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CRONOLOGIA

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ANNI 534 - 510 a.C 

ROMA ORIGINI
(secondo gli scrittori antichi)

REGNO DI TARQUINIO IL SUPERBO
(Etrusco - 212-244 Anno di Roma - 534-510 a. C. )

(da Tito Livio, Istorie)

[Servio Tullio aveva sposato le sue due figliuole a due principi, non si sa bene se figli o nipoti di Tarquinio Prisco. Delle due figlie del re una, era ambiziosa e perversa, e aveva un ottimo marito, l'altra invece mite e buona, aveva uno sposo violento e prepotente. Ora avvenne che i due perversi, finissero per accordarsi fra loro e, sbarazzatisi con un duplice delitto dei rispettivi coniugi, si unirono in matrimonio.
Poi LUCIO TARQUINIO, per incitamento della perfida moglie, si accinse a privare del regno il suocero; atteggiandosi già a re, sedendo sul trono, convocò i Senatori, ai quali tenne un forte discorso, per convincerli delle colpe da lui attribuite a Servio Tullio].
Servio, avvertito da un trafelato messo, sopraggiunse durante il discorso, e improvvisamente dal vestibolo della Curia gridò a gran voce: "Che vuol dire cotesto, o Tarquinio? E con quale audacia osasti, me vivo, adunare i Padri e sederti sul mio seggio? Avendo quello risposto fieramente che occupava il seggio di suo padre, che lui, essendo figlio del re, aveva maggior diritto di uno schiavo ad essere erede del trono.
L'arrogante servo aveva a lungo audacemente insultato il suo padrone; i sostenitori dell'uno e dell'altro, iniziarono a levare alti schiamazzi, e già il popolo inondava la Curia, ed era ormai sicura la lotta e che il regno sarebbe andato di chi la vinceva.

Tarquinio, stretto omai dalla necessità di fare anche la cosa più estrema; lui molto più robusto per età e per forze, afferrò Servio a mezzo il corpo, e sollevatolo da terra, lo scaraventò e lo fece rotolare giù fino in fondo ai gradini della Curia, e rientrò per riprendere la presidenza del Senato. Fuggirono i servi ed i seguaci del re. Questi, ferito, ritirandosi a casa con il solo seguito reale, giunto a capo del borgo Cipro, Servio Tullio fu ucciso da gente che Tarquinio aveva spedito ad inseguirlo mentre fuggiva. Ma si crede che il delitto sia stato commesso su istigazione di sua figlia Tullia.
Certo è, o almeno è molto verosimile, perché, lei recatasi in cocchio nel Foro, non facendosi riguardo di tanti uomini radunati, chiamò fuori dalla Curia il marito, dandogli ella per prima, il titolo di re. Ordinatogli da lui di ritirarsi dal tumulto, mentre tornava a casa, poiché fu giunta a sommo del borgo Cipro, là dove fu sino a poco fa il tempio di Diana, fece voltare il cocchio a destra verso il poggio Virbio, per salire al colle delle Esquilie: qui chi guidava i cavalli, con raccapriccio, si arrestò tirando il freno e alla padrona indicò disteso in terra Servio Tullio assassinato. Quindi a Tullia venne la fama di aver commesso l'orribile e mostruoso delitto, di cui fa fede il luogo che chiamano ancora "Vico scellerato".
La forsennata, invasa dalle furie della sorella e del marito, si racconta che spingesse i cavalli sopra il corpo del padre, e che col cocchio insanguinato, contaminata essa stessa e lorda, riportasse parte del sangue dell'ucciso genitore ai Penati suoi e del marito, che, corrucciati, dovevano fra non molto fare una fine conforme a quest'inizio di regno.

