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CRONOLOGIA

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( QUI TUTTI I RIASSUNTI )  RIASSUNTO ANNI dal 1152 al 1156 

FEDERICO BARBAROSSA
PRIMA DISCESA IN ITALIA - A ROMA - TORTONA

ELEZIONE DI FEDERICO I BARBAROSSA - SUO CARATTERE E SUOI DISEGNI POLITICI - FEDERICO E IL PONTEFICE - DIETE DI VIRZBURGO E DI COSTANZA - MISSIONE DI SICHERIO A MILANO - MORTE DI EUGENIO III - ANASTASIO IV - ELEZIONE DI ADRIANO IV - IL PONTEFICE LANCIA L' INTERDETTO SU ROMA - ADRIANO E IL SENATO ROMANO - FUGA DI ARNALDO DA ROMA - FEDERICO BARBAROSSA SCENDE IN ITALIA - DIETA DI RONCAGLIA - I COMUNI CONTRO MILANO - FEDERICO E I CONSOLI MILANESI - PRESA DEL CASTELLO DI ROSATE - ROTTURA TRA IL BARBAROSSA E MILANO - DISTRUZIONE DI TRECATE, GALLIATE E TORRE DI MOMO - PRESA DI ASTI E CHIERI - ASSEDIO E DISTRUZIONE DI TORTONA - I TORTONESI A MILANO - FEDERICO ENTRA A PAVIA E VI RICEVE LA CORONA - IL BARBAROSSA A BOLOGNA E IN TOSCANA - SUPPLIZIO DI ARNALDO DA BRESCIA - INCONTRO A SUTRI DI ADRIANO IV E FEDERICO - AMBASCERIA DEL SENATO ROMANO E SUPERBA RISPOSTA DI FEDERICO - IL BARBAROSSA NELLA CITTÀ LEONINA; SUA INCORONAZIONE IMPERIALE; COMBATTIMENTO TRA ROMANI E TEDESCHI - GUGLIELMO RE DI SICILIA E IL GRAND'AMMIRAGLIO MAIONE - FEDERICO ESPUGNA E DISTRUGGE SPOLETO - INSIDIA DEI VERONESI CONTRO IL BARBAROSSA - PACIFICAZIONE DI ADRIANO IV CON GUGLIELMO DI SICILIA E I ROMANI
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FEDERICO I - DIETA DI COSTANZA

Abbiamo già accennato nella precedente puntata, che secondo alcuni storici, l'atto migliore, di tutti gli anni del regno di Corrado III, fu compiuto nel suo letto di morte con la designazione del nipote Federico di Svevia in luogo del proprio figliuolo che contava appena otto anni.
Federico era forse l'unico principe che poteva conciliare le fazioni tedesche, ricondurre l'ordine nella nazione, sottrarre la monarchia all'influenza della curia romana.
Essendo un Hohenstaufen per sangue paterno e un Welfen per parte di madre Federico poteva pacificare le due grandi famiglie rivali (Ghibellini e Guelfi).
Dotato di straordinaria energia, Federico sembrava fatto apposta per far cessare le turbolenze da cui era afflitto il regno. Che però, lo abbiamo già detto, accanto al letto di Corrado, il Regno anche questo era quasi moribondo, distrutto dalla nuova realtà storica contro la quale era ormai impossibile lottare e che stava lentamente, ma implacabilmente disgregando e indebolendo la sua compattezza.

Federico -come vedremo in altri capitoli che seguiranno, pur aspirando - in quarant'anni di regno - a rialzare il prestigio imperiale, spesso anche al di là dei propri interessi personali, inizia ora a combattere una guerra perduta in partenza, perché era una guerra contro il corso stesso della storia. Riunificando e fortificando l'impero, restaurandolo con la pienezza dei suoi poteri, Federico in parte riuscì a rialzare il prestigio imperiale e anche quello personale. Ma ormai erano sorte pericolose forze disgregatrici: sempre più svincolate dall'autorità imperiale: c'era la potenza degli Stati nazionali; c'era la vivacità e l'intraprendenza dei liberi Comuni; c'era l'aumentato enorme prestigio del Papato; e infine c'era il desiderio e la forte volontà d'autonomia degli stessi feudi all'interno dell'Impero.

Ricordiamo che i feudi erano diventati ereditari, e i privilegiati erano tutti desiderosi di autonomia, spesso alcuni indifferenti alla volontà imperiale.
Erano stati gli Ottone a escogitare il sistema dei Vescovi-Conti. In quanto Conti, essi ottenevano un feudo e l'amministrazione dello stesso con funzioni anche civili. Ma in quanto ecclesiastici, non potendo avere figli cui lasciarlo in eredità, quando i vescovi-conti morivano, l'imperatore -avendo dato lui l'investitura- si garantiva sempre la disponibilità di quei territori.
Queste "investiture" avevano portato ad un gravissimo contrasto tra l'Impero e Papato; che diedero origine alle "lotte delle investiture".
Il Papa in sostanza, da quei vescovi in Germania non riceveva nulla, né le loro proprietà erano della Chiesa. Roma poteva dire la sua solo per curare le anime ma non per curare gli interessi.

