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CRONOLOGIA

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( QUI TUTTI I RIASSUNTI )  RIASSUNTO ANNO 265-219 a. C.

GUERRE ILLIRICHE E GALLICHE - ROMA PASSA IL PO

RIFORMA DELLA COSTITUZIONE SERVIANA - IL SISTEMA PROVINCIALE - PRIMA GUERRA ILLIRICA- PACE CON LA REGINA TEUTA - LA GUERRA CONTRO I GALLI - SPEDIZIONE CONTRO I LIGURI - DISCESA DEI GALLI - BATTAGLIE PRESSO FIESOLE E CHIUSI - BATTAGLIA DEL CAPO TELAMONE - I ROMANI NELLA GALLIA CISALPINA - IL CONSOLE FLAMINIO OLTRE IL PO - BATTAGLIA DI CLASTIDIO - CADUTA DI MEDIOLANO - COLONIE ROMANE NELLA GALLIA CISALPINA - SECONDA GUERRA ILLIRICA
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RIFORMA DELLA COSTITUZIONE SERVIANA

Dopo la disfatta punica alle Egadi, a Roma -il preciso anno non si conosce, ma dovrebbe essere il successivo alla sconfitta, il 240 a.C.- il Senato effettuò importanti mutamenti nella "costituzione serviana".
Dopo la conquista della Sicilia, con consoli C.AURELIO COTTA e M. FABIO BUTEONE, fu concesso alle città della penisola, che fino allora n'erano rimaste prive, il diritto del suffragio e furono create due nuove tribù, la Velina e la Quirina", dove i nuovi cittadini furono iscritti.

Fu dunque, a partire da quell'anno, che si mise mano e si modificò la "Serviana"; la resero più liberale e diedero alle centurie un carattere politico. Ognuna delle trentacinque tribù di cittadini fu divisa in dieci centurie, cinque formate da anziani (seniores) e cinque da giovani (juniores), secondo il censo, vale a dire due centurie per classe. Risultò così un numero di trecentocinquanta centurie senza contare le diciotto dei cavalieri; ed ogni classe fu composta di settanta centurie, eccettuata la prima che n'ebbe ottantotto aggiungendo quelle dei cavalieri.
Dal momento che per ottenere la maggioranza occorrevano centottantacinque voti, si doveva ammettere alla votazione anche la terza classe, che era quella che decideva. Pertanto non era più la prima classe - come accadeva per il passato - ad avere la preponderanza sulle altre.
Con questa riforma, si andava verso l'uguaglianza delle varie classi nei comizi centuriati e verso l'eliminazione della superiorità che prima i più ricchi millantavano solo senza avere delle grandi virtù e capacità. Anche un idiota, purché figlio di un nobile, sedeva sugli scanni, ma sempre un idiota rimaneva quando i problemi erano complessi e occorrevano decisioni audaci. E lo abbiamo ben visto alla vigilia della guerra in Sicilia, nel tergiversare sulla questione morale dei Mamertini, quando spesso loro stessi erano dei mamertini senza scrupoli, pur di conquistare il potere.

Le guerre erano dolorose per il popolo e per i militari, ma creavano sempre più democrazia; con la fama che si guadagnavano i comandanti, spesso di origine plebea, erano questi poi -con il consenso del popolo- a salire nelle alte cariche dello stato.

IL SISTEMA PROVINCIALE

Conquistata la Sicilia, si diede subito mano al suo assetto politico amministrativo, creando quel sistema che fu detto "provinciale".
Escluse Siracusa e Messana, che rimasero indipendenti ma erano alleate di Roma, tutto il resto dell'isola divenne una provincia; la prima provincia romana, e fu affidata alle cure di CAJO LUTAZIO CATULO, il quale applicò l'ordinamento insieme con dieci legati, seguendo la politica che ultimamente Roma aveva adottata nelle terre conquistate della penisola.

