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CRONOLOGIA

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( QUI TUTTI I RIASSUNTI )  RIASSUNTO ANNO 146-129 a. C.

RIVOLTE IN SPAGNA - VIRIATO L'EROE - NUMANZIA DISTRUTTA

RIVOLTE IN SPAGNA - VICENDE DELLA GUERRA ISPANICA - IMPRESE DI EMILIO PAOLO, CATONE E CALPURNIO PISONE - MALVAGITÀ DI LUCULLO E SULPICIO GALBA - CELTIBERI E LUSITANI - VIRIATO, L'EROE DELLA LUSITANIA - IMPRESE E MORTE DI VIRIATO - I ROMANI PADRONI DELLA PENISOLA IBERICA - LA GUERRA NUMANTINA - SCIPIONE EMILIANO ASSEDIA E DISTRUGGE NUMANZIA - CONQUISTA DELLE BALEARI - ROMA EREDE DEL RE DI PERGAMO - LE PROVINCIE ROMANE
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RIVOLTA DEI POPOLI DELLA SPAGNA

Più dura e più lunga fu la guerra che i Romani dovettero sostenere nella Spagna. Cacciati i Cartaginesi, Roma aveva formato con i territori spagnoli conquistati due province: la Citeriore che comprendeva la Catalogna e Valencia; la Ulteriore costituita dall'Andalusia.
Le popolazioni di quelle regioni consegnatisi a Roma per la promessa avuta di esser liberate al giogo cartaginese, si erano mantenute fedeli alla Repubblica fino a quando durò la seconda guerra punica, temendo di ritornare sotto il dominio degli Africani; ma accortesi, dopo la battaglia di Zama (anno 202), che da un giogo erano passate sotto un altro, avide com'erano d'indipendenza, si ribellarono.
Prima a sollevarsi fu, la Spagna Citeriore, la quale, sconfitti i Romani ed ucciso in battaglia il console SEMPRONIO TUDITANO, riacquistò in brevissimo tempo la sua libertà.
A sottomettere gli Spagnoli Roma destinò allora, nella penisola Iberica il console MARCO PORCIO CATONE con una flotta di venticinque navi, due legioni e quindicimila italici. Sbarcato ad Emporia, Catone condusse la guerra con grande abilità ed energia. In una battaglia campale sconfisse duramente i ribelli, i quali - narra Valerio Anziate- persero quel giorno quarantamila uomini, e in breve tempo riconquistò a Roma tutta la provincia, le cui città consegnarono le armi e furono costrette a demolire le proprie mura.

Catone, di ritorno in Italia, celebrò il trionfo, ma era da poco partito quando la Spagna si ribellò una seconda volta. Fra i popoli che avevano inalberato il vessillo della rivolta erano i Lusitani, abitatori del Portogallo, e i Celtiberi, che abitavano l'Aragona e la Castiglia.
Gli eventi che seguono, li riprenderemo più avanti.
Prima torniamo indietro di qualche anno, ripartendo dal 215 a.C.

Quell'anno, contro i Lusitani, combatté duramente il pretore PUBLIO CORNELIO SCIPIONE che, presso Dertosa, in una battaglia accanita sconfisse i nemici, ne uccise dodicimila e conquistò centotrentaquattro insegne; ma quattro anni dopo nel 211 a.C. fu sconfitto e ucciso lui e il fratello da Asdrubale Barca.
L'anno dopo a Roma piuttosto allarmata, nell'allestire una nuovo esercito, a comandarlo con una forte determinazione, il futuro "SCIPIONE l'AFRICANO, per vendicare, padre e zio. Nel 209 sferra l'offensiva e occupa Cartagena, ingraziandosi molte popolazioni iberiche. L'anno dopo, 208, vince a Becula, e Asdrubale Barca lascia la Spagna per unirsi in Italia al fratello Annibale.
Nel 206 Scipione coglie la vittoria a Ilipa contro le residue forze cartaginesi e in conseguenza di queste ultime vittorie i Romani occupano Cadice e fondano la colonia Italica, poco a nord dell'attuale Siviglia; poi Scipione torna in Italia e nel 204 convince il Senato che per annientare i Cartaginesi bisogna portare la guerra in Africa, nella loro capitale.

Nel frattempo, mentre Scipione si prepara e va a cogliere i successi a Cartagine; il Senato romano, in Spagna organizza - come già accennato sopra- i territori controllati dalle legioni romane, in due province, la Citeriore con centro la valle dell'Ebro, e la Ulteriore, con centro nella valle del Baetis (odierno Guadalquivir).

Più che la suddivisione ai locali non piace i "controllori" che iniziano a comportarsi come padroni, peggiori dei primi. Iniziano alcune ribellioni e contro gli Oretani si misurò CAJO FLAMINIO che strappò loro la città di Ilucia nella Provincia Citeriore; contro i Vaccei, i Vettoni e i Celtiberi marcia il pretore MARCO FULVIO che riportò presso Toledo una grande vittoria. Ma questi successi dei Romani non furono sufficienti a domare la rivolta che divampò ancora più violenta di lì a poco. Furono i medesimi pretori FLAMINIO e FULVIO a ricondurre le legioni contro i ribelli con un po' di fortuna: il primo espugnò a viva forza la città di Litabro, il secondo conquistate Viscelia, Olone, Noliba, Cusibi e Toledo, sconfissei una seconda volta i Vettoni.

