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( QUI TUTTI I RIASSUNTI )  RIASSUNTO ANNI dal 1177 al 1190 

FU VERA PACE? -
LA MORTE DI ALESSANDRO III - LA MORTE DI BARBAROSSA
( perido dal 1177 al 1190 )

ACCORDO DEL SENATO ROMANO CON ALESSANDRO III - SOTTOMISSIONE DELL'ANTIPAPA CALLISTO -CONCILIO LATERANENSE - ULTIMI ANNI DI ALESSANDRO III - SUA MORTE - GIUDIZIO SULL'OPERA SUA - ELEZIONE DI LUCIO III - MORTE DI CRISTIANO DI MAGONZA - PACE DEFINITIVA TRA IL BARBAROSSA E I COMUNI LOMBARDI - CONTENUTO E IMPORTANZA DEL TRATTATO DI COSTANZA - L'ARTIGIANATO NEI COMUNI ITALIANI. - LA MAGISTRATURA PODESTARILE - URBANO III - MIRE DEL BARBAROSSA SUL REGNO DI SICILIA - MATRIMONIO DI ENRICO VI E COSTANZA - INCORONAZIONE DI FEDERICO DI COSTANZA E DI ENRICO - GREGORIO VIII - CLEMENTE II - LA COSTITUZIONE ROMANA DEL 1188 - III CROCIATA E MISERA MORTE DEL BARBAROSSA
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DALLA TREGUA DI VENEZIA ALLA PACE DI COSTANZA

Come abbiamo letto -nel precedente capitolo- dopo la scena lacrimevole fatta a Venezia davanti al Papa, FEDERICO BARBAROSSA, lasciò la città lagunare il 18 settembre del 1177 non per far ritorno in Germania ma diretto verso l'Italia centrale.
ALESSANDRO III lasciava invece Venezia un mese dopo, il 16 ottobre, diretto ad Anagni, dove ricevette accoglienze entusiastiche. Fu comunque un entusiasmo poco durevole e non veniva fra l'altro da Roma. Qui, tutti i vecchi conflitti erano ancora vivi, e i contrasti tra le pretese temporali del papa e quelle del partito della libertà municipale tornarono ben presto a farsi sentire. Questo mentre a Viterbo l'antipapa CALLISTO, filo-imperiale rifiutava di deporre la tiara; ed era una contraddizione, fra Impero e Papato, poiché Federico a Venezia aveva riconosciuto anche se solo "manifestamente" Innocenzo III.

BARBAROSSA, lasciata Venezia, dove aveva fatto "teatro", stava, infatti, già pensando ai nuovi orientamenti politici dei suoi rapporti con il Papato, con l'Italia meridionale, e preparando il terreno per i suoi obiettivi futuri. Sapeva inoltre che a Roma poteva ancora contare su molti suoi sostenitori; ed anche nelle città della Lega, non è che all'improvviso queste erano diventate Guelfe, vale a dire, del partito sostenitore del papato che era da sempre contro la politica imperiale.

Quando giunse ad Anagni, Alessandro III, aspettò che CRISTIANO di Magonza con un contingente di milizie, come l'imperatore aveva stabilito, lo conducesse a Roma; ma si opponevano al ritorno di Alessandro III il Senato e il popolo romano, i quali non volevano rassegnarsi ad abbandonare le franchigie che da quasi quarant'anni godevano. Ed era solo per questo che parteggiavano per l'Antipapa.

Di fronte a queste difficoltà l'arcivescovo di Magonza chiese istruzioni al Barbarossa che si trovava allora ad Assisi. Questi intimò all'antipapa di sottomettersi, pena il bando, e spedì a Cristiano un altro più nutrito corpo di milizie. Sotto la minaccia di un assedio il Senato si accordò con il Pontefice, prestandogli il giuramento feudale e restituendogli S. Pietro e tutte le regalie. Così Alessandro III poté il 12 marzo del 1178 entrare in Roma fra le acclamazioni del popolo festante.

Sentendosi poco sicuro a Viterbo, l'antipapa si ritirò a Montalbano e i viterbesi, vinta la resistenza di alcuni nobili, pure loro si sottomisero ad Alessandro III. Trovandosi questi il 29 agosto a Tusculo, giunse a fargli atto di sottomissione con alcuni prelati CALLISTO, e il Pontefice non solo gli concesse il perdono, ma lo trattenne per qualche tempo presso di sé colmandolo di onori, poi lo mandò a governare Benevento.

"Ora Alessandro III, poté rivolgere l'intera sua opera ad ordinare la convocazione del concilio ecumenico promesso nell'incontro di Venezia. Il 5 marzo 1179 il concilio si radunò nella basilica lateranense. V'intervennero circa 300 vescovi, la maggior parte italiani. Dopo avere eliminati gli ultimi residui dello scisma regolando lo stato delle sedi vescovili, nella sessione del 19 marzo, che fu la terza ed ultima, riformò la costituzione elettorale dei papi, stabilendo che in caso di scisma, si dovesse ritenere per papa legittimo quello che aveva riportato i suffragi di due terzi del sacro collegio.
Era precisamente il caso suo, di Alessandro III, al quale con questo decreto si dava una convalidazione retroattiva.
Uno dei decreti del concilio lateranense bandiva una crociata ma non solo contro gli infedeli, i quali con Saladino a guidarli, stavano distruggendo in Terrasanta l'opera della prima crociata; ma anche una contro gli eretici d'Occidente, che avevano fissato la loro principale sede nella Francia meridionale: e con i nomi di Catari (puri) Valdesi (dal riformatore lionese Pietro Valdo), Albigesi (della città di Albì (Alba), VEDI centro della setta) ecc., facevano guerra al papato, predicando la povertà cristiana, dalla Chiesa profanata con le sue pompe.
E fu da questo decreto conciliare che ebbero inizio le guerre feroci combattute in nome del papato contro gli eretici, conosciute sotto il nome di guerre degli Albigesi; le quali -secondo le accuse- "causavano la separazione del cattolicesimo dalla religione del Vangelo" (Bertolini)".

ALESSANDRO III visse ancora poco più di due anni, e non furono, questi, anni di pace. Risorse, infatti -dopo la sottomissione di Callisto- anche se per poco, lo scisma con l'elezione di un antipapa ch'ebbe il nome di INNOCENZO III, che, durò per qualche mese, perché preso con i suoi complici, fu fatto prigioniero poi confinato all'abbazia di Cava.
Altre turbolenze che avrebbero potuto produrre serie conseguenze avvennero nel regno italico in questo periodo: moti contro 1'imperatore ci furono in Romagna; una flotta bizantina comparve nelle acque di Ancona; infine una congiura fu ordita dal marchese Corrado del Monferrato con Emmanuele Comneno che portarono nelle prigioni bizantine Cristiano di Magonza.

