HOME PAGE
CRONOLOGIA

DA 20 MILIARDI
ALL' 1  A.C.
1 D.C. AL 2000
ANNO x  ANNO
PERIODI STORICI
E TEMATICI
PERSONAGGI
E PAESI

( QUI TUTTI I RIASSUNTI ) RIASSUNTO ANNI 1200-1300 

 LETTERATURA
del SECOLO XIII
(Origini - Poetica "Siciliana" e "Toscana")


GLI ARGOMENTI

LA "SCUOLA POETICA SICILIANA" - LA LIRICA TOSCANA PROVENZALEGGIANTE - LA POESIA ALLEGORICA, REALISTICA E SATIRICA - LA PROSA NEL SECOLO XIII

nella TERZA PARTE
IL "DOLCE STIL NUOVO" - GUINIZZELLI, FRESCOBALDI, GIANNI ALFANI, LAPO GIANNI, CINO DA PISTOIA, GUIDO CAVALCANTI - LA POESIA GIOVANILE DI DANTE ALIGHIERI
------------------------------------------------------------------------------

LA "SCUOLA POETICA SICILIANA"
LA LIRICA TOSCANA PROVENZALEGGIANTE
LA POESIA ALLEGORICA, REALISTICA E SATIRICA
LA PROSA NEL SEC. XIII

Maggior fascino delle corti di Monferrato, di Savoia, degli Estensi e dei Malaspina dovette, certo, esercitare sui trovadori provenzali la corte di Federico II. L'isola sempre verde, la perla del Mediterraneo, era là, adagiata mollemente su tre mari, come un giardino incantato verso cui tendevano le avidità dei mercanti e gli sguardi degli avventurieri; le spedizioni dei Crociati ne avevano fatto un luogo di passaggio e di raccolta, le tradizioni greche un bosco di ninfe e un soggiorno di divinità, il dominio degli Arabi un centro splendido di cultura.

Palermo con le sue magnifiche vie, i suoi superbi palazzi, le sue grandi piazze, piena di statue e cosparsa di giardini è di fontane, era divenuta, sotto i Normanni, una città incantevole che riempiva di sacro stupore Ibn-Giobair, l'appassionato viaggiatore orientale; il saggio governo di Guglielmo il Buono l'aveva resa ricca e splendida; la dominazione sveva l'aveva resa una capitale superba a cui convenivano tutti da ogni paese. La corte di Federico era forse, allora, la corte più splendida d'Europa e, fra le delizie e i piaceri, si coltivavano con ardore gli studi e dalla Provenza accorrevano i trovadori a confondere il loro canto col canto dei poeti arabi, a cercare un rifugio, dinnanzi la persecuzione cattolica, presso il grande imperatore, presso il nemico del Papa, presso il capo del grande partito ghibellino, che, allora, impersonava la libertà del pensiero ed era come una fiaccola antesignana della civiltà moderna.

Ma in Sicilia i trovadori occitanici trovavano un mondo nuovo, del tutto diverso dal loro; un clima più caldo, un popolo più ardente, più forte, più appassionato, costumi diversi dai provenzali: le donne siciliane non erano quelle di Provenza e dell'Italia del Nord; ma erano donne che avevano imparato dalle arabe a celare la loro bellezza e a trascorrere la loro vita nelle case e nei giardini; nell'isola non c'erano i facili amori d'oltr'Alpe, ma passioni intense e segrete, gelosie, furori e vendette; il feudalismo aveva ricevuto un colpo mortale da Federico, che aveva ristretto il potere dei turbolenti baroni, riducendolo tutto nelle sue mani e favorendo la borghesia. La vita cavalleresca francese portata nell'isola dai Normanni e dal passaggio dei Crociati, trovò un terreno adatto per svilupparsi e trasformare la vita siciliana; ma influì quasi esclusivamente sul popolo, ispirandogli quel sentimento cavalleresco di cui tuttora è pieno e che anche oggi gli fa amare le imprese dei paladini.
Gli eroi francesi, in Sicilia, divennero popolarissimi, le leggende, di Artù, d'Isotta e di Tristano vi si trapiantarono, acquistando fregi e colorito locali e mescolandosi con le leggende di Saladino, importatevi dall'Oriente. Se la poesia francese parlò al popolo, la poesia trovadorica si limitò ad avere un' influenza nella corte, dove la vita cavalleresca era stata accettata come una moda, dove della cavalleria non era penetrato lo spirito, ma semplicemente gli usi esterni -e ben dice il Gaspary- che "il servire le dame doveva riuscire ad una semplice finzione in questa corte, dove continuavano ad esistere ancora costumi orientali, dove l'imperatore manteneva un serraglio, e faceva guardare le sue spose da eunuchi, mentre egli languendo cantava le belle".

