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CRONOLOGIA

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( QUI TUTTI I RIASSUNTI )  RIASSUNTO ANNI dal 1257 al 1267 

GUELFI/GHIBELLINI A MILANO - FIRENZE GUELFA- VENEZIA-GENOVA

IL GUELFISMO LOMBARDO - LA POTENZA DELLA FAMIGLIA DELLA TORRE IN MILANO - PAGANO DELLA TORRE CAPITANO GENERALE - CACCIATA DEI NOBILI MILANESI - TRATTATO DI S. AMBROGIO DEL 4 APRILE 1258 - MARTINO DELLA TORRE SIGNORE DI MILANO - SUA ALLEANZA COL MARCHESE PALLAVICINO - OTTONE VISCONTI VESCOVO DI MILANO - FILIPPO DELLA TORRE - NAPOLEONE DELLA TORRE CAPO DELLA LEGA GUELFA LOMBARDA - GUELFISMO E GHIBELLINISMO IN TOSCANA - ESODO DI GUIDO NOVELLO E DEI GHIBELLINI DA FIRENZE - IL MONTE DELLA PARTE GUELFA - CARLO D'ANGIÒ IN TOSCANA - VENEZIA E LA SUA COSTITUZIONE - PRIME LOTTE TRA VENEZIANI E GENOVESI - CADUTA DI COSTANTINOPOLI NELLE MANI DI MICHELE PALEOLOGO - LOTTE TRA NOBILTÀ E POPOLO A GENOVA
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GUELFI E GHIBELLINI IN LOMBARDIA
POTENZA DEI TORRIANI

Dopo la triste morte di Manfredi, prima di proseguire le vicende degli Angioini (e del suo alleato, il Papa) in Italia, dobbiamo tornare indietro di qualche anno per dipingere un quadro completo della situazione nel centro e nel settentrione dell'Italia, mentre Manfredi era occupato nella sua ultima lotta.

Alla sorte degli Svevi era legato il Ghibellinismo dell'Italia centrale e settentrionale e la caduta della dominazione sveva nel mezzogiorno per opera di un principe, chiamato dal Pontefice e spalleggiato validamente dai Guelfi, non poteva non dare un terribile colpo alla fazione ghibellina.

Come abbiamo già visto nelle precedenti puntate, il Centro del Guelfismo, nella Lombardia, era Milano, dove i TORRIANI (cioè i DELLA TORRE) erano fra tutte le altre la famiglia più potente. Se ricordiamo, PAGANO della TORRE era quel signore della Valsassina, che nel 1237, dopo la battaglia di Cortenuova, aveva provvidenzialmente soccorso i Milanesi in rotta ospitandoli nelle sue terre e poi li accompagnò pure per farli rientrare.
Questa sua generosità lo aveva reso così caro al popolo, che da questo era stato considerato come il suo capo e la "Credenza di Sant'Ambrogio" (così si chiamava un movimento guelfo) lo aveva, nel 1240, proclamato capitano del popolo. Alla morte di Pagano, il posto di capo del partito popolare fu preso da MARTINO della TORRE, suo nipote (o come altri affermano, suo fratello). Sotto Martino riprese la lotta tra il popolo e la nobiltà, capeggiata questa da PAOLO di SORESINA e dall'arcivescovo LEONE di PEREGO.

Occasione del conflitto fu la morte di un grasso popolano, ucciso da un gentiluomo suo debitore. Il popolo prese le armi, demolì la casa dell'uccisore e scacciò dalla città i nobili, i quali, nel giugno del 1257, raccoltisi intorno all'arcivescovo ed aiutati dai Comaschi, s'impadronirono dei castelli del Seprio, della Martesana, di Fagnano, di Varese e di parecchi altri territori.
Le milizie del popolo, comandate da Martino, uscirono da Milano contro i nobili; ci furono parecchie scaramucce e già ci si preparava ad una vera e propria battaglia campale, quando, si misero in mezzo alcune città vicine come mediatrici, i due partiti si rappacificarono e i nobili tornarono in città.

Però nel trattato di pace sottoscritto dalle due fazioni non erano ben definiti i diritti dell'una e dell'altra, e, poiché poco tempo dopo cominciava a rinascere la discordia, furono nominati sessantaquattro arbitri, scelti in pari numero in seno dei due partiti, cui fu dato l'incarico di stendere un nuovo trattato che assegnando definitivamente alle parti i loro rispettivi privilegi, avrebbe eliminato ogni causa di contesa futura. Questo trattato con solenne cerimonia fu firmato il 4 aprile del 1258, ricordato poi come il "Trattato di Sant'Ambrogio" perché dentro la basilica fu solennemente sottoscritto.