II suolo siciliano divenne proprietà pubblica ("ager publicus") ma si lasciò tuttavia all'uso dei vecchi proprietari, che però furono obbligati a pagare la decima. Anche ai commercianti negli scambi fu imposta una tassa nella misura del cinque per cento del valore delle merci.
Fra tutte le città della Sicilia Panormo (Palermo) ebbe un trattamento di favore e divenne la capitale dell'isola. La Sicilia, per molti anni, fu amministrata da uno dei consoli che si faceva rappresentare da un suo delegato ("quaestor").
Con il tempo, quando le province esterne alla penisola aumentarono di numero, l'amministrazione si affidò ai "pretori" i quali si chiamarono "peregrini"; in seguito si stabilì che le province fossero amministrate da consoli e pretori usciti di carica, con il titolo di proconsoli e propretori.

Nella Sicilia, come del resto nelle altre province fuori della penisola e nelle regioni della penisola stessa, Roma con saggia politica rispettò le tradizioni, e mantenne le magistrature locali, ma ogni cosa sottopose alla sorveglianza del suo rappresentante. Però, per colpa specialmente della prepotenza e dell'ingordigia dei governatori, in seguito, l'applicazione del sistema coloniale fu causa di malcontenti e angherie, dovuti in primo luogo ai "pubblicani" che avevano in appalto le imposte provinciali e che, spogliando i sudditi, corrompendo i governatori e i cittadini romani più influenti, dovevano rendere odioso il nome di Roma a molti dei suoi sudditi.

RIVOLTA DEI MERCENARI CARTAGINESI

La lunga e disastrosa guerra sostenuta con Roma, aveva costretto Cartagine a disfarsi delle sue numerose truppe mercenarie. Ma bisognava prima pagarle. Riunite prima nella capitale, poi a Sicca (Kef) sul Bragada, il governo cercò per qualche tempo di tenerle a bada, ma non vi riuscì.
Sobillati da due, caporioni, SPENDIO e MATOS, i mercenari si ribellarono e spinsero alla rivolta, tutte le città della Libia. Soltanto Utica ed Ippona non aderirono e furono assediate da un esercito ribelle di oltre settantamila uomini.

La lotta che Cartagine dovette sostenere con i rivoltosi durò tre anni, poi la discordia dei ribelli e l'abilità di AMILCARE BARCA ebbero ragione della rivoluzione.
Roma che durante questo travaglio della sua rivale aveva mantenuto un contegno corretto ed una neutralità piuttosto benevola per Cartagine, quando i suoi mercenari della Sardegna, cacciati dai locali, si rivolsero al Senato perché li aiutasse a riavere l'isola, intervenne in loro aiuto; ma non certo per fare la generosa con i mercenari, o la disinteressata; anzi guardò proprio i suoi interessi; ed, infatti, prima unendosi ai ribelli, poi esautorandoli, nel 236 a.C. era già padrona della Sardegna.
Nel 234, a Roma si celebrarono i Fasti, con i consoli T. MANLIO TORQUATO e C. ATTILIO BULBO per la vittoria sui Sardi.

Cartagine allora non protestò, ma l'anno dopo, vinti i ribelli in casa, chiese a Roma la restituzione della Sardegna; anche perché non era stata certo Cartagine a provocare la cacciata dei mercenari, né questi che erano dei ribelli, (come quelli che stava affrontando in casa) agivano per conto di Cartagine. Aiutare i mercenari ribelli - dissero indignati- si dava appoggio a dei banditi che la stessa Cartagine stava combattendo.

Per tutta risposta il Senato le dichiarò la guerra e Cartagine, sotto la minaccia, si vide costretta a cedere l'isola e a pagare pure un'indennità di centoventi talenti.
Venuta in possesso della Sardegna, Roma creata qui una testa di ponte si rivolse alla vicina Corsica, dove possedeva già Aleria, e tentò di impadronirsene; ma per ben otto anni dovette lottare sia contro i Sardi sia con i Corsi, che già insofferenti dei cartaginesi, indipendenti com'erano non volevano cadere sotto un altro giogo come quello romano; tentarono insomma di liberarsene con una tenace volontà. Ma la lotta era impari e alla fine entrambe le due isole furono sottomesse nel 227 a.C..
Le due isole costituirono la seconda provincia romana.