La corte di Federico fu centro di cultura e luogo sacro alle Muse e in essa nacque e si formò quella scuola che comunemente è chiamata " scuola poetica siciliana ", la quale, sorta sotto il grande imperatore, continuò a vivere durante il regno di Manfredi e fu composta di poeti la maggior parte siciliani e meridionali, dai quali però non bisogna escludere altri, che, pur non essendo del mezzogiorno, fecero parte della Magna Curia. Tutti questi poeti si aggirano intorno alla grande figura di Federico nato a lesi nel 1194 e morto a Ferentino nel 1250, proclamato re di Sicilia nel 1198, sposo nel 1209 di Costanza sorella del re d'Aragona, sposo una seconda volta, nel 1225, di Isabella figlia di Giovanni di Brienne re di Gerusalemme e una terza di una sorella di Enrico III d'Inghilterra. Poeta egli stesso, protesse ed amò i dotti, fu studioso delle scienze degli Arabi, conobbe il latino, l'italiano, il greco, l'arabo, il francese, il tedesco e il catalano; amante della caccia, compose in lingua latina un trattato di falconeria. Appartengono alla schiera dei poeti della sua corte quattro suoi figli, Federico re d'Antiochia (1229-1258), Enzo, re di Sardegna (1224-1272) l'infelice poeta che languì per ben ventitrè anni nelle carceri di Bologna, Enrico, il ribelle, morto anche lui in prigione, nel 1242, e Manfredi, il "biondo e di gentile aspetto", che così infelicemente ed eroicamente doveva finir la vita a Benevento. A questi può aggiungersi un altro re, Giovanni di Brienne, che fu in Sicilia nel 1225, e passa come autore di un famoso "discordo".

Il più antico dei poeti cortigiani è GIACOMO da LENTINO, detto per antonomasia il Notaro, inventore del sonetto; altri poeti cortigiani sono GIACOMINO PUGLIESE, il più gentile e sincero poeta della scuola; PIER DELLA VIGNA, gran cancelliere imperiale, nato a Capua nel 1180 e morto suicida in carcere nel 1249 perché accusato, forse a torto, di aver tradito la fede del suo sovrano.
Traditori di Federico e Manfredi furono invece GIACOMINO PUGLIESE e RINALDO D'AQUINO, il quale, come molti altri baroni di Puglia e della Campania, si diede tutto alla causa di Carlo d'Angiò. Tra i poeti della corte sveva troviamo ancora JACOPO MOSTACCI e RUGGIERO D'AMICI messinese, ROSSO da MESSINA, FOLCO di CALABRIA, RAINIERI di Palermo, PERCIVALLE DORIA, genovese, e ARRIGO TESTA aretino.
Fra i poeti meridionali che vissero fuori della corte sveva, ma che con essa ebbero relazione possono essere annoverati i messinesi ODDO e GUIDO della COLONNA, autore il secondo della "Historia troiana", rifacimento in lingua latina del "Roman che Troie" di Benoit de Sainté-Mòre; STEFANO di PROTONOTARO e MAZZEO di RICO, entrambi di Messina; TOMMASO di SASSO, messinese anche lui; l' ABBATE di Napoli e l' ABBATE di Tivoli.
La poesia della " scuola siciliana " è quasi tutta d'imitazione provenzale. "Il contenuto della poesia provenzale" - dice il Gaspary - passa nella lingua siciliana senza cambiarsi, e soltanto facendosi assai più meschino. La lingua nuova non esercitò qui nessuna influenza vivificatrice: essa non era realmente che un'altra veste, che veniva indossata al vecchio oggetto, e in questa innovazione la poesia non ha potuto guadagnare in valore estetico, perché anzi perdeva nell'idioma ancor più goffo la grazia e l'eleganza che aveva possedute nell'originario".

"L'oggetto della poesia dei trovatori, l'amore cavalleresco, riappare qui in quelle forme, che là erano divenute già tipiche. L'amore è umile e supplica adorazione della donna: si presenta sempre sotto le immagini del feudalismo, come un servire e un obbedire, come il rapporto del vassallo al signore. La donna sta in alto rispetto all'amante, che si piega dinnanzi a lei supplicando grazie, lui è indegno di servirla. La donna è crudele, e lo fa, languire invano, sicché i suoi dolori lo portano alla morte; ma egli non deve cessare di amarla; poiché dall'amore viene ogni valore e virtù; lui deve perseverare; perché il fedele servire lo porta finalmente allo scopo, e se soffre e muore, è per lui gloria ed onore che muore per la più nobile".
Nella poesia dei " siciliani " si riscontrano tutti i difetti che abbiamo osservato in quella dei provenzali e, in primo luogo, il convenzionalismo che nei "siciliani" riesce più gretto ed insulso perché di seconda mano. Nella scuola siciliana la poesia non è l'espressione di sentimenti veri e profondi, ma la pallida rappresentazione di una moda; non c' è quasi nulla di vero, di vivo, di concreto; ma tutto è un'astrazione; l'amore più che un affetto, una passione, è una galanteria superficiale, la donna è un tipo uguale in tutti i componimenti di tutti i rimatori, splendida come stella mattutina, fragrante come rosa, più preziosa di qualunque gemma. Manca in questa poesia la personalità del poeta, manca il calore nel suo accento appunto perché non si canta ciò che si prova ma ciò che la moda impone. E succede che l'espressione è fredda, il colorito delle immagini scialbo; non un fremito che riveli al lettore l'interno affanno o l'interna gioia del poeta; la poesia è piana, compassata, azzimata, priva di quell'intima forza che è il prodotto d'una passione profonda. Non c' è nemmeno in essa quella dolcezza e leggiadria che fa bella la poesia trovadorica perché, mentre questa risente dell'armonia e della gentilezza propria della Provenza, quella non ha nulla di siciliano, non ha nulla del fuoco, della fantasia, della forza innati nel popolo dell'isola bella, è priva insomma di quella corrispondenza tra il sentimento e l'espressione che costituisce l'opera di arte.