Il Trattato sanciva l'eguaglianza tra le due fazioni, prescriveva che le cariche pubbliche sarebbero dovute equamente essere ripartite fra entrambe, aboliva le condanne; era insomma tale da assicurare la pace se scrupolosamente osservato. Purtroppo però la pace non durò che tre mesi e verso la fine di giugno ci fu un'altra ribellione e i nobili furono nuovamente cacciati dalla città, dove, per mezzo di un altro trattato concluso poco tempo dopo in seguito ad alcuni scontri dei nobili vittoriosi, questi poterono rientrare.

"Per quanto - scrive il Sismondi - vantaggiose erano state ai nobili le condizioni delle paci pattuite dopo le battaglie, in cui la loro cavalleria aveva riportato una schiacciante vittoria, erano appena rientrati in città quando il popolo ricuperava subito sopra di loro una certa superiorità assoluta.

Ma la lotta, tra le due fazioni rendeva sempre più necessaria l'autorità dei capi; mentre la plebe, a null'altro agognava che all'abbattimento dei nobili, poneva perfino in secondo piano la propria libertà; anzi a tale era giunto l'odio dei popolani contro i nobili che per ridurli all'estremo avvilimento il popolo sembrò perfino di compiacersi di cadere sotto il dominio di un signore; solo per avere il piacere di ridurre la nobiltà a servi.
Questo accadde nel 1259, quando i popolani decisero di eleggere un protettore della plebe, cui diede il titolo di capo, "signore del popolo" (è il preannuncio alla "Signoria")

L'elezione, per altro, non fu per nulla tranquilla. La "Credenza" (Guelfa), unita a tutti gli interessi d'ogni tipo e perfino alle infime classi della plebe, voleva alzare a questa dignità MARTINO della TORRE, il prediletto capo dell'azione popolare; ma l'altra società, la "Motta", composta delle più autorevoli famiglie popolane (popolane ma ormai dette "borghesi"); di quelle famiglie che per le loro ricchezze e per le cariche occupate nella repubblica erano in maggiore riputazione, e temendo forse l'eccessiva potenza di MARTINO, nominò un altro capo. E questi essendo stato ucciso in una sommossa, la Motta si unì quasi tutta al partito dei nobili ed a GUGLIELMO SORESINA, successore di PAOLO di SORESINA e "capo della nobiltà".
Per la prima volta troviamo i Nobili uniti ai "Borghesi", che con i commerci e i vari affari spesso come denaro contante sono infinitamente più ricchi di tanti Nobili, e quindi iniziano ora loro (e il loro denaro) a condizionare una buona parte della Nobiltà che spesso ha solo grandi proprietà incolte ma in tasca ha pochi denari; mentre ora per fare la "bella vita", questi occorrono.

A rimettere gli animi dei Milanesi nella concordia inviò Papa Alessandro IV un suo legato e, dietro i consigli di questo, il podestà mise al bando i due capipartito; però due giorni dopo MARTINO della TORRE ritornò in Milano, si fece riconoscere anziano del popolo e fece ratificare il bando contro GUGLIELMO SORESINA e i suoi sostenitori (nobiltà e clero).

Sopraffatti dalla fazione avversaria molto più numerosa, i nobili ricorsero, come altrove abbiamo già raccontato, ad EZZELINO da ROMANO, invitandolo a marciare su Milano. Sono note le vicende di questa guerra, che costò al tiranno nella battaglia di Cassano la vita.
Grandi vantaggi li ottenne Martino della Torre che aveva partecipato alla lotta, aumentò straordinariamente il suo prestigio e rafforzò talmente la sua posizione che i Lodigiani lo nominarono "Signore" della loro città.
Ma i nobili fuorusciti che avevano formato una compagnia a cavallo di cinquecento uomini perfettamente armati, costituivano una continua e grave minaccia alla sua potenza.
Non potendo opporre alla cavalleria dei nobili le sue milizie di pedoni, Martino della Torre concluse un trattato con il marchese PELAVICINO, il quale fu nominato capitano generale dei Milanesi e fu preso al soldo della città con una compagnia di cavalli per la durata di cinque anni e con la retribuzione annua di mille libbre d'argento.
L'alleanza di Martino con il Pelavicino, che era notoriamente ghibellino, non piaceva proprio al Pontefice Alessandro IV, che considerò perduta la causa guelfa, sia Milano che la famiglia dei Torriani e sebbene Martino rimanesse guelfo in cuor suo, tuttavia non fu mai perdonato dalla Curia romana, che più tardi si vendicò, favorendo contro i Torriani la famiglia dei Visconti.

