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( QUI TUTTI I RIASSUNTI )  RIASSUNTO ANNI dal 1268 al 1282 

MALGOVERNO ANGIOINO - SICILIANI - D'ARAGONA - PASQUA 1282

LA MALA SIGNORIA DI CARLO D'ANGIÒ IN SICILIA - L'ANGIOINO VIOLA I PATTI DELL'INVESTITURA - ECCLESIASTICI, NOBILI, BORGHESI E POPOLANI ANGARIATI DAL GOVERNO FRANCESE - AGGRAVI FISCALI, ALTERAZIONE DELLE MONETE, CONTRIBUZIONI FORZATE, CONFISCHE, INGIURIE, PERSECUZIONI, PENE - L'AMMINISTRAZIONE DELLA GIUSTIZIA - I BARONI FRANCESI - OFFESE ALL'ONORE - LAGNE DEI SICILIANI - MISSIONE AL PAPA DEL VESCOVO DI PATTI E DI FRATE BUONGIOVANNI - LA NOBILTÀ SICILIANA - PIETRO D'ARAGONA E I FUORUSCITI DEL REGNO DI SICILIA - GIOVANNI DA PROCIDA - MISTERIOSI PREPARATIVI DEL RE D'ARAGONA - LA PASQUA DEL 1282
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IL MALGOVERNO ANGIOINO IN SICILIA

Di tutte le regioni che costituivano il regno di CARLO D'ANGIÒ quella che più d'ogni altra sentiva il peso della dominazione straniera era la Sicilia, colpevole di essersi nel 1268 schierata con lo sfortunato ultimo principe svevo, Corradino, ed era rimasta manifesta a tutti il rimpianto dei bei tempi di Guglielmo, di Manfredi, o di Federico II, vale a dire degli Svevi che però molti avevano contribuito a cacciare.
Da tutte le classi sociali erano sentite le conseguenze funeste del tallone angioino, sia dal clero, sia dalla nobiltà, sia dalla borghesia come dalla plebe. Carlo d'Angiò, e i suoi nobili francesi cui aveva concesso tutte le cariche dell'amministrazione, non aveva risparmiato nessuno.

Prima Urbano IV poi Clemente IV avevano concesso all'Angioino l'investitura del regno a patto che gli ecclesiastici avrebbero goduto delle franchigie da loro pretese e dagli Svevi negate, e che rendevano loro quei beni dal governo precedente usurpati.
Fu l'illusione di tutti i papi succedutisi ad INNOCENZO IV e URBANO IV (i due papi che nel 1262, lo avevano chiamato in Italia per cacciare -dicevano - gli "empi", "eretici", "dissoluti", Svevi).

Carlo però, ricevuta in anticipo la corona dal morto Urbano IV, con i successivi non mantenne fede ai patti giurati; nonostante le proteste pontificie, non solo lasciò al clero la stessa situazione creata dagli svevi, ma gli tolse perfino quelle poche franchigie che alla Chiesa erano nonostante tutto rimaste; taglieggiò i Templari e gli Spedalieri e giunse perfino a vietare che i suoi sudditi commerciassero con gli stati della Chiesa.
Avido di danaro e costretto a compensare tutti coloro che lo avevano seguito ed aiutato nella conquista, Carlo non solo concesse ai suoi serventi le cariche più lucrative e i benefici ecclesiastici, ma con il pretesto di assicurarsi la legittimità dei possessi della corona e dei privati, confiscò e spogliò più che poté quegli stessi baroni che tradendo gli svevi, lo avevano aiutato a cacciarli, ad annientarli, e perfino a decapitare l'ultimo rappresentante svevo (Corradino)

Con questi beni sottratti agli altri, Carlo si mostrò generoso solo verso i suoi seguaci.
Nulla fu rispettato, non leggi, non usi, non tradizioni; la violenza più crudele, le usurpazioni più sfacciate, la negazione d'ogni diritto furono innalzate dagli Angioini a sistema di vita e di governo.
Si costringevano i più ricchi proprietari siciliani a prendere in affitto le tenute che erano state a loro sottratte e divenute tutte beni regi. Stipulando dei patti che il sovrano o i suoi amministratori esosamente dettavano, cui per nessun motivo si doveva o poteva venir meno; gli armenti e le greggi del re erano mandati a pascolare nelle proprietà degli altri, i quali non soltanto erano così danneggiati, ma spesso, non più curati si trasformavano in boscaglie.

Passavano ogni limite le imposte: mantenute e spesso inasprite erano quelle antiche; a queste, molte nuove se n'aggiunsero e, come se questo non bastasse, si "scorticava" la popolazione con tributi straordinari che sovente erano resi più gravi, nella misura, e più esosi nella maniera della riscossione, dagli odiosi e prepotenti ministri del sovrano.