La lirica "siciliana" non ha accenti personali; ma è uniforme; l'uomo scompare, rimane la "maniera", la scuola; la poesia vive fuori della vita, non è l'interprete di tutto ciò che si agita nell'anima e nella mente degli autori; i rimatori passano dinnanzi a noi col viso coperto da una maschera e par che tutti s'ingegnino a svolgere in rima temi precedentemente stabiliti, con un frasario imposto, usando similitudini volute dalla moda e dalla tradizione provenzale. C' è anzi un repertorio di concetti e di immagini, cui attingono i poeti, concetti ed immagini che hanno uno scopo puramente ornamentale e sono imitati o copiati dai provenzali. Ma vi è di peggio: ricercando concetti peregrini i rimatori cascano in stranezze, da cui pare non rifuggano, di cui anzi si compiacciono, preludendo a quel fenomeno morboso che imperverserà come un flagello nel Seicento; amano difatti le antitesi, i bisticci, le metafore più audaci e strane.
I principali metri usati dai poeti "siciliani" , sono la canzone, il sonetto e il discordo. Ci si affaccia ora la questione della lingua che tante polemiche suscitò, tempo addietro, fra i letterati italiani e che nemmeno oggi può dirsi risolta. Fu detto che le poesie della scuola sicula dovettero essere originariamente scritte in dialetto siciliano, toscanizzato in seguito dai copisti; fu messo in ballo un dialetto siciliano illustre; fu detto anche essere stata Bologna, e non Palermo o Messina, culla della nuova lingua, Bologna ove avevano studiato PIER DELLA VIGNA, CIELO DAL CAMO, e parecchi altri. Secondo noi - e il nostro giudizio è reso valido da quello d'illustri critici - tutte le regioni d' Italia, quale più, quale meno, diedero vita al nostro volgare; furono i nostri dialetti nobilitati sul latino e sul provenzale che formarono l'italiano, e così, senza pretender di negare l'influsso dell'opera dei copisti toscani, i componimenti della scuola siciliana non crediamo che ci siano pervenuti in una forma assai diversa da quella in cui furono scritti, cioè in una lingua che per fondo sostanziale aveva il dialetto della Sicilia ripulito e reso letterario dai poeti e arricchito di parole e modi di altri dialetti.

Comunque sia, se pur si voglia negare a questa scuola il merito di aver dato all'Italia la sua lingua, non le si può togliere il merito di aver essa per prima usato il nostro volgare in opere scritte con intendimenti artistici e di avere stabilite le forme metriche della nostra poesia.
La lirica antica siciliana non è tutta fredda, falsa e convenzionale; è tale essa quando si vuole rendere interprete della moda cavalleresca occitanica, quando vuole rappresentare una vita che non vive, che, direi, anzi ripugna con la vera vita della Sicilia. Non sempre però i poeti nascondono la loro personalità, s'irrigidiscono in questo convenzionalismo; come nella lirica dei trovadori di Provenza sovente il convenzionale scompare per dar luogo alla realtà della vita e dei sentimenti nelle albe dolcissime e profumate, così in quella dei "siciliani", tra l'affettazione prodotta dall'imitazione della poesia d'oltr'Alpe, fanno capolino motivi sinceri, originali che sono come l'ultima e debole eco di quella lirica popolare, di cui dovette essere nell' isola una rigogliosa fioritura al tempo dei Normanni. E allora scompaiono, come per incanto, le immagini fatte, le similitudini barocche, lo stento, l'oscurità dell'espressione, tutti gli artifizi che la deturpano e la poesia respira più liberamente, più liberamente si muove e un calore di vita la pervade e un profumo delicato si sprigiona. E allora tramonta la falsa e studiata cavalleria; la dama si fa donna, il poeta ritorna ad essere uomo, la natura vive, la primavera, con il suo tepore e con il suo fascino, fa ridestare nel cuore la gioia.

Quando tralasciano i loro modelli provenzali e danno ascolto alla voce del loro cuore i nostri antichi poeti "siciliani" hanno fremiti e tumulti che rendono sincera ed appassionata la loro lirica ed i versi di GIACOMO DA LENTINO, RINALDO D'AQUILIO, GIACOMINO e RUGIERI PUGLIESE ottengono effetti sorprendenti. Si leggano, infatti, le poesie che i codici attribuiscono a GIACOMINO PUGLIESE, si legga il canto del Notaro, "S' io doglio non è meraviglia", in cui è espresso tutto il dolore della lontananza e tutto l'ardore del desiderio, la poesia che comincia "Dolze meo drudo e vattene", attribuita a Federico, in cui la scena della separazione tra l'imperatore e la donna amata è di una vivezza mirabile; si leggano - "Oi lassa innamorata" di ODDO delle COLONNE e "Giamai non mi conforto" di RINALDO D'AQUINO che sono i lamenti strazianti di due fanciulle, una tradita dall'amante, l'altra abbandonata dallo sposo crociato e si gusterà la parte migliore della lirica "siciliana", sovente impregnata di un realismo audace che le conferisce potenza di rappresentazione e calore di espressione.

