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( QUI TUTTI I RIASSUNTI )  RIASSUNTO ANNO 406-391 a. C.

ULTIMA GUERRA CONTRO VEJO - L'INGRATITUDINE A CAMILLO


GLI ETRUSCHI - L'ULTIMA GUERRA CONTRO VEJO - RESPONSO DELL'ORACOLO DI DELFO - DITTATURA DI MARCO FURIO CAMILLO - PRESA DI VEJO - CAMILLO A FALERIA - ESILIO DI CAMILLO
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Abbiamo visto come il Senato Romano, già progettava una guerra di conquista. Per ingraziarsi la plebe, che da qualche tempo era restia a presentarsi alla chiamata alle armi, concesse a spese dell'erario le paghe ai soldati.
La guerra messa in programma era quella contro Vejo, e questa volta Roma era determinata a chiudere una volta per sempre il conflitto con la potente città etrusca quasi alle porte della città, assoggettarla, annettersi il territorio e sottomettere la popolazione raggruppata in quattro tribù.

Dunque contro Vejo era rivolta quella guerra che Roma già da oltre un anno si preparava a combattere.
Vejo rappresentava per Roma sempre un pericolo perenne; era la sentinella avanzata dell'Etruria e nel medesimo tempo era la fortezza che sbarrava ai Romani la via verso il nord, dove Roma iniziava già a guardare. Inoltre quella barriera quasi davanti alle porte di casa, limitava l'azione commerciale sul Tevere verso l'interno.
Di questo fiume Roma occupava la sponda sinistra, difesa dal baluardo del Gianicolo; invece testa di ponte sulla sponda opposta, l'odiata Vejo sorgeva alla destra ed a sua volta aveva come punto avanzato, sull'altra riva, la città amica Fidena. Su Roma, Vejo aveva un indiscutibile vantaggio: quello della posizione, resa ancora più forte dalle potenti opere di difesa che erano state costruite sul confine.

Roma non temeva soltanto Vejo come solo una città rivale. Questa era la più ricca e una delle più forti città etrusche; inoltre costituiva l'avanguardia di un popolo di razza diversa che mirava ad espandersi verso il sud; un popolo che era giunto a un alto grado di civiltà e di floridezza. Anzi fra i popoli d'Italia era il più potente e civile, e avrebbe potuto dominarli tutti se non gli avessero fatto difetto i grandi ideali politici, piuttosto ottusi e limitati. La politica etrusca difatti non fu mai quella di una grande nazione; nelle loro stesse città stato vi era sempre una lotta sterile e continua tra la monarchia e l'aristocrazia; lotte alternate a spedizioni di conquista, ma poi ognuno tornava nel proprio piccolo "cortile".
Nonostante tra città e città non ci fossero rivalità ed interessi contrastanti e nonostante i vari Stati fossero stretti in una lega religiosa, gli Etruschi non concepirono mai un'Etruria unita che potesse resistere ai popoli rivali o con l'idea di assoggettarli; né fra i dodici Stati ce ne fu uno che s'imponesse agli altri o li guidasse per sventare un pericolo che poteva benissimo essere comune a tutti gli Stati. Questo perché oltre che equivalersi come forze, ogni stato era estremamente individualista.

Gli Etruschi non seppero sfruttare le condizioni d'Italia, per loro a quei tempi molto favorevoli. Anziché stringere rapporti d'amicizia con gli altri popoli italici, gli Etruschi preferirono stringere alleanze con i lontani Cartaginesi per spartirsi in "condominio" tutto il Mar Tirreno. Ne conseguì che, se da un lato consolidarono la loro potenza -più economica che politica-, dall'altro, trascinati dalla politica punica, dovettero poi seguire le sorti di Cartagine. Cioè scomparire senza lasciare tracce. I Fenici li riscopriremo duemila anni dopo; e degli Etruschi di loro poco e quasi nulla sappiamo. I Fenici ci hanno lasciato l'alfabeto, gli etruschi neppure quello, solo qualche iscrizione funeraria, con le solite cortissime e generiche frasi. Non un solo testo letterario, quando invece duemila anni prima egiziani e sumeri compilavano già trattati, dizionari, o scrivevano voluminosi romanzi.

