore:
.... colei teneramente affissi
Gli occhi negli occhi miei, già scordi, o caro,
Disse, che di beltà son fatta ignuda?
E tu d'amore, o sfortunato, indarno
Ti scaldi e fremi. Or finalmente addio.
Nostre misere menti e nostre salme Son
disgiunte in eterno. A me non vivi,
E mai più non virai....


Questo � l'ultimo salire della emozione drammatica. Quell'
addio, quello in eterno, quel mai più congiunto con quel teneramente, con quel caro, con quel ti scaldi e fremi, ti fanno balzare innanzi contemporaneamente la vita e la morte; e producono quella impressione complessa, incapace di analisi, così potente, che ottiene Dante nell'inferno, dove è pure l'uomo vivo nel regno della morte e del vero. L'inferno non c'� più; il simbolo � consumato; resta un inferno psicologico, la vita rappresentata direttamente nei suoi inganni e nei suoi disinganni. Si misura la distanza tra il decimoquarto ed il decimonono secolo. Ma la poesia � quella, stessa ispirazione, stessi effetti. Leopardi ha infine ritrovato se stesso
.
Se il poeta rappresenta bene l'inferno, voglio dire quel non so che cupo e funebre che nasce da una legge eterna e senza viscere, non � egualmente felice nella rappresentazione della vita. Ancora molte reminiscenze, ancora un fare troppo classico, un dire in frasi girate le cose più semplici, un tradurre in forma letteraria concetti immediati e popolari.
Le reminiscenze abbondano, specie nell'introduzione. Ecco qualche esempio di forma letteraria
Quanto, deh quanto
Di te mi dolse e duol: n� mi credea
Che risaper tu lo dovessi.
Ti ho pianto assai, e credea nol sapessi, direbbe semplicemente il popolo, e dirà anche lui più tardi e direbbe Goethe e talora anche Victor Hugo. Il popolo dice non credo agli occhi miei. Dante dice: Vid'io. E lui:
Oh quante volte
In ripensar che più non vivi, e mai
Non avverrà ch'io ti ritrovi al mondo,
Creder nol posso!


Troppi giri di frasi, troppe esclamazioni, un tono falsamente tragico, uno sforzo di commuovere che ti lascia freddo, come in quest'altra frase sonora:
il capo inerme
Agli atroci del fato odii sottrarre l
Quei benedetti modelli classici non ancora li ha cacciati dal suo spirito.
In una lettera a Giordani, citata innanzi, dove il giovane rappresenta il niente della esistenza, troviamo queste parole:
" in questo momento impazzissi, io credo che la mia pazzia sarebbe di seder sempre cogli occhi attoniti, colla bocca aperta, colle mani tra le ginocchia, senza n� ridere n� piangere n� movermi, altro che per forza, dal luogo dove mi trovassi. Non ho più lena di concepire nessun desiderio, n� anche della morte; non perch'io la tema in nessun conto, ma non vedo più divario tra la morte e questa mia vita, dove non viene più a consolarmi neppure il dolore".

Uno stato di apatia descritto con l'evidenza, non di chi lo concepisce, come una conseguenza di un sistema filosofico nella nullità della vita, ma di chi lo soffre in quel punto stesso che lo concepisce e lo immagina.
Questo stato � la base della
Vita solitaria, un idillio che scrisse a quel tempo.
Qui chiama ferreo sopore l'apatia, uno stato senza passione e senza moto, senza riso e senza pianto, senza piacere e senza dolore, senza speranza e senza disperazione: uno stato d'immobilità, che � di persona viva e ha tutta l'apparenza della morte
.... e già mi par che sciolte
Giaccian le membra mie, n� spirto o senso
Più le commuova


Questo � lo stato che chiama ferreo sopore, uno stato assolutamente prosaico e incapace di rappresentazione: � l'uomo pietrificato o cristallizzato, il ghiacciato di Dante.
Ma la vita solitaria lontana dalla città, in mezzo ai campi, risveglia l'anima e le ridona il senso della vita, e il piangere e il sospirare e il ricordarsi. Questo risveglio non � un risorgimento, � un sollievo temporaneo accompagnato con un ahi l
.... a palpitar si move
Questo mio cot di sasso: ahi, ma ritorna
Tosto al ferreo sopor.