"Si promulgano così gli editti; - scrive Michele Amari nella sua magistrale opera sulla "Guerra del Vespro siciliano", dalla quale ricaviamo queste notizie - e sbucano fuori i riscuotitori senza cuore; non bastando i sudori spesso immani, i miseri dai loro focolari per pagare si strappano il pane dalla bocca, e se pagano una sola parte, si vedono pure portar via le suppellettili, gli animali e perfino gli strumenti dell'agricoltura. Poi il resto: si diroccano le case le strade i ponti e ogni cosa per le troppe persone portate all'improvviso a languire nelle carceri. Lì sono incatenati con manette di ferro dove si nega loro il cibo e il bere. Popolani e nobili, vecchi, fanciulli, adulti, donzelle si serrano alla rinfusa in un sol gregge; ma anche questo è occasione e pretesto per violenze maggiori".
Gli angariati, non devono riunirsi, non devono parlarsi, non devono commerciare, non dovrebbero insomma campare, ma ciononostante devono pagare.

"Mille nuove arti, insegnavano ai vessatori l'inesauribile modo di come appagare la loro sete di ricchezze; sulle liste di proscrizione dei gabellieri il nome di uomini benestanti o laboriosi crescono; e questi uomini nella società del terrore diminuiscono sempre di più.
E quelli che restano dicono: "Nostri non sono i beni; eppure per costoro noi ariamo il suolo. Oh si lasciasse almeno ai coltivatori un tozzo di pane ! Oh mangiassero, ma non divorassero ! Ma no; le persone non difendono i beni; né i beni salvano le persone. Tutto bevono, tutto succhiano questi vermi insaziabili. C'è appena concesso il disputare ai "corvi" i brandelli delle carogne".
Tra la moltitudine dei poveri- straziata in tal modo, anche i ricchi non potevano comprarsi la loro sicurezza nemmeno con il sacrificio dei propri beni.
Pagavano le tasse, e non bastava; gli ufficiali negavano la scritta del ricevuto, fin quando non si dava a loro extra una grossa mancia.
Il re dal canto suo vuole da loro tutta la raccolta (colletta) delle tasse del paese, immancabilmente solo in moneta contante; che ci pensino loro a riscuotere denari o vendere ciò che è stato portato via o le cose confiscate.
Chi si rifiuta va in prigione, in catene, finché non si ricava il dovuto per via d'ufficio; né poi il disgraziato esce perché deve prima pagare una nuova tassa per riscattare i giorni e i mesi della sua reclusione, che per lo stato la detenzione è un costo.

Era un buon sistema, anche perché, uno usciva, e un altro lo si trovava subito con un qualsiasi pretesto per farlo entrare, fin quando era "spolpato" con lo stesso sistema.
Frequenti i comandi ai violenti giustizieri, che si passavano tra loro mille segreti di come estorcere e come riscuotere con l'inganno o la forza.
Loro erano ovunque a caccia della loro vittima, frequentando (come vedremo più avanti nella Pasqua del 1282) anche le chiese.
Non di meno erano i prestiti che richiedeva il re ai privati o ai Comuni, faceva i patti come voleva lui e quando doveva rimborsare con un qualsiasi piccolo pretesto i patti non erano più mantenuti".

A questo danno causato dalle arbitrarie prepotenti angherie, c'era da aggiungere quello prodotto dalla gravissima alterazione delle monete.
In luogo degli "agostani" (o agostano - da Augustus, nel senso di Imperatore) di Federico II, che erano di oro purissimo (e aveva l'impronta della sua testa), CARLO D'ANGIÒ, fece coniare (con il suo nome) i "carlini" e "mezzi carlini d'oro", ma l'oro queste monete lo avevano appena visto; infatti erano di lega scadente, cui però fu imposto il corso di quelli precedenti. E guai ai pubblici ufficiali e ai privati che si rifiutavano di accettarli o darli indietro per un valore inferiore a quello stabilito dall'editto angioino; i primi erano puniti con il taglio della mano e con la confisca dei beni, gli altri erano marchiati in fronte con la moneta arroventata.

"Ogni anno poi, e in certi anni più volte, si stampava e Messina ed a Brindisi una bassa moneta, una lega con molto rame e con pochissime parti d'argento, chiamata "crosa", oppure "or biglione"; ma per renderlo splendido lo si chiamava con l'antico nome romano "denaro". Ma queste brutte e umile monete non entrando spontaneamente in circolazione perché spesso rifiutate dai commercianti, si obbligarono gli abitanti di paesi e città di ritirarle all'esorbitante "valore edittale"; e per averle bisognava cambiarle con delle buone monete d'oro o d'argento.
In pratica si versava oro e argento per poi avere in tasca una "patacca" di vile metallo.