Provocata un'alleanza tra Greci dell'Italia meridionale e Italici, costretti a difendersi, subirono i primi rovesci, come si è visto, in Campania; battuti ad Imera i Cartaginesi dai Greci, gli Etruschi rimasero privi dell'appoggio della potente Cartagine.
Da allora, con lo scioglimento della lega etrusco-fenicia nel 274 (480 a.C.), cominciò il crollo della potenza marittima degli Etruschi. Nel 280 (474 a.C.) furono sconfitti a Cuma da GERONE di SIRACUSA, e perdettero interamente il dominio della campania e insieme dell'Adriatico; e la loro attività commerciale scomparve del tutto più tardi per opera del tiranno siracusano DIONISIO, che, cacciati o sottomessi gli Etruschi dall'Illiria e dalle coste orientali d'Italia, stabilì con delle colonie la sua sovranità su Ancona, Numana, Hatria e sulle isole di Lisso ed Issa.
Erano però ancora molto forti gli Etruschi quando Roma si stava preparando alla sua ultima lotta contro Vejo, benché fossero stati scacciati dall'Adriatico e dal Tirreno meridionale e spinti da Greci e Italici verso il centro della penisola. Ma non erano nella possibilità i vari Stati di aiutarsi a vicenda, né quelli del nord in Toscana) potevano recare soccorsi a Vejo (nel Lazio) impegnati com'erano a difendere ancora una volta le loro frontiere dai GALLI, che a più riprese, con una tribù dietro l'altra stanno già invadendo la pianura Padana (e che nel prossimo capitolo, li troviamo già a varcare il Po e spingersi verso la Toscana e infine verso il Lazio).

La guerra contro Vejo scoppiò nel 349 (405 a.C.) al principio del quale scadeva la tregua di venti anni firmata nel 328. Narrano gli storici che la causa della nuova guerra contro l'odiata rivale fu la risposta data dai Vejenti agli ambasciatori inviati da Roma che cioè abbandonassero subito il territorio di Vejo se non volevano correre la sorte dell'altra ambasceria al tempo di Larte Tolunnio. Ma questa è forse una leggenda creata apposta per giustificare l'aggressione dei Romani, da tempo meditata per disfarsi una buona volta di Vejo; e che Roma si preparasse alla guerra lo mostra chiaramente la paga spontaneamente accordata ai soldati dal Senato, già l'anno prima di fare i preparativi.
La guerra fu iniziata dai tribuni consolari TITO QUINZIO CAPITOLINO, T. QUINZIO CINCINNATO, CAJO GIULIO JULO, AULO MANLIO, LUCIO FURIO MEDULLINO e MARCO EMILIO MAMERCINO, che, assalita con grandi forze Vejo la città nemica e non potendola prendere con la forza, l'assediarono, risoluti a conquistarla per fame.

Pare che i Vejenti fin dall'inizio delle ostilità avevano chiesto aiuto agli altri Stati etruschi, che, inviati i propri rappresentanti al Fano di Volturno, stabilirono però di non inviare nessun soccorso.
Le operazioni di guerra del primo anno furono molto lente. Consisteva del resto solo in un cerchio d'isolamento, e gli abitanti della città assediata erano ben forniti di viveri e confidavano che, l'assedio andando per le lunghe, potessero a loro venire aiuti dagli altri stati di Toscana, o che altri popoli avrebbero approfittato della guerra contro Vejo per assalire Roma sguarnita di truppe.

Aiuti dall'Etruria non ne giunsero, ma, come i Vejenti speravano, i Volsci brandirono le armi contro i Romani, i quali dovettero, per far fronte al nuovo nemico, e ritirare dall'assedio alcune legioni e una parte dei tribuni.
L'esercito romano si scontrò con i Volsci presso Ferentino, li sconfisse poi marciò sulla città di Artena e la cinse d'assedio. Avendo i Volsci tentata una sortita, non solo furono ricacciati dentro, ma i Romani incalzandoli, non riuscirono a impedire che penetrassero nella città, che in breve tempo fu conquistata.
Soltanto la Rocca rimase in potere dei Volsci, luogo inespugnabile per le superbe opere di difesa e capace di resistere ad un lunghissimo assedio per la grandissima quantità di vettovaglie di cui era fornita. Perduta la speranza di prender per forza o per fame la rocca, i Romani avrebbero certamente rimosso l'assedio se il tradimento di uno schiavo non li avesse introdotti nella rocca, che poi fu distrutta totalmente assieme alla città.

Vinti i Volsci, i Romani riportarono le legioni sotto Vejo e tutto lo sforzo della guerra fu rivolto contro questa città. Giunto il tempo delle elezioni, furono nominati otto tribuni consolari: MARCO EMILIO MAMERCINO, LUCIO VALERIO POTITO, APPIO CLAUDIO CRASSO, MARCO QUINTILIO VARO, L. GIULIO JULO, MARCO POSTUMIO, MARCO FURIO CAMILLO e MARCO POSTUMIO ALBINO.
Questi, temendo che gli altri stati etruschi giungessero in aiuto di Vejo, per non esser presi alle spalle ordinarono che si costruissero grandi opere di difesa contro un probabile attacco di alleati. Cinsero la città di fossati, innalzarono steccati e torri, fabbricarono macchine da guerra, approntarono i quartieri invernali per l'esercito.