Con gli accordi di Worms del 23 settembre 1122 (fra Callisto ed Enrico V) si era cercato di risolvere il problema in un modo nuovo, che in parte fu risolto da Federico. Da una parte specialmente in Germania, mantenne il sistema dei vescovi-conti pur senza violare gli accordi di Worms, ma esercitando su di loro un controllo strettissimo. Dall'altra la sua innovazione fu che al posto dei feudatari, antichi principi o ecclesiastici, nei feudi pose un corpo di funzionari laici scelti da lui o nella borghesia o nella stessa plebe. Formò così un corpo di efficientissimi burocrati (i ministeriales), esperti di diritto, economia, scienza e tecnica dell'amministrazione, e soprattutto oltre essere dei competenti e uomini di prestigio erano anche dei fedelissimi all'imperatore; ma proprio per questo quando non lo erano più o cadevano in disgrazia, l'imperatore poteva privarli d'ogni autorità esonerandoli dall'incarico che era stato loro affidato.
In questo modo aveva ristretto il numero dei principi e vescovi-conti, ed aveva allargato i suoi poteri acquisendo uno dopo l'altro i loro territori; creando così un fortissimo potere centrale

Ma torniamo a lui come uomo. Quasi trentenne, dalla descrizione dei cronisti a lui contemporanei Federico era bello e vigoroso di persona, alto di statura, il volto duro e asciutto in cui spiccavano due occhi metallici grigio azzurri, portava l'inconfondibile barba che era come i capelli, color biondo rossastro; cavalleresco, prode nelle armi, una certa aria di infaticabile energia e di lucida e inflessibile volontà nel perseguire i propri scopi, Federico possedeva tutte quelle qualità che fanno presa sull'animo dei sudditi e ne conquistano la simpatia. La lotta ai Principi e ai Vescovi-conti era insomma ben vista dal popolo.

Diciassette giorni dopo la morte dello zio, il 4 marzo del 1152 nella dieta di Francoforte, Federico di Svevia fu dai principi eletto re di Germania e il 9 dello stesso mese ricevette con grande solennità ad Aquisgrana la corona d'argento.

" Federico I, al quale nella storia, come nella tradizione popolare, è restato il soprannome di "Barbarossa", datogli dagli Italiani; è forse una delle figure più interessanti della razza tedesca, e certamente il più grande dei sovrani che dopo Ottone avevano occupato il trono di Germania. Prudente politico e valoroso capitano, dotto e cavalleresco, cupido non d'oro, ma di gloria, forte di corpo e di animo, il nipote di Corrado III portava sul trono della Germania il più alto concetto dell'autorità che il voto dei principi tedeschi gli aveva conferito, e dei doveri che per questa ragione gli erano stati imposti.
A lui parve che la società ricadesse nell'anarchia, appunto per lo scadimento di questa autorità; pertanto si propose di rimetterla ferma sulle sue basi, di ricuperarle tutti i suoi diritti, di farla rispettare e renderla efficace dappertutto. "Principes populo, non populum principi leges prescribere oportet"; tale era il suo canone politico; ma se reputava primo obbligo del suddito l'obbedienza reputava pure come primo dovere del re la giustizia severa e imparziale. Propostosi come modello Carlomagno, voleva, come costui, assicurare per tutto il suo impero il diritto delle chiese purché nella loro sfera, il bene pubblico, l'integrità delle leggi.
Si riaccesero intorno a lui, in maggior misura e più complicate, le contese che avevano agitato la Germania e l'Italia ai tempi di Enrico IV e V; ma non si può dire che in tante energiche lotte da lui sostenute, il Barbarossa obbedisse a delle antipatie personali o ad intemperanze ambiziose di despota: non si può dire che Federico non sapesse rinunciare a qualche punto del suo vasto programma, quando si fu accorto di trovarsi, in grazia di questo, lontano da quegli interessi generali, ai quali era anzitutto ispirata la sua politica. Quantunque gravissime sventure abbiano da lui gli italiani patito, ed una delle memorie più gloriose e più care dell'Italia è fondata sopra una sua clamorosa sconfitta, non possiamo però negare ammirazione al suo carattere ed alla sua attività (Lanzani)".