Prese tuttavia a regnare LUCIO TARQUINIO, cui le azioni sue imposero il soprannome di "Superbo", per avere come genero, negata sepoltura al suocero, sostenendo che anche Romolo era perito insepolto; per avere fatto trucidare i più ragguardevoli senatori che credeva avessero favorito Servio;
per essersi finalmente attorniato di armati, conscio che da lui stesso e contro di lui si poteva prender l'esempio di usurpare il trono, non avendo egli altro titolo al regno che la forza, come quella che usava per stare sul trono, senza l'assenso del popolo e senza 1'approvazione del Senato.
Si aggiunga che, non potendo avere garanzia nell'amore dei cittadini, gli abbisognasse guardarsi la corona col terrore; per incutere ai più possibile, volendo fare tutto da solo, senza consiglieri; così le istruttorie delle cause capitali con le quali gli era facile mettere a morte, mandare al bando, spogliare di beni non solamente i sospetti e gli odiati, ma anche quelli da cui altro non poteva sperare se non essere la loro preda.
Scemato specialmente con questi mezzi il numero dei senatori, altri non volle sceglierne, affinchè il loro basso numero rendesse più autoritario il suo potere. Infatti, fu il primo re che si allontanò dall'usanza, tramandata dai precedenti, di consultar sopra ogni cosa il Senato; governò lo Stato con i suoi privati consiglieri; guerre, paci, alleanze, trattati fece o sciolse da sé solo, con chi gli piacque, senza intervento del popolo né del Senato.
Carezzava specialmente la nazione dei Latini, per viver più sicuro fra i suoi anche per assistenza straniera; e stringeva non solamente ospitalità, ma parentela con i più ragguardevoli fra di loro.
Tarquinio, se fu in pace ingiusto re, non fu in guerra tristo capitano; anzi avrebbe pareggiato nell'arte militare i re precedenti, se, degenerando nel resto, non avesse offuscato anche questo genere di gloria. Fu egli che iniziò contro i Volsci quella guerra che durò dopo di lui duecento e più anni; e prese loro con la forza Suessa Pomezia. Ed avendo ricavati dalla preda venduta per quaranta talenti d'argento, concepì l'idea di edificare il tempio a Giove con tale magnificenza, che degno fosse del re degli Dei e degli uomini, della potenza di Roma e della stessa maestà del luogo. Destinò pure all'erezione di questo tempio il denaro tratto dalla vendita dei prigionieri.
Poi fu tutto occupato in una guerra più lunga che non si pensava, nella quale, poiché ebbe dato inutilmente l'assalto alla vicina città di Gabio, e, respinto dalle mura, ebbe perduta anche la speranza di assediarla, l'assaltò alla fine con l'inganno e con la frode, sistemi per nulla romani.
Mentre egli simulava d'essere tutto intento alla costruzione del tempio e ad altre opere civili, come se avesse deposto il pensiero della guerra, Sesto suo figlio, il minore di tre, d'intesa con il padre, andò come disertore a Gabio, dolendosi dell'intollerabile crudeltà del padre.
Quelli di Gabio, credendo sincero il suo furore contro il padre, benignamente l'accolsero, rispondendogli che non doveva meravigliarsi com'era sprezzante Tarquinio con i cittadini, con gli alleati, e in ultimo anche con i figli. Gradita a loro era la sua venuta, e si lusingavano che con il suo aiuto si sarebbe in breve portata la guerra dalle porte di Gabio a sotto le mura di Roma.
Tarquinio cominciò ad esser ammesso ai consigli pubblici. Quivi soleva dire che si rimetteva per tutto il resto ai più esperti Gabini che avevano maggior pratica in cose di governo, tuttavia consigliava la guerra e si assumeva in questa la principale direzione, essendo a lui ben note le forze dei due popoli, e ben sapendo quanto i Romani avevano in odio la superbia del re, che si era fatta intollerabile perfino agli stessi suoi figli.

Così incitava a poco a poco i principali Gabini a riprendere le armi, e usciva con i giovani più risoluti a depredare e far escursioni, e con le parole e con i fatti, diretti sempre ad ingannare, accresceva ogni giorno di più la loro fiducia, finché fu eletto condottiero della guerra.
Allora ignorando la moltitudine di cosa si trattasse, e facendosi scaramucce fra Roma e Gabio, con vantaggio per lo più dei Gabini, questi eran convinti che Sesto Tarquinio fosse stato mandato a loro come capitano per grazia degli Dei. Presso i soldati poi, affrontando lui gli stessi pericoli, facendo le medesime fatiche e dispensando largamente la preda, tanta affezione si accattivò, che Tarquinio padre non era più potente a Roma, come il figlio a Gabio.
Quando dunque si avvide di avere raccolte molte forze, da poter osare ogni cosa, spedì a Roma uno dei suoi fidati uomini per sapere dal padre che cosa intendeva fare, poiché il Cielo a lui aveva concesso di poter fare a Gabio ogni cosa e da solo.
Al messo che sembrava di dubbia fede, Tarquinio non diede subito alcuna risposta a voce e, molto pensoso, passò nel giardino del palazzo, seguito dal messo del figlio. Qui passeggiando in silenzio, si dice che abbattesse con il bastone i capi dei più alti papaveri. Stanco il messo d'interrogare e di aspettar la risposta, credendo di aver concluso nulla, tornò a Gabio e riferì
ciò che aveva visto; ma che, o per ira, o per odio, o per innata superbia dell'animo, il re non aveva aperto bocca.

