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CRONOLOGIA

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( QUI TUTTI I RIASSUNTI )  RIASSUNTO ANNI dal 1227 al 1230

FEDERICO SCOMUNICATO -LA CROCIATA-PACE S.GERMANO -
COSTITUZIONE DI MELFI

FEDERICO II COLPITO DALLA SCOMUNICA - ACCUSE DELL'IMPERATORE CONTRO LA S. SEDE - FEDERICO II IN TERRASANTA - TRATTATO DI PACE STIPULATO COL SULTANO DEL CAIRO E LIBERAZIONE DI GERUSALEMME - IL PONTEFICE E I CRISTIANI DI PALESTINA OSTILI AL TRATTATO - GIOVANNI DI BRIENNE, INVIATO DAL PAPA, INVADE L'ITALIA MERIDIONALE - RITORNO DI FEDERICO - PACE DI SAN GERMANO - L' INQUISIZIONE A ROMA - LE COSTITUZIONI MELFITANE
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SCOMUNICA DI FEDERICO E SUA SPEDIZIONE DI TERRASANTA
IL DUELLO PAPA-FEDERICO

Federico si affrettò a mandare ambasciatori che giustificassero presso il Pontefice l'abbandono a causa dell'epidemia; ma Gregorio IX non volle ascoltarli e mandò lettere in ogni parte del mondo cattolico, con le quali dava comunicazione dell'anatema, accusava l'imperatore di avere imprigionata la moglie Jolanda, di aver messo di proposito l'esercito in luoghi malsani per farlo decimare dalla pestilenza e di avere, con il pretesto dell'infermità, violato il giuramento ed abbandonato le insegne di Cristo.

Federico, sdegnato, rispose alle accuse papali molto aspramente con una lettera terribile che inviò a tutti i principi e nella quale si difendeva e dipingeva a foschi colori gli ambiziosi disegni della Curia romana. Scriveva:

"Pare che la fine dei secoli si avvicini, difatti l'amore che tutto domina e vivifica, si spegne non già nei ruscelli ma nelle fonti, non già nei rami ma nei tronchi e nelle radici. Non sono forse stati gli ingiusti anatemi papali che hanno oppresso e reso schiavo il conte di Tolosa ed altri principi? Non fu Innocenzo III che spinse i baroni inglesi a ribellarsi al loro re Giovanni? Ma, dopo che l'avvilito sovrano codardamente sottomise sé e il suo regno alla Chiesa romana, il Papa, per divorarsi tutto il paese, ridusse alla miseria anzi alla morte tutti quei baroni medesimi che prima aveva sobillati ed aiutati. Tale è la Chiesa Romana con cui purtroppo ho avuto a che fare. Questa ingorda sanguisuga usa parole dolci come il miele, fluide come l'olio; ma, mentre si dichiara madre e nutrice mia, agisce da matrigna ed è causa e radice di ogni male. Sono ovunque mandati legati che legano, sciolgono, condannano ad arbitrio loro; essi hanno cura non di spargere e far germogliare il buon seme della divina parola, ma d'impinguirsi d'oro, di mietere dove non hanno seminato, veri lupi vestiti da agnelli. Pieni di inutile sapere, degeneri, spregevoli, essi osano aspirare al possesso dei regni e degli imperi, mentre la Chiesa primitiva contava ogni giorno qualche nuovo Santo e risplendeva per la semplicità dei costumi e il disprezzo delle grandezze. Nel vedere oggi l'inguaribile avarizia dei sacerdoti romani chi non temerà che non rovinino le mura del tempio, cui sono date basi tanto diverse da quelle che pose il nostro Signore Gesù Cristo?
Quando l'impero romano, destinato a difesa della Cristianità, è assalito da nemici e da infedeli, l'imperatore brandisce la spada, conoscendo i doveri che il suo ufficio e il suo onore gli impongono; ma che c' è più da fare e da sperare se è proprio il padre di tutti i Cristiani, il successore dell'Apostolo Pietro, il vicario di Cristo quegli che spinge i nemici contro di noi?
Si riunisca pertanto il mondo intero per scuotere il giogo insopportabile e impedire il generale pericolo; perché non si sottrarrà alla generale rovina chi ora non soccorre l'oppresso e dimentica che corre pericolo la sua stessa vita quando è già in fiamme la casa del vicino".