Primo pensiero del Barbarossa fu la pacificazione della Germania e di volere imporre l'autorità della corona sui paesi alla periferia del regno. Nella prima dieta tenuta a Merseburgo nel maggio del 1152, infatti, pose fine alle guerre dinastiche della Danimarca, che concesse in feudo al re SVENDO, e da lui fece concedere principati a CANUTO e WALDEMARO.
A BERTOLDO di Zahringen, suo antico avversario, promise di appoggiarlo nella rivendicazione della Borgogna ad ovest del Giura.
Mentre si assicurava l'obbedienza della Germania, non dimenticava però l'Italia. Appena eletto re, "Federico fu sollecito - scrive il Bertolini - d'inviare al papa una legazione recante una sua lettera, in cui due argomenti peculiari si toccavano: l'uno, che lui aveva ricevuto dalla grazia di Dio il suo regno, cui intendeva restituire l'antica potenza e la dignità; l'altro, che riguardava i nemici del papa come suoi propri, e che lui non avrebbe tardato a ridurli.
Erano dunque una stilettata e una carezza unite insieme. Nella condizione in cui allora si trovava il papa, EUGENIO III ritenne che era calamità l'emancipazione dell'impero annunciata dalla lettera di Federico, di fronte alla promessa contenuta nell'altra parte dello scritto.
Quanto ai Romani, questi si videro perduti del tutto. La lettera di Corrado III (l'abbiamo vista, era molto ambigua, perché prometteva aiuto ad entrambe le due fazioni), scritta prima della sua morte (settembre 1151), e indirizzata "al prefetto della città, ai consoli, ai capitani e al popolo romano", se aveva lasciato qualche speranza, il silenzio di Federico e il terrore della lettera scritta al papa, la cancellavano del tutto".

I legati del Pontefice si presentarono al sovrano nella dieta di Virzburgo, nell'ottobre del 1152, e gli porsero le congratulazioni del Papa, pregandolo di aiutare la S. Sede a ricondurre all'obbedienza i Romani che si lasciavano corrompere dalle eresie di ARNALDO da BRESCIA.
Il Barbarossa promise a voce quel che aveva promesso per lettera e queste promesse ebbero conferma nella primavera dell'anno seguente, quando fu stipulato fra la S. Sede e il re un trattato. Con questo accordo, Federico si obbligava di difendere l'onore, i diritti e i possessi della Chiesa Romana contro chiunque, di non far pace con i Normanni senza il consenso del Pontefice, di non concedere che i Bizantini mettessero piede in Italia e di sottomettere Roma all'autorità papale; dal canto suo EUGENIO III si impegnava di conferire la corona imperiale allo Svevo e di scomunicare tutti coloro che non gli prestassero obbedienza.
Conseguenza di questo trattato fu che il papa dovette acconsentire ad annullare il matrimonio infecondo di Federico con Adelaide di Vohburg e Federico a sbarazzarsi dall'episcopato germanico di alcune persone malviste dal re, come l'arcivescovo Enrico di Magonza nominandone un altro di suo gradimento provocando la ferma opposizione del papa.

Il trattato col Pontefice fu stipulato a Costanza dove, nel marzo del 1153, il Barbarossa inaugurò una delle più importanti diete. Davanti la porta del duomo fu innalzato un magnifico trono, sul quale era scritto: "Chiunque abbia da lagnarsi del suo signore, sia esso conte, barone o re, venga qua e gli sarà resa giustizia"; e su quel trono Federico sedette per tre mesi, circondato dal re di Boemia, gran giustiziere, dagli arcivescovi di Treviri e Colonia, arcicancellieri; dall'arcivescovo di Magonza, protonotaro, e dai più autorevoli principi del regno. Coloro che chiedevano giustizia esponevano le proprie lagnanze al duca di Lorena, che le comunicava al duca di Baviera, gran ciambellano, poi infine erano portate al sovrano.

Si trovavano in quel tempo a Costanza due lodigiani: ALBERNARDO ALAMANO e maestro OMOBUONO. Sapendo che il re rendeva giustizia a tutti quelli che sottoponevano a lui i loro casi, decisero di giovare alla loro misera patria, e caricate sulle spalle due croci pesanti, si recarono davanti al tribunale del sovrano, e con le lacrime agli occhi, lo scongiurarono di liberare l'infelice città di Lodi che da quarant'anni era oppressa dalla tirannia del comune di Milano.
Alle preghiere dei due lodigiani, il vescovo ARDICIO di Como unì le sue, implorando la giustizia nella sua città che nel 1127 era stata distrutta dai Milanesi. Commosso, Federico promise il suo pronto intervento e subito inviò in Italia un suo ufficiale di nome SICHERIO con un decreto in cui ordinava ai consoli e al popolo di Milano di restituire ai Lodigiani i loro privilegi e la loro libertà.
Prima di andare a Milano, Sicherio passò per Lodi, ma la notizia del decreto del re invece di riempir di gioia l'animo dei Lodigiani suscitò una grande costernazione perché essi temevano che, prima che Federico scendesse in Italia a liberarli, i Milanesi si sarebbero vendicati distruggendo la città. Pregavano quindi il legato che differisse la missione fino all'arrivo del re; ma Sicherio non diede ascolto alle loro preghiere e si recò a Milano e iniziò a leggere nel Gran Consiglio il regio decreto.
Immenso fu lo sdegno suscitato da quella lettera; si levarono dall'assemblea imprecazioni contro il sovrano germanico; lo scritto fu strappato dalle mani del messo, fu fatto a pezzi e calpestato e a stento Sicherio riuscì con la fuga a salvarsi dalla furia popolare.
Così iniziava quella (prima) guerra che tanti lutti doveva portare all'Italia: iniziava con una sdegnosa protesta del fiero popolo milanese e con un gesto che più tardi sarà imitato da un patriota fiorentino; ma, purtroppo da quella protesta e da quel gesto, la libertà trapiantata in un'altra nobile terra italiana davano origine a un sanguinoso conflitto tra Milanesi e Pavesi a Lavernagola, annunciatore di guerre civili ancora più terribili.
La libertà d'Italia nasceva dalle feroci e cruente lotte tra uomini nati sulla stessa terra e che parlavano la medesima lingua.