Ma Sesto comprese ciò che il padre bramava ed ordinava con quei taciti segnali, e tolse la vita ai principali cittadini gabrini, alcuni accusandoli davanti popolo, altri approfittando dell'odio in cui c'era tra di loro; molti furono evidentemente uccisi; mentre altri, parecchi, contro i quali meno credibile poteva essere una imputazione, furono lasciati fuggire, se volevano, o cacciati per bando; ma i beni dei fuorusciti come quelli degli uccisi furono oggetto di spartizione. Questi fatti portarono a far diminuire i mali pubblici, fino a tanto che il governo di Gabio, perso ormai sia gli uomini del consiglio come quelli per la difesa, fu senza più alcun contrasto dato in mano al re di Roma.

Diventato anche signore di Gabio, Tarquinio fece la pace con gli Equi e rinnovò l'accordo con gli Etruschi. Poi rivolse il pensiero alle opere civili, di cui la prima fu il tempio di Giove sul Tarpeo, per lasciarlo quale memoria del suo regno e del suo nome. Avendolo dei due re Tarquini, il padre promesso come voto, fu poi il figlio che lo condusse a termine.
E affinché l'area fosse libera da ogni altro culto, e che il tempio in costruzione fosse dedicato tutto a Giove, impose di sconsacrare molti tempietti e tutte quelle cappelle che, costruiti prima dal re Tazio, proprio nel momento della lite contro Romolo, in quell'aerea erano stati edificati, dedicati e consacrati.
Mentre si metteva mano al lavoro si dice che gli scavatori delle fondamenta del tempio scoprissero una testa d'uomo con la faccia intera. Tale apparizione prometteva inequivocabilmente che quella era la rocca dell'impero, il "capo del mondo"; così vaticinarono tutti gli indovini che erano a Roma, e quelli che si erano fatti venire dall'Etruria per interpretare la cosa.

Chiamati costruttori e artisti da ogni parte dell'Etruria, Tarquinio si adoperava tutto per completare il tempio, e non solo con il pubblico danaro, ma usando l'opera della plebe.
E, sebbene questa non fosse piccola aggiunta alle fatiche militari, tuttavia il popolo non si doleva di innalzare con le proprie mani i tempi degli Dei rispetto ad altri lavori poco importanti e spesso più faticosi cui era costretto, come fare i palchetti del circo o scavare sotto terra la Cloaca massima, ricettacolo di tutte le immondezze della città: due opere tuttavia non meno importanti alle quali ben poco la moderna magnificenza ha saputo agguagliare.
In mezzo a tali occupazioni apparve al re una terribile visione: un serpente sbucò fuori da una colonna di legno, portando lo spavento e la fuga per tutta la reggia. Tarquinio fu invaso anche lui da una grande paura, e iniziò ad avere l'animo pieno d'agitati pensieri.
Quindi, benché nei pubblici prodigi non altri si adoperassero che indovini etruschi, atterrito da questa quasi domestica apparizione, risolse il dilemma chiedendo lumi all'oracolo di Delfi, il più famoso del mondo.
Non osando affidare ad alcun altro la risposta della sorte, mandò in Grecia due dei suoi figli, per terre a quei tempi ignote, e per mari ancora più ignoti. Partirono TITO ed ARUNTE; e fu aggiunto come compagno ENCIO GIUNIO "BRUTO", nato da Tarquinia sorella del re, giovane di ben altra indole da quella che simulando aveva rivestita.

Costui, quando aveva saputo che suo zio aveva fatti morire i primi cittadini della città, fra quali un suo fratello, aveva stabilito dì non lasciare nel suo carattere trapelare cosa che il re potesse temere, o cosa da vagheggiare; e, poiché con l'innocenza si faceva scudo, aveva cercato nell'avvilimento la sicurezza. Però, a forza di fingere parendo veramente stordito, abbandonando se stesso e le cose sue alla rapacità di Tarquinio, non aveva ricusato nemmeno il nomignolo di "bruto", Celando così sotto quel velo la grand'anima liberatrice del popolo romano, aspettava solo il suo momento.