Cominciava cosi il terribile duello tra il Pontefice e l'Imperatore, e i primi effetti della lotta si sentirono subito a Roma, dove la cittadinanza si divise di nuovo in due fazioni, di cui la ghibellina superava per numero e audacia la guelfa.
I primi tumulti sorsero nella capitale della Cristianità il lunedì di Pasqua (23 marzo) del 1228: quel giorno, avendo il Papa pronunciato una violentissima predica contro Federico e rinnovata la scomunica, i sostenitori dell'imperatore brandirono le armi e costrinsero Gregorio IX a fuggire da Roma e a rifugiarsi a Perugia.

Questo fatto costituiva un notevole successo per Federico; ma non era tale da assicurargli la vittoria. Aveva invece bisogno di mostrare ai suoi sudditi e ai principi cristiani che le accuse mossegli dal Papa erano calunnie, e non poteva dare una tale dimostrazione se non con il condurre in porto la crociata.
E a questa quindi si preparò con grande impegno verso la fine di aprile dello stesso anno 1228, non tenendo in nessun conto gli ammonimenti del Pontefice che gli vietava di partire se prima non si fosse piegato alla volontà della Santa Sede. Riunì le sue truppe a Barletta e alla folla che assisteva alla cerimonia, da uno splendido trono comunicò il suo proposito di recarsi in Oriente e le disposizioni prese durante la sua assenza e che i principi giurarono di rispettare e fare eseguire.
Secondo tali disposizioni, RAINALDO di Spoleto doveva assumere la luogotenenza; in caso di morte dell'imperatore gli doveva succedere il figlio ENRICO VII e, morendo questi senza eredi, il secondogenito CORRADO, che pochi giorni prima Jolanda aveva dato alla luce.
Gregorio IX seppe della partenza dell'imperatore mentre si trovava in Assisi. Il fiero Pontefice che prima tanto aveva fatto per invitarlo a compierla, ora per impedire al monarca scomunicato di offrire al mondo lo spettacolo di una crociata guidata da un principe colpito dall'anatema, anziché pregare per la vittoria delle armi cristiane, scongiurò il Cielo di colpire l'empio sovrano e di non far riuscire la sua sacrilega impresa.

L'imperatore partì da Brindisi il 28 giugno, con poche truppe, sicuro di essere agevolato nell'impresa dal sultano del Cairo, AL-KAMIL, con il quale correvano ottimi rapporti; con lui aveva preso accordi e perfino scambiato doni.
Quando nel settembre del 1228, sbarcò a San Giovanni d'Acri, trovò una freddissima accoglienza da parte dei Cristiani, i quali dichiararono di prestargli obbedienza solo a patto che egli motivasse i suoi decreti in nome di Dio e della fede (indubbiamente qualcuno era già "volato" sul posto prima di lui)

Infatti, a rendere ulteriormente difficile la posizione di Federico giunsero due frati francescani, inviati dal Pontefice, i quali rimproverarono severamente, a nome del Capo della Chiesa, i Cristiani d'Oriente di avere accolto un principe su cui pesava la scomunica.
L'imperatore, lasciato S. Giovanni d'Acri, andò ad accamparsi con l'esercito tra Cesarea e Giaffa e di qui si mise in relazione con il sultano AL-KAMIL, il quale con le sue milizie si trovava nella Licia meridionale, mandandogli - così racconta il Michaud nella sua "Storia delle crociate" - il conte TOMMASO di CELANO per dirgli che lui, "essendo già padrone delle più vaste province dell'Occidente, non era andato in Asia per far conquiste, ma soltanto per visitare i Luoghi Santi e prendere possesso del regno di Gerusalemme cui aveva diritto". Il sultano ricevette con molto onore gli ambasciatori di Federico; ma non rispose alle loro proposte; tuttavia inviò anche lui ambasciatori all'imperatore perché gli rendessero noto quale era il suo desiderio di pace e nel contempo di assicurargli che aveva la più grande stima per principe della Cristianità.