I lavori intorno a Vejo erano sempre animati e continuavano, ma sia gli aiuti alleati sia difensori della città non si facevano vivi; ma una notte questi, sapendo che i Romani, sicuri di non essere disturbati, non facevano buona guardia durante le ore notturne, usciti numerosi da una porta armati di fiaccole appiccarono il fuoco ai lavori e in poco tempo l'incendio consumò gli argini e le macchine e molti soldati romani, accorsi prontamente, perirono o nel fuoco o furono assaliti dagli ardimentosi Vejenti. Fu insomma una punitiva beffa con un risultato molto positivo e piuttosto umiliante per i Romani.

Giunta a Roma la notizia dell'improvviso scacco, la popolazione arse dal desiderio della rivincita e ci fu tra i cittadini una nobilissima gara; cavalieri e plebei d'ogni età si offrirono volontariamente di andare in guerra giurando di non far ritorno a Roma se non dopo aver costretta alla resa Vejo.
Commossi i senatori dall'entusiasmo di tutta la cittadinanza, ordinarono che da quel giorno si dessero inizio alle paghe per tutti coloro che si erano offerti di arruolarsi; poi, allestito un numeroso esercito di volontari, fu inviato a Vejo e questi uomini in poco tempo riallestirono non solo le opere abbattute e incendiate dai nemici, ma ne furono costruite moltissime di nuove.

L'anno seguente, 352 di R.(402 a.C.), essendo tribuni consolari Cajo Servilio Ala, Quinto Servilio, Lucio Virginio, Quinto Sulpicio, Aulo Manlio e Manio Sergio, la fortezza di Anxur, presidiata dai Romani, per una negligenza della guarnigione locale fu assalita e conquistata dai Volsci.
A Vejo intanto le cose non volgevano in bene per l'esercito assediante sia per le rivalità dei tribuni (6 erano un po' troppi), sia perché due popoli etruschi, i Capenati e i Falisci, ripetutamente chiamati, avevano mandato consistenti soccorsi di uomini ai Vejenti.
I nuovi arrivati assalirono impetuosamente uno degli accampamenti romani di cui era comandante il tribuno MANIO SERGIO.
Gli assedianti credevano che si erano mossi tutti i 12 stati Etruschi, in altre parole d'avere addosso tutte le forze della lega etrusca; mentre i Vejenti, animati dall'improvviso soccorso uscirono dalle mura e così le legioni di Sergio dovettero lottare contro due nemici, davanti e dietro, o dietro e davanti.

Si difesero con estremo valore e causarono pure molte perdite ai nemici; ma la loro posizione si aggravava di momento in momento e stava diventando molto critica. SERGIO sperava che dal vicino campo il collega VIRGINIO gli inviasse soccorsi che, se fossero giunti a tempo, avrebbero capovolto senza dubbio le sorti della battaglia; ma Virginio che era nemico di Sergio, pur sapendo le critiche condizioni in cui si trovavano le schiere del collega, si guardò bene dall'intervenire, di modo che sopraffatti dai nemici, dopo uno strenuo e inutile combattimento, le legioni di Sergio abbandonarono le trincee; una piccola parte trovò rifugio nel campo di Virginio ma il grosso se ne fuggì a Roma.
Qui giunto, MANIO SERGIO diede la colpa della disfatta al collega rimasto inoperoso, e il Senato, richiamato a Roma VIRGINIO e lasciati a comandare gli eserciti di Vejo i Luogotenenti, decretò di convocare prima del tempo i comizi per l'elezione dei nuovi tribuni consolari. Furono eletti Lucio Valerio Potito, Marco Furio Camillo, Marco Emilio Mamercino, Gneo Cornelio Cosso,. Caio Fabio, Ambusto e Lucio Giullo Julo e subito si provvide ad arruolare un altro esercito e si obbligarono pure i vecchi ed i giovanissimi ad entrare nella milizia.
Ma dal momento che le casse dell'erario erano esauste s'imposero nuovi tributi e questi provocarono lo sdegno dei tribuni della plebe. Risvegliatesi improvvisamente le discordie, in città ci fu perfino chi osò in quel frangente, riandare alla questione della legge agraria; mentre altri proposero che Sergio e Virginio dovevano essere puniti. I due tribuni finiti sotto processo, furono, con gran soddisfazione della plebe, condannati ad una multa di diecimila assi.

Occorreva nello stesso tempo rialzare le sorti della guerra. LASCIATI MARCO EMILIO e QUINTO FABIO al governo della città, MARCO FURIO CAMILLO e GNEO CORNELIO uscirono con le truppe contro i Capenati e i Falisci, saccheggiarono il loro territorio, incendiarono ville e castelli, mentre VALERIO POTITO, incaricato di combattere contro i Volsci che approfittando della caotica situazione erano tornati all'offensiva, cinse d'assedio la fortezza di Anxur, che poco tempo dopo fu costretta alla resa.