DISCESA DI FEDERICO BARBAROSSA IN ITALIA
DIETA DI RONCAGLIA - ASSEDIO E DISTRUZIONE DI TORTONA

L' 8 luglio dello stesso anno 1153, in cui i Milanesi strappavano il decreto di Federico si spegneva a Tivoli EUGENIO III e quattro giorni dopo gli succedeva il cardinale Corrado, vescovo della Sabina, col nome di ANASTASIO IV.
Vecchio e mite, il nuovo Pontefice non volle aggravare il conflitto esistente tra la Santa Sede e la repubblica romana; visse tranquillamente a Roma aspettando che Federico giungesse a rivendicare i diritti della Chiesa; e a Roma poco dopo morì, il 3 dicembre del 1154.

Due giorni dopo fu assunto al pontificato, col nome di ADRIANO IV, l'inglese Nicolò Breakspear. Nato da umilissima condizione, si era recato in Francia, dove con l'ingegno e la tenacia era riuscito a percorrere tutti i gradi della gerarchia ecclesiastica; divenuto priore del monastero di S. Rufo, presso Arles, Eugenio III lo aveva portato via, creato cardinale di Albano, poi l'aveva mandato in Scandinavia per organizzarvi le diocesi e renderle sempre più obbedienti alla Santa Sede.
Era da poco tornato dalla sua missione, per la quale dagli storici doveva esser chiamato l'Apostolo del Nord, quando i cardinali, con felice scelta, lo elessero Pontefice.
Era l'uomo che ci voleva per risollevare il Papato dalle difficili condizioni in cui versava: seguace fervente delle dottrine di Gregorio VII, era - e questo allora contava - dotato di volontà e di polso fermissimo; e della sua energia fornì subito indubitabile prova, scacciando dal suo cospetto i deputati del popolo andati a chiedergli la cessione dei diritti sovrani.
L'altezzoso gesto del Pontefice provocò la reazione della cittadinanza; il popolo brandì le armi e, nel tumulto che ne seguì, un cardinale fu trucidato nella via Sacra. Allora Adriano IV, sdegnato si ritirò ad Orvieto e di là lanciò l'interdetto su Roma (Si chiamava interdetto, quando l'anatema era scagliato contro un'intera città o regione. E tutti erano privati da ogni funzione, dal conforto religioso, sospesi i matrimoni, i battesimi, l'estrema unzione. Tutti i crocifissi e le immagini dei santi venivano coperti con un velo nero).

Era -nella storia- la prima volta che la capitale del cattolicesimo era colpita dall'anatema, e per giunta l'interdetto, cadendo durante la Settimana Santa, veniva ad impedire le funzioni della imminente Pasqua. Il popolo fu così impressionato dall'insolito provvedimento che, levatosi a tumulto, costrinse i senatori a venire a patti con il Pontefice. Giunti al cospetto di ADRIANO IV, i senatori -scrive il Bonghi - eseguendo un suo ordine, giurarono sui santi Vangeli di Dio che avrebbero espulso senza indugi l'eretico Arnaldo ed i suoi partigiani dalla città e dal contado; né avrebbero avuto facoltà di ritornare se non per licenza e ordine del papa e per essergli solo ubbidienti.
Così, fatti uscire questi e revocato l'interdetto, tutti si sentirono riempiti di una grande letizia, lodando in coro e benedicendo il Signore. Il giorno dopo, che era quello della Cena del Signore, accorrendo una infinita moltitudine di popolo, secondo il costume, alla grazia e alla gloriosa festività della remissione dei peccati, il ben disposto Pontefice, con i suoi vescovi e cardinali e un'immensa folla di notabili e di cittadini, uscì con grande sfarzo e decoro dalla città Leonina, dove aveva preso dimora fin dal giorno della sua ordinazione; passando attraverso la città, mentre tutto il popolo plaudiva, giunse trionfalmente al palazzo lateranense; e qui, il giorno stesso e il seguente, il sabato Santo e la Pasqua, celebrò solennemente i misteri divini; e secondo l'antica consuetudine della Chiesa, la trascorse in grande letizia con i suoi più devoti discepoli".

L'energia del Pontefice aveva trionfato; ma Adriano IV non poteva considerare completo il suo trionfo se non metteva le mani su ARNALDO da BRESCIA, che nel frattempo era fuggito da Roma; mandò pertanto all'inseguimento dell'agitatore un tale ODDONE, diacono di S. Niccolò, il quale raggiunse il fuggiasco a Bricole, in val d'Orcia. Ma non era ancora giunta l'ultima ora di Arnaldo; questi aveva molti amici ed ammiratori in quel territorio ed uno di loro, un visconte di cui non è giunto fino a noi il nome, lo liberò e gli diede ospitalità nel suo castello.