Nel 1261 i fuorusciti di Milano furono in numero di circa novecento, assediati nel castello di Tabiago e, venuta meno l'acqua delle cisterne, sfiniti dalle malattie, dalla sete e dalla fame, furono costretti ed arrendersi e condotti prigionieri a Milano, dove Martino, dopo averli sottratti dalla furia popolare, li fece rinchiudere nelle torri della città.

Volendo accrescere la sua potenza, Martino tentò di fare eleggere arcivescovo di Milano il proprio congiunto RAIMONDO della Torre. Ma a questo i nobili opposero come loro candidato, FRANCESCO SETTALA.
Il Pontefice (era morto Alessandro, sul soglio c'era Urbano IV, l'uomo che nel suo breve triennato, ha fatto in tempo a chiamare in Italia gli Angioini) pose fine alla contesa nominando, nel 1263, OTTONE VISCONTI, canonico della cattedrale ed appartenente ad una delle più cospicue famiglie milanesi.
Quest'elezione provocò l'ira di Martino, che si appropriò di quasi tutti i beni episcopali, facendo sì che il Pontefice si schierasse in favore dei nobili contro di lui.
A dispetto di quest'atto, non diminuì la potenza di Martino; dopo Lodi, anche la città di Novara lo elesse suo "Signore" e le sue milizie affrontarono i partigiani dell'arcivescovo di Milano presso il Lago Maggiore.
Ma fu questo l'ultimo suo trionfo; ammalatosi gravemente all'inizio di settembre, cessò poco dopo di vivere, dopo avere ottenuto dal popolo milanese la promessa che suo successore sarebbe stato il fratello FILIPPO della TORRE.
Questi sopravvisse al fratello soltanto due anni, ma in questo breve spazio di tempo consolidò l'autorità della sua famiglia estendendola, prima su Como, poi su Vercelli e Bergamo, che, nel 1264, lo nominarono loro "Signore".

Consolidata la sua "SIGNORIA" (si comincia a chiamarla così) e non avendo più bisogno dell'aiuto militare dell'assoldato PELAVICINO, allo scadere della convenzione lo congedò. Questo fatto irritò talmente il marchese che questi per più mesi fece arrestare tutti i mercanti milanesi che passavano il ponte presso Cremona. Per rappresaglia Filippo della Torre gli sollevò Brescia e questa città sarebbe riuscita a scuotere il giogo del Pelavicino se Filippo non fosse morto mentre con un esercito si recava in soccorso dei sollevati.

A Filippo successe, come signore di Milano, lo zio NAPOLEONE della TORRE che si accostò alle fazione guelfa, aiutò - come si è visto - CARLO D'ANGIÒ nel suo passaggio attraverso la Lombardia e, quando Brescia si ribellò di nuovo al Pelavicino, le offrì un validissimo aiuto-soccorso, in cambio se ne insignorì e le diede come podestà il fratello FRANCESCO della TORRE.

Dopo la battaglia di Benevento (che abbiamo narrata nella precedente puntata) nell'Italia settentrionale il partito guelfo aveva ormai già l'assoluta prevalenza su quello ghibellino. Nello stesso anno (1266) in marzo si costituisce una lega guelfa cui partecipano Milano, Vercelli, Novara, Como, Bergamo, Lodi, Brescia, Cremona, Mantova, Piacenza, Parma, Ferrara, Padova, Vicenza, e i marchesi di Monferrato, di Este, di San Bonifacio, con a capo NAPOLEONE della TORRE.
E domina pure a Bologna il partito guelfo con a capo la famiglia dei GEREMEI. Da Cremona è scacciato Buoso di Dovara, che poco più tardi morirà nella miseria e circondato dal generale disprezzo. Padroni di Reggio e di Modena sono i Guelfi. Milano accoglie come podestà, con il consenso dei Torriani, EMBERRA del BALZO, provenzale, creatura dell'Angioino.
Il marchese Peravicino si è ormai ridotto al possesso di qualche città e di pochi castelli.