Effetto di tali turbolenze poteva essere la rottura del trattato di Venezia e la ripresa della guerra tra il Barbarossa e i comuni, ma a scongiurare in Alta Italia un nuovo conflitto, fu solo l'assenza di Federico, impegnato in Germania, come diremo più avanti, contro ENRICO il "Leone"; e fu anche scongiurata dalla morte dell' imperatore bizantino avvenuta il 24 settembre del 1180 e il rilascio dell'arcivescovo di Magonza dietro il pagamento di dodicimila pezzi d'oro.
Alessandro III morì il 30 agosto del 1181 a Civita Castellana, quando negli ultimi mesi i rapporti con i Romani si erano ormai già guastati; e per questo il suo cadavere fu dal popolo insultato mentre era condotto in Laterano.

Ventidue anni era durato il suo pontificato e di questi, diciotto, li aveva passati in mezzo allo scisma e più di dieci in esilio. Di lui che fu certamente un gran Papa, la storia ricorda la tenacia nella lunga lotta contro l'imperatore, dalla tempra fortissima, e dal vigoroso temperamento che non si lasciò abbattere dalle durissime vicende del suo pontificato e conobbe la gloria di aver visto il Barbarossa prostrato ai suoi piedi; ma la storia deve anche ricordare che non pochi dei successi di questo Papa furono dovute alle circostanze più che all'opera sua personale e deve togliergli quella che fu creduta e poteva essere la sua vera gloria; perché un Pontefice amico delle libertà comunali egli non fu di certo, né del resto, un Papa di quei tempi poteva essere.

Il suo pontificato comunque resta senza dubbio uno dei più importanti nella storia della Chiesa: per ventidue anni l'aveva guidata in mezzo a difficoltà di ogni genere, con eccezionale prudenza e grande fermezza. I nemici erano stati molti, ma fra tutti -e in aperto conflitto- quell'impero guidato da uno dei più grandi personaggi che abbiano mai portato la corona imperiale.
Due grandi personaggi contemporaneamente sulla scena, che rappresentavano ideali contrapposti che difficilmente avrebbero potuto conciliarsi.
In questa lotta, entrambi dotati di una grande energia, animata da una fede profonda negli ideali per i quali erano scesi in campo.

Nelle vicende del periodo che abbiamo narrato nei tre precedenti capitoli, cioè nelle tremende e drammatiche lotte contro l'imperatore, con la Lega alleata al papato, non ci è di certo sfuggito che c'era una profonda contraddizione. La Lega a Pontida non aveva respinto la dominazione imperiale, aveva giurato solo di opporsi con le armi alle vessazioni dei ministri imperiali, e che si sarebbe sempre "mantenuta fedele all'imperatore" anche se, aggiunsero, che "non gli avrebbero prestata obbedienza fino a che non avessero ottenuta la restaurazione dei loro (antecedenti imperiali) diritti". Erano insomma filo-imperiali, cioè "Ghibellini", non "Guelfi"; anche se questi due termini solo dopo assunsero il significato di sostenitore (il primo) della politica imperiale contro quella del papato.

Dunque, alleandosi con i comuni lombardi ALESSANDRO III non pensò di giovare alla causa della libertà dei Lombardi, ma all'interesse esclusivo del Papato e soltanto da questo interesse fu ancora mosso, quando ad Anagni, tradendo la causa dei comuni, si accordò con Federico senza nemmeno convocare e interpellare i rappresentanti delle città unite nella Lega che a Legnano avevano sconfitto duramente Barbarossa, pagando con molto sangue e rovine.
La storia deve ricordare che, se Alessandro sofferse impavido l'esilio, se riuscì a liberare la chiesa dallo scisma, se ottenne che il Barbarossa gli baciasse i piedi ed umilmente gli tenesse la staffa, si deve anche non dimenticare che coronò la sua politica abile ma tortuosa accettando per ritornare a Roma (paradossalmente) l'ausilio delle armi imperiali e per mezzo di queste a Roma riuscì ad uccidere la risorta repubblica.

Morto lui, i cardinali, raccolti a Velletri, il 6 settembre 1181 elessero ed ordinarono Pontefice UBALDO ALLUCINGOLI di Lucca, che prese il nome di LUCIO III. Questi, venuto a discordia con i Romani, dopo tre mesi dalla sua elezione andò a stabilirsi a Velletri. Una delle tante cause della discordia tra il Papa e i Romani era la città di Tusculo, che Roma repubblicana voleva punire e distruggere, mentre la Santa Sede la proteggeva.
Il 28 giugno del 1183 numerose schiere romane (filo-repubblicane) mossero contro l'odiata città; ma, essendo stato chiamato da Lucio per la difesa di Tuscolo l'arcivescovo di Magonza che era rimasto in Italia, gli assalitori si ritirarono inseguiti da Cristiano.
Questa fu l'ultima vicenda guerresca del bellicoso arcivescovo che gli costò anche cara. Contratta una febbre perniciosa sotto le mura di Roma, si ritirò a Tuscolo ma qui cessò di vivere pochi giorni dopo, il 25 agosto del 1183.

Due mesi prima della morte dell'arcivescovo di Magonza la tregua di Venezia tra i comuni lombardi e il Barbarossa era divenuta (sembrava) pace definitiva con quella negoziata a Piacenza poi a Costanza.
"Non si conoscono bene i particolari delle trattative per giungere alla pace definitiva, prima che spirasse la tregua, ma sembra che sin da principio si era d'accordo sulle questioni di massima e si studiava l'intesa intorno a cose di minore importanza; nell'iniziare il negoziato si era partiti da quelle basi già stipulate a Montebello e dall'arbitrato dei Cremonesi del 1174, ove già era riconosciuta dall'imperatore la costituzione consolare e la libertà dei Comuni lombardi che vi era appoggiata.
Rimanevano tuttavia serie differenze da conciliare. I Lombardi volevano concedere all'autorità sovrana del monarca germanico soltanto un carattere puramente formale, nel senso che una sola volta, sotto ogni nuovo sovrano, i loro consoli avrebbero dovuto sollecitare il conferimento dei diritti sovrani da loro esercitati in nome dell'impero; e quei diritti dovevano esser concessi non solo per il circondario della città, ma per tutta l'estensione della rispettiva diocesi. Inoltre pretendevano la cassazione di ogni decreto emanato in passato a danno dell'uno o dell'altro dei Comuni; e finalmente insistevano, come già a Montebello, affinché ad Alessandria, fosse accordato lo stesso trattamento di ogni altra città della Lega, né le venisse inflitto alcun castigo speciale (lo si temeva questo, puramente personale) voluto dall'imperatore irritato per quella famosa -per lui umiliante- sconfitta.
Si discusse, intorno a tale questione, con i plenipotenziari della Lega, a Norimberga, nel gennaio-febbraio del 1183. Presentava difficoltà serie e speciali il caso di Alessandria, poiché nessuna delle parti credeva di poter cedere in un punto senza offendere il proprio onore.