Condotto dunque a Delfi dai due Tarquini, TITO ed ARUNTE, più come zimbello che come compagno, si dice che portasse in dono ad Apollo un bastone d'oro nascosto dentro un altro bastone di corniolo, bucato a tale scopo, figura simbolica del suo genio. Giunti colà e compiute le commissioni del padre, venne ai giovani una propria curiosità d'interrogare l'oracolo, per sapere a chi di loro sarebbe toccato regnare a Roma. E si dice che dal profondo della caverna uscisse fuori una tal voce: "Avrà in Roma il sommo impero chi primo, o giovani, di voi bacerà la madre". I due Tarquini si impegnarono con ogni argomento di tacere la cosa, affinché SESTO, che era rimasto a Roma, ignorasse la risposta e fosse escluso dal regno, e convennero di rimettere alla sorte chi primo di loro, tornando a Roma, dovesse baciare la madre.

"BRUTO", avendo inteso che ben altro doveva essere il significato del responso della Pizia, fece apposta di scivolare e cadendo bocconi, baciò la terra come quella che è madre comune di tutti i mortali. Poi tornarono a Roma, dove si stava preparando con ogni sforzo la guerra contro i Rutuli, padroni di Ardea.
Si tentò l'impresa, provando se era possibile prendere Ardea al primo assalto; ma, poiché questo non ebbe buon esito, si cominciò a stringere i nemici con le opere d'assedio. [Protraendosi così la guerra], i giovani della famiglia reale se la passavano spesso convitandosi e gozzovigliando tra loro. Stavano essi bevendo una sera presso Sesto Tarquinio, dov'era a cena anche Collatino Tarquinio, figlio di Egerio: il discorso cadde sulle mogli, ed ognuno esaltava la sua, dicendone meraviglie. Infiammatasi sull'argomento la disputa, disse Collatino che le parole erano vane: potersi in poche ore sapere di quanto la sua Lucrezia superasse tutte le altre. "Siamo giovani e forti, soggiunse; perché non montiamo a cavallo e andiamo noi stessi a conoscere la condotta delle nostre donne? Di modo che, all'improvviso arrivo del marito, cadrà sott'occhio per tutti quale sia la prova migliore".

Erano ebbri di vino, e gridarono tutti: "Andiamo"; e volarono a Roma al gran galoppo. Vi giunsero al primo calar della notte: di là passarono a Collazia, dove trovarono la bella Lucrezia, non come le regie nuore, a perdere il tempo con le compagne fra i conviti e delizie, ma a tarda notte era seduta nel mezzo dell'atrio fra le ancelle veglianti, intenta al lavoro della lana. Lucrezia ebbe la palma di questa gara coniugale. Il marito ed i Tarquini furono accolti con gran festa; e lo sposo vincitore invitò cortesemente i giovani reali a cena.
Ma qui Sesto Tarquinio s'invaghì della virtuosa e bella Lucrezia.
Pochi giorni dopo, Sesto Tarquinio, all'insaputa di Collatino, andò a
Collazia con un solo compagno. Accolto affabilmente da chi non poteva sospettare delle sue intenzioni gli fu offerta la cena e poi fu condotto all'appartamento degli ospiti per trascorrervi la notte. E poiché gli parve che intorno era tutto quiete e tutti dormienti, si recò nella stanza dove dormiva Lucrezia e le recò oltraggio.
L'indomani Lucrezia mandò a chiamare il padre, SPURIO LUCREZIO, ed il marito, COLLATINO il quale giunse [accompagnato da Giunio Bruto]. Denunziata la colpa di Sesto Tarquinio, Lucrezia, tratto un pugnale che teneva celato sotto la veste, se lo immerse nel cuore, cadendo bocconi sul ferro, e all'istante morì. Alte grida levarono il marito ed il padre.
Mentre questi si abbandonano al dolore. Bruto, estratto il coltello dal petto a Lucrezia e tenendoselo innanzi stillante di sangue: " Giuro, disse, giuro per questo sangue, e voi chiamo, o Numi a testimoni, che io perseguiterò d'ora innanzi con il ferro, con il fuoco e con ogni altro mezzo che mi sia dato, Lucio Tarquinio Superbo, la scellerata sua moglie e tutta la stirpe dei suoi figli". Indi porse il coltello -per giurarci sopra anche loro- prima a Collatino, poi a Lucrezio, che stavano lì attoniti per l'impressionante fatto, ma stupefatti pure da dove mai sorgesse quella nuova anima che veniva fuori ora dal petto di Bruto.