Ovviamente ci guadagnava il fisco più dell'ottanta per cento, mentre i privati ci perdevano altrettanto. Né con un editto e nemmeno sotto supplizio, si poteva dare valore a una moneta che il valore non l'aveva. Cosicché in capo a quattro o cinque giorni cinquanta denari valevano sei, passata la settimana calavano ad uno. I sinistri effetti di tali alterazioni, li aggravava poi il re, vietando per gli scambi di qualsiasi genere i nobili metalli e qualsiasi altra moneta; dovevano circolare solo le sue.
Questo sistema non era né un balzello, né una taglia, ma era una vera e propria gretta rapina di un falsario. Che soffocava e distruggeva i commerci; né lontanamente si pensava che andando avanti così, per quanto si potessero mungere i sudditi, in avvenire anche lo stato avrebbe incassato come tasse delle "patacche" di nessun valore.

"Il gran Federico - citiamo ancora lo storico del Vespro - aggravando le tasse, aveva almeno esentato certi servizi; si era inventato -anche se criticabili- ineguali sistemi di contribuzione".

"Ora invece la nuova avarizia angioina, prendeva da ogni parte, riduceva tutto, e richiedeva i servizi senza però chi li esplicava a esentarli da certi balzelli.
Ad esempio non volle il servizio militare né l'armamento delle navi, a carico dello stato. Quando occorrevano ci dovevano pensare i suoi vassalli, o al massimo prendeva al soldo alcune schiere di mercenari, che poi non pagava ma lasciava far loro il sacco alle povere città assediate.
Per procurarsi i denari aveva escogitato un bel sistema; chi sulle navi o nell'esercito si nascondeva o fuggiva (cosa non rara la diserzione in certe battaglie) costui era perseguitato, e si mettevano in carcere i genitori, i fratelli, le sorelle, fin quando il contumace non si costituiva e pagava o lui o i familiari una forte ammenda.
Chi non operava bene nell'industria, artigianato, commercio, li si mandava in prigione e venivano fuori solo se pagavano forti multe ai commissari.

"Alle carrozze - scrive l'Amari- alle barche, danno di piglio gli ufficiali, i familiari del re, i magistrati, quelli degli uffici pubblici, i castellani, i feudatari; sempre gridando che loro sono al servizio del re o di questo o di quel barone. Trattano i padroni come servi, li obbligano a prenderli a bordo e come mercede danno non soldi ma spesse volte percosse a chi (giustamente) si ribella.
Allo stesso modo senza pagare nessun prezzo si portano via dai mercati ogni tipo di vivande perché, dicono, loro sono commissari del fisco. Sequestrano e suggellano furbescamente tutte le botti dei vini, perché -dicono- tocca prima al re la gratuita scelta, e ai proprietari di quei vini gli toccherebbe solo ciò che avanza, cioè i rifiuti; ma poi il furbo e turpe funzionario si accorda, e per denaro la minacciata confisca si mitiga, o la si annulla del tutto".

"In così mille infami ricatti, per le piazze, per le osterie, perfino nel lezzo delle taverne la cupidigia di spregevoli soggetti, spazia in ogni angolo, rivaleggiando con quella dei loro potenti padroni.
Infimi e spregevoli subordinati, per i tanti loro bisogni e per quelli della uggiosa signoria, svolazzavano per la Sicilia a stormi, s'introducevano nelle case dei cittadini, abusando di quel gravoso diritto gratuito che era quello d'albergo.
Entrano a ragione o a torto; poi ne scacciano la famiglia, sciupano letti, masserizie, e quando le trovano perfino le vestimenta e se a loro piacciono se le portano pure via".

"E se non contenti dei servigi personali avuti, le ingiurie passavano ogni costumanza, ogni limite della stessa ingiuria sociale; con gli eccessi del capriccio, del più strano, alle volte fatto per dispetto.
Si vedevano nobili, o rispettabili uomini costretti umilmente a recar su le spalle vivande e vini alle ricche mense degli stranieri; si vedevano nobili giovinetti usati nelle cucine a girar lo spiedo, a fare gli sguatteri come degli schiavi".