" Il nome e l'esistenza di quella città, per l'imperatore era un'offesa, una sfida continua, mentre per i Lombardi era il monumento della gloriosa guerra d'indipendenza. Più che una questione politica era una ragione sentimentale personale; ad uno bruciava quello scotto, ma l'altro ne menava vanto".

"Finalmente si trovò un mezzo di accontentare tutti. Con il consenso dei suoi alleati, Alessandria il 14 marzo del 1183 concluse con l'imperatore un contratto speciale: la città fece a Federico atto di sottomissione incondizionata, fu graziata ma doveva portare il nome di Cesarea ed ebbe come dono i diritti e la libertà che dovevano esser concessi a tutte le altre città. In tal modo fu data soddisfazione all'onore dell'imperatore senza che i Lombardi dovessero sacrificare la fortezza alleata e simbolo del loro orgoglio; il cambiamento del suo nome però conteneva una critica posticipata, ma perciò non meno chiara e severa, della politica papale all'epoca della pace di Venezia. Superato quell'ostacolo, riuscì facile l'accordo su tutti gli altri punti, giacché l'una e l'altra parte restrinsero alcune pretese.
Non una volta nel corso di ciascun regno, ma ogni cinque anni i consoli dovevano sollecitare l'investitura dall'imperatore o da chi ne faceva le veci, e quest'atto doveva avvenire in Italia stessa. D'altra parte dovevano essere annullati i provvedimenti presi per castigare l'una o l'altra città solo perché aveva fatto parte della Lega Lombarda. (Prutz)".

Raggiunto l'accordo nei punti principali, nei mesi di Marzo-Aprile 1183, i rettori della Lega, convenuti per i negoziati a Piacenza nella chiesa di Santa Brigida, dove il trattato fu definitivamente redatto, giurarono di osservarlo, poi i plenipotenziari si trasferirono a Costanza per la ratificazione.

Il trattato, che nella storia prese il nome di PACE DI COSTANZA, si compone di trentatré articoli, più un prologo ed un epilogo. Con questo, Federico e il figlio Enrico, concedevano alle città, ai luoghi e alle persone della Lega le regalie e le consuetudini godute "ab antiquo" entro le mura e nel contado; il fodro (accoglienza del re e del suo seguito), i boschi, i pascoli, i ponti, le acque, i molini, l'esercito, le munizioni, la giurisdizione civile e criminale. Se in un comune sorgevano dubbi intorno ai limiti e all'estensione di questi diritti, il vescovo del luogo e alcuni uomini incorrotti e imparziali dovevano esaminare e giudicare la questione; se poi il comune credeva di non proseguire nelle indagini allora esso doveva pagare all'erario imperiale l'annuo tributo di duemila marche d'argento, che poteva esser diminuito a beneplacito del sovrano.
Erano confermate e mantenute le concessioni fatte dall'imperatore o dai suoi antecessori prima della guerra, ai vescovi, alle chiese, alle città e a qualsiasi altra persona; erano invece annullati tutti i privilegi e le concessioni fatte, durante la guerra, a danno dei comuni e degli uomini appartenenti alla Lega. In quelle città in cui il vescovo rivestiva la carica di conte i consoli avrebbero continuato a ricever da lui l'investitura se tale era il costume, nelle altre dovevano riceverla dall'imperatore per mezzo del suo nunzio.

L'investitura doveva essere rinnovata gratuitamente ogni cinque anni. Nelle cause civili che eccedevano la somma di 25 lire imperiali si poteva ricorrere all'appello sovrano, senz'obbligo di andare in Germania perché nelle città un apposito commissario imperiale le avrebbe ricevute e giudicate nello spazio di due mesi secondo le leggi e le costumanze del luogo. I consoli dovevano prestare il giuramento di fedeltà all'imperatore, e i vassalli da lui ricevevano l'investitura secondo le debite forme; quelli che non l'avessero chiesta nel tempo della guerra e della tregua non avrebbero perso il feudo.
L'imperatore perdonava i danni e le ingiurie ricevute dalla Lega e dai suoi membri; concedeva alle città di fortificarsi, di mantenere le alleanze e di contrarne delle nuove; annullava i trattati stipulati per timore, restituiva i beni sottratti ai membri della Lega, perdonava ad Obizzo Malaspina e prometteva che non gli sarebbe in futuro recata alcuna molestia.

I membri della Lega, nel giuramento di fedeltà, da rinnovarsi ogni dieci anni, dovevano aggiungere di mantenere i diritti e i possessi imperiali in Lombardia e di aiutarlo a ricuperare quelli che aveva perduti; inoltre si obbligavano, quando l'imperatore passava per le terre lombarde, recandosi a Roma, di fornir viveri a lui e al suo seguito (il fodio) e di mantenere in efficienza i ponti e le vie, e si impegnavano infine di perdonare le offese agli alleati imperiali e di restituire loro senza compenso le proprietà sottratte.
L'imperatore dichiarava formalmente di far pace con le città di Vercelli, Novara, Milano, Lodi, Bergamo, Brescia, Mantova, Verona Vicenza, Padova, Treviso, Bologna, Faenza, Modena, Reggio, Parma e Piacenza; ma la negava ad Imola, a Rocca San Casciano, a Bobbio, a Pieve di Gravedona, a Feltre, a Belluno e a Ceneda. A Ferrara concedeva due mesi di tempo per accedere al trattato ("Ferrariae autem gratiam nostram reddimus et praescriptam concessionem facimus seu permissionem, si infra duos menses post reditum Lombardorum a Curia nostra de pace praescripta cum eis concordes fuerint").

La pace di Costanza ebbe la ratifica il 25 giugno del 1183. La giurarono e ne sottoscrissero il trattato il gran ciambellano RODOLFO, quindici principi dell'impero e i comuni di Pavia, Cremona, Como, Tortona, Asti, Alba, Genova e Alessandria alleati dell'imperatore; in nome della Lega giurarono e sottoscrissero sessantrè deputati, indi uno di ciascuna città ricevette l'investitura del consolato.

In questo modo, a Costanza, furono decisamente ridimensionate le pretese imperiali sostenute da Barbarossa a Roncaglia.

"Il trattato di Costanza, - scrive l'Emiliani-Giudici - che per tanto tempo poi formò il codice del diritto pubblico italiano, e venne da giureconsulti annesso alla raccolta delle leggi romane; annientava l'editto di Roncaglia. Venti anni di guerre e la rotta di Legnano avevano persuaso Federico Barbarossa che quel dottore bolognese mentì allorquando gli diceva, lusingandolo: "l'imperatore tedesco essere il signore del mondo".
I Lombardi conseguirono tutto ciò che avevano lungamente e invano domandato; Federico non poté mantenere nulla del "molto" che aveva voluto imporre, e se, come un suo confratello diceva dei propri casi, trecento quarantaquattro anni dopo, poté salvare il solo onore, ne renda grazie allo spirito dei tempi, nei quali le costumanze feudali, che avevano rafforzata la società nuova in modo diverso dalla vecchia, non comportavano un sistema di un vero governo popolare; ne renda grazie soprattutto all'idea immortale dell'"imperio romano", la quale, come aveva salvate le reliquie della civiltà in mezzo alla continue devastazioni barbariche, era uno stimolo al risorgere dell'Italia e insieme era un impedimento al ricostituirsi a vera nazione".