Si era allora nel cuore dell'inverno, per questo motivo, i due eserciti nemici, non avevano nessuna intenzione di dare il via a una battaglia. Entrambi preferirono iniziare dei pacifici colloqui nei quali il sultano del Cairo e l'imperatore offrirono vicendevoli prove di benevolenza.
Federico, il cui nome solo era bastato a spargere il terrore tra gl'infedeli, era oggetto del loro interesse e curiosità. Si parlava di lui e dei grandi regni che formavano il suo impero al di là dal mare. Federico (così lo descrissero le cronache musulmane) "era rosso di viso e calvo, di piccola statura, di vista debole; per cui gli Orientali dicevano di lui che se fosse stato uno schiavo, vendendolo non si prendevano nemmeno duecento dramme".
Tuttavia ammiravano le sue virtù guerresche, e la magnificenza imperiale e, alla corte del sultano, furono molto lodate le sue cognizioni di medicina, di dialettica, di geometria, e i Musulmani le onoravano, tanto più perché queste cognizioni loro le attribuivano alla cultura trasmessa dagli Arabi alla Sicilia. Dall'altra parte Al-Kamil non era meno degno di Federico di fermare l'attenzione sul suo sapere e quindi guadagnare la stima dei suoi nemici.

Al-Kamil , questo principe più d'una volta aveva dato prova di una moderazione che in Oriente si poteva considerare come un fenomeno straordinario; e i Cristiani non avevano certamente dimenticato che nell'ultima guerra lui aveva salvato dallo sterminio l'esercito prigioniero del re di Gerusalemme. Il sultano del Cairo si diceva che amava i dotti e coltivasse le lettere. Era così appassionato della poesia che, qualche volta, scriveva in versi ai suoi luogotenenti ed agli alleati; e questi, per ottenere più facilmente la sua amicizia o il suo favore, gli rispondevano allo stesso modo.
L'emiro FAKER-EDDIN, che Al-Kamil tempo addietro aveva mandato a Federico in Sicilia e che ora trattava la pace, conosceva benissimo le leggi e gli usi dell'Occidente. Era figlio di uno dei più dotti sceicchi d'Egitto, ed egli stesso si era acquistata grande fama di uomo di vasta cultura. Perciò nelle frequenti conferenze che avvennero fra Musulmani e Cristiani si parlò più della geometria d'Euclide, degli aforismi di Averroè e della filosofia di Aristotele che della religione di Gesù Cristo e di quella di Maometto.
Imitando quei re d'Oriente, che al tempo di Salomone avevano la consuetudine di mandare ai loro vicini qualche enigma da indovinare, Federico inviò più volte al sultano del Cairo problemi di geometria e di filosofia e il sultano, dopo aver consultato i più colti sceicchi, faceva dai suoi ambasciatori portare all'imperatore la soluzione, inviandogli a sua volta anche lui qualche problema. Quantunque Gerusalemme fosse il principale, anzi l'unico oggetto di quella crociata, non sembrava che il possesso di quella città stesse molto a cuore all'uno e all'altro sovrano.
Al-Kamil non vi vedeva che chiese e misere case diroccate, e Federico ripeteva sempre che bramava piantare il proprio stendardo sul Calvario solo per acquisirsi la stima dei suoi sudditi e avere il primato fra i principi cristiani".

Nonostante questa indifferenza ostentata da entrambi i sovrani per il principale oggetto delle loro trattative, queste intanto progredivano; progredivano tanto che già l'11 febbraio del 1229 tra i plenipotenziari dei due principi fu concluso un trattato, che Federico ratificò il 18 febbraio e pochi giorni dopo il sultano.

