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CRONOLOGIA

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( QUI TUTTI I RIASSUNTI )  RIASSUNTO ANNO 361-345 a. C.

2nda GUERRA GALLICA - LA FORZA DELL'ESERCITO ROMANO

SECONDA GUERRA CONTRO I GALLI - TITO MANLIO TORQUATO - SCONFITTA DEI GALLI SOTTO LE MURA DI ROMA - I GALLI BATTUTI A PEDO - GUERRE CONTRO GLI ERNICI, PRIVERNO, FALERIA E TARQUINIA - NUOVE LOTTE TRA IL PATRIZIATO E LA PLEBE - M. POPILIO SCONFIGGE I GALLI - I GALLI E LUCIO FURIO CAMILLO - MARCO VALERIO CORVO - GUERRA CON I VOLSCI E GLI AURUNCI - L'ORDINAMENTO MILITARE ROMANO
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LA SECONDA GUERRA CONTRO I GALLI

Nell'anno 393 di Roma (361 a.C.), essendo consoli LUCIO SULPICIO PETICO II e CAJO LICINIO CALVO, nonostante molte perdite e con la vittoria completa sfumata per aver dato il tempo nella notte ai nemici di togliere il campo e di sottrarsi alla successiva battaglia, continuarono le operazioni iniziate contro gli Ernici, che poi culminarono con l'espugnazione di Ferentino, e s'iniziò una nuova guerra contro i Tiburtini.

Nel frattempo quello stesso anno fecero la loro ricomparsa nel Lazio i Galli, i quali, penetrati nel territorio romano con grandi forze, si accamparono a tre miglia dalla città, sulla via Salaria, di là dal ponte sull'Aniene.
Erano passati trent'anni dalla prima invasione e a Roma ancora viva quella generazione che li aveva vinti con Camillo, non si era spento il ricordo delle ingiurie patite e degli incalcolabili danni sofferti con gli incendi e la distruzione; per questo motivo si cercò di far fronte al grave pericolo ricorrendo alla dittatura.
Fu creato dittatore TITO QUINZIO PENNO e maestro della cavalleria SERVIO CORNELIO MALUGINENSE e raccolto un numerosissimo esercito, alla testa del quale il dittatore uscì da Roma diretto all'Aniene; e qui le truppe romane si accamparono.

Divideva i due opposti eserciti solo il fiume, le cui sponde erano unite da un ponte, dove ogni giorno per occuparlo avvenivano scontri d'avamposti.
Narrano gli storici, che un giorno avanzò sul ponte un Gallo di straordinaria statura
e, ad alta voce, sfidò in un duello il più valoroso dei soldati romani.
La gioventù romana rimase muta e in soggezione per la gigantesca statura del barbaro, ma un giovane patrizio di nome TITO MANLIO, quello stesso che con il pugnale aveva imposto al tribuno Marco Pomponio di ritirar l'accusa contro il padre Lucio, uscito dalle schiere, si presentò al dittatore e così gli parlò: "Senza tuo ordine io non oserei mai misurarmi anche se fossi sicurissimo della vittoria; ma, se tu me lo concedi, a quel bestione che così ferocemente si vanta io dimostrerò che discendo da quella famiglia, che buttò giù i Galli dalla rupe Tarpa". Il dittatore ammirato da tanto coraggio "Va, - gli rispose - o Tito, che tutti gli altri superi in valore, e sii sempre animato da questi sentimenti verso tuo padre e la patria, e mostra con l'aiuto degli dei che il nome romano è invincibile".

I compagni aiutarono ad armare TITO MANLIO, che imbracciò uno scudo da fante e cinse una pesante spada, ma molto corta; poi lo accompagnarono fin presso il Gallo, che accolse schernendo il giovane guerriero.
Un grande silenzio fu fatto nell'uno e nell'altro campo e tutti gli sguardi si fissarono ansiosi su i due guerrieri che stavano uno di fronte all'altro. Alto e robusto come un gigante, il Gallo con addosso vestiti di vari colori e belle armi lucenti; di media statura era invece Tito Manlio fornito di armi robuste anziché scintillanti; ovviamente dalle apparenze i presenti giudicavano che la sorte del duello era indubbiamente favorevole al barbaro.