Non passò molto tempo che la disfatta subita sotto le mura di Vejo fu vendicata grazie la cooperazione di tutte le forze romane. Infatti i due alleati di Vejo, i Capenati e Falisci furono impetuosamente attaccati e sconfitti e i Vejenti che avevano fatto una sortita per correre in difesa dei loro alleati furono ricacciati verso le mura cercando rifugio con il rientro in città, ma per impedire che i Romani penetrassero con loro, i concittadini chiusero le porte, e i malcapitati furono quasi tutti uccisi.

Quello stesso anno (354 A. di R. - 400 a.C.) si registrò una grande vittoria per la plebe, la quale finalmente riuscì non solo a fare eleggere come tribuni consolari i suoi rappresentanti, ma guadagnò anche la maggioranza.
Uno solo, MARCO VETURIO, del ceto patrizio fu eletto; tutti gli altri, e cioè M. POMPONIO, CAJO DUILIO, VOLERONE PUBLILIO, GNEO GENUCIO e LUCIO ATTILIO, erano plebei.
L'anno dopo però il tribunato consolare tornò in mano ai patrizi e fra gli altri furono eletti LUCIO VALERIO POTITO e MARCO FURIO CAMILLO, i quali, occupato il territorio etrusco dei Falisci e dei Capenati, vi portarono la devastazione e rapine portando poi a Roma un ricchissimo bottino.

Narrano gli storici -con tanta fantasia- di numerosi prodigi avvenuti in quel tempo e si soffermano specialmente sopra uno di questi. Il lago Albano, pur non essendo piovuto, era cresciuto oltre il normale, e non sapendo i Romani spiegare il fenomeno e non potendo ricorrere agli aruspici etruschi a causa della guerra, si inviò una delegazione ad interrogare l'oracolo di Delfo. Prima però che gli ambasciatori tornassero con la risposta, riuscirono i soldati romani con uno stratagemma a catturare un aruspice di Vejo, il quale, condotto al cospetto dei senatori, affermò che era già scritto nei libri fatali che, quando l'acqua del lago Albano cresceva, se i Romani la toglievano in modo religioso sarebbe stata a loro concessa la vittoria su Vejo, in caso contrario gli dèi avrebbero sempre protetto quella città.

Il Senato non credeva al responso dell'aruspice nemico ed aspettò che da Delo tornassero gli ambasciatori. L'assedio intanto continuava e continuavano le operazioni contro i Falisci, i Capenati, contro gli Equi che avevano assalita la colonia romana di Labico, contro i Volsci che avevano assediata la fortezza di Auxur, e infine contro i Tarquiniesi.

Di ritorno da Delo l'ambasceria portò il seguente responso dell'oracolo: "Non fare, o Romano, che l'acqua rimanga ancora nel lago e non lasciar che vada al mare per il suo corso, ma consumala dividendola in molti ruscelli. Poi audacemente darai l'assalto alle mura nemiche e ricorda che dai fati, ora a te si manifestano, che ti è concessa la vittoria sulla città cui da tanti anni mantieni l'assedio. Terminata vittoriosamente la guerra, porterai un magnifico dono al mio tempio e farai i sacrifici fino ad oggi trascurati nella tua patria, e li restaurerai corretti come si usava".

Il responso di Delfo era identico a quello dell'aruspice etrusco. Fu detto allora - e certo per opera dei patrizi che sfruttavano sempre per i loro fini l'ignoranza della plebe credulona- che gli dèi erano sdegnati contro Roma perché si erano trascurate le ferie e i sacrifici sul monte Albano e anche perché si era commesso il grave errore nella creazione dei magistrati. Fu detto ancora, che per placare lo sdegno delle divinità l'acqua del lago doveva essere dispersa nei campi per mezzo di canali e che i tribuni plebei dovevano rinunciare per il bene di tutti a fare i magistrati.
Con queste frottole, ciarle maligne, i patrizi cercavano di ottenere due obiettivi: che il tribunato consolare tornasse in loro potere e che la plebe irrigasse le loro terre. E cosi fu fatto! Si pose subito mano alle opere d'irrigazione e il Senato decretò l'interregno.
Furono nominati interRe LUCIO VALERIO, QUINZIO SERVILIO FIDENATE e MARCO FURIO CAMILLO e si prepararono i comizi, ma dovettero bene accorgersi i tribuni plebei delle intenzioni del patriziato e provocarono sedizioni e si opposero alla convocazione dei comizi, chiedendo che la maggior parte dei tribuni fosse plebea.
In quel tempo al Fano di Volturnia ci fu una dieta dei popoli etruschi nella quale i Capenati e i Falisci domandarono che tutti gli stati dell'Etruria scendessero in campo per liberare Vejo dall'assedio. Ma fu loro risposto negativamente. Però si diede libertà a quei giovani che volessero di andare volontari in aiuto dei Vejenti.
Ma non è che i figli, potessero ad un tratto cambiare il carattere educato e plasmato dai padri.