PRIMA GUERRA ILLIRICA

Le due isole del Tirreno, avevano appena iniziata la lotta, quando un'altra guerra si accendeva nell'Adriatico, causata dalle piraterie delle popolazioni illiriche.
Depredare, fare i corsari per loro era un normale mestiere; un'attività appoggiata perfino dal loro Re; di modo che, così facendo, avevano esteso il loro dominio fino all'Adriatico meridionale ed ora infestavano l'Epiro, le isole dello Jonio, le coste pugliesi, assalendo le navi, i porti, danneggiando il commercio che le città esercitavano nel mezzogiorno d'Italia e nell'Egeo.

Roma, ora che aveva le sue colonie quasi sull'intera costa adriatica, da Rimini a Taranto, volendo mettere fine a questo stato di cose, salpando da Brindisi, inviò a Scodra (Scutari), dove risiedeva la regina TEUTA, vedova del re AGRONE, e che reggeva lo Stato in nome del figlio minorenne PINNE, i fratelli CAJO e LUCIO CORUNCANIO affinché ammonissero la regina di reprimere la pirateria; ma Teuta rispose che quella era un'attività non punita dalle leggi del suo Stato e, avendo Lucio Coruncanio affermato che "ci avrebbe pensato Roma a dare all'Illiria delle leggi più civili", fece assassinare l'ambasciatore.
Se Roma andava cercando un pretesto, con l'assassinio di Lucio, ora il motivo era più che legittimo per scatenare una guerra; con due scopi: eliminare la pirateria e mettere un piede sull'altra sponda.

La guerra fu dichiarata e nella primavera del 229 a.C. furono inviati contro il nuovo nemico i due consoli GNEO FULVIO CENTUMALO e POSTUMIO ALBINO con una flotta di duecento navi e un esercito di ventimila fanti e duemila cavalieri.
Assalita Corcira (Corfù), questa fu consegnata ai Romani dal comandante DEMETRIO di Faro (un avventuriero che era al servizio di Teuta, che passò dalla parte dei Romani e che fu poi premiato affidandogli il governo delle isole).
Poi i consoli ridussero in loro potere Epidanno (Durazzo), Issa (Lissa) ed Apollonia, e si spinsero fino a Scodra, portando il terrore nel territorio della regina da indurla a chiedere la pace.
Le condizioni furono le seguenti: Teuta doveva lasciar libere le città greche e dalmate conquistate; doveva pagare un tributo annuo a Roma e impegnarsi che nessuna nave da guerra illirica e non più di due mercantili si spingessero oltre Lisso (tra Scutari e Durazzo)
Con questa guerra Roma si affermava nell'Adriatico, si annetteva alcuni luoghi, dava a Demetrio da governare le isole e le coste dalmatiche, rendeva suo tributario un regno e si acquistava molte simpatie presso le popolazioni greche, le quali consapevoli della sua potenza sempre crescente, cominciavano a considerarla come una loro protettrice.
Corinto come manifestazione di gratitudine per aver liberato i mari dai pirati concede ai Romani la partecipazione ai giochi istmici, e Atene li ammette ai Misteri eleusini. Equiparando così Roma ad una città greca.

LA GUERRA CONTRO I GALLI

Mentre Roma era intenta con le armi a ridurre alla sua obbedienza i Sardi e i Corsi e a punire le ribalderie delle popolazioni illiriche, un grave pericolo la minacciava dal nord, dove i Galli tentavano di riconquistare i territori perduti.
I Boi effettuavano da qualche tempo continue scorrerie nelle terre cadute sotto il dominio romano: Faleria, da loro sobillata, si era nel 241 a. C. ribellata; ma, investita con fermezza dalle truppe della repubblica, dopo sei giorni si era arresa ed era stata distrutta; alcuni anni più tardi, i Boi, unitisi ai Gesati, popolo del Rodano, erano apparsi davanti ad Arimino (Rimini), ma, anziché assediarla, si erano scontrati con i locali in una furiosa battaglia, che non vinsero né persero, ma, stremati dalla fatica, rinunciarono a continuare l'impresa.
Tutti questi fatti avevano indotto Roma a prendere energiche misure ai confini con l'Italia settentrionale, per stroncare già sul nascere delle ribellioni o degli attacchi.