Dopo queste vittorie delle armi romane cominciò una lunga serie di successi ma anche di sconfitte. Mai si batterono così accanitamente gli Spagnoli ribelli, che inflissero agli eserciti di Roma dolorosissime perdite.
I Lusitani nel 563 (191 a.C.) riportano una vittoria sul console LUCIO EMILIO PAOLO, che fu costretto a fuggire dopo aver lasciato seimila uomini sul campo di battaglia; due anni dopo, Emilio Paolo sconfigge i Lusitani, ne uccide oltre ventimila ed espugna più di duecento tra città e villaggi.
Vinti da MARCIO ACIDINO, che ne uccise dodicimila, i Celtiberi uniti coi Lusitani nel 569 (185 a.C.) furono loro a riportare un notevole successo sul pretore CAJO CALPURNIO PISONE, massacrandogli cinquemila soldati; ma poi più tardi, sulle rive del Tago, sono sbaragliati dal medesimo Calpurnio che si rifà della disfatta precedente con una vendicativa rivincita.
Queste sconfitte e vittorie durano fino al 575 (179 a.C.) quando il vicepretore FULVIO FLACCO, aggredito dagli Spagnoli mentre sta per condurre a Terragona l'esercito per consegnarlo al nuovo preconsole Tiberio Sempronio Gracco, reagisce facendo un macello di nemici, che lasciarono sul terreno diciassettemila morti e tremila prigionieri.

L'arrivo di TIBERIO SEMPRONIO GRACCO pose però fine alla guerra, durata diciotto anni. Gracco, oltre che un valente capitano è un saggio uomo politico. Prima doma la rivolta con le armi, impiegando nelle operazioni di guerra la massima energia, ma senza commettere vendicativi eccidi o punitive stragi; poi assicura la pace per mezzo di saggi provvedimenti: fa entrare al servizio di Roma i nobili Celtiberi, distribuisce terre ai poveri, stipula trattati con le popolazioni, fa cessare le rapine e crea un'equa e onesta amministrazione.

Il saggio sistema adottato da TIBERIO SEMPRONIO GRACCO fece sì che per venticinque anni la quiete regnò in Spagna e sarebbe durata certamente di più se il malgoverno dei successivi pretori romani, che si distinsero tristemente per le ruberie, le uccisioni e le vessazioni di ogni sorta, non avesse generato nelle oppresse popolazioni spagnole un malcontento tale da indurle a cercar la fine di tante ingiustizie e crudeltà con la rivolta.

I CONSOLI NOBILIARE, MARCELLO E LUCULLO IN ISPAGNA

Primi a ribellarsi furono i fieri Celtiberi nel 154. Avendo il pretore romano proibito che ampliassero e fortificassero la città di Segeda, insorsero con le armi in mano ed unitisi ai Lusitani marciarono sotto il comando di un certo PUNICO, contro le truppe dei pretori delle due province e le sbaragliarono.
La notizia di questi fatti irritò Roma. Per vendicare la disfatta e per impedire che la rivolta prendesse più vaste proporzioni i1 Senato anticipò di due mesi l'anno consolare 153 - il quale da allora cominciò con il l° gennaio anziché con il l° marzo - e inviò nella Spagna Citeriore il console QUINTO FULVIO NOBILIORE con un esercito di trentamila uomini e dieci elefanti.

Il console mosse contro gli Arevaci, che erano guidati da CARO di SEGEDA, ma il 23 agosto dello stesso anno 153, le legioni romane, scontratisi in battaglia con il nemico, furono sconfitte e poco tempo dopo, attirate con l'astuzia sotto le mura di Numanzia, subirono una seconda disfatta. A questo punto le legioni romane erano in serie difficoltà, e allora il Senato mandò contro i ribelli un altro console e precisamente M. CLAUDIO MARCELLO, valente capitano e competente delle cose di Spagna dove, in qualità di pretore, era stato quindici anni prima, quando vigeva una certa serenità e meno vessazioni e ruberie.

MARCELLO era pure stato anni prima un ammiratore del saggio Tiberio Sempronio Gracco, ed era della sua opinione che, non con la violenza, ma soltanto con una saggia politica ed un onesto governo si poteva mantenere il dominio sulle indomite e fiere popolazioni della Spagna. Giunto nella penisola Iberica, anziché combattere contro i ribelli, il console intavolò trattative con gli Arevaci e riuscì a persuaderli ad inviare ambasciatori a Roma per stabilire le condizioni della pace.
Ma l'operato di Marcello non ebbe l'approvazione del Senato, il quale non volle sentir parlare di pace con i ribelli (che difendevano la loro terra) e stabilì che il console (troppo pacificatore) fosse sostituito dal collega LUCIO LICINIO LUCULLO.
Saputa la decisione del Senato e non volendo che il suo collega terminasse lui con una vittoria quella guerra, prima che Lucullo mettesse piede in Spagna, Claudio Marcello ruppe le trattative con gli Arevaci e marciò su Numanzia, sotto le cui mura assalì con decisione le forze degli Spagnoli, e le costrinse ad arrendersi a discrezione, ma senza commettere atti di vendetta.

Subito dopo però, giunse in Spagna Licinio Lucullo. Fra i tribuni del suo esercito vi era SCIPIONE l'EMILIANO che nel 152, noi abbiamo visto in Africa, mandatovi dal console per chiedere aiuti a Massinissa. LUCULLO, avendo trovato gli Arevaci sottomessi, volendo anche lui prendersi un trionfo o arricchirsi con un bottino, si mosse contro i Vaccei, popolazioni che abitavano le odierne province di Salamanca, Toro, Valladolid e Zamora, che non erano mai stati soggetti a Roma e contro la quale non avevano fino allora commesso nessun atto ostile.