TRIONFO DEL GUELFISMO IN TOSCANA

Come nell'Italia superiore così nella Toscana la vittoria degli Angioini nel mezzogiorno muta le condizioni dei partiti dando anche qui il sopravvento al Guelfismo.
Centro del Ghibellinismo toscano, dopo la giornata di Montaperti, ovviamente è Firenze, dove il conte GUIDO NOVELLO, forte di millecinquecento cavalli posti al suo comando, esercitava il governo.
Ma Firenze, che viveva dell'industria e del commercio e doveva il suo benessere ai grassi popolani anziché ai nobili, non era la città dove poteva avere una lunga durata il dispotismo ghibellino. Malcontento del governo di Guido, che aveva distrutte le libertà comunali e imposto gravi tributi per mantenere in armi i mercenari, il popolo fiorentino aveva accolto lietamente la notizia della sconfitta e della morte di Manfredi e non nascondeva la sua simpatia per i fuorusciti i quali, sperando aiuti dall'Angioino, si erano avvicinati alla città.

Il conte GUIDO NOVELLO si rese esatto conto della gravità della situazione in cui si trovava e cercò di migliorarla facendo eleggere, invece di un solo, due podestà forestieri di fazioni diverse con facoltà di riformare il governo del comune. Chiamò a questa carica i bolognesi LODERINGO degli ANDALÒ e CATALANO dei MALAVOLTI, il primo ghibellino, guelfo il secondo, entrambi appartenenti a quell'ordine cavalleresco dei "Frati Gaudenti", sorto a Bologna per difendere le vedove e gli orfani, per mantenere la concordia ed ubbidire alla Chiesa senza l'obbligo della povertà e della castità.
Questi due bolognesi, che Dante mise nella bolgia degli ipocriti, riformarono, secondo la facoltà che era loro stata assegnata, il governo, e istituirono un consiglio di trentasei buoni uomini, anziani, scelti tra i Guelfi e i Ghibellini, tra i nobili e i popolani. Questo consiglio stabilì l'antica divisione della cittadinanza in corporazioni d'arti e mestieri, che furono portati a dodici: sette di "maggiori" e cinque di "minori".
Questa riforma però andava a tutto vantaggio della borghesia. Se ne accorse subito GUIDO NOVELLO, che dal consiglio si vide rifiutata la richiesta fatta di aumentare i tributi per il mantenimento dei suoi mercenari. Consigliato dai Ghibellini e spalleggiato dagli UBERTI, dai FIFANTI, dagli SCOLARI e da altre potenti famiglie, cercò di sciogliere il consiglio dei trentasei; ma i popolani brandirono le armi e, raccoltisi intorno ai loro consoli delle Arti, sotto la guida di GIOVANNI dei SOLDANIERI, l'11 novembre del 1266, presso il ponte di Santa Trinità sostennero vigorosamente l'urto della cavalleria ghibellina, la quale, fatta segno ad una fitta sassaiola, dovette ritirarsi.

Questa scaramuccia sbigottì talmente Guido Novello da farlo decidere ad uscire dalla città. Chieste le chiavi ai podestà e fattosi scortare, per esser protetto, da parecchi membri del consiglio, alla testa dei suoi uomini quel giorno stesso Guido uscì da Firenze e si recò a Prato. Giunto però qui si pentì di avere abbandonato la città senza avere seriamente combattuto e ritornò con le milizie mercenarie e i Ghibellini la mattina del giorno dopo sotto le mura di Firenze. Ma non gli riuscì di rientrare in città, essendo le porte chiuse e bene presidiate dal popolo, di modo che, dopo essere rimasto per mezza giornata davanti il ponte alla Carraia, Guido Novello si ritirò con i suoi Tedeschi in Casentino e i suoi Ghibellini andarono a chiudersi nei loro castelli.