Non si conosce per quale motivo fu inviato, ma già nel 236 a.C. il console CORNELIO LENTULO a Roma celebra un trionfo sui Liguri. E' il primo della serie nei confronti di questo popolo che si dimostra subito dotato di una tenace volontà di resistenza. Questo trionfo, molto probabilmente non era una vittoria, visto che l'espressione "trionfo ligure" diventò proverbiale presso i Romani per indicare un "trionfo fittizio".
Vero o falso quel trionfo, quella spedizione, è la prima di una lunga serie di veri trionfi dei comandanti romani su questo popolo stanziato fra l'attuale Toscana, Liguria, Lombardia, e Piemonte fin dal periodo Paleolitico e Neolitico, poi invaso dai Galli Insubri e Boi (così chiamati dai Romani tutti i Celti, raramente menzionando i Liguri che erano i veri abitanti).

Tre anni dopo, nel 233 a.C, il console QUINTO FABIO VERRUCOSO fu inviato contro i Liguri che in numerosi scontri sconfigge togliendo loro alcune terre; e l'anno seguente, su proposta del tribuno G. FLAMINIO fu approvata una legge con la quale si stabiliva di dividere alla plebe l'agro sottratto ai Galli, come se fossero questi gli abitanti di quei territori.

Ma queste misure, invece d'intimorire le popolazioni settentrionali, le irritarono ed i Galli (e probabilmente insieme anche i liguri che dovevano essere molto di più) si prepararono alla guerra. All'appello dei Boi (i primi ad essere coinvolti nella marcia verso il nord dei Romani) risposero i Taurisci, gl'Insubri ed ancora i Gesati; un esercito di cinquantamila fanti e ventimila cavalli fu raccolto per calare verso l'Italia centrale, per minacciare Roma, e quindi anticipando i Romani.
Roma all'annuncio di questi preparativi di guerra non si lasciò spaventare; nemmeno dal responso sfavorevole dei libri sibillini e da un fulmine caduto, come infausto augurio, sul Campidoglio. Con determinazione si preparò alla lotta.

DISCESA DEI GALLI NELLA PENISOLA

Correva l'anno 225 a.C ed erano consoli C. ATTILIO REGOLO E LUCIO EMILIO PAPO. La repubblica chiamò alle armi tutti i cittadini validi e gli Italici alleati o sottomessi e si narra che raccogliesse circa duecentomila soldati, fra i quali solo quarantamila erano Romani.
Essendo scoppiata una fiera rivolta in Sardegna, REGOLO fu inviato in quell'isola con un esercito di ventiseimila uomini. Mentre LUCIO EMILIO PAPO assunse il comando delle operazioni contro i Galli e con un esercito di ventimila soldati, al quale altrettanti Umbri si unirono lungo la via, marciò verso Arimino (Rimini)
Un forte esercito di Galli Cenomani e di Venedi, popolazioni che invece avevano sposata la causa di Roma, si accampava intanto minaccioso ai confini dei Boi, mentre un altro esercito di Etruschi e Sabini, si preparava a impedire al nemico il passo dell'Etruria. Un ultimo esercito, infine, rimaneva come riserva a Roma.