IN QUELLA TOSCANA

Più ligia ai modelli occitanici è la lirica provenzaleggiante fiorita in Toscana, regione in cui, al pari dell'influsso della letteratura franco-veneta, si era fatto sentire quello della poesia trovadorica. La poesia provenzaleggiante, sorta in Toscana per imitazione diretta dei trovadori o dietro le orme dei "siciliani" vi fiorì, fino al sorgere del "dolce stil nuovo". In ogni centro importante della Toscana troviamo nuclei di poeti: a Firenze PALAMIDESSE BELLINDOTI, maestro MIGLIORE, il notaro PACE, FILIPPO GIRALDI, NERI DEGLI UBERTI, TORRIGIANO, ARRIGO da VARLUNGO, SER CIONE, DANTE da MAIANO e parecchi altri; a Pistoia GUIDALOSTE, MEO ABBRACCIAVACCA, LEMMO ORLANDI, MULA DE' MULI, PAOLO LANFRANCHI; a Pisa PANNUCCIO del BAGNO, LOTTO di Ser DATO, PUCCIANDONE MARTELLO e, per tacer di altri, TERRAMAGNINO da Pisa; a Lucca BUONAGIUNTA URBICCIANI, GONNELLA degli ANTELMINELLI, BONODICO; a Siena FOLCACCHIERO dei FOLCACCHIERI, BARTOLOMEO MOCATI, CACCIA e UGO di MASSA; ad Arezzo maestro BANDINO, MINO del PAVESAIO, GIOVANNI BALL'ORTO e GUITTONE.

GUITTONE D'AREZZO, nato verso il 1225 e morto nel 1293, dedito prima ai piaceri mondani e poi frate dell'ordine dei Gaudenti, è il più grande dei poeti toscani provenzaleggianti; molti di loro anzi lo chiamano maestro e non solo i toscani, ma altri rimatori d'altre regioni, come GUIDO GUINICELLI, GHERARDUCCIO GARISENDI, RAINIERI BORMIO, ONESTO, bolognesi, MANFREDI BUZZOLA e TOMMASO da FAENZA, PAGANINO da SAREZANO e LANZALOTTO PAVESE.
Non poca differenza passa tra l'arte dei rimatori "Siciliani" e quella dei rimatori toscani. Nei poeti meridionali, come abbiamo visto, fra
il convenzionalismo, si trovano tracce di lirica schietta, fanno capolino accenti sinceri, fugaci bagliori di fantasia, palpiti di cuore, si sente, qua e là, fra l'orpello provenzale e la freddezza, qualche calore di vita, qualche lampo di passione; nei Toscani invece - salvo qualche caso - l'imitazione è più pedestre e giunge fino alla traduzione, l'oscurità del senso è più accentuata e se la lingua è più elegante ed evoluta, lo stile non è più sciolto e leggiadro e manca quel motivo popolaresco che rende soavi parecchi canti di Sicilia. Di fra Guittone scrisse il Carducci lodandolo "di aver fatto passare la poesia dal principio cavalleresco al nazionale, dalle forme trovadoriche alle latine; e di aver aspirato a quella poesia politica concionatrice levata poi così alto dal
Petrarca".

Ma la poesia, la vera poesia manca nell'opera del frate gaudente; Guittone non ha un'anima di poeta; ad un vero poeta gli sconvolgimenti interiori da lui subiti avrebbero ispirate tutt'altre rime. Comincia a rimar d'amore dietro le orme dei Provenzali e dei "siciliani ", ma non un guizzo di fantasia ne illumina i versi, non un affetto li riscalda; poi, quando pentito della sua vita mondana, lascia la moglie e i figli e indossa il saio e disprezzando i suoi scritti, rivolge le sue liriche al Cielo, non sa infondere, anche in queste, nessuna vita, nessun calore di arte, continua a rimaner freddo ed artifizioso, incapace di conferire alla sua poesia quella forza e quella potenza che formano il pregio dell'opera poetica di IACOPONE DA TODI, con cui ha simile la vita ma non l'ingegno e l'estro, il sentimento e la fede. Guittone è un dotto, conosce il francese, il provenzale e il latino; la sua poesia è puramente dottrinale; c' è il freddo raziocinio, è la noiosa metafisica scolastica, le sue liriche sono - come qualcuno ebbe a dire - dei trattati e delle prediche in versi piene di citazioni di autori antichi. La forma non è superiore al contenuto; l'avere lui fatto uso di molti latinismi più che motivo di lode è motivo di biasimo perché questo fatto è una delle principali cause dell'oscurità dell' elocuzione.

Tutt'altro poeta ci si mostra lo stesso Guittone quando canta argomenti politici; allora l'ispirazione non gli difetta; commosso il cuore dagli avvenimenti recenti, mette nella sua poesia l'anima, tralascia l'erudizione, non sottilizza più, l'espressione gli si fa chiara, fluente, piena di forza. Celebre è il suo canto "Ai lasso ! or è stagion de doler tanto", invettiva potente scritta nel 1260 dopo che a Montaperti i Senesi e i cavalieri di Manfredi sconfissero i Fiorentini e, fatti ritornare i Ghibellini esiliati, espulsero i Guelfi a cui apparteneva il poeta; né meno famosa, per virilità d'espressione, è la canzone Sdegnosa rivolta contro gli Aretini suoi concittadini.
In questo periodo di tempo, la politica è uno degli argomenti preferiti dai poeti
toscani e in ciò anche loro differiscono dai " siciliani " e si accostano di più ai trovadori provenzali che di politica avevano parlato nei loro sirventesi. Le poesie politiche dei Toscani non sono però come le amorose un'esercitazione rettorica; sono un prodotto dei tempi, dell'agitata vita comunale, in cui, da un lato il popolo e la borghesia cercano di fare scomparire le ultime tracce di faudalità e di opporsi alle ambizioni dei potenti, dall'altro i comuni si guerreggiano a vicenda per acquistare la supremazia. Si aggiungano a ciò le lotte tra i due grandi partiti dei Guelfi e dei Ghibellini, dalle quali le guerricciole intercomunali erano assorbite e si vedrà bene che in tutta questa agitazione la poesia non poteva rimanere estranea, ma doveva rendersi interprete delle aspirazioni cittadine, degli odi, di tutti i sentimenti insomma che bollivano nei cuori di tutti.