Lieto di questa vittoria che era costata così poca fatica, il popolo rimandò LODERINGO e CATALANO, fece venire da Orvieto un nuovo podestà e un capitano e, con il proposito di assicurare la pace interna, riammise in città Guelfi e Ghibellini che cercò di conciliare per mezzo di matrimoni.
La concordia però non durò a lungo. Le schiere che avevano combattuto a Benevento, di ritorno dall'Italia meridionale, per spirito di vendetta o per impedire che il Ghibellinismo fiorentino risorgesse, spedirono ambasciatori a CARLO D'ANGIÒ chiedendo aiuti. Il re di Sicilia, che aveva interesse a rialzare le sorti del Guelfismo toscano e desiderava diventarne lui il capo, inviò ottocento lancieri francesi sotto il comando del conte GUIDO di MONFORTE, il quale, il 17 aprile del 1267, giorno di Pasqua, entrò a Firenze, mentre la sera prima erano usciti tutti i Ghibellini per ritirarsi chi a Pisa, chi a Siena, chi nei propri castelli.
I Fiorentini guelfi offersero la signoria della città per dieci anni a Carlo, il quale sulle prime finse di rifiutarla, poi l'accettò e vi inviò un vicario cui era affidata la direzione della politica estera e l'amministrazione della giustizia.
Così il comune fiorentino ritornò guelfo e vide sorgere al suo interno un'organizzazione potentemente costituita che per circa due secoli fu come uno stato dentro lo stato: l'amministrazione della fazione guelfa.
Con i beni confiscati ai Ghibellini fu costituito un "monte", detto della "Parte Guelfa", affidando all'amministrazione ai "Capitani della parte" che avevano l'incarico di sorvegliare, ricercare e combattere i Ghibellini.
I capitani erano tre, duravano in carica due mesi ed erano l'emanazione di un consiglio generale di sessanta membri e di un consiglio segreto di quattordici.

"Oltre i capitani - scrive il Lanzani - dai quali dipendevano pare gli ufficiali di torre, e che provvedevano pure alle pubbliche fabbriche ed alle fortezze del dominio, vi erano tre priori, che avevano in custodia il tesoro, ed un sindaco, accusatore dei Ghibellini.
Era dunque come una repubblica, ma era uno stato di fazione, forte dei propri statuti e di propria ricchezza, che sempre di più aumentò con un'oculata amministrazione ed a spese dei nemici; un magistrato che disponeva della libertà di tutti i cittadini, ma ovviamente con la vocazione a mandare in esilio i ghibellini e a spogliarli di tutti i loro beni.
Con questi provvedimenti i Ghibellini espulsi furono subito allarmati dalla gravità della situazione, e lo furono ancora di più quando, rinforzati e incoraggiati dai francesi, i Fiorentini Guelfi presero a combattere i Ghibellini anche fuori della città, e quando a poco a poco la Firenze Guelfa, aveva attirato dalla sua parte Lucca, Pistoia, Volterra, Prato, San Gimignano, e quando la città divenne la capitale dei Guelfo di tutta la Toscana, e il centro di una potente lega che si estendeva da Bologna a Perugia.

Ai Ghibellini non restavano che Pisa e Siena. Già anche queste città i collegati stavano per rivolgere le loro armi, quando giunse in Toscana Carlo d'Angiò, desideroso di assicurare con la sua presenza la propria supremazia, di partecipare egli stesso ai successi dei suoi partigiani, di accrescere il loro zelo. di legare con più forti vincoli a lui la loro causa e i propri interessi, le loro ambizioni, le loro inimicizie, pertanto vedevano nel D'Angiò il capo, necessario lui più a loro che non loro a lui.

E Carlo, infatti, che già a Viterbo aveva ricevuto da Papa Clemente l'incarico di paciere, al quale fu poi aggiunto quello di vicario dell'impero nella Toscana, fu accolto a Firenze con il più genuina ed eccezionale tripudio; i cittadini gli andarono incontro con il carroccio; ogni arte spiegò il suo gonfalone; molti gentiluomini fiorentini furono da Carlo elevati al grado di cavalieri. Di questa giornata popolare di grande letizia, dove fu festeggiata l'arrivo del re angioino rimase perfino un ricordo; nome di Borgo Allegro fu dato al quartiere dove il vincitore di Benevento volle visitare Cimabue, il principe della risorta arte italiana (allora 27 enne).

Carlo d'Angiò soddisfece il suo incarico di pacificatore con l'aiutare i Fiorentini a fare la guerra ai loro e ai suoi nemici. Li aiutò contro Poggibonsi che, forte di mura e di difensori, essendosi rifugiato là il più forte gruppo dei Ghibellini toscani, resistette per ben quattro mesi, poi si arrese per la fame.
Li aiutò pure, conducendoli lui stesso, contro i Pisani, ai quali furono poi sottratte numerose fortezze, e gravemente danneggiato il Porto.