Scendeva però chi doveva strapparlo dalle mura ospitali e trascinarlo incatenato verso l'estremo supplizio: FEDERICO BARBAROSSA. Il re di Germania nell'autunno del 1153 aveva pubblicamente annunciato la sua spedizione italiana, ed aveva invitato i principi della Germania, della Borgogna e dell'Italia a raggiungerlo nell'ottobre dell'anno seguente con le loro milizie nella pianura di Roncaglia.
Nell'ottobre del 1154 FEDERICO lasciò la Germania alla testa di un piccolo esercito e accompagnato da ENRICO "il Leone" e dal conte palatino bavarese OTTONE di WITTELSBACH, scese dalla via del Brennero in Italia e dopo un breve soggiorno a Verona si portò, verso la fine di novembre, nella pianura di Roncaglia dove qui mise gli accampamenti e aprì la dieta che aveva bandito.

A quei vassalli che non risposero alla chiamata Federico tolse i feudi. Questi furono in gran parte tedeschi: quasi tutti i baroni e i grandi vassalli italiani accorsero a Roncaglia a prestare omaggio e a recar doni e tributi al sovrano e con loro giunsero ambasciatori della maggior parte delle città del regno italico. I delegati di Genova, CAFARO ed UGO, presentarono, con gli ossequi della repubblica, preziosi doni di leopardi, leoni, pappagalli e struzzi, e Federico Barbarossa, che già pensava di servirsi della flotta genovese per la sua spedizione contro il re di Sicilia, gradì molto quella presenza offrendo ai legati una magnifica accoglienza. Non minore, per lo stesso motivo, fu riservata anche agli ambasciatori di Pisa.
Dopo aver date ascolto alle parole d'omaggio, Federico ascoltò le lagnanze. Le prime furono quelle che il marchese GUGLIELMO del Monferrato rivolse contro le città di Chieri ed Asti; e contro quest'ultima parlò anche il vescovo ANSELMO che n'era stato scacciato; consoli di Lodi, Como e Pavia portarono le loro accuse contro Milano che a sua volta si difendeva con i suoi consoli OBERTO dell' ORTO e GHERARDO NEGRO.

In breve Federico si rese conto della situazione lombarda: il comune più forte era quello di Milano, non solo per le fortificazioni, il numero delle milizie e i castelli che possedeva, ma anche per le città che la sostenevano: Crema, Brescia, Piacenza, Asti e Tortona, oltre Como e Lodi che però ne pativano il giogo. Mentre nemica implacabile di Milano era Pavia, meno forte della rivale anche perché sostenuta solo da Cremona e Novara.
A Federico conveniva schierarsi dalla parte più debole della quale avrebbe potuto disfarsi poi con facilità dopo aver domato la più forte. Il re però fu convinto che fosse necessario agire con estrema prudenza e, in un primo tempo, di assumere l'aspetto di paciere, di fare l'arbitro fra le due città contendenti.
Federico comandò quindi che fossero sospese le ostilità e che da una parte e dall'altra gli si consegnassero i prigionieri mandando liberi quelli di Pavia e trattenendo come ostaggi quelli di Milano.
I milanesi credevano di aver risolta definitivamente la controversia e permisero che l'esercito regio, recandosi a Novara, passasse attraverso il loro territorio; si assunsero pure il carico di fornirlo di viveri e gli diedero, come guide, gli stessi consoli. Questi indicarono la via più breve, che, per Landriano, Trecate e Rosate, conduceva al ponte sul Ticino.
Temendo il rinnovarsi dei saccheggi che le truppe germaniche avevano commessi nella valle di Trento, la popolazione delle contrade era fuggita portandosi dietro tutto quello che poteva, di modo che le terre che l'esercito tedesco doveva attraversare erano deserte, fornite di insufficienti o prive del tutto di vettovaglie; si aggiunga che un'interrotta pioggia che imperversò giorno e notte (si era in novembre) infradicì per giorni e giorni i soldati in marcia.

Tutto questo diede occasione a Federico di togliersi la maschera e mostrare quali fossero le sue vere intenzioni. Accusando i consoli, di aver guidato il suo esercito in quella desolazione apposta per distruggerlo, li scacciò dalla sua presenza dopo avere loro imposto di far sgombrare dal castello di Rosate il presidio milanese ma senza portar via le vettovaglie che vi erano dentro. L'ordine fu eseguito: la guarnigione uscì e, seguita dalla popolazione, tormentata dal freddo e dalla pioggia, si rifugiò a Milano, e qui ripeté le accuse fatte da Federico contro i consoli, accuse che ritenute vere, provocarono un tumulto popolare che distrusse la casa di Gherardo.
Il comune allora pensò di placare la collera del sovrano e gli mandò ambasciatori i quali gli riferirono che i milanesi avevano rimproverato la condotta dei consoli e li avevano pure puniti; lo pregarono di ritenersene soddisfatto e, in segno di amicizia, gli offrirono quattromila marche purché confermasse a Milano la signoria su Como e Lodi.