Il formidabile esercito di barbari calò in Etruria, valicando gli Appennini. Alla loro marcia si oppose l'esercito Etrusco-Sabino nelle vicinanze di Fiesole, ma invano; perché le orde barbariche ebbero, nella battaglia che ne seguì, il sopravvento e, sconfitte le truppe del pretore, proseguirono il loro cammino, saccheggiando (ma perdendo tempo) i territori fino a Chiusi.
Qui ad aspettare i nemici vi erano già le schiere superstiti dell'esercito che era stato battuto a Fiesole, subito rinforzato da altre truppe spedite in gran fretta da Roma.
Appena iniziato il combattimento, i Galli finsero di darsi alla fuga e si lasciarono inseguire dalle truppe dell'imprudente pretore, che caddero nell'agguato, e vi lasciarono seimila morti, mentre il resto dell'esercito sbaragliato cercò di salvarsi rifugiandosi sulle alture vicine.

BATTAGLIA A CAPO TALAMONE

A risollevare le sorti delle armi romane in Etruria ci pensò il console EMILIO PAPO, il quale, stimando inutile le sua presenza ad Arimino e appreso della marcia del nemico attraverso il territorio etrusco verso Roma, si precipitò in difesa della capitale seriamente minacciata.
La notizia del suo avvicinarsi disorientò o spaventò i Galli, in ogni caso, anziché continuare la loro marcia verso Roma, o aspettare a scontrarsi con le truppe consolari, decisero di ritirarsi verso le loro regioni per mettere al sicuro l'immenso bottino già razziato e, lasciata Chiusi, si affrettarono al ritorno lungo la valle dell'Ombrone, inseguiti a non molta distanza dall'esercito del console EMILIO PAPO, e giunsero presso il capo Talamone (nei pressi dell'odierna Orbetello).

Le loro avanguardie erano appena arrivate presso la foce dell'Ombrone, quando improvvisamente le prime pattuglie di cavalieri di un esercito romano si presentarono minacciosi davanti a loro.
Ma non erano le punte avanzate di un altro esercito consolare, né quello di Emilio; ma di ATTILIO REGOLO.
Ritornando dalla Sardegna, Regolo era stato spinto dai venti contrari sulle coste etrusche e vi era sbarcato con il proposito di marciare verso Arimino e congiungersi al collega; ma, appreso che i Galli avevano invaso l'Etruria, cambiato programma, si era messo in cammino con le sue legioni seguendo il litorale, giungendo così nei pressi dell'attuale Grosseto, quindi a nord dell'Ombrone dov'erano giunti a loro volta le avanguardie dei Galli.

Vista la via della ritirata sbarrata dal nuovo esercito, i Galli cercarono di aprirsi il passo con le armi, ma, mentre si affaticavano in quest'inutile tentativo, ecco sopraggiungere EMILIO PAPO. La situazione del nemico era ormai disperata: in mezzo a due eserciti, non gli rimaneva che arrendersi o ingaggiare la lotta.

I barbari si appigliarono a quest'ultima scelta. Sopra un'altura, sotto la custodia di un forte contingente di uomini, accantonarono tutto il bottino da una parte, poi effettuarono un doppio schieramento; uno, composto dai Boi contro Attilio Regolo, l'altro da Insubri e Gesati contro Emilio Papo.

La battaglia iniziò e continuò accanita; poi la sorte la decisero prima i saggitari di Emilio, che arrestarono l'impeto dei Gesati, poi la cavalleria di Regolo, che, scesa all'improvviso da un colle, travolse prima i Boi poi gli Insubri sbaragliandoli.
Quarantamila Galli rimasero uccisi in quella drammatica (e memorabile per i Romani) giornata, fra i quali il generale barbaro ANEROESTE, che si tolse la vita non sopportando di essere stato sconfitto; diecimila furono fatti prigionieri e fra questi l'altro generale, di nome CONCOLITANO. Ma anche i Romani subirono forte perdite, e dolorosa più di ogni altra fu la morte di ATTILIO REGOLO, che era stato il vero artefice della vittoria.
La disfatta dei Galli aprì il loro territorio ai Romani e fu lo stesso esercito di EMILIO PAPO a invaderlo e a saccheggiarlo.
Al ritorno, Roma celebrò in suo onore uno splendido trionfo e le catene d'oro, che abitualmente indossavano i capi barbari, conquistate a Telamone, furono deposte nel tempio di Giove sul Campidoglio.