Il duello iniziò e si svolse fulmineamente, pochi istanti ed era già finito. Il Gallo, certo di atterrare il nemico al primo colpo, opponendo al guerriero romano la mano sinistra, armata dello scudo, menò con la destra con la sua pesante spada un terribile fendente che avrebbe tagliato in due Tito se non l'avesse con scioltezza schivato; ma questi, con straordinaria agilità, schivò il colpo, e prima che l'altro rialzasse in alto la sua pesante e lunga spada, percuotendo con il suo scudo la parte inferiore di quello avversario, con uno scatto si lanciò avanti con la sua corta spada e per ben due volte squarciò il ventre del barbaro, che stramazzò morto all'istante, ingombrando con il suo immenso corpo il ponte. Tito Manlio si chinò sul cadavere del vinto e, strappata una collana che il barbaro portava addosso, già bagnata di sangue, se la pose al collo come un trofeo e dal nome di quella collana, a Tito gli fu dato il soprannome di "Torquato".

Il valoroso guerriero dalle legioni fu accolto con gridi e canti di giubilo e il dittatore per il coraggio dimostrato volle donargli una corona d'oro. I Galli, vedendo nella sconfitta del loro campione un cattivo augurio o giudicando da uno solo il valore di tutti i Romani, durante la notte lasciarono gli alloggiamenti e si ritirarono a Tiburi, poi qui rifornitosi di vettovaglie, lasciarono la cittadina e proseguirono per la Campania.

Fu appunto per l'aiuto fornito ai Galli dagli abitanti di Tiburi -i Tiburtini- che l'anno dopo (394 A, di R. - 360 a.C.) il console CAJO PETILIO BALBO, fu dal Senato inviato con un esercito contro Tiburi per punirli.
Ma essendo dalla Campania ritornati i Galli che in compagnia dei Tiburtini avevano ricominciato a saccheggiare e devastare i territori del labicano, albano e tusculano, fu creato dittatore QUINTO SERVILIO ALA e maestro della cavalleria TITO QUINZIO.
Il dittatore ordinò al console PETILIO di tenere a bada con le sue truppe i Tiburtini ponendosi poco distanti dalla loro città, poi, allestito un altro esercito, uscì incontro ai Galli contro i quali iniziò il combattimento nelle vicinanze di porta Collina, al cospetto dei vecchi, delle donne e dei fanciulli che dalle mura guardavano come uno spettacolo la battaglia. Questa fu lunga ed accanita e causò dolorose perdite all'una e all'altra parte, ma alla fine i Galli furono sbaragliati e, messi in fuga, disordinatamente si rifugiarono nella città dei loro alleati, a Tiburi, ma qui le legioni di Petilio che li attendevano al varco, prima sgominarono questi poi affrontarono i Tiburtini che erano usciti fuori per soccorrerli ma caddero pure loro nella trappola.

A questa vittoria un'altra se n'aggiunse, riportata sugli Ernici, quasi contemporaneamente, dall'altro console MARCO FABIO AMBUSTO, così la gioia a Roma scoppiò due volte.
I Tiburtini non paghi della sconfitta esterna, anziché desistere, vollero prendersi la rivincita e l'anno seguente (395 A. d R. - 359 a.C.) fecero una scorreria notturna sotto le mura di Roma, nella speranza di conquistare la città con un assalto di sorpresa. Svegliati dal gran rumore ben presto i Romani in massa corsero alla difesa e, ordinate le schiere, all'alba i consoli MARCO POPILIO e GNEO MANLIO uscirono da due porte non assediate e assalirono alle spalle energicamente i nemici scompigliandoli e mettendoli in fuga.