AL-KAMIL cedeva a FEDERICO la città di Gerusalemme al patto però che la moschea di Omar restasse proprietà dei Musulmani e questi potessero esercitare liberamente il loro culto; cedeva inoltre Betlemme, Nazareth e tutti i villaggi posti sulle vie che da Gerusalemme conducevano a Joppe e di qui ad Accona e s'impegnava di restituire tutti i Cristiani da lui fatti prigionieri.
Dal canto suo, Federico si obbligava ad aiutare il sultano contro tutti i suoi nemici e a non interessarsi della sorte di Antiochia, di Tripoli, di Tortosa o di altre città della Siria settentrionale. La pace tra il sultano e l'imperatore doveva aver la durata di dieci anni, cinque mesi e quaranta giorni a cominciare dal 24 febbraio del 1229.

La curia romana subito non si mostrò contenta di quella pace che, senza colpo ferire, metteva nelle mani dei Cristiani la Città Santa. Federico fu considerato come un "nemico della religione perché, invece di portar guerra agli infedeli, aveva loro portato la pace", fu chiamato "empio, violatore dei giuramenti, corsaro", e GREGORIO IX lo paragonò a quegli "empi monarchi che la collera del Signore aveva altre volte fatto sedere sul trono di David".

Federico intanto cercava di guadagnarsi il favore di GEROLDO, patriarca di Gerusalemme, e inviò presso di lui, per trattare, ERMANNO di SALZA, maestro dell'Ordine Teutonico; ma questi non ricevette buona accoglienza e allora l'imperatore senza indugiare decise lui di prender possesso della capitale del suo nuovo regno.
Partito da Joppe, dove si trovava, giunse a Gerusalemme il 17 marzo del 1229 e vi entrò fra il canto delle milizie tedesche che, per dimostrare il loro giubilo, la sera illuminarono le case. Il giorno dopo, nella chiesa del Santo Sepolcro avvenne la cerimonia dell'incoronazione: Federico si pose sul capo una corona d'oro e da Ermanno Salza fece leggere un'allocuzione in cui commemorava le cause che gli avevano impedito di liberare prima di allora la città.
Il giorno dopo, chiamato da Geroldo, giunse a Gerusalemme l'arcivescovo di Cesarea che andò a rovinare la festa lanciando l'interdetto sui Luoghi Santi, suscitando così lo sdegno dei pellegrini che sostenevano Federico. Che dopo avere ordinato che si fortificasse Gerusalemme, fece ritorno a Joppe poi ad Accona.

Qui lo raggiunse il patriarca Geroldo con lo scopo di spingere i crociati alla guerra; ma Federico si oppose, e dal momento che Geroldo spalleggiato dai Templari, insisteva nei suoi propositi, la riluttanza dell'imperatore irritò talmente il patriarca che lanciò l'interdetto pure su Accona.

Federico non rimase a lungo in questa città, che, pur appartenendogli, gli era nemica e, lasciati nei punti più importanti del regno gente a lui devota e fatte molte concessioni all'Ordine Teutonico che gli era fedele, il 10 maggio del 1229 si mise in mare alla volta dell'Italia, dove i suoi stati (il papa non aveva perso tempo mentre lui era assente) erano stati minacciati d'invasione dalle milizie pontificie.

LA PACE DI SAN GERMANO
LE COSTITUZIONI DEL REGNO DI SICILIA

Mentre FEDERICO II si trovava in Oriente, GREGORIO IX tentava di togliergli il regno siciliano. Come strumento dei suoi disegni si servì di GIOVANNI di BRIENNE, il quale, sebbene fosse suocero dell'imperatore, l'odiava avendogli questi usurpata la corona di Gerusalemme.
La casa di Giovanni vantava dei diritti sul regno di Sicilia: suo fratello maggiore, GUALTIERO, aveva sposato - come in altre pagine abbiamo detto - ALBINA, figlia di Tancredi di Lecce e da questo matrimonio era nato, un figlio che ancora viveva.
Dichiarandosi sostenitore dei diritti del nipote contro la casa Sveva, Giovanni di Brienne accettò dal Pontefice il comando di un grosso corpo di milizie, che con l'oro del Papa (quello che aveva raccolto con le offerte per la crociata) lui approntò con mercenari, e invase il regno. Le prime operazioni gli fruttarono dei rapidi successi: RAINALDO di Spoleto, luogotenente imperiale, fu chiuso a Sulmona; Gaeta, Sant'Agata e San Germano furono occupate e tutto il paese fino a Benevento fu percorso e devastato dagli invasori non proprio tanto "evangelici".