A Roma si sparse la voce che da tutta l'Etruria numerosissimi volontari erano accorsi a Vejo per soccorrerla e cominciarono a tacere le discordie, ma le operazioni militari non diedero tutte ottimo risultato e qualcuna si risolse in uno scacco per fortuna non grave.
LUCIO TITINIO e GNEO GENUCIO, essendo tribuni consolari, avevano fatto una spedizione contro i Falisci e i Capenati. Però, guerreggiando più con l'audacia che non la prudenza, caddero in un agguato. Genucio si battè coraggiosamente ma pagò la sua imprudenza con eroica morte, Titinio, dal canto suo, riuniti i soldati, per non fare la stessa fine, si ritirò sopra un'altura dove opponendo al nemico una accanita resistenza.
Non fu una vera e propria sconfitta e pochi danni subirono in verità le truppe dei due tribuni; ma al campo romano intorno a Vejo la notizia di quel fatto d'arme giunse molto diversa dalla realtà; circolò la voce che ai Romani gli era toccata una clamorosa disfatta e che gli eserciti di tutta l'Etruria, vincitori, si avvicinavano a Vejo insieme con i Falisci e i Capenati. Poco mancò che i Romani non abbandonassero il campo per darsi alla fuga.
Più gravi ancora furono le notizie giunte a Roma, secondo le quali il campo romano intorno a Vejo era stato assalito e annientato e che una parte dei nemici marciavano sulla stessa Roma.

Tali notizie portarono nella città la costernazione e lo sgomento; tutti quelli che potevano usare le armi corsero subito alle mura, le matrone uscirono di casa e si recarono nei templi a supplicare gli dèi che allontanassero da Roma ogni pericolo, supplicando la vittoria per gli eserciti romani.

DITTATURA DI CAMILLO E PRESA DI VEJO

A quel punto come nelle altre difficili circostanze si ricorse allora alla dittatura. Fu creato dittatore MARCO FURIO CAMILLO, uno dei più famosi capitani romani, un uomo valoroso, audace quando era necessario, ma prudente, che più di una volta, come abbiamo visto, aveva ricoperto la carica di tribuno consolare.
Assunto a quella suprema magistratura straordinaria, Camillo nominò maestro della cavalleria PUBLIO CORNELIO SCIPIONE, poi, per restaurare la disciplina nell'esercito con degli esempi di severità, punì tutti quei soldati che erano fuggiti da Vejo. Fatto questo, volò nel campo della città assediata per animare con la sua presenza le truppe e fece subito ritorno a Roma per dirigere le operazioni di arruolamento. Nessuno degli uomini validi rifiutò di iscriversi nell'esercito e tanta fu la fiducia che un tale uomo seppe ispirare che perfino la gioventù dei Latini e degli Ernici corsero ad arruolarsi.
Quando ogni cosa fu pronta, Camillo fece voto e promise, per decreto del Senato, che, espugnata Vejo, avrebbe fatto i "lugi magni" e rifatto e riconsacrato il tempio della dea Matuta, già consacrato dall'antico re di Roma Servio Tullio; poi alla testa di un forte esercito partì da Roma alla volta di Nepete nel cui territorio ingaggiò una battaglia con i Capenati e i Falisci e seppe con molta prudenza predisporre le cose e con tanta perizia guidare il combattimento che la fortuna gli arrise.
Sconfitti i nemici, s'impadronì dei loro alloggiamenti e fece un ricchissimo bottino, di cui solo una piccolissima parte distribuì fra le truppe e il resto consegnò ai questori militari.

Dopo questa riuscita offensiva, il Dittatore condusse l'esercito vittorioso a Vejo; fece rafforzare le bastie, ne fece erigere delle nuove ed ordinò che nessuno doveva combattere senza il suo permesso.
Da qualche tempo si era cominciato a scavare un passaggio sotterraneo che doveva condurre alla cittadella, Camillo comandò che i lavori fossero continuati con più alacrità e, perché questi procedessero più velocemente e senza interruzione di giorno e di notte, divise i lavoratori in sei squadre a ciascuna delle quali fu assegnato un turno di sei ore.

Quando la galleria fu scavata, il dittatore, vedendo prossima la conquista della città e sapendo che le ricchezze che conteneva erano ingenti, per non incorrere nell'ira dell'esercito, ira che avrebbe certamente suscitata se avesse proibito o limitato il saccheggio, ma nello stesso tempo per non essere poi rimproverato dal Senato se una sì ricca preda avesse concesso alle truppe, scrisse al Senato chiedendogli istruzioni in proposito. Vari furono i pareri espressi nell'assemblea dei senatori, ma prevalse su tutti quello di PUBLIO LICINIO il quale consigliò di informare la plebe che chi voleva partecipare al bottino doveva andare al campo di Vejo a combattere.
Resa pubblica la decisione del Senato, una grande moltitudine di gente armata corse a Vejo, e Camillo, soddisfatto degl'improvvisi rinforzi giunti, si preparò alla sua impresa finale.