I preparativi di Corradino producono non pochi sonetti a tenzone scritti da poeti fiorentini di parte guelfa e ghibellina quali MONTE ANDREA, SCHIETTA di messer ALBIZZI PALLAVILLANI, ORLANDUCCIO ORAFO, PALAMIDESSE, BERNARDO e ser CIONE notai, ARRIGO di CASTIGLIA ed altri; la tirannide del conte Ugolino provoca le canzoni di PANNUCCIO del BAGNO, LOTTO di Ser DATO e BACCIARONE.
La poesia oramai comincia ad allontanarsi dall'imitazione straniera e nelle rime politiche si cominciano a sentire i primi accenti nazionali; e si fa, nello stesso tempo, avanti quella poesia borghese che avrà sviluppo nel secolo successivo. Vero è che non del tutto sono dimenticati i " siciliani "; ma non si sente più quella predilezione per l'oscuro, la forma stessa si fa più linda e più sciolta; i poeti cominciano ad esprimere nelle rime i loro veri sentimenti, a mostrare la loro personalità, ad essere originali, accostandosi tal volta al fare popolaresco come CIACCO DELL'ANGUILLAIA in un dialogo pieno di vivacità e di grazia, che rassomiglia un po' al "Contrasto" di CIELO dal CAMO di cui però è meno realistico e sboccato; già CHIARO DAVANZATI, la COMPIUTA DONZELLA, MAESTRO RINUCCINO e qualche altro ci fanno presentire il mutamento che si effettuerà nella lirica, la quale, in Toscana, non tarda a mettere in bando i concetti cavallereschi e ad accostarsi audacemente alla realtà della vita.
Il secolo XIII sta per tramontare, ma quale enorme differenza tra il suo principio e la sua fine. Fine gloriosa che rappresenta un periodo importantissimo di rinnovamento in cui si osservano ancora le foglie putride del passato ma, fra queste, sbocciano rigogliosi e fragranti i fiori della letteratura avvenire. È questo un periodo di transizione dal vecchio al nuovo, dalla maniera dei "siciliani" e "guittoniani" alla scuola del nuovo e dolce stile e tra l'una e l'altra, anzi accanto all'una e all'altra, stanno la poesia allegorica e la poesia realistica e satirica, le quali continueranno ad essere coltivate nel Trecento.
La poesia allegorica toscana è tutta un prodotto dell'imitazione francese ed ha scopo d'insegnamento. Il modello che seguono i nostri poeti è il "Roman de la Rose", il quale in Toscana ha due rifacimenti: il "Fiore" e il "Detto d'Amore". Il primo, opera di un certo DURANTE, che alcuni hanno voluto identificare con DANTE ALIGHIERI, riassume in 232 sonetti il lungo romanzo francese.
Il rifacimento di Durante è riuscitissimo, purché la materia, sfrondata di tutte le disquisizioni di teologia e scienza, e trattata con arte finissima, con un senso squisito della misura e con modificazioni nei particolari, ridiventa quasi originale. Il secondo, che riassume pure l'opera francese di cui talvolta è una traduzione, è un'opera pedestre, priva di quell'arte e di quella luce che rendono invece il "Fiore" un vero gioiello.
Il "Roman de la Rose" influì pure, anche se non molto, sul "Tesoretto" di BRUNETTO LATINI, notaio guelfo di Firenze, vissuto dal 1220 al 1294 circa, autore del "Tresor", enciclopedia francese, che, nell'Inferno, raccomanda a Dante:
Sieti raccomandato il mio Tesoro
Nel quale io vivo ancora ....

Il "Tesoretto" è un poemetto di 2240 versi settenari rimati a due a due; in esso l'autore narra come entrato in una selva al ritorno di un suo viaggio in Spagna, incontra la Natura che gli parla della creazione del mondo, degli angeli, dell'uomo, dell'anima, dei sensi, dei pianeti ecc. e gli mostra le colonne di Ercole; come arrivato in una valle trovò la Virtù, imperatrice, e le sue quattro figlie, Prudenza, Temperanza, Fortezza e Giustizia, la quale ultima ha quattro ancelle: Larghezza, Cortesia, Leanza e Prodezza; come, giunto in un prato, soggiorno delizioso del Piacere, della Paura, della Distanza (desiderio), dell'Amore e della Speranza, s'immerge nel godimento delle voluttà mondane, dalle quali, distolto da Ovidio, si allontana, va a Montpellier, si confessa e si reca sull'Olimpo dove incontra Tolomeo. Qui il poemetto è interrotto; un'altra operetta in settenari a rima baciata del Latini è il "Favolello, in cui si ragiona sui doveri dell'amicizia; lavoro questo, come il primo, privo di arte.