Ma Federico ritenne (o finse di reputarla tale) l'offerta come un tentativo ingiurioso di corruzione e, dopo averla rifiutata, invase e devastò i territori del comune milanese, bruciò il ponte costruito sul Ticino dai Milanesi per passare nei loro possedimenti sulla riva opposta, e inviò a Lodi un suo cappellano per ricevere dagli abitanti il giuramento di fedeltà.
I Lodigiani rifiutarono di prestarlo senza il consenso di Milano. Sebbene poi questo fu concesso, il Barbarossa citò ugualmente i Milanesi davanti al suo tribunale e, non essendo comparsi, espugnò Trecate, Galliate e Torre di Momo, li saccheggiò e rase al suolo, trucidando gran parte degli abitanti; poi fra il sangue e le fumanti rovine celebrò il Natale del 1154.

Ripassato, all'inizio del 1155, il Ticino, Federico attraversò, senza compiervi atti ostili, i territori di Vercelli e Torino che parteggiavano per lui e puntò verso Cairo, che, lasciata vuota dalla popolazione, per punirla furono distrutte le torri; quindi avanzò su Asti, e, presa e occupata senza difficoltà, la consegnò al marchese del Monferrato che ne fece demolire le difese e incendiare gran parte delle case. La stessa sorte toccò a Chieri; poi venne la volta di Tortona, contro la quale i Pavesi spingevano il re.

Federico, prima di fare uso delle armi, tentò i mezzi pacifici e mandò ai Tortonesi un invito di rompere l'alleanza con i Milanesi e di unirsi con Pavia. Ma i Tortonesi risposero sdegnosamente che non avrebbero tradito mai, abbandonandoli, i loro amici; e si prepararono a respingere le truppe del re, che di conseguenza posero in assedio la città il giorno 13 febbraio del 1155.

"Decisi a non cedere, - scrive l'Emiliani-Giudici- nella sua "Storia politica dei Municipi italiani" - i Tortonesi chiesero aiuto ai Milanesi. Costoro, convocati a parlamento dai consoli, esaltando l'eroico atteggiamento di Tortona, decretarono di mandarle soccorsi d'ogni genere. Raccolta una Legione di duecento cavalieri e duecento fanti, affidarono il comando ad UGO VISCONTI, GIOVANNI RANIERI, ALBERTINO e RONCIA CASATI, RUGGIERO da Santa Maria, e due LANFRANCHI, tutti esperti in cose di guerra e d'animo intrepido. Per non essere bloccati da eventuali baluardi tedeschi, presero la via di Lodi e Piacenza, passarono sulle terre dei Malaspina, invitando e portandosi dietro OBIZZO ed altri signori che possedevano castelli in quelle montagne, poi, così uniti marciarono contro gli assedianti della città.

Tortona sorgeva sopra un'altura di difficile accesso. Le case che sorgevano giù per la china parevano dividere in due la città che in alto era cinta di una forte muraglia. La parte bassa non era adatta a lunga resistenza, ma quella alta era quasi inespugnabile. Appena iniziato l'assedio, i cittadini si rifugiarono tutti nella parte alta della città, e quella in basso fu presa dal nemico senza tante difficoltà.
Barbarossa aveva diviso in tre parti l'esercito. Lui con i suoi uomini occupò la parte a mezzogiorno; a ponente mise il duca di Sassonia; mentre i Pavesi li stanziò a levante. Negli spazi che dividevano un campo dall'altro scavarono fossi larghi e profondi, in modo da togliere agli assediati ogni via per ricevere soccorsi di uomini o vettovaglie.
Intenzioni del Tedesco era di affamare i Tortonesi e costringerli ad arrendersi. Numerose, varie e grandi erano le macchine belliche che da ogni punto bombardavano le mura o tempestavano all'interno la città; arieti, gatti, balestre, mangani e pietraia; in mezzo alle quali, bene in vista, sorgevano molte forche, dove subito venivano impiccati quelli che cadevano in mano agli aggressori, volendo così terrorizzare i Tortonesi da sopra le mura, e far vedere loro la fine che li aspettava.
Tuttavia questo terribile e lugubre spettacolo non sconvolse proprio per nulla i Tortonesi, i quali si spingevano ugualmente fuori le mura, soprattutto dal lato dov'erano impegnati i Pavesi; e per un motivo: che in quel luogo sorgeva l'unica fonte sorgiva dei tortonesi che già iniziavano a patire la sete, pertanto era necessario procacciarsi l'acqua con la forza delle armi e con il coraggio.
Resistettero circa un mese, né davano alcun segno di cedere; se la penuria d'acqua faceva ardere la sete, faceva ardere anche il coraggio, che ad un certo punto infiammò in una audace sortita, da mettere in così grave scompiglio i Pavesi, che se non giungeva in loro soccorso GUGLIELMO di Monferrato, i Tortonesi avrebbero rotto e si sarebbero congiunti con le milizie milanesi, le quali, non trovando il modo come avvicinarsi a Tortona, stavano aspettando sulla destra, nelle terre di Luzano, Orasco e Gurlimia.