VENEZIA E GENOVA

Chi non si unì a nessuna delle fazioni che stavano travagliando l'Italia e ne stavano mutavano i destini, fu Venezia. Mentre l'odio incoraggiato da una nobiltà arrogante faceva precipitare i Lombardi sotto il giogo del dispotismo, a Venezia, dove la nobiltà non era intimamente persuasa della propria forza, quella stessa nobiltà s' inoltrava per una via legale e regolare verso il consolidamento di un governo aristocratico, fondato sopra le rovine della potestà monarchica dei dogi.

(vedi anche la CRONOLOGIA DI VENEZIA E LE BIOGRAFIE DEI DOGI)

Venezia, tenendo sempre rivolto il pensiero ai suoi ricchi empori d'Oriente, ed alle guerre necessarie per conservarseli, non aveva preso parte alle rivoluzioni d'Italia né era stata straziata dalle fazioni guelfa e ghibellina.
Scrive il Sismondi. "Nelle altre città d'Italia, la forma esteriore del governo fu in origine repubblicana; ma quando si mise a riformarne le proprie istituzioni contro gli abusi, a ragione sembrò allontanarsi da tutte le forme di governo che prima esistevano, convenendogli accostarsi a quelle monarchiche.

A Venezia al contrario, era antichissima l'istituzione dei dogi; e per quattro interi secoli quegli inamovibili magistrati furono i giudici supremi, generali di tutte le milizie dello stato, attorniati da un fasto orientale mutuato dalla corte di Costantinopoli; e più volte autorizzati a trasmettere la propria dignità ai loro figlioli, eguali insomma, rispetto alle prerogative, ai re d'Italia.

Anche la forma essenziale del governo era alquanto monarchica; e quando a mano mano se ne scorgevano gli inconvenienti, ogni limitazione dei poteri del doge parve una conquista fatta a favore della libertà. La nazione fece causa comune con la nobiltà, e non si mise paura delle prerogative che questa si attribuiva.
Una limitazione della potestà dogale la storia veneziana la registra nel 1152, quando il popolo diede al doge DOMENICO FLABENIGO due consiglieri, che dovevano sanzionare ogni sua deliberazione, e gli impose di consultare, nelle importanti circostanze di un certo momento, un consiglio dei principali cittadini che poi fu detto dei "pregadi". Ma il primo consiglio, veramente importante, a Venezia non si ebbe che circa un secolo e mezzo dopo, nell'ultimo trentennio cioè del secolo XII, dopo l'uccisione del doge VITALE MICHIELI. Fu allora formato un consiglio annuale di quattrocentottanta membri, che rappresentavano i sestieri della città e i suoi dodici tribunati.
In un primo tempo questo "Consiglio", detto "Maggiore", fu formato da dodici tribuni scelti dal popolo, due per ogni sestiere; in seguito però si può sostenere che fosse il medesimo consiglio a nominare se stesso; infatti, i tribuni furono scelti dallo stesso "Consiglio", il quale si arrogò la facoltà di confermare o respingere i consiglieri proposti dai tribuni.

In linea di diritto i cittadini di ogni classe sociale potevano far parte del consiglio; ma in pratica il più grande organo del governo veneziano passò e rimase nelle mani dell'aristocrazia, formata dalle famiglie di antica origine (i Patrizi, che non erano più di cento) e dai ricchi industriali e mercanti che per il loro denaro, sempre utile a certi "Patrizi", "poveracci" perché inetti e incapaci di conservare quanto avevano avuto in eredità, pur insofferenti a questa "plebe arricchita" con i commerci più vari, li ammisero nell'aristocrazia.

Si ebbe così un regime esclusivamente aristocratico in quanto che tutte le cariche di governo furono emanazioni del Consiglio Maggiore; questo, infatti, eleggeva il doge, che all'atto di essere rivestito della dignità pronunciava un solenne giuramento ("promissione ducale"); il "Consiglio dei pregadi", che dal 1129 fu composto di sessanta membri, aveva cura del commercio e degli affari esteri e sottoponeva i suoi lavori alla sanzione del massimo organo; "la quarantia", così detta dal numero dei loro membra istituita nel 1179, che esercitava la giustizia criminale; e, infine, i cinque "correttori della promissione ducale", i tre "inquisitori del doge defunto" e gli "avogadori del comune".