Le cose erano a questo punto quando, il 10 giugno del 1229, sbarcò a Brindisi Federico II, il quale, alla testa delle sue truppe il cui miglior gruppo era costituito dai Saraceni di Lucera, riconquistò in breve tempo i territori perduti, cacciò dal regno i mercenari del suocero e, non contento del risultato, nell'ottobre dello stesso anno penetrò nello stato pontificio e vi saccheggiò e incendiò Sora.

Gregorio IX chiamò in aiuto i Guelfi dell'Italia settentrionale, che tutto era meno che guelfo; lo abbiamo già detto più volte, era contro gli stranieri, ma era Ghibellino, ossia imperiale, vale a dire antipapale.
(Eppure -come vedremo- nel '39, il novantenne Papa, paradossalmente si assume la parte di protettore dei Comuni)

Infatti, essendo non Guelfi, pochissimi risposero all'appello e allora il Pontefice decise di riconciliarsi con il suo grande avversario che dal canto suo, temendo le conseguenze di una lotta a fondo con il Capo della Chiesa, non era contrario alla pace.
A farla concludere, oltre alla buona volontà degli intermediari concorse il fatto che nel febbraio del 1230 una terribile inondazione recò danni gravissimi a Roma e vi produsse prima la fame e poi la pestilenza.
I cittadini, pensando che quei malanni fossero un castigo mandato da Dio per punirli della loro condotta verso il Papa, richiamarono Gregorio e lo accolsero con grandi onori (da quel famoso lunedì di Pasqua, 23 marzo del 1228, il Papa era fuggito e rimasto a Perugia).

Il Pontefice rientrando trovò Roma afflitta dalla miseria e spingendo oltre la voce populo del "castigo divino", attribuì tutte le disgrazie alla diffusione degli eretici che imperversavano in ogni angolo, a Roma, in Italia e negli altri stati.
Quindi era una buona occasione per volgere gli sguardi ad altri nemici e combattere le eresie; si affrettò per concludere con l'imperatore la pace.

Questa fu conclusa a Ceprano il 23 luglio del 1230, e fu vantaggiosa al Papa. Questi si obbligava di togliere la scomunica a Federico e a tutti i suoi sostenitori; l'imperatore dal canto suo s'impegnava di perdonare tutti quei sudditi che avevano favorito la causa papale; di richiamare i fuorusciti; di restituire i beni ai nobili; di perdonare ai monaci e ai prelati; di conformarsi nelle faccende della Chiesa al diritto ecclesiastico; di non portare i sacerdoti davanti ai tribunali laici e di non gravarli con tributi straordinari.

La pace fu confermata da un incontro tra Federico e Gregorio che avvenne 28 agosto del 1230 ad Anagni, dove il Pontefice sciolse Federico dalla scomunica e dall'impegno di separazione delle due corone d'Italia e di Germania. Più che pace, quella di S. Germano era un armistizio, che tuttavia durò cinque anni. Sempre con gli stessi due protagonisti; soprattutto con il vitale ed energico Gregorio che non solo a quella data ci giunse quasi novantenne, ma campò per altri sei anni; in tempo, per dare e togliere ripetute scomuniche a Federico.

Intanto in questi cinque anni di pace (dove altro paradosso, Federico aiuta il Papa contro il Comune Romano - lo leggeremo più avanti) diedero l'opportunità al Pontefice di rivolgersi contro gli eretici di Roma dopo aver provveduto a risollevar la città dai danni e dalla miseria, restaurando il ponte dei Senatori, danneggiato dall'inondazione, distribuendo al popolo pane e denaro e edificando nel Laterano un ospizio per i poveri.