"Ma se a ragione qualcuno parla, se qualcuno si lagna, e se subito non ubbidisce, questi tracotanti tipi sinistri ti alzano contro lo staffile, ti snudano il ferro della loro spada; loro sono sempre cinti di ferro, mentre sono inermi i cittadini per il rigoroso divieto di portare qualsiasi arma. E così percuotono, uccidono; e peggio del ferire, portano in prigione i cittadini che osano parlare; così alla violenza privata di quell'arrogante sgherro, subentra poi la violenza pubblica, e se non si ripara con il danaro all'oltraggio vero o falso (ma loro hanno sempre ragione, sempre creduti, il disgraziato suddito mai), il magistrato, invocando la legge e Dio, condanna a morte, alla prigione, all'esilio. E così un'altra confisca di beni è guadagnata per sua maestà il re!"

"La giustizia così amministrata dai gregari iniqui e ingordi del re e dei suoi baroni si può facilmente capire a com'era ridotta, specie quando si pensi che ai giudici anziché dargli uno stipendio, a loro era chiesta una somma per la loro assunzione. Le somme versate se le dovevano poi procurare da soli con le loro sentenze, che erano sempre a favore di chi disponeva di tanti soldi".

Le pene che contemplavano le leggi, erano severissime: verghe, marchio col fuoco, esilio, taglio della mano o perfino la morte ai ladri, incendio della casa ai ricettatori, grosse ammende ai comuni nel cui contado avvenivano furti; e multe durissime alle città o paesi in cui era commesso un omicidio e non era scoperto il reo.
Ma queste leggi o non erano applicate con "giustizia", ma servivano all'ingordigia dei giudici che per danaro usavano questo stratagemma: rilasciavano in libertà gli arrestati e poi applicavano le multe alle città come se il reo fosse rimasto ignoto. Il guadagno era così decuplicato, centuplicato.

"Poi c'erano quelle leggi che erano nettamente contrarie ad ogni senso di umanità e di giustizia; come quella che vietava i matrimoni senza il permesso del re. E qui, - citiamo ancora l'Amari - affinché i feudi ricadessero al fisco, il re Carlo condannava a celibato perpetuo gli eredi. Qui, passando da abuso ad abuso, le più ricche e leggiadre donzelle erano costrette a nozze con gli odiosi stranieri, o con i loro più ricchi partigiani, o, se talvolta si concedeva il matrimonio ad un uomo italiano, si sottraevano alla ricca donzella i suoi beni. Natura, società, religione, i più santi legami violavano quest'insensata tirannide".

"Alla tirannide del governo angioino si aggiungeva quella non meno odiosa dei Baroni stranieri, che trattavano la Sicilia come un paese di conquista.
Scalzata in gran parte l'antica nobiltà, la maggior parte ridotta alla miseria, tutto allo straniero si permetteva e nulla rispettava: non i beni, non le persone, non la pace delle famiglie, non l'onore.
I nobili francesi o i loro ribaldi sgherri turbavano le feste e i pacifici convegni dei cittadini, danneggiavano i campi con le loro partite di caccia, pretendevano servigi non dovuti e battevano, ferivano, imprigionavano nelle carceri, chi aveva il coraggio di opporsi alle loro brame o a protestare per le loro violenze; penetravano nelle case, offendendo le caste donzelle e le pudiche mogli, costringendo le une e le altre a voglie insane, davanti gli occhi dei padri, dei fratelli, dei mariti; rapivano le migliori donne che portavano poi nei loro castelli e nonostante disonorate, le rimandavano alle famiglie se queste pagavano un buon riscatto".

Le tristissime condizioni dei Siciliani si aggravarono maggiormente durante i preparativi fatti da Carlo per la spedizione in Oriente. L'Angioino voleva che anche gli isolani partecipassero alla guerra e i Siciliani invece non avevano nessuna voglia di battersi con i Bizantini, con i quali da qualche tempo erano in buoni rapporti per ragioni di commercio; inoltre a favore dell'odiato tiranno, non volevano di certo lasciar le famiglie ed i beni in balia dei ladri e oppressori governativi; né volevano affrontar la miseria, per quel misero soldo che l'Angioino forniva alle truppe per tre mesi soli e che poi spesso nemmeno pagava.

Lo storico Saba Malaspina ci parla dei lamenti delle povere popolazioni dell'isola:
"Oh ! - dicevano - fuggiamo dalle case nostre, per nasconderci in boschi e caverne; e sarà un vivere sempre meno duro. Anzi dalla Sicilia si fugga via, che è terra di dolore, di povertà e di vergogna. Non fu più schiavo di noi il popolo d'Israele sotto re Faraone; si risentì e spezzò le catene. E se ricordiamo poi le glorie dei nostri antichi! Vili bastardi siamo noi; snervati dalle divisioni, dai vizi; noi della cristianità il popolo più abbietto".