Anziché rispettare questo popolo e guadagnarlo all'amicizia della Repubblica, il console senza un giustificato motivo, cinse d'assedio Cauca. I malcapitati abitanti, costretti con le armi, trattarono la resa della città offrendosi di pagare un tributo dietro promessa di avere salvi i beni e la vita; LUCULLO però non mantenne fede ai patti e, avido di ricchezze, saccheggiò quel territorio nel quale - si narra - perirono circa ventimila abitanti. Spaventati e per non seguire la sorte dei miseri cittadini di Cauca, i vicini abbandonarono i loro paesi e si rifugiarono sulle montagne portandosi dietro le cose di valore.
Sottomessa così crudelmente Cauca, LUCULLO marciò su Pallantia, capitale dei Vaccei, ma qui la fortuna non gli arrise. Vista la sorte toccata all'altra città, gli abitanti di Pallantia si difesero disperatamente costringendo il console a togliere l'assedio.
L'umiliato LUCULLO allora andò verso la Lusitania, dove gli abitanti, comandati da un certo CESARO, per difendersi da un assedio, in una controffensiva, avevano sconfitte le truppe romane uccidendo il pretore Calpurnio Pisone che le comandava e, unitisi ai Vettoni, avevano dato pure un durissimo colpo alle milizie di LUCIO MUMMIO, che nella drammatica battaglia ingaggiata, aveva lasciato sul campo novemila uomini.
In quel periodo nella Lusitania meridionale vi era il pretore SULPICIO GALBA che da circa un anno lottava con avversa fortuna contro le popolazioni che difendevano le loro terre e che non cedendole ai romani, erano considerati ribelli. Galba negli ultimi assedi aveva perfino subito delle cocenti sconfitte. Ma l'arrivo di LICINIO LUCULLO rialzò le sue sorti e quelle dell'esercito romano. Galba riprese la baldanza e Lucullo che cercava ad ogni costo gloria e bottini, i due assieme assalirono duramente i Lusitani infliggendo loro una tremenda disfatta.

Non contento della vittoria e gareggiando in perfidia con il suo console, GALBA, uomo feroce e senza scrupoli, volle vendicarsi degli scacchi precedentemente subiti, macchiandosi di un orrendo delitto. Con la persuasione e con le lusinghe gli riuscì di far deporre le armi a tre tribù, alle quali disse di voler concedere territori più ricchi. Settemila Lusitani prestarono fede alle parole del pretore e, disarmati, furono distribuiti in tre località diverse, una lontana dall'altra, poi improvvisamente, mentre nelle nuove terre erano già intenti al lavoro, furono assaliti dalle milizie di Galba e massacrati quasi tutti. Pochi i superstiti, di cui uno, parleremo più avanti, e che per una decina d'anni diventò il "castigatore" dell'esercito romano.

Più tardi (150- 149 a.C.) Lucullo e Galba, furono accusati giustamente di crudeltà e furono processati; ma Roma non era più la città di Fabrizio e di Curio Dentato. Scomparse erano molte virtù, la mala pianta dell'avidità delle ricchezze aveva messo radici anche negli ambienti dei magistrati e aveva cancellato ogni sentimento di onestà e di giustizia. Il console iniquo e il perfido pretore operando in quel modo in Spagna avevano accumulato ingenti tesori, e l'oro guadagnato con il sangue delle misere popolazioni, servì a corrompere i giudici e a procurare l'assoluzione a entrambi.

VIRIATO, L'EROE DELLA LUSITANIA

Siamo dunque arrivati al 147. Fra i superstiti della strage dei Lusitani, ordinata da Galba si trovava un valorosissimo guerriero di nome VIRIATO. Da giovane aveva fatto il pastore e il cacciatore. Era forte, robusto, agilissimo; abitualmente dormiva armato sulla nuda terra; sopportava le fatiche più dure, era insensibile al caldo e al freddo, abilissimo nel maneggiare la lancia e la spada, nell'adoperar l'arco e la fionda, instancabile camminatore ed insuperabile cavaliere.
I suoi costumi erano severissimi: si cibava frugalmente e sapeva digiunare quando il caso lo richiedeva; sdegnava i piaceri e fuggiva le mollezze; parco di parole, sapeva però avvincere e convincere con i suoi discorsi brevi, forti, incisivi, che erano l'espressione più potente del suo animo fiero e nobile, desideroso soltanto di libertà.
Si narra che, avendo sposata una giovane ricchissima, rifiutasse i cibi squisiti dello splendido convito nuziale e mangiasse soltanto del pane e della carne. Il ricco matrimonio concluso gli dava la possibilità di vivere tra gli agi; ma Viriato per nulla avrebbe cambiato il suo tenore di vita, per nessun palazzo avrebbe dato le caverne dei suoi monti e, terminata la cerimonia delle nozze, montò a cavallo, prese in groppa con sé la sua sposa e la condusse verso le dirupate montagne sulle quali lui era abituato a vivere e in mezzo a quelle voleva trascorrere il resto della sua esistenza, libera e selvaggia.

Dopo essere stato testimone delle orrende stragi fatte su un popolo che non aveva mai dato fastidio ai Romani, spinto da un ardente amore per la patria e la libertà della sua gente, VIRIATO giurò di vendicare le atroci offese recate dai Romani al suo paese e di liberarlo dagli invasori. Risoluto e tenace nei suoi propositi, si diede a predicare la rivolta, a rincuorare gli sfiduciati, a ravvivare l'odio contro i dominatori. Gli Spagnoli, con il cuore che sanguinava per le recenti sofferenze, convinti e trascinati dalle calde e appassionate parole del giovane, si unirono a lui, si armarono e prepararono la riscossa. In breve Viriato riuscì a raccogliere intorno a sé una numerosissima schiera di ribelli; creato loro duce, iniziò una lotta accanita per ridare la libertà alla sua patria.
Non fu una guerra di eserciti, ma una guerriglia spietata, cruenta, di un manipolo di gente fiera, decisa a scuotere il giogo; guerriglia che durò otto anni e che, messo in atto nei confronti della potentissima nazione e per i risultati che riscosse lasciò meravigliati tutti gli storici.
Sapendo di non potersi misurare in battaglia campale contro le straripanti forze dei Romani, VIRIATO divideva le sue schiere con le quali tormentava continuamente le legioni in marcia, gli accampamenti, i rifornimenti e gli esploratori. Lui montanaro, praticissimo dei luoghi piombava improvviso sulle milizie romane e scompariva rapidamente per ritornare di nuovo ad assalirle da un'altra parte. La rapidità e l'audacia erano le sue principali caratteristiche, dalle quali però non mancava mai la prudenza e il genio del condottiero.
In gran parte della Spagna per le sue gesta, la sua fama si era diffusa in ogni angolo del paese. Fin dalle sue prime azioni guerresche si era fatto subito conoscere come un uomo risoluto, ardimentoso ed abile, acquistandosi la fiducia dei ribelli ed ispirando terrore nel nemico.