Per la lotta agli eretici nel 1231 affida l'Inquisizione agli Ordini Mendicanti (Domenicani), in particolare, e Francescani. In seguito con l'editto del senatore ANNIBALE, pubblicato nel 1237 fu istituito come magistratura statutaria il tribunale dell'Inquisizione e da questo furono in massa giudicati gli eretici e in massa arsi sui roghi fuori di Porta Santa Maria Maggiore.
I cittadini rimasero indifferenti dinanzi a questi spettacoli cruenti; mille anni prima c'erano i cristiani nelle arene, e ora cristiani c'erano nei roghi; insomma non è che era cambiato di molto il mondo.

Si guastarono invece i rapporti dei Romani con il Pontefice a causa di Viterbo. I Romani, pieni d'odio contro questa città, avevano deciso di farne un feudo del Campidoglio. Il papa invece prese sotto la sua protezione i Viterbesi, e questo atteggiamento causò la ribellione e lui, lesto a fuggire, si fece ospitare dalla cosiddetta "Città dei Papi" assediata dai romani, e da qui si mise ad invocare il soccorso dell'imperatore.

Federico, benché impegnato in altre cose, raccolse l'invito del Pontefice, e inviò in difesa di Viterbo un grosso corpo di milizie. I Romani, che stavano per assalire la città, furono (era l'ottobre 1234) sbaragliati.
La conseguenza di quella sconfitta fu il ristabilimento della sovranità papale in Roma (Bertolini)".

Torniamo all'Imperatore e al 1230. I cinque anni che seguirono alla pace di San Germano, furono relativamente (più avanti vedremo il perché) i più tranquilli del regno di Federico, e di questa tranquillità lui approfittò per portare a termine la restaurazione monarchica in Sicilia che aveva (prima della crociata) già iniziato, e per regolare i rapporti fra l'impero e i principi germanici (sempre più insofferenti a un re, sempre assente, che vive in Italia, nella lontana Sicilia).

COSTITUZIONE DI MELFI

Aiutato dall'arcivescovo GIACOBBE di Capua e da altri consiglieri e invano dissuaso dalla Curia romana, Federico diede un nuovo ordinamento al regno siciliano con le "Costitutiones Regni Siciliane" che furono poi pubblicate a Melfi nel 1237 ed hanno un'importanza straordinaria nella storia del diritto perché costituiscono il primo serio tentativo di stabilire in mezzo alla società feudale uno stato moderno. (Lo abbiamo già detto, Federico precorre i tempi di almeno 500 anni)

E' messa da parte da Federico la concezione feudale germanica; ritorna alla concezione romana dell'unità del potere sovrano e dell'eguaglianza giuridica dei cittadini e identifica lo stato con la persona del re, il quale, secondo lui, ha un carattere divino, è l'interprete della volontà di Dio e il ministro della giustizia.

* Solo il re ha il diritto di far le leggi e di abrogarle, di esercitare la giustizia:
* di tenere in armi un esercito per difendere lo stato e mantener l'ordine pubblico;
* di imporre tasse e riscuoterle;
* Nelle mani del sovrano è riposto ogni potere, che in parte e temporaneamente può essere trasmesso ad un funzionario delegato dal re e a lui completamente subordinato.
* Tutti i cittadini sono sottoposti alle medesime leggi e agli stessi oneri, anche gli ecclesiastici, i quali non possono sottrarsi alle imposte comuni e ai tribunali ordinari sia per le cause civili che per le criminali.
*Nessuno può farsi giustizia da sé e nessuno può portare armi all'infuori delle persone addette al servizio del sovrano;
* Sono proibite le guerre private ed è vietato il duello come prova nei giudizi;
* L'omicidio è punito con la decapitazione per i nobili e con la forca per gli altri.

La giustizia e le finanze dello stato furono amministrate da due organi,
* uno giudiziario - * l'altro finanziario.
* Il primo, detto "magna curia", formato da quattro giudici, è presieduto dal gran giustiziere; questi portava il titolo onorifico di "specchio della giustizia" e giudicava le questioni feudali più importanti, i delitti di lesa maestà, i conflitti di competenza tra uffici e magistrati; per le altre cause egli costituisce l'ultima istanza per gli appellanti.
* Il secondo organo era detto "magna curia rationum". Da questi due collegi dipendevano gerarchicamente nelle province i "giustizieri" per gli affari criminali e di polizia, e i "camerari" per gli affari finanziari; sotto di loro erano i "baili" che avevano funzioni giudiziarie e finanziarie.