Né - lo abbiamo già detto- solo il popolo si lagnava, ma anche la nobiltà che doveva fornire le milizie feudali e le navi; e si lagnava il clero, prima quello basso, poi sempre di più anche quello alto del tutto esautorato.
Ma lagnarsi con il sovrano era inutile ed anche pericoloso; solo il Pontefice avrebbe potuto lenire gli affanni dei Siciliani, era stato del resto il suo predecessore che aveva investito Carlo del regno, e a Carlo il Pontefice poteva toglierlo, così almeno pensavano i più ottimisti.
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Alla corte papale di MARTINO IV (eletto il 22 febbraio 1281- grazie a Carlo d'Angiò, che l'ex cardinale ricompensò nominandolo suo vicario), per supplicarlo in nome della Sicilia oppressa, si recarono BARTOLOMEO vescovo di Patti e frate BUONGIOVANNI dei Predicatori. Vi trovarono proprio il Re, ma non temettero di esporre le loro lagnanze in sua presenza.
"Superfluo è dire - nota l'Amari - che Martino IV si fece sordo. Mentre Carlo fece finta di nulla; ma usciti i due oratori dal palazzo, i suoi miliziani circondarono i due prelati, li arrestarono e li scaraventarono in un duro carcere.
Il frate predicatore espiò a lungo quel coraggio di aver voluto parlare. Mentre i vescovo di Patti, trovò il sistema di corrompere i suoi custodi e riuscì a fuggire, e per niente domato dalla brutta esperienza, dopo aver raggiunto a Messina, raccontò a tutti i siciliani la sua disavventura; e la gente nell'ascoltarlo piangeva dalla rabbia".

Carlo, sdegnato dalla riluttanza dei Siciliani alla spedizione, minacciava di passare nell'isola con tutto l'esercito radunato per la guerra, di sterminare gli abitanti e di ripopolarla con altre genti di stirpe diversa.

"Queste voci - citiamo sempre "Michele Amari" - si diffondevano con l'insensata millanteria e arroganza dei suoi serventi "padroni".
Ma anche senza di loro il popolo tiranneggiato quella minaccia la temeva, perché sapeva che il re sapeva a che misura era arrivato l'odio dei siciliani per lui.
Un odio che per comunanza di mali e di tormentati comuni desideri aveva dileguato ogni ruggine tra le città, tra le famiglie, tra i vassalli e i feudatari siciliani. Erano già pochi, ma sempre meno parteggiavano per il Re, purtroppo però si accresceva l'odio ma non le forze".

"Il clero seguiva e precedeva questo malumore dell'opinione pubblica, com'è del resto dimostrato dalla missione di Bartolomeo e di Bongiovanni, e dallo zelo che il primo poi mostrò in tutto il corso della rivoluzione, nonostante le continue scomuniche papali".

"I nobili siciliani, ormai pochi, oppressi e inermi, pur essendo i più danneggiati, non potendo fare nulla da soli, non restava loro che ingrossare la protesta popolare .... Il malcontento mise dentro nello stesso manipolo da abbattere i governanti e i principi. In breve la forza popolare riunita era arrivata a tal numero, che avanzava di molto le aspettative dei tempi ordinari; anzi questa Sicilia mezzo feudale entrava nell'ordine d'idee dei più democratici popoli italiani.

"Si ricordava l'età del buon Guglielmo, quell'età di pace, larghezze e franchezze; si deplorava la svanita repubblica del cinquantaquattro; e abbellito dell'immaginazione, con invidia era dipinto il viver lieto delle città italiane senza re, senza feudatari, senza Francesi.

"Né solo era travagliata la gente dalla preoccupante povertà, dalla gravità delle imposte, dai propri beni in pericolo, e dal timore del peggio; era soprattutto molestata gravemente dalla gelosia delle proprie donne, godute indegnamente dagli stranieri o per forza, o per prezzo, o per seduzione di vanità, o per la fortuna".

Era stampato in tutti gli animi il fantasma di Carlo: vecchio, brusco, avaro, crudele, sprezzante di ogni diritto, e per la Sicilia lui era il nemico numero uno.
Il viver di violenza, per sedici anni, aveva potentemente operato sull'indole, proprio per niente morbida, del popolo siciliano, e ne aveva modificate per fortuna solo le sembianze, perché la prima era rimasta sempre latente.

Ciò che era una volta festevole si era fatto tetro; sparirono i conviti, i canti, le danze, e (scrissero i siciliani poi a Papa Martino) "pendevano mute le arpe".