"Per questi due motivi sorge il dubbio che gli Italiani con religione, leggi, istituzioni, lingua e costumi così tanto diversi dagli antichi, non avrebbero mai potuto concepire una forma di governo senza la suprema potestà imperiale, o almeno avessero avuto un concetto più giusto della riverenza dovuta a quella; con la memorabile vittoria di Legnano si sarebbero potuti per sempre emanciparsi dal dominio straniero.
La credevano usurpazione, ma poi dopo Legano, si piegarono ancora sperando che "il santo uccello - come il divino poeta chiama l'aquila romana- andrebbe in fine a posarsi nell'antico nido", vale a dire che l'impero, fino allora rimasto in Alemagna e "barbaro", sarebbe ritornato in Italia e per essere nuovamente "civile".

Però non poteva essere nel loro il pensiero di rendere perpetua quella lega che era una temporanea alleanza, di farne, cioè, il nucleo della nazione futura invitando i perplessi e forzando i renitenti ad aggregarsi, onde poi spazzare da tutta la penisola gli usurpatori stranieri, e purgare la vetusta metropoli del mondo della strana pestilenza destinata dall'ira di Dio a rendere lunga e forse perpetua la servitù nostra.
"Aggiungasi che il concetto di una costituzione federativa - come saggiamente ragionano alcuni liberi scrittori è una delle idee più astratte che siano nella scienza politica, e quindi difficile e quasi moralmente impossibile far germogliare e svilupparsi nei cervelli di popoli uscenti da una lunga notte di barbarie.
"Una vera democrazia richiede che vengano mantenute intatte le libertà proprie di ciascuna città o provincia, e nel medesimo tempo ciascuna e tutte ne devono rinunciare una parte quanta è necessaria a costituire il potere fondamentale dello stato che le armonizzi tutte e impedisca le usurpazioni di una a detrimento dell'altra, e conservi vivo ed inviolato il legame politico che le congiunge.
"Gli italiani dunque non combattevano per l'indipendenza - e non c'è uno scrittore di questo periodo che ne riporti la minima traccia - volevano intere, intangibili, efficaci, quelle libertà ch'essi godevano di fatto, e con la pace di Costanza le ottennero di diritto.
"Le quali libertà, distaccate da ogni impedimento straniero, crescendo con lo straordinario progresso, fecero di ogni comune un centro di civiltà propria, e gli dettero tale sentimento d'autonomia che - tornati vani gli sforzi che poi fece Federico II ad unificare tutta l'Italia attuando l'idea nazionale della potestà imperiale ricondotta all'antica sua sede - le sorti dei popoli italici presero un cammino particolare, che né quattro secoli di governo municipale né tre altri di servaggio straniero hanno potuto arrestare"
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"Il trattato di Costanza - citiamo ancora una volta il Bettolini -assimilava "di diritto e di fatto i Comuni ai grandi vassalli della corona. Questo era appunto il fine che le città si erano proposte di conseguire collegandosi fra loro. Tutti i compromessi, i giuramenti delle città confederate, desiderano una sola cosa: il riconoscimento dello "status quo ante bellum".
Federico si era rifiutato non solamente di attribuire alle città il potere e la giurisdizione dei grandi vassalli della corona, ma anche di riconoscere il loro carattere di Comuni; Federico avrebbe voluto farne una specie di municipi romani. Da ciò la lotta che terminò con il trionfo delle città. Ma non tutte le classi della cittadinanza vi parteciparono: rimase esclusa la classe degli artigiani, la quale per lo sviluppo dei commerci e dei traffici, stava allora sorgendo a nuova potenza, e non riusciva a rassegnarsi all'avvilimento imposto dagli ordini privilegiati. Ond'essa, facendo suo pro delle discordie nate in seno a quelli, dalla dipendenza verso di loro si affrancò.

Alla fine del secolo XII, l'emancipazione degli artigiani era già un fatto compiuto. È facile comprendere come i fatti stessi che avevano dato origine ai Comuni, conseguissero ora agli artigiani il loro affrancamento. Posti essi sotto il patronato dei signori feudali, quando costoro furono spogliati dei loro privilegi e proscritti, gli artigiani, che erano a loro servizio, affrancandosi, vuoi per usurpazione favorita dalle circostanze, vuoi per concessione volontaria degli stessi patroni.
Conseguita la civile indipendenza, era naturale che chiedessero di far parte della pubblica amministrazione. E perché la domanda fosse più sicuramente accolta, essi la avvalorarono collegandosi fra loro. E' così che riuscirono a nascere le corporazioni dei mestieri, le quali ebbero tanta parte sui futuri destini d'Italia. L'avere combattuto contro il Barbarossa in difesa della città; il contribuire con il lavoro alla grandezza e alla prosperità della stessa, erano titoli che gli artigiani accampavano a suffragio della loro domanda di essere messi a far parte dell'amministrazione pubblica.
Sventuratamente questi titoli, per quanto tanto legittimi, non ottennero la dovuta considerazione dagli ordini privilegiati; di conseguenza gli artigiani si trovarono obbligati a ricorrere alla forza per farli valere. Le discordie esistenti in seno agli ordini dominanti agevolarono la via per rendere esaudite le accampate pretese e oltrepassarne perfino la leale misura.

"Anche dell'emancipazione politica degli artigiani, Milano fu la prima a dare l'esempio. Qui, l'anno 1198 erano nate aspre contese fra nobili e cittadini. Benchè politicamente uniti in un solo consorzio, gli ordini dominanti non avevano rinunciato alle loro tradizioni, né mutati i loro costumi. I nobili avevano conservato la loro superbia gentilizia, e i borghesi il loro orgoglio pecuniario: in conseguenza di ciò, in seno alla grande associazione che aveva creato il Comune, erano sorte associazioni speciali dei diversi ordini le quali dopo la pace di Costanza, presero un carattere sempre più spiccato. Fra le nuove associazioni acquistò presto grande importanza quella dei mercanti, i cui capi detti "consules mercatorum sive negotiatorum", presero parte frequentemente agli affari dello Stato.
Approfittando dunque gli artigiani milanesi di queste divisioni nate in seno ai dominanti, e seguendo il loro esempio loro, l'anno 1198 si costituirono in una grande associazione, che chiamarono "Credenza di Sant'Ambrogio", in antitesi alla "Credenza dei Consoli". Nel tempo stesso, i nobili minori (gli antichi valvassori e valvassini) stanchi di vivere sotto la dipendenza dei Capitani, seguirono l'esempio degli artigiani formarono pure loro una società propria a cui posero il nome di "Motta", in ricordo della vittoria riportata dai loro antenati nel 1036 sui vassalli maggiori".