"Le leggi compilate da Federico - scrive il Prutz - rivolgono particolare attenzione alle finanze. Pare anzi che tutte le istituzioni, non abbiano se non lo scopo di procurare a questo campo la maggiore produttività possibile, ed anche sotto questo aspetto i risultati ottenuti nello stato di Federico II furono superiori a quelli raggiunti da qualunque atto del medio evo. I proventi del re scaturivano in maggior parte dal demanio, sottoposto di provincia in provincia ad un procuratore assistito dai necessari funzionari subalterni. I beni (terreni, laghi, corsi d'acqua, miniere, saline, ecc) che costituivano il demanio erano ceduti in parte in affitto dietro il pagamento di una somma di denaro o di una parte dei prodotti ricavati, oppure erano direttamente coltivati o sfruttati per conto della casa reale. (Simili alle odierne "concessioni")

Ai redditi del demanio si aggiungevano quelli del monopolio, dal momento che il commercio del sale, del ferro, del rame e della seta greggia era tutto nelle mani dello stato. Per tutelare il monopolio occorreva un complicato e costoso sistema doganale e grandi magazzini di Stato: anche il commercio dei grani finì con l'essere talmente limitato da dover passare questo ad un monopolio dello Stato. (cioè il moderno "ammasso", inventato dai funzionati cinesi, e usato poi dagli arabi)

Corrispondevano alla maggior parte dei prodotti più importanti (oggi diremmo "strategici") dazi altissimi sull'esportazione, dazi che raggiungevano il 33 per cento sul bestiame e sui grani e che erano pagati non in denaro, ma in oggetti naturali. Per agevolare il controllo e risparmiare personale, questi articoli non potevano essere esportati se non da porte determinate.
(fino a pochi anni fa in Italia esistevano appunto nell'entrate delle città e paesi, le "porte daziarie", e all'interno o all'esterno ogni carico di merci doveva essere munito di una bolletta di entrata o uscita, pena sanzioni in danaro o requisizione della merce se sprovvista)

Commercio e comunicazioni erano altrettanto aggravati nell'interno del paese; un'imposta doveva essere pagata in base ad una istituzione sorta all'epoca normanna, per la maggior parte degli articoli di beni di consumo, in specie per la frutta, verdura, vini, salumi, formaggi, pesci, animali di cortile, canapa ecc. A ciò s'aggiungeva un'imposta fondiaria detta colletta, riscossa in origine solo nei casi di bisogno straordinario ma che poteva poi essere trasformata gradatamente in una contribuzione fissa e regolare.

"Tenendo fermo inoltre che anche i beni sequestrati erano devoluti al fisco e che, in seguito, quando si accendeva la lotta con la curia e cominciava la diserzione dei Grandi del paese, questi sequestri (oggi le chiameremmo "retate", "interventi repressivi programmati") furono esercitati su vasta scala, si dovrà convenire che i redditi del re di Sicilia erano i più svariati, entravano con maggiore regolarità ed erano per questo motivo senz'alcun dubbio superiori a quelli di qualsiasi principe di quell'epoca, giustificando così quella reputazione d'immensa ricchezza di cui godevano i re normanni.

Non a torto i contemporanei designavano Federico II come l'imperatore più ricco mai vissuto dopo Carlomagno. Eppure questa grande opulenza sua e del suo regno, e così tutti i suoi tesori, furono divorati dalla grande lotta che Federico dovette in seguito sostenere, dalla eccessiva tensione delle forze dei suoi sudditi che fece precipitare nella più squallida miseria quel regno così ricco e fiorente.