Prima sua cura fu di conquistare gli augurii, facendo voto di assegnare ad Apollo la decima parte della preda e di portare a Roma, in un tempio magnifico, la grande statua di Giunone Regina che si trovava a Vejo; infine mandò attraverso il passaggio sotterraneo un contingente di soldati scelti e, affinché i Vejenti non si accorgessero dello stratagemma, con il resto delle truppe assalì e in un modo alquanto rumoroso da ogni parte la città. I Vejenti, meravigliati di così un fulmineo assalto dopo tanti giorni di tregua, corsero armati, tutti alle mura per respingere il vigoroso attacco dei nemici.
In quel frattempo, non visti, dal sotterraneo i soldati romani erano penetrati nella rocca, e precisamente nel tempio di Giunone che era posto proprio sopra il tunnel. Di là, una parte, con ardimento mosse contro quelli che difendevano le mura cogliendoli alle spalle, e una parte ancora più ardita raggiunse le porte per abbatterle, mentre un altro manipolo si mise a percorrere le vie appiccando il fuoco alle case.

A quel punto la battaglia infuriò dentro la città oltre che fuori. Dalle case le donne e gli schiavi gettavano sassi e tegole, mentre fiamme altissime si levavano al cielo. Sulle mura i difensori, assaliti di fronte e a tergo, invano cercavano di resistere, e quelli che soccombevano erano precipitati dall'alto. Intanto, dalle porte sfondate una folla urlante di combattenti si precipitava dentro la città seminando strage per le vie e nelle abitazioni.
Camillo pose fine al combattimento facendo dai banditori sapere che sarebbero stati risparmiati gli abitanti se avessero subito deposto le armi; poi abbandonò la città al saccheggio.
Il bottino fu ricchissimo, maggiore di quanto non si era sperato. Il giorno dopo Camillo mise in vendita i prigionieri come schiavi e destinò alla cassa dello Stato il ricavato della vendita. Quest'ultima operazione non piacque ai soldati, i quali, non contenti della ricca preda a ciascuno toccata, avrebbero voluto dividersi anche quel denaro e del bottino fatto non a Camillo furono grati ma a PUBLIO LICINIO che -come detto sopra- in Senato aveva dato il consiglio del saccheggio.

Spogliata di ogni ricchezza la città, si cominciò a prendere e a trasportare devotamente tutto ciò che si trovava nei templi. Scelti in tutto l'esercito alcuni giovani, li mandarono vestiti di bianco al tempio di Giunone per prendere il simulacro della Dea e portarlo a Roma, ed è nella leggenda poi tramandata, che la Dea, richiesta se voleva esser trasportata nella città dei vincitori, rispondesse di sì con un cenno e anche con la voce.

Tolta dalla sua base, la statua fu portata a Roma sull'Aventino, dove, quattro anni dopo, Camillo, sciogliendo il voto, le dedicava un tempio.
Dieci anni, secondo la leggenda ricalcata su quella della guerra da Troja, era durato l'assedio di Vejo, conquistata, come gli storici stessi dicono, più con lo stratagemma e per volere degli Dei che non per il valore di armi.

CAMILLO A FALERIA

Giunta a Roma la notizia della vittoria, fu la gioia fu indescrivibile. Le donne gremirono i templi e innalzarono inni di ringraziamento e il Senato decretò di fare in continuazione quattro giorni atti di riverenza agli dei.

Trionfale fu il ritorno di Camillo a Roma alla testa dell'esercito vittorioso, sopra un carro tirato da cavalli bianchi, fra fitte ali di gente di ogni condizione ed età. Appena giunto in città, il Dittatore salì sull'Aventino, scelse il posto per il tempio a Giunone Regina e consacrò, secondo il voto, il tempio alla dea Matuta. Dopo, rinunciò alla dittatura e, poiché aveva promesso un dono ad Apollo, dietro consiglio dei pontefici si stabilì che ciascuno rendesse la decima parte del bottino toccatogli.
In quel tempo giunsero a Roma gli ambasciatori degli Equi e dei Volsci a chieder la pace, che molto volentieri fu concessa.
L'anno seguente (359), ai due tribuni consolari VALERIO e QUINTO SERVILIO fu affidata la guerra contro i Capenati, con i quali, dopo alcune scorrerie, fu conclusa la pace; mentre i due tribuni militari PUBLIO CORNELIO COSSO e PUBLIO CORNELIO SCIPIONE, anche loro in guerra contro i Falisci riuscirono a saccheggiare il loro territorio.

