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CRONOLOGIA

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ANNI 640 - 617 a.C 

ROMA ORIGINI
(secondo gli scrittori antichi)

REGNO DI ANCO MARZIO
( Latino - 104-128 Età di Roma - 640-617 a. C.)

(da Tito Livio, Istorie)

Morto TULLO OSTILIO, il governo tornò nelle mani dei Padri, com'era l'usanza primitiva, ed essi nominarono il reggente. Questi tenne i comizi, nei quali fu creato re dal popolo ANCO MARZIO, e confermate dai Padri. Anco Marzio era nipote di Numa Pompilio, nato da una figlia di lui. Non prima ebbe egli il trono, che memore della gloria dell'avo, poichè l'ultimo regno, in tutto il resto lodevolissimo, per un solo rispetto non era stato felice, per aver trascurato o mal praticato il culto, persuaso che la cosa più importante da farsi fosse il compiere le pubbliche cerimonie al modo stesso che Numa aveva ordinato, volle che il Pontefice le ricavasse tutte dai commentari del re e, trascrittele sull'albo, le esponesse al pubblico.

Quindi, nei cittadini desiderosi di quiete, e nelle città confinanti nacque speranza che il re si volgesse ai costumi ed alle usanze dell'avo. Ma Anco Marzio aveva un carattere di mezzo che ricordava Romolo non meno che Numa; e, credeva che rispetto a quegli avi fosse più necessario la pace fra un popolo nuovo insieme e feroce, credeva ancora che egli non avrebbe facilmente, senza danno, goduto quel riposo toccato a Numa; che si sarebbe prima tentata, indi avuta in dispregio la sua tolleranza; che infine le circostanze richiedevano piuttosto un re come Tullo Ostilio che non come Numa. Tuttavia, volendo istituire le cerimonie della guerra, come quelle ordinate da Numa per la pace, cioè che s'intimassero con qualche rito le guerre, copiò dall'antica gente degli Equicoli le formule per chiedere quelle soddisfazioni, che tuttora usano i Feciali.

Giunto il Feciale sul confine di coloro cui si domandano le cose tolte, con il capo ricoperto di un velo, che deve esser di lana: " Odi, o Giove, dic'egli, udite, o confini (e qui nomina il popolo che confina), oda la giustizia del Cielo! Io sono il pubblico messaggero del popolo romano; vengo ambasciatore secondo il diritto umano e divino, e si presti fede ai miei detti". Poi fa le sue domande. Indi chiama Giove in testimonio: "Se io chiedo contro il diritto umano e divino che si rendano a me, messaggero del popolo romano i tali uomini, le tali cose, non lasciare che io più mai riveda la patria".
Così dice quando trapassa il confine, così al primo uomo che incontra, così varcando le porte, così all'entrata nel foro, solo mutando poche parole alla formula delle invocazioni e del giuramento. Se non gli si rende ciò che domanda, trascorsi trentatrè giorni (e tanti sono stabiliti) intima la guerra in questo modo: "Odi, o Giove, e tu, Giano Quirino, e voi tutti udite, o Dei celesti, terrestri ed infernali; io vi chiamo testimoni che questo popolo (e dice qual è) è ingiusto e nega il diritto: ma di questo noi consulteremo in patria i seniori per trovar modo di rivendicare i nostri diritti".
Ciò detto, il messaggero tornava a Roma a consultare. E il re consultava i Padri; e, quando la maggior parte di quelli che erano presenti convenivano nello stesso parere, la guerra s'intendeva decisa. Allora il Feciale usava portar sui confini del nemico un'asta ferrata o riarsa in punta e tinta in rosso, e dire alla presenza almeno di tre uomini maturi: "Avendo (per esempio) Prischi Latini mancato contro al popolo romano dei Quiriti, ed avendo il popolo romano dei Quiriti decretato la guerra contro i Prischi Latini, io a nome del popolo romano intimo ed incomincio la guerra ai Prischi Latini. Detto questo, lanciava l'asta dentro i loro confini.

Anco Marzio, affidata la cura delle cose religiose ai Flamini ed agli altri sacerdoti, fatta una nuova leva, si mosse e prese d'assalto Politorio, città dei Latini; e, seguendo gli esempi dei re precedenti, che avevano ingrandito lo Stato, comprendendo i nemici fra i cittadini, trasportò a Roma tutta la gente. E, poiché intorno al Palatino, nello stanziamento dei primitivi Romani, avevano i Sabini occupato tutto il Campidoglio e la rocca e gli Albani il monte Celio, si assegnò l'Aventino alla nuova popolazione. In seguito Anco Marzio, vinte altre città latine, carico di bottino se ne tornò a Roma, accogliendo nella città moltealtre migliaia di Latini, cui si diede un luogo di stanziamento presso il tempio Murcia, per unire al Palatino l'Aventino.

Fu compreso anche il Gianicolo, non per ristrettezza di luogo, ma perché quello non diventasse una fortezza nemica; e si volle unirlo alla città non solamente con un muro, ma, per agevolare il passaggio, anche con un ponte di legno che fu il primo gettato sul Tevere. Cresciuta così grandemente Roma, e smarritasi in tanta moltitudine di gente ogni distinzione di bene e di male, e commettendosi misfatti che restavano occulti, si fabbricò un pubblico carcere nel bel mezzo della città, a ridosso del Foro, per incutere terrore alla crescente malavita.

Né sotto a questo re diventò grande soltanto la città di Roma , ma si allargarono pure i confini del territorio. Portata via ai Veienti la selva Mesia, fu esteso il dominio fino al mare e fu fondata alla foce del Tevere la città di Ostia; ed intorno le saline e, per le imprese guerresche serenamente compiute, fu ampliato il tempio di Giove Feretrio.

(Da Tito Livio,  Istorie, I, Trad. L.Mabil-T.Gironi - Ed. Paravia)

 

Fonti:
ERODOTO, STORIE
STRABONE, STORIA ROMANA
TITO LIVIO, ISTORIE
CASSIO DIONE - STORIA ROMANA
+ BIBLIOTECA DELL'AUTORE

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