Un esercito di diecimila Lusitani rifugiatosi sopra un'altura e accerchiato dalle milizie del pretore CAJO VETILIO, aveva perduto ogni speranza, gli uomini stavano già per capitolare, quando VIRIATO, levandosi a parlare, seppe infondere nei suoi compagni la fiducia. Ricordò le crudeltà di Lucullo e di Galba, disse loro che, arrendendosi, non avrebbero avuto salva la vita e che invece se ascoltavano i suoi consigli sarebbero riusciti non solo a liberarsi ma avevano molte probabilità di distruggere quelle stesse milizie di Vetilio.
I Lusitani, animati dalle parole di quell'uomo, si affidarono ciecamente a lui; dal quel momento Viriato divenne il capo del suo popolo. Divise i diecimila assediati in tanti manipoli e, ordinò ad ognuno di fuggire per vie e tempi diversi, ma poi radunarsi tutti nella foresta di Tribola. Lui con un migliaio di cavalieri favorì così la fuga alla spicciolata di tutto l'esercito, tenendo impegnate per due giorni, in un combattimento accanito, le milizie romane.
Quando fu sicuro che tutti avevano lasciato l'altura, Viriato corse a Tribola dove raggiunse gli altri. Sembrava la sua una fuga e quindi per non farselo scappare, lo inseguì il pretore con il suo esercito, ma Viriato, con i suoi diecimila uomini, messosi in agguato nel folto della foresta, prima lasciò che le legioni passassero, poi fece scattare la micidiale trappola e piombò all'improvviso alle loro spalle e ai due lati, compiendo una strage, e prendendo prigioniero lo stesso CAJO VETILIO (era l'anno 148 a.C.).

Fu questa la prima impresa che diede rinomanza all'eroe.
Viriato, proclamato re della Lusitania, non montò in superbia, mantenne la semplicità dei suoi costumi e fu perciò adorato da quanti amavano la libertà della patria.
VIRIATO riuscì ad ingrossare il suo esercito e divenne il terrore dei Romani. Il pretore CAJO PLAUZIO, andato contro gl'insorti, si lasciò pure lui attrarre imprudentemente in un'altra diabolica insidia tesa da Viriato alla riva destra del Tago e qui, circondato, perse anche lui la vita e le truppe.
Un altro pretore, CLAUDIO UNIMANO, fu mandato contro il montanaro lusitano, ma pure lui fu sconfitto e sorte migliore non ebbe CAJO NIGIDIO.

Distrutta Cartagine e sottomesse la Macedonia e la Grecia, Roma, nel 145, disimpegnati gli eserciti, si preparò ad inviare nella Spagna due legioni al comando di QUINTO FABIO MASSIMO EMILIANO.
Viriato pensò allora di unirsi ai Celtiberi nella comune lotta contro il nemico, ma questi, combattuti da QUINTO CECILIO METELLO il Macedonico, non riuscirono a fornirgli aiuti e fu costretto a far fronte con le sole sue forze a Quinto Fabio.
Nonostante l'esiguo numero delle sue truppe, il lusitano riuscì a sorprendere e circondare l'esercito del ben più esperto QUINTO FABIO EMILIANO, che fu costretto a lasciare sul terreno tremila morti, e lui stesso riuscì a salvarsi con la fuga.
Da questo scacco però Emiliano non tardò a rifarsi. Ritornato all'offensiva con imponenti forze, ebbe il sopravvento sui ribelli e assalite con forza costrinse alla resa due città, catturandovi diecimila ribelli.
Dei vantaggi però ottenuti da Quinto Fabio non seppe trarre profitto il pretore QUINZIO, succedutogli nel comando. Questi, anzi, ingaggiato battaglia con Viriato, non solo fu sconfitto ma lasciò nelle mani del nemico tutta la Spagna Ulteriore, e dandosi alla fuga si rifugiò a Cordova dove rimase chiuso con le sue milizie tutta l'estate del 143.
L'anno seguente, a sostituire l'inetto e vile pretore, fu mandato da Roma QUINTO FABIO SERVILIANO, fratello adottivo di Emiliano, con l'incarico di proconsole.
Le sue prime operazioni portarono a un felice risultato; entrato nella Lusitania, colse qualche successo e riuscì a impadronirsi di alcuni paesi, poi cinse d'assedio la città di Erisana. Qui però la fortuna gli volse le spalle. Viriato vigilava. Con uno dei suoi sorprendenti atti d'audacia riuscì a penetrare di notte, non visto, nella città; quindi operata un'improvvisa e temeraria sortita, ruppe le legioni di Fabio Serviliano ed inseguendole in un certo modo, fece in modo di cacciarle in luoghi difficili e privi di uscita.
Le truppe romane si trovarono a un certo punto alla mercé del nemico il quale, poteva trucidarle o nella sacca dove erano finite lasciarle morire di fame; avrebbe potuto facilmente vendicare i morti di Cauca e le vittime di Sulpicio Galba; ma Viriato era di animo generoso; egli non voleva la distruzione del nemico; desiderava soltanto l'indipendenza della patria.