Così Milano ebbe tre Consigli, uno di 400, l'altro di 300, il terzo di 100 membri. E siccome la sovranità risiedeva nella riunione di tutti e tre i Consigli, reciprocamente gelosi e rivali, è facile pensare a quali concitazioni fosse esposto il Comune, soprattutto nell'epoca delle elezioni dei magistrati.
E dato che senza questi il consorzio civile si sarebbe avviato verso la dissoluzione, per parare questo supremo pericolo, si ricorse ad un espediente, suggerito da una istituzione dell'antica repubblica di Roma. La quale, nei casi, in cui, o per le interne discordie o per i pericoli esterni la cosa pubblica fosse stata minacciata da rovina, per salvarla, aveva fatto ricorso alla creazione di un dittatore.

"Milano seguì l'esempio dell'antica Roma affidando nei momenti di pericolo della patria ad un dittatore la somma delle cose. Il nuovo magistrato assoluto, che doveva durare in ufficio non più di un anno, ed essere non locale di nascita, fu chiamato "Podestà". Onde questo nome, che prima era stato sinonimo d'oppressione e straniera servitù, andò ora a significare un fattore di pace e di concordia fra i cittadini".

"La prima volta in cui la magistratura podestarile comparve a Milano nella nuova condizione, fu nel 1186, Quell'anno, i consigli milanesi si accordarono di affidare ad UBERTO VISCONTI, piacentino, il potere assoluto, affinché lo usasse nel senso di calmare le fazioni, e rendere possibile nel successivo anno l'elezione dei magistrati consolari. Ma già prima di allora, la magistratura podestarile, rivestita di piena "balìa" (magistratura straordinaria con amplissimi poteri) era comparsa altrove; e il suo rapido diffondersi nelle città italiane dimostra la omogeneità delle condizioni politico-sociali in cui queste, dopo il trattato di Costanza, vennero a trovarsi".

In alcune città la "balìa" gettò subito così profonde radici, da diventare una magistratura permanente, anziché transitoria. Così avvenne, ad esempio, a Firenze. Questa città, sorta a Comune subito dopo la distruzione di Fiesole (1125), nel volgere di pochi decenni, diede alle istituzioni democratiche un forte sviluppo, e usandole, fu tale l'accrescimento da essere capace di risorgere sugli elementi dispotici, al punto da poter dare rifugio a Firenze al palio delle libertà italiane, quando queste dappertutto andavano in rovina.

Infatti, già, al chiudersi del secolo XII, oltre ai consoli della città, ed ai rappresentanti delle più cospicue corporazioni (arti maggiori), quali erano i mercanti, banchieri, giudici, notari e trafficanti di panni, anche i capi o priori delle "arti minori" erano chiamati a discutere i più alti interessi della città. Sembrerà contraddire a tutto questo il fatto accennato prima della stabilità conseguita a Firenze della magistratura podestarile. Infatti, già nel 1207 la troviamo nella città sull'Arno, diventata stabile. Le discordie civili condussero a questo; ma mentre altrove portarono a rovina il popolo, a Firenze, come già nell'antica Roma, servirono invece al popolo come educazione civile e come scuola di libertà.


DALLA PACE DI COSTANZA ALLA MORTE DEL BARBAROSSA

Dopo la pace di Costanza Federico Barbarossa sembrò essere diventato un altro uomo; l'impetuoso guerriero si era mutato in abile politico; l'orgoglioso imperatore aveva preso le vesti di pacifico sovrano, che cercava di conquistare l'animo dei suoi sudditi con la generosità anziché con le armi.
Nel giorno delle Pentecoste del 1184, iniziarono a Costanza (dove era stata conclusa la pace) grandi festeggiamenti che durarono molte settimane; furono così grandi che entrarono nelle leggenda tedesca, ricordate nelle ballate dei Minnhesanger popolari.

Della sua nuova intelligente politica Federico diede prova quando, nel settembre del 1184, comparve per la sesta volta in Italia; ma questa volta come amico, senza esercito, e fu accolto dai Lombardi con un caldo benvenuto.
Fu largo infatti di privilegi appena giunto nella marca veronese, e con la stessa Milano, la sua implacabile nemica di una volta, si mostrò generoso, concedendole di riedificare Crema, cedendole per un piccolo compenso di trecento marchi annui tutte le regalie che lui aveva in quella diocesi e stipulò con la metropoli lombarda un'alleanza offensiva e difensiva.

Ma se Barbarossa aveva cambiato politica non aveva però rinunciato ai suoi sogni di grandezza. Federico pensava sempre al regno di Sicilia. La sua conquista lo avrebbe reso padrone dell'Italia intera e di una parte non indifferente delle coste settentrionali dell'Africa ed avrebbe potuto essere il primo passo verso una conquista più grande.
Un vasto impero formato dalla Germania, dalla Borgogna, dall'Italia, dai domini bizantini, dalle isole mediterranee, dal regno latino di Terrasanta; insomma qualcosa come la ricostruzione dell'antico impero romano: ecco il sogno meraviglioso del Barbarossa.

Ma la conquista del regno siciliano non era una facile impresa. Se sotto Guglielmo I il tedesco poteva essere aiutato dalle ribellioni dei baroni e dalle interne discordie, ora invece si trovava di fronte ad un sovrano attivo, intelligente, che con il suo governo illuminato aveva saputo accattivarsi la stima dei sudditi lo avevano soprannominato "il Buono"; capace di smorzare le rivalità, accrescere la potenza del reame. Inoltre Guglielmo II godeva l'amicizia dei comuni lombardi di cui era stato alleato e quella del Papato che nella lotta contro gl'imperatori germanici aveva avuto nei sovrani normanni un validissimo aiuto.
La tregua stipulata a Venezia tra l'impero il Papato e il Regno di Sicilia era tuttora valido.
Non era quindi il caso di pensare ad una spedizione, che avrebbe riacceso sicuramente la guerra in tutta la penisola. Però quel che le armi non avrebbero potuto fargli ottenere poteva esser conseguito pacificamente e la sorte favoriva meravigliosamente l'ambizione del Barbarossa.
Così invece di usare la forza iniziò ad usare i sentimenti.

Guglielmo, sposato a Giovanna, figlia del re d' Inghilterra, era senza figli e poiché il conte Tancredi di Lecce, quale figlio naturale del primogenito di Ruggero I, non aveva diritto alla successione, erede presuntiva al trono siciliano era Costanza, figlia postuma di Ruggero II.