Per la vita non torna se non come memoria, non ciò che fu.
Ma la memoria opera nell'uomo come fosse realtà, anzi � la realtà anch'essa, e lo rifà vivo, vivo nel passato che ha la forza di rappresentarsi; e gli ritorna l'ispirazione, il sentimento della bella natura, il desiderio o il sospiro del passato, il dolore di averlo perduto e la voluttà di quel dolore che pure è vita. Ne nasce quella mescolanza di piacere e di dolore, di vita e di morte, di sereno e di fosco, che � il carattere della poesia leopardiana. La solitudine � un tema vecchio d'idillio, espresso per lo più in generalità vaghe e insipide, e che qui acquista un nuovo senso, perch� calato in tutti gli accidenti della persona. Non � la vita solitaria, ma � la vita solitaria di Leopardi. Perciò vi è particolare e personale. Sono in questa poesia alcune descrizioni bellissime, com'� la pioggia mattutina, e la quiete altissima della natura al meriggio, e la felicità della vita giovanile.
Quei paesaggi così freschi di colorito, così semplici e precisi di disegno, generano quella pacata impressione idillica, ch'� propria della vita campestre.
Ma l'espressione dei sentimenti non corrisponde alla vaghezza e proprietà delle invenzioni: talora è dura e appena abbozzata, come:
.... doloroso
Io vivo, e tal morrò, deh tosto!
che ricorda la crudezza di Alfieri: talora � metaforica e convenzionale, come parlando del suo petto rovente:
Con sua fredda mano
Lo strinse la sciagura, e in ghiaccio � -volto
Nel fior degli anni
che ricorda le freddure di Cesarotti.
La parte più viziosa � l'apostrofe alla luna, piena di reminiscenze e in tono semi-tragico. La parte più poetica � non dove descrive, ma dove narra le sue impressioni e ti getta in quel certo stato pensoso e fantastico, che i francesi dicono il
r�ve:

Pur se talvolta per le piagge apriche,
Su la tacita aurora ó quando al Sole
Brillano i tetti e i poggi e le campagne
Scontro di vaga donzelletta il viso;
O qualor nella placida quiete
D'estiva notte....
L'erma terra contemplo, e di fanciulla
Che all'opre di sua man la notte aggiunge
Odo sonar nelle romite stanze
L'arguto canto; a palpitar si move
Questo mio cor di sasso.
Il canto di una tessitrice o l'incontro di una vaga fanciulla sono accidenti ordinari, che pur qui toccano il cuore e muovono l'immaginazione per il modo come sono collocati e lumeggiati.
Dei cinque idilli questo ritrae più dell'idillio nel suo senso volgare; ed è anche il meno interessante, sì per l'ineguaglianza dell'espressione, e sì per l'importanza secondaria della materia.
Che in questo anno di meditazione e di composizione abbia fatto altre poesie, oltre i lavori di erudizione e schizzi e pensieri in prosa, � assai credibile.
Parecchie poesie idilliche, e fra le altre il
Passero solitario, dovettero essere concepite e abbozzate ora, ridotte più tardi in una forma finita e pubblicate. Certo è che nelle pubblicazioni del '25 e del '26 non si trovano altri idilli che questi.
L'anno 1819 � il vero anno critico nella storia del suo ingegno, il punto di partenza, perch� ora appare nella sua anima uno sguardo proprio del mondo, e una forma propria, cioè a dire una personalità, un carattere.
Il resto della vita non � che uno sviluppo ulteriore su questa base.

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