Approfittando della disperata situazione in cui si trovava il proconsole, propose salva la vita ai legionari a patto che riconoscessero l'indipendenza della Spagna e lasciassero ai suoi abitanti il pieno godimento di tutti i beni in qualità di alleati di Roma.
SERVILIANO non aveva da scegliere. Accettò i patti e li firmò e il Senato, che anni prima aveva sdegnosamente rifiutato le proposte di Cajo Marcello e voluta la resa a discrezione dei ribelli, questa volta approvò i patti e li fece, ratificare dai comizi.
Però, come non aveva tenuto fede al trattato stipulato con i Sanniti alle Forche Caudine, così Roma non rispettò i patti conclusi con Viriato, e un anno dopo, mentre il lusitano, nulla temendo, era intento a dare un assetto al suo stato, invio in Spagna il console QUINTO SERVILIO CEPIONE con il compito di sottomettere tutta la penisola iberica.

VIRIATO al rinnovarsi della guerra non si perse d'animo e ricominciò a lottare con il valore di una volta. Per tutto l'anno 140 tenne con la solita audacia testa alle legioni repubblicane, ma nel 139 la sua posizione divenne critica. All'esercito di CEPIONE si era aggiunto quello di MARCO POPILIO, pretore della Provincia Citeriore e le forze dei ribelli si videro nell'impossibilità di continuare la resistenza.
Ridotto con poche schiere di fedeli per le perdite subite, Viriato fu costretto a chieder la pace. CEPIONE non la rifiutò, ma volle la consegna dei disertori delle due province e, quando li ebbe, ordinò di amputate loro le mani e poi decapitarli.

Un'altra condizione imposta da Cepione era la consegna delle armi, ma Viriato non volle accettarla é preferì continuare la lotta. L'uomo era sempre lo stesso ma i ribelli che lo seguivano erano ridotti ad un pugno di uomini disperati. Resistere contro un nemico potente sarebbe stata una follia e una disperata resistenza avrebbe inasprito la ferocia dei vincitori, aggravando così le già dure condizioni delle popolazioni vinte e quindi sottomesse.
VIRIATO scelse tre dei suoi ufficiali e li inviò a CEPIONE perché trattassero la resa, ma questi si lasciarono vincere dai doni del console e promisero di assassinare il loro capo.
Di ritorno dall'accampamento romano i tre traditori penetrarono furtivamente nella tenda di Viriato e, trovatolo immerso nel sonno, lo trucidarono (Era l'anno 138 a.C.)

Il dolore dei Lusitani quando appresero la notizia della morte del loro eroe, si sentì vinto non dai romani ma dalla costernazione; sapevano che la morte di Viriato significava la fine dell'indipendenza, tuttavia decisero di continuare la resistenza ed elessero come suo successore un valoroso guerriero, TANTALO, che era stato sempre al fianco dell'eroe.
Tantalo concepì un audacissimo disegno, ma la fortuna non gli fu favorevole. Raccolte tutte le forze possibili, marciò contro Sagunto, di cui sperava di rendersi padrone. Sotto le mura della fatale città ebbe fine l'indipendenza della Lusitania, perché i Romani respinsero gli assalti dei ribelli e li misero in fuga. Inseguiti dalle milizie di Roma, i Lusitani furono raggiunti mentre passavano il fiume Beti e, assaliti, toccò loro la disfatta decisiva. In questo combattimento trovò la morte lo stesso Tantalo.

Tornato a Roma, QUINTO SERVILIO CEPIONE chiese il trionfo, ma fu giustamente negato il più alto onore riservato ai generali vittoriosi a colui che il nemico aveva sconfitto non con la vittoria in battaglia ma con il pugnale del sicario.
Roma era stata informata; il Senato Romano era spesso cinico, ma non voleva infangare con una pagina indegna la storia di Roma.

A Cepione successe il console dell'anno 138 a.C., DECIO GIUNIO BRUTO, il quale ovviamente riuscì facilmente a condurre a termine la sottomissione dei Lusitani. Fece trasferire i prigionieri di guerra sulle rive del Mediterraneo e precisamente nel territorio dove oggi sorge la città di Valenza poi mosse contro i Galleci, che abitavano la regione oggi chiamata Galizia, li vinse ed unì il loro territorio alla provincia Romana Ulteriore.

LA GUERRA NUMANTINA E LA DISTRUZIONE DI NUMANZIA

Con la conquista della Lusitania e della Galizia non ebbe però fine la guerra ispanica. Rimanevano ancora da soggiogare i fieri Celtiberi, che anni prima, nel 144 si erano pure loro ribellati ai Romani.
Contro questi ribelli che lottavano per difendere la loro terra, come abbiamo detto, era stato inviato QUINTO CECILIO METELLO, il "Macedonico"; si era reso padrone di tutta la regione, ma non era riuscito nemmeno con la forza e con vigorosi e ripetuti assalti, Numanzia e Termanzia, che erano le più forti città appartenenti al bellicoso popolo degli Arevaci.
Nel 141 successe a Metello nella direzione della guerra il console QUINTO POMPEO (quell'anno collega di Servilio Copione, che invece tramava l'assassinio di Viriato) il quale con quarantamila uomini cinse d'assedio le due città; ma Pompeo non ebbe migliore fortuna, del suo predecessore, anzi, respinto parecchie volte con molte perdite e non volendo desistere dall'impresa, cercò di guadagnare le due fortezze con la pace.
Con entrambe il console iniziò trattative. Nulla sappiamo di Termanzia, ma siccome di questa città gli storici non fanno più parola, noi siamo indotti a credere che questa città stipulò dei patti che poi furono dai Romani (a Roma) non rispettati; lo possiamo benissimo credere, perché quello di Numanzia (ed era lo stesso patto) sappiamo che lo stipulò con lo stesso POMPEO; un trattato per mezzo del quale essa manteneva la sua libertà mediante il pagamento di un'ingente somma.
Ma tornato a Roma alla fine del suo consolato e quindi terminata la guerra in Spagna, Pompeo, vergognandosi di confessare che era stato costretto a concludere un trattato con la città ribelle, negò i patti e consigliò il Senato a continuare la guerra.