Dice un'altra rimostranza del misero popolo "Tutti i polsi battevano febbrili; i dubbiosi facevano scorrere i giorni, gli ansiosi riempivano le notti, e perfino i sogni erano turbati dalle minacciose sembianze degli oppressori; né si poteva vivere e neppure morire tranquilli.
In cupe meditazioni, c'era la tristezza, la vergogna, un'animosità profonda, una volontà ardente di vendetta.
Feroci passioni, che si propagavano a chi soffriva da sé per le ingiurie subite, o chi si tormentava nel vederle fatte ad altri; si diffondevano questi sentimenti negli svegli e nei ritardati, negli irascibili e nei muti, nei coraggiosi o nei paurosi; e coinvolse gente di ogni età, ogni sesso, ogni ordine di uomini.
La foga delle passioni private, tutti i conti dei privati interessi, tacquero all' istante, o forse anche questi si rivolsero ad unico e universale pensiero, che era più possente di qualsiasi più forte congiura".

Così iniziava in Sicilia l'anno milleduecentottantadue; 1282!

Non dimentichiamo cosa scrissero i cronisti di quel febbraio 1282. Accadde un fatto strano. Mentre papa Martino era ad Orvieto, una foca, approdata chissà da dove nel Mediterraneo, fu catturata nella spiaggia di Montaldo. Fu portata alla corte del Papa, indicandola come una nuova generazione di belve. E quella emetteva dei muggiti così lamentosi e paurosi, che la gente rimaneva agghiacciata dall'orrore. Dietro i successi in Sicilia dell'Angioino, ognuno vide chiaramente che quel mostro era venuto a presagire al Papa le calamità che pendevano da un momento all'altro.

Il "nero presagio" furono le parole che per parecchio tempo corsero tra i Palermitani. Accenna a quella repressa cupa rabbia e dissimulata angoscia, il cronista Niccolò Speciale "a me par proprio di sentire ciò che si dicevano l'un l'altro, scrollando il capo e guardandosi pupilla a pupilla".

PIETRO D'ARAGONA - GIOVANNI DA PROCIDA

Dopo quanto è stato detto fin qui si è potuto vedere come non soltanto la borghesia e il popolo erano senza distinzioni colpiti dalla tirannide angioina, ma anche, e non meno lo era l'antica nobiltà siciliana.
Quei nobili che non erano stati ridotti alla miseria dalle persecuzioni implacabili seguite dopo lo sfortunato e tragico tentativo di Corradino, male sopportavano il nuovo baronaggio venuto d'Oltr'Alpe a occupare il loro posto; colpiti mortalmente nelle loro ambizioni, nelle loro abitudini di comando, nei loro interessi e, sovente, nel loro onore, non potevano rassegnarsi alla perdita della loro secolare potenza.

Fra questi nobili era ALAIMO di LENTINI, il quale, odiando Manfredi, aveva in un primo tempo favorito Carlo, poi (come tanti altri come lui) ingiustamente privato nel 1275 di un'alta carica che ricopriva a Messina, ovviamente era diventato uno dei più accaniti di quelli che erano ostili ai Francesi; lo erano come lui ENRICO di VENTIMIGLIA, conte di Geraci, GUALTIERI di CALTAGIRONE e PALMIERI ABATE e non pochi altri. Ma che potevano fare da soli per scuotere il giogo straniero? Loro che disponevano di forze molto scarse contro un nemico potente che aveva saputo annientare l'impresa dell'ultimo svevo? E cosa fare in una regione in cui le città erano una rivale dell'altra e il popolo pareva che avesse perduto il senso della propria dignità e l'antica fierezza? Come agire stretti com'erano in un cerchio di munite fortezze e di truppe straniere, numerose e ben armate?
Era naturale che i nobili siciliani, desiderosi di vendetta e di libertà, volgessero lo sguardo fuori dell'isola e cercassero in qualche potente monarca un alleato che potesse aiutarli a scacciare l'odiato angioino. Fra i monarchi stranieri non ce n'era che uno, che poteva sposare la loro causa e farsi vendicatore della loro triste sorte: PIETRO D'ARAGONA.

PIETRO III, figlio di Giacomo I il Conquistatore, era un principe prudente, di non poco ingegno e di grandissimo animo, audace e costante, avido di dominio e valorosissimo in guerra come aveva mostrato di essere nelle accanite lotte contro i Mori.
Era marito di Costanza, la primogenita di re Manfredi, e sebbene anche genero di un sovrano considerato usurpatore dei diritti di Corradino, questi diritti in nome della moglie desiderava farli valere, ora che il figlio di Corrado era morto e non c'era più speranza che i cognati uscissero dal carcere angioino a vendicare il loro genitore.
Di ricordare questi pretesi diritti al marito non si stancava mai la regina Costanza. Essa non aveva potuto lenire nell'animo il dolore per la morte del padre, non sapeva rassegnarsi all'usurpazione di Carlo, all'eccidio di tanti baroni devoti alla memoria di Manfredi e continuamente pregava il consorte di vendicare quella morte, quegli eccidi, quell'usurpazione e lo accusava perfino di viltà vedendolo indugiare.