Federico chiese in sposa COSTANZA (30enne) per il proprio figlio ed erede Enrico VI (18enne) e nonostante l'opposizione dei baroni siciliani, avversi a quel matrimonio che avrebbe data la corona di Sicilia a un tedesco, dopo aver guadagnato alla sua causa il potente GUALTIERI arcivescovo di Palermo, l'imperatore riuscì a ottenere questo fidanzamento, combinato poi il 29 ottobre 1184 ad Augusta.
Il Barbarossa si trovava allora in Italia. Altro scopo principale di questa sua nuova "passeggiata amichevole" nella penisola era quello di risolvere con il Pontefice alcune importanti questioni.
L'imperatore e il papa s' incontrarono a Verona nei primi di novembre del 1184. Sebbene LUCIO III si rifiutasse di concedere ad alcuni vescovi scismatici la grazia chiestagli dal sovrano e si mostrasse intransigente circa la questione dei beni matildini, l'imperatore si mostrò arrendevole con il papa confermando il bando contro gli eretici Catari ed aderendo alla proposta di una nuova crociata in Terrasanta. Sperava il Barbarossa, in cambio delle sue cortesie, che Lucio III non si sarebbe opposto al suo disegno di far concedere la corona imperiale al figlio Enrico. Però le sue speranze andarono deluse, il Pontefice dichiarò che prima di compiere un passo del genere avrebbe convocato un concilio a Lione; ma aggiunse pure che "l'esistenza contemporanea di due imperatori era incompatibile con la vera natura dell'Impero".

"Il Pontefice - come scrive il Prutz - temeva che conferendo, mentre ancora viveva Federico, il diadema imperiale ad Enrico VI, sul capo del quale si dovevano poi trovare riunite le corone di Germania, Borgogna e Sicilia, si sarebbe prestato a contribuire, a pro della famiglia Hohenstaufen, alla costituzione di un impero mondiale ed ereditario, al quale in ultimo avrebbe dovuta in silenzio sottomettersi pure la Chiesa romana".

Al rifiuto del Pontefice, il Barbarossa si allontanò da Verona, e nonostante irritato e sdegnato, non ruppe i rapporti con la Curia sperando che il papa, infine, avrebbe mutato contegno; ma questa speranza cadde quando, nella stessa Verona il 25 novembre del 1185 LUCIO moriva.
Salì il giorno stesso al trono pontificale l'arcivescovo di Milano UBERTO CRIVELLI, noto avversario di Federico, che prese il nome di URBANO III. Un uomo inflessibile ed energico, che non aveva nessuna simpatia per l'imperatore e non era certo l'uomo disposto a fargli delle concessioni.
Una politica che fece ben presto riaprire la disputa tra la chiesa e l'impero, che tornarono entrambe sulle strade delle controversie che erano sembrate a Venezia finite.

A quel punto il Barbarossa capì che la sua politica conciliatrice non avrebbe vinta l'opposizione dell'intransigenza della Curia romana e fece seguire il matrimonio del figlio con la principessa normanna. Narra una tradizione popolare, seguita da Dante, che Guglielmo I il "Malo", prestando fede ad una profezia secondo la quale Costanza avrebbe causato la rovina del reame siciliano, avesse fatto chiudere la principessa nel monastero del Salvatore e che era quasi cinquantenne quando Guglielmo il Buono la fece uscire dal convento per darla ad Enrico. Ma questa è una leggenda: COSTANZA d'ALTAVILLA infatti era nata dopo la morte di Ruggero II e all'epoca del suo matrimonio non aveva che 31 anni, lo sposo 21.

Le nozze, a dispetto di Urbano III, ebbero luogo in Milano, il 27 gennaio del 1186 nella basilica di Sant'Ambrogio, splendidamente addobbata per l'occasione. Dopo il matrimonio, FEDERICO fu coronato re di Borgogna per mano dell'arcivescovo Ainardo di Vienne. COSTANZA fu coronata regina di Germania ed ENRICO VI ricevette la corona d'Italia dal patriarca d'Aquileia.
Il Pontefice volle vendicarsi sospendendo dagli uffici divini il patriarca, consacrando arcivescovo di Treviri il Fohnar, appartenente alla fazione antimperiale, e infine cercò di muovere a nuove ribellioni le città lombarde.

Ma gli riuscì più che a ribellare, ad insubordinare la sola Cremona, non contenta delle concessioni fatte dall'imperatore ai Milanesi.
Di fronte a tali atti d'ostilità della Curia romana il Barbarossa non poteva rimanere a guardare. Da un canto punì Cremona, invadendole il territorio, distruggendole Soncino e Castel Manfredo, costringendola a chiedere sottomissione, che per l'intercessione del vescovo Sicardo fu concessa; dall'altro ordinò al figlio Enrico VI di spingersi con un esercito fino a Roma. Enrico non solo eseguì gli ordini del padre, ma fece anche di più, mettendo a sacco i luoghi soggetti alla chiesa.
Sdegnato -ma aveva fatto di tutto per arrivarci- dalla condotta dell'imperatore, URBANO III ricorse al solito vecchio mezzo ma sempre valido: quello di lanciare contro di lui l'anatema della scomunica, ma la morte lo colse prima che potesse attuare il suo proposito.
Cessò di vivere a Ferrara il 20 ottobre del 1187, diciotto giorni dopo che il sultano Saladino - sconfitti i Cristiani ad Hittin e conquistate Tiberiade, Nazareth, Accona e Ascalona- si era impadronito di Gerusalemme.

L'annuncio della caduta del Santo Sepolcro nelle mani degli infedeli produsse grandissima commozione in tutta l'Europa. Sovrani, baroni e popoli arsero improvvisamente del desiderio di liberare la Città Santa, e il nuovo Pontefice Alberto de Morra, papa GREGORIO VIII (eletto a Ferrara il 21 ottobre), bramoso di giovare alla nobile causa per cui si era reso famoso Urbano II, iniziò subito trattative di pace con re Enrico e si recò a Pisa per riconciliarla con Genova e spingere le due repubbliche marinare alla nuova crociata.
Ma, trovandosi a Pisa, il 17 dicembre del 1187, cinquantatre giorni dopo la sua esaltazione, lo colse la morte.

Due giorni dopo, il 19 dicembre, gli fu dato come successore il romano Paolino Scolari che prese il nome di CLEMENTE III. La sua qualità di cittadino di Roma gli permise di conciliare il Papato con il Senato, tra i quali, dopo le nozze di Costanza ed Enrico, erano risorte le ostilità.

Nel febbraio del 1188 il nuovo Pontefice entrava, festosamente accolto, in Roma e circa tre mesi dopo avveniva la pacificazione.
"Da quarantaquattro anni da quando - scrive il Comani - esisteva il Senato romano, i Pontefici erano stati incessantemente vittime di questa rivoluzione civica: vedemmo Innocenzo II e Celestino II finir tristemente la vita; Lucio II morire di una sassata; Eugenio, Alessandro, Lucio III, Urbano III, Gregorio VIII passar la vita erranti ed esuli. Adesso finalmente Clemente III riconduceva il Papato a Roma, ma concludeva una pace con la città, come una potenza autonoma che lui ufficialmente per tale riconosceva.