Invano i Numantini si appellarono all'autorità del Senato, chiedendo che fossero rispettati i patti sottoscritti; questo invece deliberò che la guerra fosse ripresa e continuata fino a che la città non si fosse arresa senza condizioni, e inviò in Spagna nel 139, il console di quell'anno MARCO POPILIO LENATE.
Indignata del tradimento di Pompeo e della slealtà di Roma, Numanzia decise di resistere ad ogni costo in una lotta impari; sola, contro le numerose ed agguerrite legioni della più potente nazione del mondo; ma fornì mirabile esempio delle sue altissime virtù civili e militari.
POPILIO LENATE tentò a più riprese d'impadronirsi della città, sferrandogli contro poderosi attacchi, ma tutte le volte fu respinto subendo gravissime perdite (era l'anno 138, Cepione nell'altro settore, vinceva assassinando a tradimento Viriato)

Esito più disastroso conseguì il console del successivo anno (137 a.C.) CAJO OSTILIO MANCINO, capitano inetto e pauroso, il quale, essendosi sparsa la notizia che i Vaccei ed i Cantabri accorrevano in aiuto di Numanzia, impaurito, levò l'assedio di notte, e si mosse con tutto l'esercito per trovare un riparo nel campo trincerato che nel 153 aveva costruito Fulvio Nobiliore. I Numantini però non gli lasciarono il tempo, lo inseguirono, poi attraverso altri sentieri che conoscevano, lo costrinsero a deviare spingendolo così in una stretta valle dove l'esercito romano fu poi circondato.

Si ripeteva la vergogna della trappola di Caudio. Costretto o a morir di fame o di ferro o arrendersi; il codardo console preferì ad una morte gloriosa l'onta della resa.
OSTILIO MANCINO giurò che Roma non avrebbe più mosso guerra a Numanzia, rispettandone la libertà; ma dal momento che i Numantini avevano sperimentato la slealtà dello spergiuro Pompeo e non si accontentavano del giuramento del solo console, giurarono con Mancino tutti gli ufficiali dell'esercito e il questore TIBERIO GRACCO, figlio di TIBERIO SEMPRONIO il cui buon ricordo viveva perenne nella mente degli Ispani.
Si fidarono insomma della lealtà di quest'ultimo.

Ma poi il Senato dichiarò di non potere accettare e riconoscere un patto che era stato concluso senza il permesso della Repubblica e consegnò al nemico il console responsabile; ma i Numantini protestarono altamente e reclamarono la consegna di Gracco e di tutti gli altri ufficiali che con il giuramento pure loro al pari del console si erano resi garanti dell'osservanza del patto.

Il Senato quasi approvava di cedere nelle mani dei nemici gli ufficiali responsabili, quando il popolo si levò a tumulto costringendo i senatori a revocare la loro deliberazione. Il console OSTILIO MANCINO fu per un'intera giornata fu esposto alle ingiurie della folla, nudo e con le mani legate dietro la schiena, accanto ad una porta di Numanzia.
La guerra si riaccese ancora più accanita, e per altri due anni, nel 136 e 135, Numanzia non solo resistette validamente agli assalti, ma riuscì a sconfiggere ripetute volte i tre capitani che Roma gli scatenò contro.
Il primo fu MARCO EMILIO LEPIDO, il quale sciupato il tempo attorno alle mura di Pallantia, capitale dei Vaccei, ritornò a Roma per sentirsi condannare al pagamento di una parte delle spese di guerra.
Il secondo e il terzo furono LUCIO FURIO FILO e QUINTO CALPURNIO PISONE che non ottennero migliori risultati dei loro predecessori.

Ma Numanzia alla fine doveva capitolare come avevano ceduto tante altre città non meno tenaci ed eroiche. Roma non poteva tollerare che una città difesa da soli ottomila uomini, continuava a resistere agli eserciti della più potente repubblica e nel 134 affidò la direzione della guerra al più famoso capitano che c'era allora in circolazione, a SCIPIONE EMILIANO AFRICANO, che delle cose di Spagna era un buon conoscitore e oltre a questo si era guadagnata fama immortale nell'aver conquistata Cartagine.

Nella primavera di quell'anno Scipione partì per la Spagna; aveva con sé sessantamila uomini e GIUGURTA, re di Numidia, gli forniva in aiuto dodici elefanti ed una numerosa cavalleria.
Giunto intorno a Numanzia, fece quello che Emilio Paolo aveva fatto in Macedonia: si impegnò innanzitutto a restaurare la disciplina militare.
Quello che gli altri consoli vi avevano lasciato non era un esercito, ma un'accozzaglia di uomini indisciplinati, dediti ai bagordi e ai piaceri; nel loro campo avevano fissato la loro dimora perfino venditori ambulanti, i ciarlatani, i teatranti e circa duemila meretrici.

Ristabilito l'ordine nell'esercito ed addestrate ed allenate le truppe con continue marce e scorrerie nei territori vicini, Scipione pose l'assedio a Numanzia e, poiché vide che per le poderose fortificazioni di cui la città era fornita, questa era impossibile prenderla d'assalto, decise di averla per fame. Cinse pertanto la città con un doppio giro di fosse e di mura, fece costruire torri altissime sulle quali furono messe potentissime baliste, ordinò una severissima vigilanza ed attese poi che il tempo facesse tutto il resto.
Dapprima gli assediati riuscirono per mezzo del fiume Duero, su cui la città sorgeva, a comunicare con la campagna ed a procacciarsi le vettovaglie, ma, non sfuggì a Scipione che mise nella via d'acqua, delle sentinelle giorno e notte; e alla riva del fiume delle grosse travi uncinate che ostruivano qualsiasi il passaggio. Tuttavia nonostante questo imponente e fitto blocco, alcuni numantini dei più audaci, sfidando il pericolo, riuscirono a passare e a recarsi nei paesi più vicini per procurare soccorsi alla infelice Numanzia.