L'anno dopo avendo i Tarquiniesi nuovamente percorso e saccheggiato parte del territorio romano, fu allora dal Senato decretata contro di loro la guerra per sgominarli definitivamente e distruggere la loro città base e, poiché pure gli Ernici non se ne stavano tranquilli, contro i primi fu mandato il console CAJO FABIO e contro questi ultimi l'altro console CAJO PLAUZIO.

Queste due offensive contemporanee, però dava non poco da pensare ai Romani perché si stava prospettando un minaccioso ritorno di Galli. Ma, essendosi conclusa la pace con i latini ed essendo stata rinnovata la lega, Roma, raddoppiate le sue forze con i soldati concessi dai Latini stessi, riuscì con tranquillità a fronteggiare i diversi pericoli.

Investito della dittatura CAJO SULPICIO ed eletto maestro della cavalleria MARCO VALERIO, l'esercito fu inviato contro i Galli che, passati da Preneste, si erano accampati intorno a Pedo.
CAJO SULPICIO senza tentare subito la fortuna delle armi, usò la tattica del temporeggiare sapendo d'indebolire con questa il nemico. Però le sue truppe non sopportavano questo sistema, nuovo per loro, e cominciarono a rumoreggiare; con il passar dei giorni il malcontento divenne tumulto ed una turba di soldati capeggiata dal prode centurione SESTO TULLIO si portò al padiglione del dittatore, affermò che gli uomini erano stanchi di oziare e chiese di voler combattere. Penne a quel punto concesse l'iniziativa dell'offensiva e il giorno seguente si combatté alle falde dei monti una sanguinosa battaglia, la quale, cominciata con lieve vantaggio del nemico, terminò, per l'intervento tempestivo della cavalleria e per uno stratagemma d preparato al dittatore, con la sconfitta dei Galli, di cui fu fatta una strage.

GUERRE CONTRO GLI ERNICI, PRIVERNO, FALERIA E TARQUINIA

Con questa clamorosa vittoria ebbe fine la seconda guerra gallica durata tre anni. Continuò invece quella contro gli Ernici che però ben presto furono pure loro vinti e soggiogati da Cajo Plauzio.
Tuttavia a Roma non si ebbe pace e per tutto l'anno dovette rimanere in armi contro i Privernati e i Velletrani, che più volte corsero e guastarono il territorio romano, e contro Tarquinia, le cui truppe, riuscite a far prigionieri trecentosette soldati dell'esercito di Cajo Fabio, barbaramente li trucidarono.
I Privernati, l'anno seguente (397 A. d. R. - 357 a.C.), furono severamente puniti dal console CAJO MARZIO, che ne saccheggiò il ricco territorio lasciando ai suoi soldati la ingente preda, poi si spinse fin sotto Priverno e, stimolate le legioni con la promessa di un nuovo bottino, queste misero prima in fuga il nemico poi assediata la città la costrinse a scendere a patti nella resa.

Le operazioni contro i Tiburtini furono riprese nel 398 (356 a.C.) dal console POPILIO LENATE, il quale respinti i nemici dentro Tiburi ne saccheggiò il contado. Nello stesso anno fu ripresa anche la guerra contro l'indomata Tarquinia cui si era alleata questa volta Faleria ed ebbe inizio con uno scacco da parte dei Romani, dovuto ad uno stratagemma dei nemici, i cui sacerdoti, avanzando con torce accese e tenendo in mano dei serpenti, atterrirono talmente le schiere di Roma che queste senza combattere indietreggiarono precipitosamente fino al campo. Qui però, rimproverati aspramente dal console MARCO FABIO AMBUSTO, si riebbero del superstizioso terrore e ritornarono con tale impeto nella battaglia che misero in fuga i Falisci ed i Tarquiniesi e, impadronitisi degli alloggiamenti, con un cospicuo bottino se ne ritornarono a Roma vittoriose.
Non per questa sconfitta i Tarquinesi si diedero però per vinti; radunarono numerose forze in tutta l'Etruria e tornarono alla riscossa (398).
Parve opportuno allora eleggere un dittatore. Essendo la nomina del dittatore di spettanza consolare e trovandosi il console patrizio FABIO AMBUSTO in Etruria fu dal Senato incaricato di creare il "magistrato supremo" il console plebeo POPILIO LENATE, il quale elesse dittatore plebeo CAJO MARCIO RUTILIO, con il quale, per la prima volta, la plebe partecipò alla più alta carica della Repubblica.