Né Costanza era la sola a spingere Pietro III all'impresa contro l'Angioino. Infiammati suoi alleati erano i nobili siciliani e pugliesi fuoriusciti riparati alla corte aragonese, fra i quali i più cospicui erano CORRADO LANCIA, RUGGERO di LAURIA e GIOVANNI da PROCIDA.

Di quest'ultimo abbiamo avuto già occasione di parlare. "Nobile salernitano -scrive il Lanzani - Giovanni traeva il titolo del proprio casato dal dominio feudale che questo possedeva sull'isola di Procida. Medico e scienziato illustre, fu tenuto in grande onore, dall'imperatore Federico e da Manfredi, i quali lo utilizzarono per importanti incombenze e missioni e grati dei suoi servigi ne aumentarono gli aviti possedimenti".

"Al tempo dell'arrivo di Carlo d'Angiò, il Procida era dunque uno dei più autorevoli feudatari del regno. Quale fosse la sua posizione dopo la battaglia di Benevento non si potrebbe dire con sicurezza: lo salvò forse la sua destrezza; forse visse fuori del regno, senza aver perso però i suoi beni. Da una lettera di Clemente IV a Carlo d'Angiò pare che si era guadagnata la grazia del Pontefice, il quale lo raccomandava alla clemenza del proprio vassallo, assicurandogli la sua devozione, e mostrandogli i vantaggi che il nuovo governo poteva ricavare dai lumi e dall'esperienza dello scienziato".

"Del resto, in qualunque maniera si possa interpretare un tale documento, è certo che alla discesa in Italia di Corradino, Giovanni da Procida lo ritroviamo tra i più ardenti e arrivi partigiani dello sfortunato Svevo; per questo motivo dopo la seconda vittoria angioina a Curcola, lui riuscì a fuggire all'estremo supplizio abbandonando l'Italia e ovviamente gli furono confiscati tutti i suoi beni.

"Si rifugiò presso la figlia del suo antico signore, alla corte di Aragona, ove fu tanta la stima che gli procuro la sua scienza e la sua saggezza, che Pietro, appena salito al trono, lo volle accanto a sé, fu tra i più ascoltati suoi consiglieri e gli affidò le signorie di Lugen, Benizzano e Palma".

"Continuamente spronato dalla moglie e dai fuorusciti, confortato dal malcontento della popolazione siciliana per la mala signoria angioina e, forse ancora, dai segreti appelli dei nobili di Sicilia, re Pietro da qualche tempo e con grande circospezione si preparava all'impresa che avrebbe dovuto vendicare il suocero e dare ai figli un nuovo regno.
Con il re saraceno di Granata concluse una tregua di cinque anni, e nel 1279 strinse con lui addirittura un'alleanza; tramite il re di Castiglia, si mantenne in buoni rapporti con Filippo di Francia e pare pure che entrò in relazione con i maggiori capi del Ghibellinismo italiano (Guido Novello, Guido di Montefeltro, i Visconti, il marchese di Monferrato); infine con la repubblica di Genova che aveva due motivi di odio contro l'Angioino; uno di rancore per essere stata giocata in Sicilia dopo averlo aiutato a conquistarla; l'altro d'interesse: far fallire l'impresa in Oriente per impedire a Venezia, alleata di Carlo, il predominio commerciale.

"Nelle relazioni segrete con la nobiltà siciliana e con i Ghibellini italiani utilissima poteva essere a Pietro l'opera dell'abile Giovanni da Procida ed è quasi certo che di lui si servì l'Aragonese. Gli storici del tempo però e quelli posteriori esagerarono la parte che in questi intrighi ebbe il fuoruscito salernitano, anzi gliene attribuirono così tanti che finirono col fare di lui l'ispiratore dell'impresa e il principale protagonista; scrissero intorno ai disegni, pratiche, congiure, e viaggi di Giovanni un vero romanzo.