Il disperato appello degli assediati non fu lanciato invano. Fra gli altri lo raccolsero gli abitanti della vicina Lutia, i quali già si preparavano a inviare aiuti a Numanzia quando videro comparire sotto le mura della loro città Scipione con una parte dell'esercito, che minacciò di assalire e distruggere la città se continuavano nel proposito di soccorrere con uomini, armi o viveri i Numantini.
Lutia fu costretta a ubbidire e, come garanzia, fu costretta a dare in ostaggio quattrocento giovani appartenenti alle migliori famiglie della città.
Il contegno risoluto di Scipione intimorì gli altri paesi vicini e così Numanzia rimase abbandonata al suo fosco destino.
Da un anno durava l'assedio della sventurata ed eroica città e i viveri cominciavano a mancare. Gli abitanti cercarono di giungere ad un accordo con i Romani e furono inviati ambasciatori a Scipione, ma questi rispose che avrebbe iniziato trattative di pace solo dopo che i Numantini cedevano tutte le armi seguita dalla resa senza condizioni; queste ultime le avrebbe decise solo Roma, non lui.
Ma, quantunque sofferenti per la fame, indeboliti e decimati dalle malattie, i Numantini rifiutarono di arrendersi e decisero di morire pur di non cadere nelle mani dei nemici. Qualcuno propose di fare un ultimo tentativo per rompere il cerchio inesorabile che li stringeva, e fu pure tentata una disperata sortita, ma questa volta non c'erano più di fronte a loro soldati indisciplinati e consoli codardi che fuggivano al primo apparire dei nemici, e quella sortita di disperati ebbe un esito infelice e costò solo la vita a molti.

Tramontata miseramente quest'ultima speranza, non rimase all'esiguo ed eroico numero dei superstiti che di morire. Fu dato fuoco alle case, furono distrutte le armi e i beni, poi tutti, uomini e donne, si precipitarono tra le fiamme.
Così narra la leggenda, ma si sa che nell'autunno del 621, quando entrò nella città, Scipione non trovò tutto distrutto né tutti morti, tanto che riuscì tra la popolazione a scegliere cinquanta nobili per il suo trionfo.
Poi, saccheggiò la città, vendette come schiavi tutti gli abitanti superstiti, e infine lasciò il suo passaggio: la incendiò.
Come Cartagine, e per opera dello stesso uomo, la vinta Numanzia fu ridotta in un mucchio di macerie. E così giace ancora oggi, alla confluenza del fiume Tera.

Vinta l'ostinata città, Scipione si diede a sanare le numerose ferite per le quali sanguinava la Spagna e le città che più delle altre avevano sofferto della guerra ebbero un trattamento speciale. Fra queste Cauca. Ottenuta la pace, fu dato impulso all'agricoltura, le città furono ingrandite ed abbellite con monumenti e le popolazioni al contatto delle guarnigioni romane cominciarono pure queste a incivilirsi.

Nel 123 a.C., allo scopo di distruggere i pirati che avevano il loro covo nelle isole Baleari, e da qui infestavano le coste della penisola iberica turbandone il commercio, fu inviato QUINTO CECILIO METELLO, figlio del "Macedonico", il quale non senza sforzi se ne impadronì meritandosi il titolo onorifico di "Balearico".

Con la conquista di queste isole si può dire completamente terminato il periodo delle guerre ispaniche ed assicurato a Roma il dominio di tutta l'Iberia.

ROMA EREDITA IL REGNO DI PERGAMO

Lo stesso anno che Scipione Emiliano distruggeva Numanzia (133), moriva ATTALO III, re di Pergamo, dopo quattro anni di regno.
Essendo senza figli, Attalo istituì erede del suo regno Roma della quale la sua famiglia era stata alleata fedele. A contrastare però il possesso della Repubblica, nelle cui mani così inaspettatamente giungeva un dono tanto prezioso, sorse un figlio naturale di Eumene, di nome ARISTONICO.
Questi, proclamatosi re, con il nome di EUMENE III, formò un nucleo non indifferente di partigiani; nonostante l'ostilità di Efeso, si impadronì delle città di Tiara, Mindo, Apollonide, Colofone e Samo e in poco tempo riuscì a riconquistare tutto il regno paterno.
Non poteva però Roma permettere che i suoi diritti fossero impunemente calpestati e inviò contro l'usurpatore il proconsole LICINIO CRASSO, uomo eloquente e dotto, ma poco esperto di cose militari. All'assedio di Leuce fu sconfitto e fatto prigioniero, poi, essendosi ribellato ai soldati che lo tenevano in custodia, fu ucciso.
A vendicare la morte del proconsole Roma mandò MARCO PERPENNA, che pose l'assedio a Stratonica nella Caria e, costretta con la forza alla resa, catturò ARISTONICO, che fu inviato a Roma e qui giustiziato (129 a.C.).
MANIO AQUILIO, successo nel comando a Perpenna, sottomise le città dell'Asia Minore, aggregò al regno di Pergamo la Frigia, la Caria, la Licia e l'Ellesponto, e tutte queste terre costituì in provincia romana cui diede il nome di Asia.