Ovviamente Rutilio scelse come maestro della cavalleria un plebeo, CAJO PLAUZIO. Il dittatore assolse il suo compito con molta abilità e con pieno successo. Uscito da Roma con l'esercito, costeggiò il Tevere, attraversandone qua e là il corso su barche e zattere per piombare alle spalle del nemico; sorprese, infatti, molti di questi sparsi per le campagne. E anche lui prima conquistò con delle improvvise azioni sparse, molti alloggiamenti dei nemici nella zona, poi aspettando il rientro delle varie turbe, riuscì in questo modo a catturare più di ottomila prigionieri.

La guerra fu continuata con varie vicende negli anni seguenti: nell'anno 400 (354 a.C.) dai Tiburtini fu presa Empulio e saccheggiato il territorio di Tarquinia; nel 401 fu costretta alla resa Sassola, e i Tiburtini finalmente, deposte le armi, si arresero; l'esercito di Tarquinia fu definitivamente sconfitto e dei molti prigionieri catturati, 307 furono inviati a Roma e, in mezzo al foro, furono prima fustigati poi decapitati; per vendicarsi dei trecentosette soldati dell'esercito di Cajo Fabio, barbaramente trucidati dai Tarquini nel 396.

Quell'anno medesimo fu stretto un trattato di amicizia con i Sanniti e nel successivo (402) avendo i Volsci riprese le armi e Tarquinia, aiutata da Cere, mandati alcuni predatori ai confini del territorio romano, fu creato dittatore TITO MANLIO, la qual cosa spaventò talmente gli abitanti di Cere che mandarono subito una delegazione a chiedere la pace ai Romani e, ricordando a loro l'ospitalità che era stata accordata ai sacerdoti e alle cose sacre di Roma al tempo dell'invasione gallica, la pace e la concordia la ottennero per cento anni.
Nel 403 (351 a.C.) finalmente, avendo i due eserciti romani devastato con continue scorrerie le campagne di Faleria e di Tarquinia, queste città, stanche del loro lungo ed infruttuoso guerreggiare, chiesero la pace a Roma e la ottennero per quarant'anni.

NUOVE LOTTE FRA IL PATRIZIATO E LA PLEBE

Durante questo periodo di guerre non si erano per nulla calmate a Roma le solite lotte civili. La dittatura RUTILIO, che era plebeo, come da sempre, aveva fortemente indignato i patrizi, i quali avevano deciso di escludere per sempre dal consolato la plebe.
In quell'anno (era il 398) pertanto si opposero alla convocazione dei comizi consolari sotto la presidenza del dittatore plebeo e provocarono l'interregno, cui seguirono, dal 399 al 401, tre consolati patrizi.
Riuscì però alla plebe, nel 402 (352 a.C.), di fare eleggere un console del suo ceto, uomo a alla plebe amato oltre che degno di tale carica, cioè RUTILIO; ma nel 403 per opera del dittatore i consoli tornarono ad esser patrizi, CAJO SULPICIO PETITO e TITO QUINZIO PENNE, con gran dispetto della plebe, la quale tanto si adoperò che quello stesso anno fece proclamare censore, per la prima volta da che questa carica era stata istituita, un plebeo: che era sempre l'amato M. RUTILIO, e l'anno dopo (404) sostenne e fece vincere nelle elezioni consolari un altro plebeo: MARCO POPILIO LENATE.