"Secondo questi scrittori, Giovanni da Procida nel 1279, recatosi a Costantinopoli, persuase l'imperatore MICHELE PALEOLOGO ad atti ostili all'Angioino. Da Costantinopoli, travestito da frate Minore, si recò in Sicilia e, radunati non pochi baroni, tra cui ALAIMO di LENTINI, GUALTIERI di CALTAGIRONE e PALMIERO ABATE, li mise a conoscenza dei suoi disegni e della congiura; quindi, nel 1280, sotto le medesime spoglie di frate, andò a trovar papa NICOLÒ III al Castel Soriano e, comprandolo con l'oro bizantino e persuadendolo del grave danno che poteva derivarne alla Santa Sede la potenza angioina, riuscì a far segretamente dal Pontefice investire PIETRO D'ARAGONA del regno di Sicilia.
Da Castel Soriano Giovanni si precipitò in Catalogna a rincuorare Pietro con la bella notizia e sollecitarlo all'impresa, poi tornò ancora in Italia a Viterbo a conferire col Pontefice, poi a Trapani a prendere accordi con i baroni siciliani e di là ancora a Costantinopoli, dove, ottenute trentamila once d'oro dal Paleologo, fece vela per Malta e, infine, per l'Aragogna, dove affrettò i preparativi di guerra e con il re fissò il giorno e il modo della vendetta".

"Pur non volendo ammettere come realmente sono avvenuti tutti questi particolari riferiti dagli scrittori, è cosa da non mettere in dubbio che Giovanni da Procida abbia prestato la sua opera all'Aragonese nel procurargli amicizie ed aiuti; ma anche senza il salernitano Pietro avrebbe iniziato e saputo condurre a termine l'impresa, perché la sua ambizione era tale e tanta da non richiedere stimoli altrui, ed era così grande la sua abilità da riuscire lo stesso a suscitare nemici a Carlo.
È, ad ogni modo, cosa certa che i suoi preparativi politici e di guerra cominciarono prima della morte di Niccolò III. Erano così intensi quest'ultimi - costruzioni di navi da trasporto e di galee, arruolamenti di soldati e marinai, raccolta di vettovaglie, fabbricazione di armi - che, nonostante la segretezza nell'agire, non fu possibile tenerli del tutto nascosti.

Non sapendo contro chi fossero rivolti, si rafforzarono i Mori di Spagna e d'Africa e sospettosi erano tutti i principi cristiani, e Carlo era fra questi. L'Angioino, temendo per i suoi stati, nel 1278 aumentò la sorveglianza sulle coste dei suoi domini e aumentò più del doppio le vettovaglie delle fortezze siciliane, poi, volendo indagare sulle intenzioni di Pietro, scrisse a Filippo di Francia e questi, chiesto all'Aragonese il motivo di così tanti preparativi di guerra, si offrì di aiutarlo se essi erano rivolti contro i Saraceni. La stessa domanda gli rivolsero il re di Maiorca, i sovrani di Castiglia e d'Inghilterra, ma nessuno riuscì a sapere a che cosa mirasse Pietro, né vi riuscì Martino IV con l'usare ora le minacce ora le carezze".

Nei primi mesi del 1282 i preparativi dell'Aragonese andavano ancora avanti e già una nuova via gli si apriva con la richiesta di aiuti che gli faceva il principe saraceno di Costantina, minacciato dal sultano di Tunisi; ma nulla era pronto, non tutte le navi, non tutte le milizie destinate all'impresa; né erano maturi i progetti dei pochi congiurati, né completa era la preparazione politica, né - infine - era propizio il momento ad una guerra contro l'Angioino, che con i numerosi armati che aveva in questo periodo sotto mano, messi insieme per la spedizione in Grecia, avrebbe potuto facilmente aver ragione di quelle milizie che avessero tentato un colpo di mano sulla Sicilia.

Ma se il tempo, i preparativi e le trame non erano ancora maturi per l'impresa dell'Aragonese, c'era qualcos'altro che era maturo, e che nella storia dei popoli spesso conta più di tutte le sapienti arti della guerra e della politica: matura era la pazienza nell'animo dei Siciliani.

La misura era colma, giunta al massimo la tirannide, così acuta l'angoscia e così profondo l'odio del popolo di Sicilia verso l'Angioino, che bastò una sola goccia per far traboccare il vaso; un ultimo sopruso, non certo il più perverso dei molti altri sofferti, doveva spingere gli esasperati Siciliani alla grande ribellione, e alla voglia incontenibile della vendetta.

Si era nei giorni dopo Pasqua dell'anno 1282,
era il martedì del 31 marzo…..

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Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini, 1930
L.A. MURATORI - Annali d'Italia, 1749
MICHELE AMARI - Guerra del Vespro siciliano, 1854
GREGORIUVUS - Storia di Roma nel Medioevo - 1855

KUGLER, "Storia delle Crociate"
LANZONE - Storia dei Comuni italiani dalle origini al 1313
MAALOUF, Le crociate viste dagli arabi, SEI, Torino 1989
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 
 

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