Questo era il frutto delle vittorie lombarde ed anche dell'energica resistenza opposta dai Romani contro l'imperatore e contro il papa. L'affermazione della democrazia romana è un avvenimento rilevante di questa periodo; ed infatti, quantunque mancassero quelle buone fortune e quei solidi ordinamenti che avevano avute e conseguite le città della Lombardia e della Toscana, tuttavia i Romani di allora diedero prova di dignità, di fermezza e di circospetta accortezza.
"Nel complesso, Roma si pose con il papa in quei medesimi obblighi che le città lombarde avevano stabilito tra loro e l'imperatore, ossia si tornò ai trattati conclusi ai tempi di Eugenio III e di Alessandro III.
Quello strumento che compilò e giurò il Senato nell'anno quarantaquattresimo della sua istituzione, l'ultimo giorno di maggio del 1188, ci fu per buona fortuna conservato.
Negli articoli di quella pace decretata con autorità e un energico linguaggio del sacro Senato, il papa fu riconosciuto come principe supremo; e CLEMENTE III in Campidoglio, investì la sua dignità al Senato, che dovette prestargli giuramento di fedeltà.
Si riservò il Pontefice il diritto di coniare moneta, ma la terza parte di essa fu assegnata al Senato: tornarono al papa, tutti i redditi che in antico erano stati di proprietà pontificia; il Senato si riservò solo il Ponte Lucano, di cui aveva bisogno per le sue guerre con Tivoli. Per la restituzione di tutto ciò che competeva giuridicamente alla Santa Sede, fu stabilito di stipulare in seguito altre scritture.

Inoltre c'era dell'altro: il Papa risarciva i Romani dei danni sofferti nella guerra; si assumeva l'obbligo di fare i soliti donativi di danaro ai senatori, agli ufficiali del Senato, ai Giudici ed ai notai; prometteva pagare cento libbre all'anno per restaurare le mura della città; si stabiliva che la milizia romana poteva essere usata dal papa per la difesa dei suoi patrimoni, ma pagando lui le spese.
Non vi era alcun articolo che definiva se la repubblica aveva il diritto di far guerra e pace con i suoi nemici senza l'intervento del papa; ma questo era sottinteso perché Roma era libera, e il Santo Padre nella sua città si trovava in condizioni eguali a quelle di altri vescovi nelle città libere, sebbene con gran riverenza gli fossero tributati titoli e onori di podestà temporale.
Una formale convenzione fu inoltre conclusa nei rapporti delle città di Tuscolo e di Tivoli, che adesso erano divenute pontificie; infatti, l'astio dei Romani contro le due città era il motivo essenziale del loro patto con il papa.
Al prezzo del suo ritorno pacifico a Roma, CLEMENTE III sacrificò (non onestamente) Tuscolo che si era fino allora messa sotto la protezione della Chiesa. Non soltanto diede la libertà ai Romani di muovere guerra contro quella città, ma promise di aiutarli con i suoi vassalli; anzi s'impegnò a scomunicare i Tusculani se entro il primo di gennaio 1188 non si arrendevano ai Romani, loro carnefici.
La sventurata città doveva smembrarsi, e i suoi beni e il suo popolo li avrebbe conservati e presi sotto tutela il papa.

"Uno speciale trattato con i capitani, stabilì le loro relazioni con il comune romano. Del tenore dei suoi articoli non abbiamo precisa notizia, ma senza dubbio le grandi famiglie della nobiltà furono costrette a riverire il Senato, a far parte del Comune in qualità di "cives", ed a contribuire così a formare l'istituto municipale.
Il Papa scelse dieci uomini per ogni contrada di ciascuna regione di Roma, e cinque di quelli su dieci giurarono la pace; tutto il Senato giurò di osservare i patti menzionati nel trattato. Se ne rileva che il Senato era composto di cinquantasei membri, alcuni dei quali componevano la giunta reggitrice dei consiliari.
"In tal modo la costituzione dell'anno 1188 segnò un rilevante progresso del comune romano; fu così spazzata via la podestà imperiale dell'età dei Carolingi, e analogamente la podestà patrizia del tempo dei Franchi. Ai diritti imperiali non si dava più retta. Veniva sciolto ogni vincolo di Roma con l'impero, dal momento che i Papi avevano acquisito libertà di elezione.

FEDERICO I nella sua investitura -quella del 1155 quando si fece incoronare con tutta la città in piena ribellione- aveva disprezzato i voti dei Romani, ma poi nel trattato di Anagni, rinunciando alla prefettura, aveva nel contempo rinunciato alla podestà imperiale.
La città dunque, era uscita dai lacci degli antichi legami; il papa non aveva più potere di governo né di legislazione, il suo stato temporale era ristretto al solo possedimento di regalie e di beni ecclesiastici, tuttavia non cessavano i concreti e speciali caratteristici rapporti feudali.

Quindi il Pontefice era ugualmente potente, perché continuava ad essere il maggior possidente di terre, perché aveva e poteva disporre dei suoi maggiori feudi, e perché su questi avendone l'antico diritto poteva chiamare in armi numerosi vassalli.
Mentre la sua autorità - su Roma- come principe territoriale, consisteva soltanto nell'investitura che egli concedeva ai magistrati della repubblica liberamente eletti dal Comune; nell'associazione dei suoi ordini giudiziari con quelli civici; nelle controversie di natura mista.

Pertanto la cessazione della potestà pontificia, che avvenne grazie alla sola forza del Comune romano, è uno dei fatti più gloriosi nella storia di Roma, ai tempi di mezzo: soltanto adesso la città riuscì nuovamente a pretendere la stima del mondo civile"(Comano).

Alla pace con il Comune romano seguì quella del Papato con l'impero; e i legati del Pontefice, presentatisi davanti all'Imperatore a Magonza, spinsero Federico a brandire le armi per la liberazione di Gerusalemme.
Ormai in Europa -dopo le umilianti vittorie di Saladino (1187) che ha espugnato prima S.G. d'Acri poi Gerusalemme- non si pensava che alla crociata: Genova e Pisa, messi in disparte gli odi, si misero ad allestire flotte; i Veneziani in lotta con gli Ungari per la città di Zara, stipulavano una tregua e richiamavano navi e i marinai che risiedevano nei porti stranieri; una poderosa flotta la stava preparava Guglielmo II di Sicilia; i re di Francia e d' Inghilterra, pacificatisi, si preparavano alla spedizione.