ROMA DOMINA: EUROPA, AFRICA e SPAGNA, e GUARDA IN ASIA

Da poco è trascorso il primo ventennio del settimo secolo dalla sua fondazione e Roma è già signora di un estesissimo dominio.
Da misero, insignificante villaggio di capanne aggruppate sul Palatino insidiato dai vicini, Roma con grande tenacia, sorretta dalle grandissime virtù del suo popolo, per mezzo di continue guerre e di sacrifici coronati da superbe vittorie e da sanguinose sconfitte, in quattrocentonovant'anni ha saputo conquistare ed unificare tutta la penisola, dall'Etruria allo stretto, che ora, sotto il nome d'Italia, è un corpo indivisibile; con sforzi non minori ed attraverso vicende liete e tristi, in centotrentacinque anni è riuscita a portare le sue armi, la sua lingua, le sue leggi in un territorio immenso e su questo ha formato le sue province.
Queste, ora sono nove: la Gallia Cisalpina, la Spagna Citeriore ed Ulteriore, la Sicilia, la Corsica e la Sardegna, l'Africa, la Macedonia e l'Acaja, l'Illiria e l'Epiro, l'Asia. Costituiscono quasi un vastissimo impero, ogni parte del quale è diversa dalle altre per clima, per razza, per lingua, costumi, religione, civiltà.
E' impossibile fondere in un insieme perfettamente omogeneo membra così diverse di un corpo così grande. Roma non vi riuscirà mai. Lascerà in ognuna segni incancellabili del suo genio, ma non ne farà mai, come della penisola, un popolo solo.

Per dominare su tanta gente Roma adotta la sua vecchia formula del "divide et impera" e ad ogni provincia dà una costituzione diversa.
Le province rappresentano territori conquistati, ma i loro abitanti non sono trattati tutti alla medesima maniera: i cittadini di queste province si dividono in due grandi categorie, quella dei tributari e quella dei privilegiati.
Gli abitanti tributari, sebbene retti da proprie leggi, sono soggetti al governatore della provincia; i privilegiati invece fuori della sua giurisdizione.

Come gli abitanti così anche le città hanno diversità di trattamento. Sei sono le categorie di privilegi nella classificazione delle città provinciali: vi sono le "colonie romane" che godono tutti i privilegi del diritto romano, salvo il quiritario; i "municipi", che sono esclusi dai diritti politici, ma godono di quelli civili; le "colonie latine" che hanno parte dei diritti civili; le "città confederate" che hanno conservato la loro autonomia per mezzo di trattati stipulati mediante un tributo; le "città libere", autonome anch'esse per deliberazione del Senato; e infine le "città immuni", non soggette cioè al pagamento di tributi.

Ogni provincia è governata da un proconsole (provincia consularis) o da un pretore o propretore (provincia praetoria), che durano in carica un triennio. Il governatore è eletto dai comizi ed è scelto fra i cittadini che hanno già ricoperta la carica di console, di questore o di edile. Il suo ufficio è gratuito; all'atto della nomina la Repubblica non gli dà che una certa somma (vasarium) per le prime spese; la provincia gli deve fornire la casa e il grano. E non a lui solo, ma anche ai soldati che costituiscono il corpo della sua guardia, ai suoi familiari, alla nobile gioventù del suo seguito, agli scrivani, agli aruspici, ai ministri, ai medici, ai littori, agl'interpreti, che rappresentano la "casa" del governatore.
Il Governatore, sui sudditi provinciali della repubblica ha un illimitato potere; amministra, per mezzo del questore, la giustizia, emana editti che hanno valore di leggi; è il capo supremo e diretto dell'esercito; stabilisce le imposte ordinarie (testatico, prediale) e straordinarie.

Sbrigativo è il modo di riscuotere le imposte: la riscossione è data in appalto ai maggiori offerenti che sono chiamati "pubblicani" e che con i mezzi che loro credono più opportuni s'incaricano di riscuotere le rendite della Repubblica.
E i modi e i mezzi che essi usano molto spesso non sono leciti né onesti. Spregiudicati, avidi, usurai, essi mungono i poveri contribuenti, riscuotono perfino tre o quattro volte le imposte, fanno prestiti ad un tasso enorme alle città, si arricchiscono disonestamente alle spalle degl'infelici sudditi, i quali hanno sì il diritto di appellarsi al governatore e ad uno speciale tribunale istituito a Roma, ma sanno che non riceveranno mai giustizia perché l'oro dei publicani ha tale potenza da corrompere governatori e magistrati.

Nei governatori e nelle province sono riposte le cause dei futuri rivolgimenti di Roma. La corruzione di Roma, l'odio dei provinciali verso lo stato romano, le rivolte dei sudditi non saranno che il prodotto degli abusi dei publicani e del malgoverno degli uomini preposti all'amministrazione delle province; le fazioni e le guerre civili saranno il risultato fatale della potenza e della sete di dominio dei governatori, i quali dilanieranno il corpo della Repubblica e prepareranno l'avvento dell'impero.
Roma, giunta all'apogeo della sua potenza, ha nella sua stessa grandezza i germi funesti della decadenza.

La rapidità delle conquiste è sorprendente, ma è altrettanto rapido il tramonto delle virtù. Le conquiste, l'oro, gli schiavi, i commerci, fa penetrare gli agi e il lusso, i romani non lavorano più, subentra l'ozio; e in parallelo la corruzione che penetra nelle famiglie, nei templi, nella curia, nell'esercito.
Conquiste che hanno in pochissimi anni, profondamente modificato la struttura economica e sociale dell'antica società.

I quindici anni che seguono ci danno un quadro preciso della nuova vita romana, i suoi costumi, e le tasche di alcuni romani sempre più piene di denaro, che è il nuovo e più potente dio di Roma.

Prosegui con il periodo dall'anno 135 al 121 a.C. > > >

Fonti, Bibliografia, Testi, Citazioni: 
TITO LIVIO - STORIE (ab Urbe condita)
POLIBIO - STORIE
APPIANO - BELL. CIV. STORIA ROMANA
DIONE CASSIO - STORIA ROMANA 
PAOLO GIUDICI - STORIA D'ITALIA 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
I. CAZZANIGA , ST. LETT. LATINA, 
+ altri, in Biblioteca dell'Autore 

 


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