I veneziani - lo abbiamo già detto sopra- nel periodo di cui ci occupiamo e cioè nel secolo XIII, rimasero estranei agli avvenimenti d'Italia; vi parteciparono soltanto soccorrendo i Guelfi nella crociata contro Ezzelino da Romano.
Repubblica eminentemente marinara, Venezia aveva i suoi interessi sul mare e svolgeva la sua attività politica e commerciale nell'Oriente del Mediterraneo, dove la quarta crociata le aveva procurato il possesso di moltissimi porti, isole, territori. A mantenere la sovranità su queste terre erano rivolti tutti gli sforzi dei Veneziani, i quali, in quei mari lontani dalla patria, erano sempre infastiditi e insidiati da due pericolosi nemici: i Greci, che tentavano di scuotere l'odiato giogo dei Latini dai territori del vecchio impero bizantino, e i Genovesi, invidiosi dell'egemonia commerciale esercitate da Venezia in Oriente.

Al pari di Venezia, Genova aveva sulle coste del Mediterraneo orientale numerose e floride colonie: ne aveva a Costantinopoli e ne aveva una turbolenta a San Giovanni d'Acri, dove si erano rifugiati tutti i Latini scacciati dal regno di Gerusalemme.

All'intemperanza di quest'ultima colonia si deve se la rivalità tra le due
repubbliche marinare degenerò in aperta guerra; in una guerra che doveva durare moltissimi anni e riuscire dannosa ad entrambe.
Occasione che diede inizio alle ostilità fu la contesa per il possesso della chiesa di San Saba in San Giovanni d'Acri. Per la soluzione di questa lite i Veneziani proponevano l'arbitrato del Pontefice; i Genovesi invece presero le armi, si impadronirono della chiesa, poi devastarono i magazzini dei rivali e scacciarono i Veneziani dai loro quartieri.
(da ricordare che in questi quartieri latini l'animosità era pari se non superiore a quella espressa contro i Saraceni. S.G. d'Acri era stata perfino divisa fra un quartiere e l'altro da alte mura - e fu una delle ragioni per cui in seguito la città cadde in mano dei turchi).

La prima fase di questa lotta ebbe il suo epilogo nelle acque di San Giovanni d'Acri, dove Veneziani e Pisani, alleati, sconfissero i Genovesi ai quali. catturarono venticinque galee e distrussero i fondachi della città.
Dopo questi fatti ancora più grande si fece l'odio tra le due repubbliche. Per vendicarsi della sconfitta i Genovesi offrirono a MICHELE PALEOLOGO, imperatore greco, di aiutarlo a riprendere Costantinopoli dalle mani dei Franchi e dei Veneziani, e il 13 marzo del 1261 firmarono a Nicea un trattato in cui essi si impegnavano di fornire un certo numero di navi all'ex sovrano bizantino e questi esentava da tutti i tributi, nei suoi porti, i sudditi della repubblica ligure.

Era imperatore di Costantinopoli BALDOVINO Il, un monarca inetto, che non era stato capace di opporsi al movimento di riscossa nazionale dei Greci, che recuperarono la maggior parte dei territori perduti nel 1204.
Nell'estate del 1261, mentre le milizie di Baldovino si trovavano all'assedio di Dafnusio, all'imboccatura del Bosforo, Michele Paleologo spedì contro Costantinopoli un suo esercito comandato da ALESSIO STRATEGOPULO, il cui compito fu facilitato dagli abitanti della città, che, aperta la porta Aurea, lo introdussero nella vecchia capitale dell'impero bizantino (25 luglio del 1261), da dove l'imbelle Baldovino e i Franchi riuscirono a fuggire imbarcandosi su alcune navi veneziane.

Caduto l'ultimo baluardo dell'impero latino, MICHELE PALEOLOGO con un'equilibrata saggia politica non cacciò dalla capitale le colonie genovesi, veneziane e pisane, che con la loro attività rappresentavano la vera forza e la ricchezza della città, ma assegnò loro determinati quartieri e permise che vivessero con le proprie leggi e fossero governate dai propri magistrati.
I Genovesi però, per prudenza, essendo i più numerosi e perciò i più pericolosi, diede a loro una residenza fuori le mura, nel sobborgo di Galata.

Pur rispettando i Veneziani di Costantinopoli, Michele Paleologo continuò la guerra contro la repubblica adriatica nella speranza di toglierle le isole e le province che ancora Venezia possedeva in Oriente.
Portò le armi in Eubea, si impadronì delle isole di Lemno, di Chio, di Rodi e di molte altre dell'Egeo e per compensare i Genovesi dell'aiuto ricevuto nel ricuperare Costantinopoli diede loro in feudo l'isola di Chio, che la repubblica ligure conservò per tre secoli, fino a quando cioè non le fu sottratta dai Turchi.