MARCO POPILIO SCONFIGGE I GALLI

Quell'anno medesimo (404 A.di R. - 350 a.C.) fecero la loro comparsa nel territorio dei Latini di nuovo i Galli, ed essendo ammalato il console patrizio Lucio Cornelio Scipione, prese il comando dell'esercito proprio MARCO POPILIO.
Questi, senza por tempo in mezzo, chiamò alle armi i cittadini, ne formò quattro legioni ed affidò una schiera di riserva al pretore PUBLIO VALERIO PUBLICOLA. Avendo infine consigliato al Senato di armare un altro esercito e di tenerlo pronto, lui uscì da Roma per la porta Capena e marciò contro i Galli. Giunto in vista del nemico, le cui forze erano infinitamente superiori di numero, il console occupò un colle vicino al campo avversario e lo fortificò con robusti steccati. La prudenza del capitano romano fu dai Galli creduta debolezza o paura. Usciti dai loro alloggiamenti e schieratisi a battaglia, i barbari mossero risolutamente all'attacco della collina. Ma vano fu il loro impeto: la natura del luogo e le difese erano favorevoli ai Romani e i loro dardi non fallivano il segno; sicché i Galli della prima fila, feriti e con gli scudi carichi di dardi, prima si arrestarono stanchi e dubbiosi, poi premuti dai difensori cominciarono ad arretrare, causando il disordine nelle schiere retrostanti.

In questo primo fatto d'arme fu ferito MARCO POPILIO. Ritiratosi indietro per fasciarsi la ferita, ritornò poco dopo nella prima linea e, visti i Romani che, invece di sfruttare il successo ottenuto, si riposavano, li spronò gridando loro di riprendere la battaglia e rendere più decisiva e definitiva la vittoria.
Lui stesso diede l'esempio per primo; si mossero le insegne, e i Romani precipitarono furiosamente al piano e qui, schierati in forma di cuneo, diedero contro alla gran moltitudine dei Galli, che non sostennero l'urto poderoso, ma sbaragliati, si sbandarono per la campagna, lasciarono gli alloggiamenti e cercarono un rifugio sui monti albani.

Sia per la ferita, sia per la stanchezza dei propri soldati, non ritenne opportuno Popilio di inseguire il nemico e, distribuita tutta la preda all'esercito, lo ricondusse a Roma.


I GALLI E LUCIO FURIO CAMILLO

Essendo LUCIO CORNELIO SCIPIONE ancora ammalato e MARCO POPILIO ferito, il Senato creò dittatore LUCIO FURIO CAMILLO, il quale, correndo l'anno 405 (349 a.C.), uscì eletto console con APPIO CRASSO. Fu un anno il 405 di seri pericoli per i Romani: i Latini, invitati a fornire un contingente di truppe a Roma, si rifiutarono e in una dieta tenuta nella selva sacra alla dea Ferentina stabilirono di brandire le armi contro i Romani.
I Galli intanto, cacciati dal rigore dell'inverno dalle cime dei monti albani, scorazzavano nel territorio romano saccheggiandolo, e in più numerosi corsari greci erano apparsi minacciosi presso le coste del Lazio ed alle foci del Tevere e tentavano incursioni nel contado di Anzio e di Laurento.

Sotto la minaccia dei nemici e dei confederati ribelli, il Senato ordinò che si chiamassero i cittadini alle armi e mobilitassero dieci legioni di quattromila duecento fanti e trecento cavalli ciascuna, le quali, essendo morto nel frattempo Claudio, furono poste sotto il comando di Furio Camillo.
Questi lasciò due legioni a difesa della città, ne affidò quattro al pretore LUCIO PINARIO con l'ordine di difendere la Maremma e tener lontani i Greci dalla costa, e con le altre quattro si recò nel territorio pontino contro i Galli. Sicuro di stancare i nemici sorvegliandoli, passava il tempo con le truppe negli alloggiamenti. Narrano gli storici di un singolare duello combattutosi tra un Gallo e un Romano, che ha molta somiglianza con l'altro avvenuto sul ponte dell'Alba.