Mentre ancora non era del tutto finita la guerra e fuori città le truppe romane erano ancora impegnate a devastare le contrade del nemico, a Roma risorgevano le discordie. Il Senato aveva proposto che si mandasse nel territorio dei Volsci, una colonia di tremila cittadini a ciascuno dei quali doveva essere assegnato tre arpenti e mezzo di terreno. Questa proposta suscitò molti malumori che aumentarono quando TITO LICINIO, a sua volta, propose che una parte della plebe e del Senato andasse ad abitare in Vejo.
Ma i senatori rifiutarono sdegnosamente questa proposta e, poiché MARCO FURIO CAMILLO affermava che la decima parte del territorio vejentano era stata da lui promessa ad Apollo, furono, dietro parere dei pontefici, stimati la città e il territorio di Vejo, poi venduti e dai tribuni militari con il ricavato fu comperato dell'oro per fabbricare un dono ad Apollo.

Non bastando quello trovato, volontariamente le matrone romane portarono tutto l'oro e i gioielli in loro possesso per poi realizzare una magnifica coppa.
L'anno dopo, continuando la guerra contro i Falisci, fra gli altri tribuni militari fu eletto Furio Camillo, e a lui affidato il comando di tutte le operazioni di guerra.
Camillo mosse con l'esercito contro il nemico, ma questo, temendo di doversi scontrare in campo aperto, rimaneva prudentemente chiuso nella città di Faleria; ma ben presto il tribuno romano lo costrinse ad uscire iniziando a predare e a bruciare tutte le ville del territorio.
I Falisci si accamparono ad un miglio dalla città in una località forte per natura e di difficile accesso, ma Camillo, guidato da un prigioniero, a notte alta lasciò i propri alloggiamenti e sul far dell'alba, giunto con le sue truppe in un luogo sovrastante a quello dove stava il nemico, ordinò di fortificare la posizione occupata.
I Falisci cercarono di disturbare i lavori dei Romani, ma poi da questi furono assaliti li scompaginarono poi li misero in fuga; e tanto fu lo spavento nelle file del nemico sbaragliato che questi non ebbero tempo e non pensarono di ricoverarsi nel loro campo, ma cercarono scampo dentro le mura della città.
Preso il campo nemico e consegnata ai questori la preda, Marco Furio Camillo pose l'assedio a Faleria.

Tutti credevano che l'assedio non sarebbe stato meno lungo di quello di Vejo, essendo la città abbondantemente fornita di vettovaglie; invece fu breve ed alla virtù e generosità di Camillo più che alle armi si deve se si arrese.
Viveva a Faleria un maestro che insegnava ai figli delle principali famiglie della città; quasi quotidianamente conduceva i suoi allievi a passeggio fuori della città, non tanto lontano però da esporli alle minacce degli assedianti.
Sperando forse in un ricco premio, un giorno il maestro guidò i suoi scolari al campo romano e, presentatosi a Camillo, gli offerse come ostaggi gli allievi, affermando che le famiglie di Faleria chissà cosa avrebbero pagato per liberare i loro figli e che oltre questo, preoccupandosi per la loro sorte sarebbero state costrette a cedere la città.
È fama che Camillo, sdegnato, rispondesse così:
"O infame uomo, tu con questo dono scellerato non sei venuto ad un popolo o ad un capitano a te somigliante. Noi non usiamo le armi contro i fanciulli, ai quali si risparmia la vita anche quando si conquista una città, noi le usiamo contro gli armati e contro quelli che, pur da noi non offesi o molestati, giunsero a Vejo a combattere contro il nostro esercito. Tu hai superato i tuoi concittadini con questa tua infamia, e sappi che io vincerò soltanto con i mezzi che di solito usano i Romani: con la virtù, con le munizioni e con le armi".

Detto questo, fece spogliare il disonesto maestro poi ordinò ai suoi stessi allievi - lasciandoli quindi liberi di far ritorno alla propria città- che lo menassero nudo e con le mani legate dietro la schiena e fustigandolo con le verghe
fino Faleria.
Vinti da questo atto nobile di Camillo, i Falisci si arresero accettando le condizioni imposte da Roma che cioè pagassero il soldo di quell'anno ai soldati.
Conclusa la pace, Camillo ritornò a Roma, dove fu accolto con grandissimi onori e il Senato ordinò che una commissione composta di Lucio Valerio, Lucio Sergio ed Aulo Manlio, portasse ad Apollo in Delfo la coppa d'oro.
La nave che portava gli ambasciatori - secondo quel che narra la leggenda - giunta allo stretto di Messina fu presa dai corsari e condotta a Lipari, ma il loro capo TIMASITEO, dopo avere ospitato cortesemente gli ambasciatori, con buona scorta di navi li fece condurre a Delfo perché offrissero la coppa al dio e di là sani e salvi li fece riaccompagnare a Roma.