Più importanti invece sono le opere di FRANCESCO da BARBERINO, nato nel 1264 e morto nel 1348, autore dei "Reggimenti e costumi di donna" e dei "Documenti d'Amore". Nel primo poema, intramezzato di prose, dà ammaestramenti alle donne di ogni età e condizione, alle fanciulle e alle mature, alle zitelle e alle maritate e alle vedove, alle monache e alle cortigiane; nel secondo, corredato di interessanti spiegazioni latine, sono prodigati insegnamenti saggi intorno all'amore; nell'uno e nell'altro si ammira l'arte squisita e la maestria del narratore e si gusta una poesia dolce come una musica che avviva la materia didascalica.
Alle suddette opere possiamo aggiungere l'"Intelligenza", poemetto allegorico attribuito a DINO COMPAGNI, delicato per la forma e gustoso negli episodi, che canta l'amore intellettuale con opportuni accenni ai cicli classico e cavalleresco.
Maggiore interesse che la poesia allegorica ha per noi la poesia realistica e satirica. Se quella ha una certa relazione con le dottrine del "dolce stil nuovo" di cui parleremo fra poco, questa gli è perfettamente estranea ed è quasi come l'ultima espressione della vita allegra e spensierata dei goliardi che in Toscana non si era ancora spenta, espressione che ha anche riscontro con il realismo di certi componimenti provenzali e francesi antichi. Questo realismo noi lo troviamo in due poesie di COMPAGNETTO da PRATO, delle quali una comincia "Per lo marito c' ò rio" ed è il lamento d'una donna a cui è capitato un marito cattivo; l'altra incomincia "L'amor fa una donna amare" e tratta d'una giovane che, ardente di desiderio, manifesta le amorose voglie ad un uomo, calpestando ogni pudore del suo sesso. Da questo realismo non furono esenti gli stessi poeti del "dolce stil nuovo"; poiché esso era appunto il prodotto della vita stessa che allora si conduceva nella Toscana. I medesimi poeti della nuova scuola iniziata dal GUINIZZELLI, sovente, lasciavano da parte le ideali concezioni d'amore e ponevano un piede nella realtà della vita, compiacendosi delle voluttà del senso o servendosi del verso per le loro meschine leghe letterarie. LAPO GIANNI desiderava di possedere la sua donna, e bramava di aver la bellezza d'Assalonne, la forza di Sansone e le mura della città argentate per goder meglio la vita; GUIDO CAVALCANTI, se si deve prestar fede a due versi di GUIDO ORLANDI, non disdegnava i godimenti del senso; lo stesso DANTE, in un periodo della sua giovinezza, fu travolto dal turbine dei piaceri sensuali meritandosi il noto rimprovero del Cavalcanti.
Ma di questi poeti e d'altri ancora il realismo non è la caratteristica, ma solo un aspetto che, in seguito, non tralasceremo di studiare; di due poeti che rappresentano i veri esponenti di questa poesia realistica, e di cui dobbiamo ora occuparci: di RUSTICO di FILIPPI, fiorentino e di CECCO ANGIOLIERI, senese.
RUSTICO DI FILIPPI (1230-1300) scrisse sonetti amorosi e sonetti giocosi e satirici; nei primi non si discosta tanto dalla maniera di Guittone, benché, al pari del Davanzati e forse meglio, in essi si avvicina un po' alla realtà, e canta la sua passione con accenti umani, non di rara efficacia; negli altri il poeta mostra di essere un osservatore fine della vita che si svolge intorno a lui e un pittore vivace di tipi e di scene. "Le piccole e grandi imperfezioni umane, i contrasti fra le aspirazioni e la realtà e molte altre cose, infine, che costituiscono la tara di questa vita terrena sono argomento per lui d'esame e d'ironia. Passano nei versi, derisi o flagellati i millantatori, i vanitosi e gl'incostanti, e non vi manca la nota amara per le donne avare o comunque riprovevoli" (Bertoni).
Le scollacciature abbastanza audaci, i soggetti osceni e le espressioni da trivio fanno capolino con qualche insistenza nella lirica di Rustico di Filippi.

Più bizzarro e più originale di lui è CECCO ANGIOLIERI, figlio di un Messere Angiolieri frate gaudente e di una Monna Luisa bacchettona, nato verso il 1230 e morto non dopo il 1312. L'avarizia del padre non evitò che lui diventasse un dissipatore. Carattere strano, ribelle ad ogni legge, scettico e depravato, ma d'ingegno potente, visse nella crapula, sciupando tutto il suo avere nei bagordi, alle taverne e con le donne; e il padre, forse per dargli un freno, lo sposò ad una donna brutta e vecchia, il cui garrire continuo pareva, come dice il poeta, "mille chitarre".
Innamoratosi di Becchina, bellissima figliuola di un calzolaio, cantò tutte le ebbrezze e tutti i tormenti che la volubile donna gli procurò. La sua poesia amorosa è tutta impregnata di un sensualismo crudo, priva di un raggio di quella luce d'idealità che si effonde dai versi dei rimatori dello "stil nuovo", e in essa il poeta pare che si compiaccia di anatomizzare atrocemente la sua vita interiore, di mostrare agli altri, nella più volgare nudità, l'anima sua e il suo cuore, riuscendo di un'efficacia straordinaria. Nemico di molti, l'Angiolieri esercitò la sua satira pungente contro i poeti del suo tempo e scambiò sonetti mordaci con Dante, il quale, in un sonetto, è dipinto a colori molto foschi.