Affidata la reggenza al figlio ENRICO VI, l'11 maggio del 1189 Barbarossa con un esercito di circa novantamila combattenti partì per l'Oriente preceduto da un'armata tosco-romagnola, capitanata dagli arcivescovi di Pisa e di Ravenna, e dalla flotta siciliana comandata dal celebre Margaritone, "il re del mare", che poi costrinse Saladino a toglier l'assedio da Tiro.
L'esercito del Barbarossa prese la via dell'Ungheria; dopo aver attraversato il Bosforo, entrato nel territorio bizantino dovette aprirsi il passo con le armi, per l'alleanza che l'imperatore greco (rovesciando così le alleanze) ANGELO ISACCO aveva stretto con il Saladino;
Per le violenze e l'arroganza dei nuovi arrivati Bisanzio era stata costretta ripetutamente ad allearsi con i turchi perché si era accorta che la presenza latina le causava più danni che vantaggi. Isacco come aveva fatto prima Commeno, si convinse che invece di aiutarli i crociati era meglio ostacolarli.
Infatti, non li aveva apertamente incitati a combattere gli uomini di Barbarossa, ma di creare una serie di ostacoli lungo il percorso. E di ostacoli l'imperatore ne trovò molti. Del resto i paesi che i quasi centomila soldati attraversavano diventavano desolati come il passaggio di uno sciame di cavallette.
Queste notizie correndo più di loro, causarono la fuga degli abitanti lasciando i paesi lungo il percorso senza alcune risorse. E l'esercito affamato si stava già dirigendo verso Costantinopoli come "cavallette"
Forse Federico intuì il doppio gioco bizantino, e invece di inviare messaggeri a Costantinopoli, scrisse al figlio in Italia, di procurarsi subito una flotta e dirigersi verso la Grecia.
Preso dal panico, Isacco inviò a Barbarossa aiuti e un'ambasceria per riferire che acconsentiva ad approvvigionare l'esercito; poi gli andò perfino incontro con i viveri, e promise pure che appena arrivati sul Mar Nero, era disponibile a trasportarlo via mare in Asia Minore. Così fu impedendo all'esercito di nemmeno sfiorare la capitale.
ISACCO evitò così, con 14 anni d'anticipo quanto accadrà poi al suo successore: il feroce saccheggio di Costantinopoli, con le "cavallette" della Quarta Crociata.

Altri guai seri era che si combattevano fra di loro anche i latini. Molte le discordie interne: francesi, inglesi, tedeschi e italiani, si scannavano a vicenda per il possesso di alcuni territori conquistati. Il più ambiguo rapporto si creò tra il re di Francia (Filippo II) e il Re d'Inghilterra (Riccardo "Cuor di leone") fino a rompere il primo il sodalizio, abbandonando al suo destino il secondo per ritornare in Francia a combinare tanti guai e a seminare tante altre discordie. Altro guaio -morto Guglielmo di Sicilia prima della partenza, si scatenò la guerra di successione fra gli Altavilla, Enrico d'Inghilterra, Barbarossa e Tancredi (questi fatti ne parleremo nel prossimo capitolo).

Tuttavia messo piede nell'Asia Minore, Barbarossa espugnò Iconio e, vincendo gli ostacoli del nemico, l'arsura della sete, le fatiche delle marce e il tormento dei calori estivi, oltrepassato il Tauro, puntò verso la Siria.
Stava per congiungersi con i Cristiani in Siria quando all'esercito dei crociati tedeschi mancò improvvisamente il capo.
Era il 10 di giugno del 1190, poco dopo mezzogiorno; prendendo un bagno dopo il pasto nel fiume Salef, forse per un malore dovuto ad una congestione o una crisi cardiaca (aveva 68 anni) Barbarossa si accasciò in pochi centimetri d'acqua, e lentamente senza che nessuno si accorgesse del vero dramma, scivolò via lungo la corrente.

" L'acqua - scrisse Athir che era presente - arrivava appena all'anca; l'Imperatore scomparve all'improvviso e quando riemerse a sole poche decine di metri più a valle era già un cadavere che galleggiava".
Il suo già malridotto esercito senza validi condottieri capaci di essere all'altezza di una situazione così disperata, in una zona come abbiamo appena letto così ostile, rimase in balia degli eventi per qualche ora, poi nella confusione si disperse con una massiccia diserzione.
Finiva così in un dramma della fatalità dentro una pozzanghera d'acqua, la imponente spedizione di centomila uomini dell'imperatore tedesco che aveva le intenzioni di conquistare l'Asia, che aveva fatto parlare di sé tutta Europa, che aveva terrorizzato sei volte l'Italia, dominato in Germania, sfidato cinque papa, lottato contro le autonomie locali, assediato cento città, incenerito Milano.
Moriva affogato in un banalissimo rinfrescante pediluvio, l'uomo che voleva coronare la sua carriera con le gesta di Alessandro Magno.

Il corpo dell'imperatore fu diviso in tre parti: il cuore e le viscere furono sepolti a Tarso, il corpo disossato nel duomo di Antiochia, e forse ad Accona le sue ossa.

Così dopo trentotto anni di regno finiva il grande monarca germanico, quest'uomo dai tenaci propositi, dalle grandi virtù guerriere, che non si era mai tirato indietro di fronte agli ostacoli e per molto tempo era stato il tormento del Papato e dei Comuni lombardi. Dall'odio era stato alimentato il suo ambizioso sogno, era cresciuto attraverso gli scismi, fra le rovine della città italiane distrutte, fra i lamenti e le maledizioni di coloro che per opera sua erano rimasti senza famiglia e senza patria; l'uomo che era stato ridimensionato dall'eroismo italiano; messo in fuga a Susa, umiliato ad Alessandria, vergognosamente abbattuto a Legnano; ma che poi -più saggio e intelligente- era risorto in una nuova vita a Costanza:
L'uomo finiva ora in una pozzanghera di un fiume asiatico, dove come guerriero per la liberazione di Gerusalemme forse l'imperatore voleva redimere le sue colpe. E ci riuscì pure, perché dopo essere stato il nemico di molti, principi, papi e re, nemico delle libertà comunali, spariva dal mondo circondato dall'aureola del martirio.
Ma anche senza quest'aureola, FEDERICO BARBAROSSA resta uno dei più grandi personaggi che abbiano mai portato la corona imperiale.

Ora prima di occuparci del suo successore ENRICO VI, dobbiamo ritornare nel Regno Normanno, dove pochi mesi prima della morte di Barbarossa, il 16 novembre del 1189 moriva GUGLIELMO II "il Buono" a soli 36 anni di età, e 24 di regno; senza prole, lasciando la corona a Costanza, andata in moglie al figlio di Barbarossa.
Si scatena la lotta dei molti eredi, poi la ferocia di ENRICO,
ma che subito dopo muore.

ed è il periodo dall'anno 1189 al 1197 > > >


(VEDI ANCHE I SINGOLI ANNI o nella TEMATICA)

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia
GREGORIUVUS - Storia di Roma nel Medioevo - 1855

KUGLER, "Storia delle Crociate"

J.LEHMANN, I Crociati,- Edizioni Garzanti, Milano 1996
VITORIO GLEIJESIS - La storia di Napoli, Soc. Edit Napoletana
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 

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