Giurano entrambi come a loro suggerito, poi tutti avvolti dal pianto e dall'ira, seguono Bruto, che si è fatto da quel momento duce e banditore dello sterminio dei re. Levano la salma di Lucrezia, la portano nel Foro e iniziano ad eccitare gli animi con lo spettacolo dell'ultima orrenda novità.

Ognuno detesta questa scellerata violenza di Tarquinio come se fosse stata fatta a sé stesso; e a muoverli non é solo la mestizia del padre; ma è Bruto, nemico del pianto e di inutili lamenti; è lui a muoverli, ad esortatore a cosa degna di uomini, degna dei Romani di prender le armi contro chi osò simili atti. I giovani più animati brandirono le armi volontari, ma ben presto tutti gli altri seguirono l'esempio. Indi, lasciato alle porte di Collazia un sufficiente presidio e messo guardie affinché nessuno portasse ai Tarquini l'avviso di quel movimento, gli altri armati seguendo Bruto, marciarono alla volta di Roma. Giunti in città, dovunque passava la banda in armi metteva paura e grande confusione; ma poi, vedendo in testa i più autorevoli cittadini, la plebe pensò che qualsiasi cosa l'avesse provocata, non doveva essere senza una valida ragione.

Infatti, l'atroce caso non fece meno impressione che a Collazio; quindi da tutti gli angoli della città si corre al Foro. Qui Bruto fece un discorso uscito non da quella mente e da quell'indole che avevo simulata fino a quel giorno; ma parlò della violenza di Sesto Tarquinio, e della tragica morte di Lucrezia. Aggiunse la superbia del re, le miserie e le fatiche della plebe sepolta a scavar fosse e cloache; cittadini di Roma vincitori di tutti i popoli intorno, da guerrieri divenuti muratori e scalpellini. E rammentò l'indegna uccisione del re Servio Tullio e la figlia passata con l'infame cocchio sul corpo del padre, ed invocò i numi vendicatori dei genitori. Dette queste ed altre cose, credo, più atroci ancora, cui l'indegnità del fatto sul momento suggeriva, non però facili a riferirsi dagli scrittori, Bruto sospinse la moltitudine infiammata ad abolire il governo regio e a mettere al bando Lucio Tarquinio, sua moglie e i figli.
Poi Bruto scelto ed armato un corpo di giovani che si offrivano volontari, si mosse da Roma alla volta di Ardea, per sollevare contro il re 1'esercito che vi era accampato, e lasciò al governo della città Lucrezio, che era stato prima eletto prefetto dal re stesso. In mezzo a così grande tumulto Tullia fuggì di casa, maledetta dovunque passava da uomini e donne, che invocavano contro di lei le furie iettatrici dei genitori.
Recate al campo notizie di questi fatti, mentre il re, sgomento si avviava a Roma per reprimere i moti, Bruto, previsto il suo arrivo, cambiò direzione per non incontrarlo, di modo che giunsero quasi nello stesso tempo, per vie diverse, lui ad Ardea e Tarquinio a Roma. Qui a Tarquinio furono chiuse in faccia le porte ed intimato il bando; mentre ad Ardea il campo accolse felice il liberatore della città e subito furono cacciati i figli del re; due di loro seguirono il padre, e andarono in esilio a Cere nell'Etruria. Mentre Sesto Tarquinio, si era rifugiatosi a Gabio, quasi un suo regno personale; ma che per le inimicizie che si era tirato addosso con le rapine e con le uccisioni, era semmai il posto meno sicuro, ed infatti fu ben presto assassinato.
A Roma il prefetto della città creò nei comizi centuriati, due consoli: LUCIO GIUNIO BRUTO e LUCIO TARQUINIO COLLATINO.

(Da Tito Livio,  Istorie, I, Trad. L.Mabil-T.Gironi - Ed. Paravia)

Fonti:
ERODOTO, STORIE
STRABONE, STORIA ROMANA
TITO LIVIO, ISTORIE
CASSIO DIONE - STORIA ROMANA
+ BIBLIOTECA DELL'AUTORE

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