I ROMANI NELLA GALLIA CISALPINA

Quella di EMILIO PAPO nel territorio dei Galli era stata tuttavia una semplice scorreria, non una vera e propria conquista; quindi ora - ridotta la forza gallica- occorreva imporre a quelle popolazioni il dominio romano.

A questo scopo, nell'anno seguente (224 a.C.), allestiti due eserciti, comandati dai consoli TITO MANLIO TORQUATO e QUINTO FULVIO FLACCO, penetrarono nelle terre dei Boi; ma questi non opposero quasi nessuna resistenza e fecero atto di sottomissione.
A quel punto Roma, l'anno successivo 223 a.C.) volle proseguire le operazioni di guerra nell'Italia settentrionale, rivolgendo le armi contro i Liguri e gl'Insubri. Erano consoli PUBLIO FURIO FILO e C. FLAMINIO. Il primo fu inviato in Liguria, il secondo arditamente superò il Po presso la confluenza dell'Adda; fortemente ostacolato dal nemico, pose il campo sulla riva sinistra, ma fu poi costretto ad arretrare spingendosi oltre il Chiese, nelle terre degli amici Cenomani (Celti anche questi stanziati nei pressi del Lago di Garda fra Verona e Brescia); non era una ritirata, ma una semplice precauzione, era una strategia dettata dalle circostanze.
Ma a Roma gli strateghi "da tavolino" la ritennero una defezione, e preoccupato dall'insuccesso del console, il Senato gli spedì l'ordine di far ritorno immediatamente a Roma. Ma nel frattempo FLAMINIO, organizzatosi meglio e rinforzato dall'esercito di Furio Filo, era ritornato nel territorio degli Insubri, che in cinquantamila erano andati ad accamparsi sulla riva destra dell'Oglio.

Passato il fiume, gli eserciti consolari si trovarono di fronte alle truppe nemiche e furono costrette ad accettare battaglia. - Questa, nonostante la posizione più sfavorevole dei Romani che avevano il fiume alle spalle, fu ugualmente vinta dalle legioni guidate dal console.
Solo alla fine del combattimento FLAMINIO gli giunse e apprese l'ordine del Senato che lo richiamava in patria; e ritornò a Roma. Qui il Senato aveva già deciso di metterlo sotto giudizio per disobbedienza; Flaminio invece forte della vittoria riportata, e che era tutto merito suo, chiese al popolo il trionfo e lo ebbe, poi si dimise dalla carica.

BATTAGLIA DI CASTEGGIO E CONQUISTA DI MEDIOLANO (222 a.C.)

Dall'Insubria a Roma giunsero proposte di pace, ma avendo il Senato imposto come condizione la completa sottomissione della regione, gl'Insubri, che volevano mantenere la loro indipendenza, si rifiutarono e scesero ancora in campo per difendere con un disperato sforzo la loro patria.
In loro soccorso giunsero trentamila Gesati, sotto il comando del loro re VIRIDOMARO (o Britomarto).
Roma inviò prontamente contro di loro i consoli M. CLAUDIO MARCELLO e GNEO CORNELLO SCIPIONE CALVO. Questi, giunti nell'Insubria, misero in assedio Acerra, presso la quale posero il campo che munirono di forti trinceramenti.
Per costringere i Romani a levare l'assedio, i Galli invasero il territorio degli Ammari, popolo di stirpe gallica che da poco si era schierato dalla parte di Roma; ma non riuscirono nel loro intento, perché gli eserciti consolari rimasero ad Acerra e solo Marcello con poche truppe andò incontro al nemico.