Più che un poeta satirico l'Angiolieri si può considerare - come bene ha fatto il D'Ancona, che ci lasciò di lui un ottimo saggio critico - un umorista. La poesia dell'Angiolieri è l'eloquente espressione di un atroce dramma interiore. Il poeta ha l'inferno nel cuore, ma sul suo labbro si disegna il riso; soffre e si sforza di dissimulare le sue sofferenze; l'interno affanno gli contorce le labbra in una smorfia che non è sorriso o pianto; egli ci appare allegro, spensierato e folle, cinico e scettico, maligno e beffardo e non è che un disgraziato che tenta di spegnere nel vino il fuoco del suo dolore, di dimenticare nell'orgia le sue pene, di coprire con una bestemmia il sospiro doloroso dell'anima, di non far sentire con uno scroscio di risa il gemito amaro che gli parte dal petto; non è che un infelice che porta in giro la sua infelicità sotto una maschera orribilmente dolorosa. Sovente, questa maschera gli cade involontariamente dal viso e a noi allora appare l'uomo che soffre e dà sfogo con accenti sinceri al suo dolore e non impreca, ma desidera rassegnato la morte e narra con calma le sue pene e con voce velata di intensa mestizia parla del suo triste destino e della fortuna che gli è perennemente avversa:
....s' io toccassi l'or piombo il farei
E se andassi al mar non crederei
Gocciola d'acqua potervi trovare.

Ma l'Angiolieri s'accorge che la maschera gli è caduta, la raccatta, si copre il viso e canta
Malinconia però non mi daraggio,
Anzi mi allegrerò del mio tormento.

Sono le prime scene del dramma; ora il cielo si oscura, passano nell'aria livida, in cui si svolge la vita del poeta, due fantasmi cupi, il fantasma del padre e della madre, al cui apparire si dileguano rapidamente l'immagine dolce di Becchina e quella ripugnante della moglie litigiosa; le ciglia dell'Angiolieri s'inarcano trucemente alla vista di coloro che lo hanno messo al mondo e a cui egli attribuisce la causa dei suoi dolori; la faccia del figlio si contrae orribilmente; dai suoi occhi torvi si sprigionano lampi d'odio, di
quell'odio pessimo e crudele che con grandissimo dritto egli porta agli autori dei suoi giorni, e dal cuore che sanguina parte il grido tremendo:
Poi m' è detto ch' io nol debbo odiare
Ma chi sapesse bene ogni sua traccia,
Direbbe: il cor gli dovresti mangiare.

Ci aspetteremmo un singhiozzo dopo questa terzina che racchiude tutto lo strazio da cui è tormentata l'anima del poeta; uno scoppio di pianto; no: all'Angiolieri il singhiozzo si arresta in gola, il pianto non sgorga dagli occhi e l'angoscia si risolve in un insieme di imprecazione e di sarcasmo:

S' io fossi fuoco, io arderei lo mondo;
S' io fossi -vento, io lo tempesterei;
S' io fossi mare, io lo allagherei;
S' io fossi Dio lo ma manderei in profondo,
S' io fossi papa, allor starei giocondo,
Che tutti li cristian tribolerei;
S' io fossi imperadore, allor farei
tagliare a tutta gente il capo a tondo.
S' io fossi morte, anderei da mio padre;
S' io fossi vita, fuggirei da lui,
E similmente farei con mia madre.
S' io fossi Cecco, come sono e fui,
Terrei per me le giovani leggiadre,
Le brutte e vecchie lascerei altrui.

Con questo sonetto meraviglioso l'Angiolieri ha creato il suo capolavoro: vi è tutto lo spirito di questo poeta bizzarro ed originale, nel quale sono stupendamente racchiusi il suo dolore e la brama di distruggere ogni cosa con cui contrasta il desiderio finale di godere la vita con le giovani leggiadre. E questa dell'Angiolieri è poesia vera, sentita, originalissima, forte, che nasconde un senso profondo e, allontanandosi dalle scialbe ed abusate imitazioni, ci conduce nella realtà sia pure bassa e volgare, ci fa, con arte magistrale, l'analisi precisa di un'anima, di un cuore, di una vita che soffre e il suo dolore tenta di coprire con lo scherno più amaro e più atroce.

Con Rustico di Filippi e con Cecco Angiolieri siamo in un periodo nuovo dunque della poesia. italiana, che va di pari passo e, non di raro, si confonde col "dolce stil nuovo". Però, quantunque certi poeti di questa seconda scuola abbiano dato anche il loro tributo alla poesia realistica, questa deve considerarsi in opposizione a quella che è prettamente idealistica.
La poesia realistica è l'espressione gaia e satirica di un mondo nuovo che sorge dal vecchio mondo medioevale, di un mondo borghese che ha dato giocondamente il bando ai sentimentalismi trovadorici, agli amori compassati dei cavalieri e delle castellane e si burla, d'altro canto, dei furori religiosi, delle paure che incuteva il pensiero dell'al di là.
La sciocca profezia della fine del mondo, nel 1280, anziché produrre terrore negli animi e condurre le genti alla penitenza, induce dodici giovani spensierati e ricchi a convivere dentro una palazzina, portando ciascuno diciottomila fiorini, che debbono esser spesi in bagordi nel minor tempo possibile. E FOLGORE da SAN GEMIGNANO, che è della partita, dà in corone di sonetti i consigli sul modo di trascorrere i giorni della settimana e i mesi dell'anno. In queste, corone di sonetti, in quella dei mesi e in quella dei giorni, troviamo quasi la pittura della vita toscana del tempo, vita allegra e gaudente delle brigate spenderecce, che si dilettavano di armeggiare nelle vie e nelle piazze fra un gaio