Anche questa volta il Gallo era di straordinaria statura ed armato di fortissime armi. Avanzò verso gli alloggiamenti e sfidò a battaglia uno dei soldati romani. Uscì, col permesso del console, ad affrontarlo il tribuno MARCO VALERIO. Dice la leggenda che un corvo, posatosi sull'elmo di Valerio, aiutasse con il becco e gli artigli il tribuno nel combattimento contro il Gallo, il quale sbigottito dal prodigio, tormentato dal corvo e duramente assalito dal Romano, cadde ucciso.
Irritati i Galli dalla vittoria di Marco Valerio gli corsero addosso per impedirgli di spogliare il loro compagno; si mossero dal canto loro i Romani in aiuto del proprio campione e la mischia si accese furiosa fra i due eserciti; ma fu brevissima, i nemici, voltate le spalle, si diedero alla fuga verso il territorio di Falerno. Marco Valerio si ebbe in premio dal console una corona d'oro e dieci buoi e dai soldati il soprannome di Corvino.

GUERRE CON I VOLSCI E GLI AURUNCI

Satrico, distrutta dai Latini, era stata ricostruita dagli Anziati che vi avevano mandato una colonia nell'anno 406 (348 a.C.). Ma la vita della nuova città non doveva durare a lungo. Gli Anziati sobillavano i popoli del Lazio contro Roma, e questa dichiarata ufficialmente guerra ai Volsci, l'esercito con alla guida il console MARCO VALERIO CORVINO, nel 408, marciò su Satrico.
Nelle vicinanze della città le legioni romane si scontrarono con i Volsci; questi sbaragliati al primo assalto, si rifugiarono a Satrico che M. Valerio mise subito sotto assedio; che non fu lungo. I Volsci, poiché i Romani stavano per costringerli alla resa con la forza, si arresero e un numero di quattromila soldati fu fatto prigioniero.
Satrico fu completamente distrutta e solo il tempio di Matuta fu risparmiato.

L'anno seguente, avendo gli Aurunci fatte delle scorrerie e temendosi una ribellione del Lazio, fu creato dittatore LUCIO FURIO CAMILLO e maestro della cavalleria GNEO
MANLIO CAPITOLINO. Ma queste misure furono superiori all'entità della minaccia; infatti, gli Aurunci che non erano poi molti, al primo scontro furono dispersi o catturati e i consoli, dimessosi il dittatore, continuarono la campagna e si servirono dell'esercito che avevano a disposizione per assalire improvvisamente Sora, che in breve tempo anche questa fu costretta alla resa.

L'ORDINAMENTO MILITARE ROMANO NEL V SECOLO

Tutte queste vittorie non si debbono soltanto attribuire al valore personale del soldato romano o all'abilità del condottiero, ma anche alla sapiente "organizzazione militare" che Roma era riuscita a creare, soprattutto con le varie esperienze che si continuavano a fare e che si trasmettevano nel corso degli anni dalla base fino agli alti vertici militari.
La tradizione vuole che sia stato MARCO FURIO CAMILLO a perfezionare quest'organizzazione, ma noi non possiamo credere che un ordinamento così perfetto sia stato opera di un uomo sia pure molto capace nell'arte della guerra, ma siamo piuttosto indotti a pensare ad una lunga serie di perfezionamenti suggeriti come detto sopra dall'esperienza acquistata in tanto battaglie.

Alla fine del quarto secolo di Roma l'organizzazione militare romana era la seguente: L'esercito era formato dalla fanteria e dalla cavalleria. La fanteria rappresentava la massa dei combattenti su cui incombeva il peso maggiore della battaglia; la cavalleria era un'arma sussidiaria, che all'inizio doveva sostenere la prima, aprire i varchi negli ordini avversari, compiere movimenti aggiranti e inseguire il nemico. Alcune volte come abbiamo visto, in alcune fasi critiche di certe battaglie, abbandonava i cavalli per trasformarsi anch'essa in fanteria, fornendo utili contributi.
La fanteria si divideva in pesante e leggera a seconda delle armi che aveva in dotazione. La fanteria pesante come armi di difesa aveva l'elmo, la corazza e lo scudo; questo prima era piccolo e rotondo poi fu quadrato, di quattro piedi d'altezza e due e mezzo di larghezza; come armi di offesa aveva l'asta, lunga sei piedi, e la spada corta a doppio taglio.
La fanteria leggera, che era formata da veliti, era armata solo di lancia e di saette, senza scudo e corazza; dunque meno armata ma spesso più sciolta nei movimenti.