" Federico cominciava a sentire il fastidio della inconcludenza dell'assedio; non si aspettava una così vigorosa resistenza; né poteva retrocedere senza macchiare la propria reputazione; tuttavia voleva in ogni modo togliersi da quell'imbarazzante situazione; anche perché voleva recarsi a Roma a prendere la corona imperiale.
Comandò quindi che dentro la fonte guardata dai Pavesi si gettasse zolfo nelle acque per avvelenarle, e cadaveri di uomini e animali per inquinarle. L'assedio, che aveva avuto inizio il giorno delle Ceneri, si era prolungato fino alla settimana santa. Giunta a questa le ostilità cessarono per una tregua di quattro giorni. Nel venerdì Santo, giorno della passione e morte di GesùCristo, dalle porte della città il clero uscì in processione, recandosi senza pompa con modeste vesti, davanti al Barbarossa. Implorava misericordia, lo scongiurava di non fare scontare la colpa di alcuni boriosi e sleali abitanti agli innocenti sacerdoti.
Non erano -di certo questi i preti "rifatti" dal monaco Ildebrando! quello che diceva "Al prode guerriero non è cosa che rechi tanto disgusto quanto la codardia e la viltà, in specie quando è congiunta ad atti snaturati".
Ne sentì ribrezzo perfino il poco santo Federico; che non concesse che i vigliacchi richiedenti gli si avvicinassero, e mandò contro di loro alcuni uomini perché li ricacciassero dentro le mura.

"La desolata città era ridotta agli estremi: decisero la resa, e deputarono BRUNO abate di Chiaravalle di Bagnolo di stabilire i patti, che furono poi accettati dal vincitore: salve le vite di ciascuno; come averi quel tanto che poteva portare sulle spalle uscendo dalla città; la quale non sarebbe stata né danneggiata né data alle fiamme.

Gli assedianti vi entrarono, la misero ugualmente a sacco, e con lo spergiuro ai patti, la incendiarono; si dice per mantenere la promessa fatta ai Pavesi, i quali con una grossa somma di danari pattuita con i nemici fin dall'inizio dell'assedio, volevano la totale distruzione della detestata Tortona.

L'abate garante del patto, inorridì per il crudele spergiuro e per lo scempio fatto alla città; si racconta che "avendo lui un cuore umano italiano e non tedesco, per il grande dispiacere, dopo tre giorni morì di crepacuore".

I Tortonesi pallidi, scarni, stremati, strappati, sporchi di fango, presero la via di Milano, lacrimando allo spettacolo delle fiamme che distruggevano la loro città natale. I Milanesi li accolsero come martiri della libertà; a consolarli radunarono il popolo in parlamento, e su unanime consenso si decise che Tortona doveva essere riedificata a spese di Milano; e mantennero a questa promessa non appena Federico prese la via per scendere a Roma.
Il tempo non ha privato la storia della lettera che dopo aver riedificata la città i consoli e il popolo di Milano scrissero ai consoli e al popolo di Tortona inviando insieme una tromba per convocare i cittadini in parlamento; un gonfalone bianco con la croce rossa nel mezzo a significare la vittoria sui nemici e nei lati il sole e la luna, simbolo il primo di Milano, l'altro di Tortona, indicando che questa traeva l'esistenza e lo splendore da quella; inviarono insieme pure un sigillo con l'effige delle due città, e che sarebbero rimaste per sempre congiunte".

INCORONAZIONE IMPERIALE DEL BARBAROSSA
SUO RITORNO IN GERMANIA -
I NORMANNI E IL PAPA

Dopo aver depredata, incendiata e rasa al suolo Tortona, Federico Barbarossa entrò a Pavia tra le manifestazioni di giubilo dei cittadini. I Pavesi acclamando il re esternavano la propria gioia per la distruzione dell'altra città come se non fosse stata anch'essa italiana.
Nella chiesa di S. Michele, con pompa grandissima, Federico ricevette la corona regia e alcuni giorni dopo si mise in marcia verso Roma.
Suo proposito era di assalire e costringere alla resa Piacenza; ma questa città, che aveva ricevuto le milizie milanesi di Porta Comacina e Porta Nuova, era così fortemente pronta alla difesa che Federico non osò molestarla e proseguì per Bologna, dove celebrò la Pentecoste e diede ordine che fosse riedificato il castello di Medicina.
A Bologna che era un po' la sede dei maggiori giuristi di diritto romano, una schiera di questi interpellati, sostennero con valide argomentazioni giuridiche le richieste dell'imperatore. L'autorità sovrana (e quindi tutte le "regalie" usurpate dai Comuni) apparteneva solo a lui ed era senza limiti. I giuristi rispolverarono l'antico principio del dispotismo imperiale romano: "quod principi placuit, legis habet vigores"; "ciò che l'imperatore ha deciso, ha forza di legge". Insomma contribuirono a far piegare il capo a quelle città che nella testa più che i cavilli giuridici, avevano voglia di autogoverni.