Quello stesso anno, per le operazioni di guerra contro gli Equi furono incaricati i tribuni consolari CAJO EMILIO e SPURIO POSTUMIO, che li sconfissero in una prima battaglia, ma essendo Emilio rimasto a difendere Verruca, il collega, spintosi verso i confini degli Equi con l'esercito disordinato, fu improvvisamente assalito e costretto a rifugiarsi sui monti vicini.
Qui però l'esercito, vergognandosi dello scacco subito, chiese di potersi riscattare e di voler combattere; già nella stessa notte diedero inizio alla battaglia contro gli Equi sconfiggendoli e disperdendoli mentre le truppe rimaste a Verruca, credendo che la disfatta era toccata ai loro compagni presi da un'improvvisa paura, si ritiravano rifugiandosi a Tuscolo.
La guerra con gli Equi continuò con alterna vicenda: Vitellia, colonia romana, fu di notte e per tradimento presa dai nemici; ma questi, più tardi, furono sconfitti dalle truppe del console Lucio Lucrezio Flavo e disfatti un'altra volta, nel 362, presso l'Algido dai consoli Lucio Valerio Potito e Marco Manlio.

Altra guerra, poco tempo dopo, scoppiò con i Volsiniesi e i Salpinati. Contro i primi furono mandati i tribuni consolari LUCIO LUCREZIO e CAJO EMILIO, che, incontrato un consistente esercito nemico, lo assalirono e lo misero in fuga facendo ottomila prigionieri.
Contro i Salpinati andarono i tribuni AGRIPPA FURIO e SERVIO SULPICIO; quelli per paura si chiusero dentro nella loro città e questi si misero a saccheggiare il loro territorio.
Ai Volsiniesi, quell'anno (363), fu concessa una tregua di venti anni a patto però di restituire quanto sottratto ai Romani e pagassero il soldo di un anno ai soldati.

ESILIO DI CAMILLO

Nonostante le guerre con tanti nemici fuori, come il solito continuarono dentro Roma le discordie. Furono condannati alla multa di diecimila assi gli ex-tribuni della plebe AULO VIRGINIO e QUINTO POMPONIO e fu riproposta l'idea di inviare parte della popolazione a Vejo; ma contro questa intenzione insorse Marco Furio Camillo.
"Più che lo sdegno del famoso capitano valsero le preghiere dei patrizi a non far approvare la proposta di legge e più ancora la deliberazione presa dal Senato di dare sette iugeri di terra del contado di Vejo a ciascun uomo, computando non solo i padri di famiglia e i capi di casa ma tutte le teste d'ogni nucleo famigliare, affinché con questa speranza gli uomini allevassero più volentieri i figli" (Livio)

Contro MARCO FURIO CAMILLO intanto cresceva il malumore della plebe, dimenticando i grandi benefizi che un uomo così grande aveva portato alla patria; era accusato di aver estorto ai soldati la decima parte della preda di Vejo, di aver ricavando denaro dalla vendita dei prigionieri, e di aver obbligato il popolo a comprare l'oro per il dono ad Apollo Delfico con i denari detratti dalle somme ricavate dalla vendita del territorio di Vejo, infine di non aver nulla dato ai soldati del bottino realizzato nel campo dei Falisci.
Tutte queste accuse furono ufficialmente presentate nell'anno 363 dal tribuno APULEJO dal quale Camillo fu citato in giudizio.
Ma lo sdegnoso guerriero preferì non comparire in pubblico in veste d'accusato e, abbandonata Roma, se n'andò in esilio ad Ardea.
Si dice che, partendo, egli esclamasse: "Facciano gli dei immortali che, se tale ingiuria ingiustamente mi è stata fatta, possa l'ingrata città desiderarmi ancora".
In contumacia fu condannato alla multa di quindicimila assi.

Fu un buon profeta; presto i Romani CAMILLO dovranno implorarlo per tornare al comando; fu il salvatore della patria e quasi il secondo fondatore di Roma; e questa volta non erano i soliti nemici, ma erano popoli ancora sconosciuti, dall'aspetto feroce, dall'anima non meno feroce, genti di statura gigantesca; tribù che già in questi anni hanno varcato le Alpi.
Sono i cosiddetti GALLI e di loro ci occuperemo nel prossimo capitolo:

nel periodo che segue dall'anno 390 al 389 > > >

Fonti, Bibliografia, Testi, Citazioni: 
TITO LIVIO - STORIE (ab Urbe condita)
APPIANO - BELL. CIV. STORIA ROMANA
DIONE CASSIO - STORIA ROMANA 
PAOLO GIUDICI - STORIA D'ITALIA 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
I. CAZZANIGA , ST. LETT. LATINA, 
+ altri, in Biblioteca dell'Autore 

 


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