I Gesati furono attaccati a Clastidio (Carteggio) e nello scontro, subirono una sanguinosa disfatta: il loro re Virdomaro trovò la morte sul campo di battaglia; ma altri storici affermano che fu ucciso in singola tenzone da Claudio Marcello.
Questa vittoria causò la resa di Acerra e la ritirata degl'Insubri verso Mediolano (Milano), capitale della loro regione.
Ma anche questa città ben presto cadde in potere dei Romani, perché il console SCIPIONE, inseguito il nemico nella sua ritirata, lo raggiunse sotto le mura di Mediolano e, nonostante gl'Insubri si battessero disperatamente; li mise in piena rotta, costringendoli ad abbandonare la città e riparare a nord verso i monti.
Con la conquista di Mediolano, la Gallia Cisalpina cadde tutta nelle mani dei Romani e nel 228 a.C. grazie all'opera di C. Flaminio, si stabilì di creare sul territorio le colonie di Placentia e di Cremona.
Dopo la Sicilia e la Sardegna, la Gallia cisalpina diventa la terza provincia romana.
Il territorio con il nome "Italia" che comincia ad essere esteso a tutti i territori romani, che era rimasto a lungo sul fiume Aesis (Esino, a N. di Ancona), si trova ora fissato al Rubicone (pochi chilometri a nord di Rimini) che segnerà d'ora in avanti il confine dello Stato con al Gallia Cisalpina fino all'avvento di Cesare.

LA SECONDA GUERRA ILLIRICA

Mentre Roma era impegnata con i Galli, TEUTA, regina degli Illiri e tributaria dei Romani, era morta. DEMETRIO di FARO, un avventuriero prima al soldo di Teuta, che però si era alleato con la repubblica, aveva collaborato al successo romano, e in premio ricevuto il governo delle isole e delle coste della Dalmazia, sobillato da Filippo il Macedone, si era ribellato ed aveva messo sotto la sua tutela il giovine Pinne, erede del trono d'Illiria; inoltre si era messo lui a fare il pirata sulle coste
A punire Demetrio, il Senato inviò nel 219 il console LUCIO EMILIO PAOLO, che mise sotto assedio la piazzaforte di Dimale e dopo sette giorni con la forza la costrinse alla resa.
La capitolazione di Dimale ebbe per effetto la spontanea sottomissione di tutta l'Illiria. Fortificatosi nell'isola di Faro (Lesina), Demetrio tentò di opporre resistenza al console, ma questi ebbe ragione delle modeste forze del ribelle, e lui si salvò rifugiandosi alla corte di Filippo di Macedonia.

Così l'Illiria cadde in potere di Roma, vi fu costituita una prefettura, e tutto l'Adriatico diventò un mare romano.
Queste conquiste, se preoccupavano non poco la Macedonia che era alle spalle dell'Illiria, per Roma questi successi erano appena il preludio di una nuova politica che guardava in Oriente; una politica che avrebbe avuto senza dubbio subito rapidi sviluppi se Cartagine la sconfitta, non avesse rialzato il capo con un esercito guidato da un uomo che doveva seriamente minacciare l'esistenza stessa della repubblica.

Del resto quella pace stipulata nel 241 a.C. dopo la disfatta alle Egadi, non era stata fatta in comune accordo, ma dai Cartaginesi sofferta e a condizioni molto pesanti; non perché Cartagine non avesse risorse, ma per le lotte intestine fra democrazie e aristocrazia che la straziavano, ma che ben presto si resero conto del danno che avevano provocato alla patria; inoltre ai Cartaginesi mancava un vero condottiero, o meglio, un dittatore. Nel 219 a.C. trovarono entrambe le due cose: la concordia e il condottiero.

Iniziò così la seconda GUERRA PUNICA.

il periodo dall'anno 219 al 216 > > >

Fonti, Bibliografia, Testi, Citazioni: 
TITO LIVIO - STORIE (ab Urbe condita)
POLIBIO - STORIE
APPIANO - BELL. CIV. STORIA ROMANA
DIONE CASSIO - STORIA ROMANA 
PAOLO GIUDICI - STORIA D'ITALIA 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
I. CAZZANIGA , ST. LETT. LATINA, 
+ altri, in Biblioteca dell'Autore 

 


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