" La tendenza fiscale della legislazione di Federico II, emerge particolarmente dal modo in cui erano amministrati e distribuiti i proventi ricavati da così tanti settori e luoghi. Il regno intero era diviso in cinque distretti provvisti ognuno di una cassa centrale, nella quale erano versati tutti gli introiti, e questa "corte dei conti" faceva poi fronte a tutti i pagamenti versando nell'erario dello Stato soltanto le eventuali eccedenze. Non sappiamo se, temporaneamente almeno, l'erario abbia avuto, rispetto alle uscite, entrate maggiori, perché ai tempi di Federico, all'alta cifra delle contribuzioni corrisposero le grandi spese dello Stato.
Gli oneri del governo, oltre quell'insieme di spese certamente elevate della corte sontuosa e di quelle determinate dalla grandissima liberalità dell'imperatore, consistevano anzitutto nel mantenimento dei funzionari, tra i quali soltanto i giudici locali vivevano di una parte determinata delle spese giudiziarie.
"Non deve sorprendere la grande diffidenza che si manifestò contro tutto questo mondo di funzionari in questo complesso ingranaggio della costituzione e in tutto quest'organismo amministrativo. E nonostante un buon sistema di sorveglianza, non cessarono mai i lamenti sul carattere disonesto dei funzionari; le frequenti revisioni regolamentari, il controllo minuzioso esercitato da Corti speciali, fecero rapidamente sì scoprire i corrotti, ma non contribuirono a creare un ceto d'impiegati onesti.

"Vi era poi la flotta che causava grande spreco di denaro; lo sviluppo d'una forte marina stava particolarmente a cuore all'imperatore. Le principali stazioni marittime erano Messina, Napoli e Brindisi; qui si trovavano i maggiori cantieri navali e relativi magazzini provvisti di quanto occorreva per equipaggiare una considerevole armata. Dieci navi dovevano essere sempre pronte a spiegare le vele. Quali somme divorasse la marina, si può arguire dallo stipendio di 37.500 lire, paga enorme per quell'epoca, riscossa dall'ammiraglio che ne era a capo.
"Anche l'esercito terrestre costava forti somme: poiché, oltre i contingenti militari forniti obbligatoriamente dai vassalli, unica istituzione feudale che Federico II non distrusse, si provvedeva ad un corpo di truppe permanenti composte di mercenari, e occupavano una posizione speciale gli Arabi stabiliti a Lucera, che formavano una colonia militare favorita.
Militarmente poi il regno era diviso in due capitanati, del continente e della Sicilia, ognuno dei quali, a sua volta, era frazionato in un numero d'ispettorati delle fortezze.

"Che cosa dissero di questo governo o che cosa ne pensarono coloro che ne sopportarono il peso? Se, durante il breve, rigoroso governo di Enrico VI, tutto impegnato ad una guerra di conquista, si lamentava del dominio dello straniero, quello del Normanno di nascita -così diceva e si sentiva Federico II- portava a un grado ben superiore i contrassegni della tirannia straniera. Il "normanno" per molti era e restava un germanico. E a calcare la mano sul "barbaro" ci pensarono pure i Papi.

Tuttavia i suoi sudditi ubbidirono al suo ferreo governo, ma anelarono sempre ad essere sollevati. Il modo poi in cui Federico II, scoppiata la lotta con il Papato, dovette usare la sua potenza, rese il suo governo completamente (esclusi i ceti da lui privilegiati) insopportabile. L'imperatore godeva appena un po' di simpatia e di affetto in quelle città fortunate che per tanti motivi ottenevano un grande sviluppo, quindi benessere un po' a tutti, ceti alti e bassi. Negli altri, l'aristocrazia del paese, capitanata dai grandi baroni, più che ad averci lasciati dei giudizi sul governo federiciano, ci hanno lasciato i tanti tentativi di rivolta e parecchie cospirazioni.
Insomma il nuovo sistema di governo non riuscì a mettere salde radici né arrecare quindi, nel momento decisivo, quel vantaggio, che il suo creatore e rappresentante, nel concepirlo, si era prefisso di ottenere".
Forse il momento decisivo potevano essere, ma non lo furono, gli anni del
prossimo capitolo che segue..


periodo dal 1230 al 1237 > > >

 

(VEDI ANCHE I SINGOLI ANNI o nella TEMATICA)

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia
GREGORIUVUS - Storia di Roma nel Medioevo - 1855

LANZONE - Storia dei Comuni italiani dalle origini al 1313

UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 

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