La legione si componeva di cinquemila soldati, di cui forse tremilacinquecento di fanteria pesante, il resto armati alla leggera, ed era comandata da sei tribuni militari, due dei quali a turno avevano il supremo comando. La legione era divisa in quarantacinque "manipoli" e questi erano raggruppati in tre ordini di quindici manipoli ciascuno, detti degli "astati", dei "principi" e dei "triari", cui appartenevano i giovani, gli adulti e i veterani.
Ogni ordine, in battaglia, costituiva una linea, e tutti e tre erano disposti davanti al nemico nel modo seguente:

Astati
Principi
Triari

Mentre la cavalleria si disponeva ai due lati dell'esercito che si chiamavano "corni" o "aie".
Iniziavano il combattimento gli astati; questi se erano sopraffatti, si ritiravano tra i manipoli dei principi con i quali, formando una linea più robusta, ritornavano nuovamente contro il nemico. Se, infine, astati e principi erano respinti, arretrando si univano ai triari e costituivano un'ultima saldissima linea, che doveva battersi disperatamente sapendo che non aveva dietro di sé più nessun rincalzo.

I soldati, prima di partire, prestavano il seguente giuramento di rito: "Ubbidirò ai miei capi ed eseguirò i loro ordini".
Rigorosissima era la disciplina e le pene che si applicavano a coloro che non la rispettavano; andavano dalla fustigazione alla decimazione, mentre gli atti di valore al contrario erano solennemente premiati. Al manipolo che aveva preso per primo, assediandola, una città si conferiva la corona ossidionale, a chi salvava la vita ad un cittadino durante la battaglia la corona civica, a chi scalava per primo le mura nemiche la corona murale, a chi per primo penetrava nel campo nemico la corona vallare.
Per i capi dell'esercito, oltre le corone, c'erano l'ovazione e il trionfo.
Premio collettivo alle truppe vittoriose era la distribuzione del bottino, il quale qualche volta, soprattutto quando era ingente, come ad esempio fu a Vejo, era destinato, tutto o, in parte, alle casse dello stato.
Ad eserciti così sapientemente organizzati, comandati inoltre da valenti capitani -che la selezione faceva automaticamente emergere di volta in volta- ed animati da altissimo amor di patria, da nobili sensi d'emulazione e di sacrificio, rotti ai disagi e abituati ai pericoli, non poteva, tutte le volte che si cimentavano con i nemici -molto spesso composti da una improvvisata marmaglia e di occasionali comandanti -non arridere la vittoria.

Con questa organizzazione, con la seconda decade del suo quinto secolo, Roma inizia non più a tutelare se stessa dalle aggressioni dei vicini, fino allora avvenute nel Lazio, e che ha ormai quasi interamente sottomesso, ma dà inizio a guerre di conquista fuori dal Lazio.
E la prima di queste guerre, è quella SANNITICA.

Ed è con questa che diamo inizio alla storia del

periodo che va dall'anno 343 al 330 > > >

 

Fonti, Bibliografia, Testi, Citazioni: 
TITO LIVIO - STORIE (ab Urbe condita)
APPIANO - BELL. CIV. STORIA ROMANA
DIONE CASSIO - STORIA ROMANA 
PAOLO GIUDICI - STORIA D'ITALIA 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
I. CAZZANIGA , ST. LETT. LATINA, 
+ altri, in Biblioteca dell'Autore 

 


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