....rompere e fiaccar bigordi e lance
e piover da fenestre e da balconi
in giù ghirlande e in su melarance;


che amano godere la vita nella gioia, noncuranti di tutto. La poesia di Folgore, quando non è acremente satirica come nei componimenti d'argomento politico, è l'espressione più bella, nella compostezza e finezza del verso e nell'armonia dolce che la pervade, del lato giocondo della vita; ma questa è come una medaglia e il rovescio lo troviamo nei versi di CENE DELLA CHITARRA, che, facendo burlescamente e con meno arte, la parodia della corona dei mesi del sangemignanese, par che voglia rammentare ai giovani scapigliati di allora il brutto e il volgare che esiste nella vita.

Con questi poeti siamo dunque giunti in un periodo in cui la letteratura comincia a divenire italiana di forma e di contenuto. E non soltanto la poesia. La prosa, nel Duecento, si compiace di volgarizzare opere francesi e latine per quella tendenza, propria del secolo, alla divulgazione e ci mostra un fardello non piccolo d'imitazioni e di traduzioni. Si scrivono così i Dodici conti morali che dipendono direttamente dai "Fabliaux", i "Fatti di Cesare", la "Fiorita di Armannino giudice", l'"Istorietta troiana", l'"Historia troiana" di GUIDO delle COLONNE, che dipendono dal famoso romanzo di Benoit de Saint-Mare, i due Tristani, il veneto cioè e il riccardiano, la Tavola Rotonda, il Libro dei Sette Savi, novelle d'origine orientale venute in Occidente e diffusesi in tutta l'Europa, i Conti d'Antichi Cavalieri, scheletri quasi di novelle cavalleresche che raccontano le imprese di Saladino, di Enrico II d'Inghilterra, del re Tebaldo, di Brunor e di parecchi eroi troiani e latini.
Anche il "Tresor" di BRUNETTO LATINI ha una traduzione dovuta forse a Bono Giamboni; i "Trattati morali" di ALBERTANO da BRESCIA sono tradotti da Andrea da Grosseto e Soffredi da Pistoia; traduttori trovano Cicerone, Orosio e Innocenzo III. Accanto però alle traduzioni e alle riduzioni troviamo non poche opere originali. Di GUIDO FAVA troviamo la "Gemma purpurea" e i "Parlamenti ed epistole", di MATTEO LIBRI le "Dicerie", raccolta di discorsi da esser pubblicamente recitati da notai e podestà, di FRA GUITTONE D'AREZZO troviamo trentasei lettere morali, religiose e politiche, scritte in una prosa che chiamerei ritmica, in cui si compiace di sfoggiare la sua erudizione a scapito dello stile che quasi mai è snello, scorrevole, naturale, vivace.

Fra i libri originali in prosa scritti in questo secolo dobbiamo annoverare "Il Fiore dei Filosofi", raccolta di sentenze e di consigli attribuiti a personaggi illustri dell'antichità, il "Fiore di Virtú", opera, forse, di TOMMASO GOZZADINI, graziosa e non inelegante raccolta di sentenze intorno ai vizi e alle virtù, la "Composizione del mondo" di RISTORO D'AREZZO, compilazione lunga e noiosissima da cui l'arte è completamente assente e l'"Introduzione alle Virtù" di BONO GIAMBONI, allegoria in prosa, in cui è pregevole la lingua e lo stile è franco ed elegante.
Il capolavoro in prosa del Duecento è una preziosa raccolta di novelle che alcuni intitolano "Novellino", altri "Cento novelle antiche". Non sono novelle vere e proprie; non sono certo quelle del Boccaccio e neanche quelle del SACCHETTI e di SER GIOVANNI FIORENTINO; sono abbozzi, quadretti, aneddoti, scritti senza pretese, attinti a narrazioni scritte ed orali, che parlano di fatti e personaggi dell'antichità e del medioevo; ma sono dei veri gioielli per la sobrietà, la concisione, la chiarezza, l'evidenza, la leggiadria dello stile e la purezza della lingua.
Con l'Introduzione e il Novellino la prosa volgare mostra di essere già divenuta uno strumento capace di esprimere con efficacia il pensiero italiano che, uscito, quasi, dal tenebroso medioevo, si avvia sicuro e rapido nei sentieri fioriti dell'arte.

(terza parte) NEL CAPITOLO SEGUENTE > > >

IL "DOLCE STIL NUOVO" - GUINIZZELLI, FRESCOBALDI, GIANNI ALFANI, LAPO GIANNI, CINO DA PISTOIA, GUIDO CAVALCANTI - LA POESIA GIOVANILE DI DANTE ALIGHIERI

RITORNA AL TABELLONE ANNI E TEMATICO

o ai RIASSUNTI