Nel tempo in cui ai Genovesi fu dato in feudo Chio cominciava nella repubblica ligure a manifestarsi la discordia tra il popolo e la nobiltà, la quale aveva, nella prima metà del Duecento, un gran peso nel governo: nobile era il podestà, cui era affidato l'esercizio della giustizia criminale e il comando dell'esercito; di nobili era formato il Consiglio degli Otto, nobili i giudici e i consoli.
Contro la nobiltà aveva invano cospirato nel 1227, GUGLIELMO dei MARI; contro la stessa insorse, trent'anni dopo, nel 1257, il popolo, che, accusando di peculato il podestà uscente FILIPPO della TORRE, portò in trionfo, nella chiesa di San Siro, GUGLIELMO BOCCANEGRA, lo nominò "capitano generale" per dieci anni e gli pose a fianco un consiglio di trentadue anziani.
Guglielmo ebbe inoltre ai suoi ordini un cavaliere, un giudice, due scrivani e un corpo di dodici littori e cinquanta arcieri, cui era affidata la custodia del suo palazzo e della sua persona, e ricevette la facoltà di nominare il podestà.
Con la proclamazione del Boccanegra, il popolo, volendo abbattere l'oligarchia, si era inconsciamente creato un tiranno, contro il quale però ovviamente si appuntò l'odio della nobiltà, che nel 1259 ordiva una congiura per disfarsene.

Scoperto il complotto, Guglielmo Boccanegra spedì in esilio i suoi principali nemici e ne fece demolire le case; ma il suo governo dispotico, durato fino al 1262, fu causa della sua rovina. I nobili tornarono ad agitarsi e, alla fine brandite le armi, s'impadronirono delle porte della città, trucidarono un fratello del capitano, e avrebbero messo a morte lo stesso Guglielmo se l'arcivescovo non l'avesse persuaso a rinunciare alla carica, ristabilendo una forma di governo vigente prima del 1257.

Un altro tentativo del popolo di abbattere l'oligarchia risorta fatto nel 1263 non riuscì, per il motivo che l'ammiraglio SIMONE GRILLO, gridato dalla folla "capo", visto l'atteggiamento risoluto della nobiltà, partì con la flotta verso i mari d'Oriente e il tumulto popolare si quietò.

Migliore fortuna nel 1264 non ebbe pure il tentativo di OBERTO SPINOLA di farsi nominare capitano generale. Ma se la sua ambizione non fu coronata dal successo e non causò mutamenti dannosi nel regime repubblicano, danneggiò invece moltissimo alla pace della città perché la sua famiglia, che apparteneva alla più antica nobiltà genovese, passò da allora nel campo popolare e mise più volte in pericolo la quiete e la libertà di Genova.

Da quel che abbiamo detto è chiara la diversità di indirizzo delle due più potenti repubbliche marinare d'Italia. "Venezia - scrive il Sismondi - dipartendosi da una democrazia reale, avanzava segretamente, lentamente e senza sommovimenti verso un'aristocrazia forte e regolare; Genova, governata da una nobiltà turbolenta, faceva violenti e spesso inutili sforzi per istituire una democrazia; e spesso invocava -anche se sconsigliata- la sovranità all'autorità di un solo uomo, ma con il solo scopo di poter restaurare l'autorità di tutti.

Infinite circostanze influiscono sempre sulla costituzione dei popoli. Quantunque i Genovesi ed i Veneziani avessero le stesse consuetudini, la medesima indole e vocazione, il medesimo amore per la libertà, benché parlassero il medesimo idioma, nello stesso tempo e per così dire nello stesso paese si avviarono per due opposte vie verso la stessa meta".

Lasciamo questi fatti, e ritorniamo alla vicende angioine al suo dispotico governo, ai rimproveri del Papa, e ai rimpianti di chi lo ha aiutato a sconfiggere Manfredi.

... il periodo dall'anno 1267 al 1281 > > >

(VEDI ANCHE I SINGOLI ANNI o nella TEMATICA)

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia
GREGORIUVUS - Storia di Roma nel Medioevo - 1855

KUGLER, "Storia delle Crociate"
LANZONE - Storia dei Comuni italiani dalle origini al 1313

VITORIO GLEIJESIS - La storia di Napoli, Soc. Edit Napoletana
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 

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