Da Bologna varcò gli Appennini e nell'attraversare la Toscana in un incontro con i rappresentanti esortò a Pisani a preparare la loro flotta per la spedizione contro i Normanni; poi puntò direttamente e velocemente verso Roma.
All'avvicinarsi di Federico, non conoscendone le intenzioni, papa ADRIANO IV ritenne opportuno di andargli incontro. Il 1° giugno sempre nell'anno 1155, il Papa era a Viterbo e di qui mandò al sovrano tre cardinali, che lo trovarono a Tintinniano sull'Orcia, gli diedero il benvenuto in nome del Pontefice e gli promisero la corona imperiale a patto che giurasse di mantenere il Papato in possesso di tutti i beni; di abbattere a Roma il governo repubblicano; infine consegnare nelle mani del Papa l'eretico Arnaldo da Brescia.

Quest'ultima richiesta della consegna del monaco non costava nulla a Federico; pertanto, appena udita la richiesta dei cardinali, ordinò ai visconti che gli recassero Arnaldo, che sapeva rifugiato in casa di uno di loro, e poiché tentennavano ad ubbidire, ne mise uno in prigione e, minacciandolo di morte, lo costrinse a rivelargli il luogo dov'era nascosto l'eretico.
Con questo metodo, avuto subito nelle sue mani Arnaldo, il Barbarossa lo diede in dono ai cardinali e questi lo consegnarono al Pontefice. Il monaco fu affidato al prefetto della città, e da questi poi condotto in catene a Roma.
Ma qui il prigioniero non si trovava in un luogo sicuro. La città riecheggiava ancora della passionale parola del novatore, e ancora moltissimi erano i seguaci del predicatore. Prima che il tribunale imperiale avesse deciso della sua sorte, una sollevazione popolare lo avrebbe potuto liberarlo. Per questo motivo fu deciso di toglierlo di mezzo subito.

Non si conosce il giorno quando ARNALDO da BRESCIA fu condotto al supplizio. Questo avvenne un mattino quando la città era ancora addormentata affinché nessuno levasse la voce o tentasse di sottrarre l'agitatore alla giustizia dei suoi nemici. Alla porta del Popolo era stato eretto il necessario per il rogo, e su quella pira, nell'incerta luce dell'alba, fu portato Arnaldo da Brescia.
Un poeta anonimo contemporaneo narra in versi latini gli ultimi istanti del condannato. Quando questi vide i preparativi del suo tormento e gli fu messo il laccio al collo, gli chiesero se volesse abiurare le sue dottrine e confessare le sue colpe; ma il discepolo di Abelardo, con calma straordinaria, rispose che giudicava buone e salutari le sue dottrine e che era pronto a morire per le sue opinioni, delle quali nessuna era falsa, irragionevole e dannosa. Domandò solo che, per confessare al "suo" Cristo i suoi peccati, gli concedessero alcuni istanti di tempo.
Inginocchiatosi a terra e rivolti al Cielo gli occhi e le mani, Arnaldo emise un profondo sospiro e nel suo silenzio invocò con la mente Iddio e gli raccomandò l'anima; poi si affidò ai suoi carnefici.
Le fiamme avvolsero il corpo dell'agitatore intrepido e tenace e quando i Romani, saputa la notizia, accorsero sul luogo del supplizio, lui era già ridotto in cenere. Tentarono strapparne alcuni resti ai carnefici, ma invano: neppure le ceneri poterono essere conservate perché - "ne a stolida plebe corpus eius veneratione haberetur" - "per evitarne la venerazione", i carnefici ebbero l'ordine di disperderle nelle acque del Tevere.

A Sutri, l'8 giugno del 1155, ebbe luogo l'incontro tra ADRIANO IV e FEDERICO; ma poco mancò che non ne seguisse un'irreparabile rottura. Giunto davanti il padiglione del re, il Pontefice trattenne il cavallo e rimase in sella aspettando che il sovrano andasse - com'era costume - a reggergli la staffa.
Ma Federico non si mosse e tanta fu la costernazione dei cardinali che parecchi di loro, temendo chissà cosa, atterriti, fuggirono parte a Nepi e parte a Civita Castellana. Finalmente il Papa si decise a smontare da solo aiutato dai suoi, e andò a sedersi nel trono che gli era stato preparato. Federico finalmente gli andò incontro e si chinò a baciargli i piedi e, volendo anche baciarlo in viso, Adriano con un gesto plateale lo respinse perché si era rifiutato di prestargli quegli atti di riverenza, cui nessun principe, prima di lui, avevano mai negato a un Papa.

Con questi infelici preliminari, e con questo animo mal predisposto, per tutto quel giorno e anche il seguente durarono le contese su varie questioni tra il Barbarossa e Adriano e fu composta soltanto quando i cortigiani persuasero Federico che tenere la staffa al Pontefice non costituiva un avvilimento della dignità regia perché quell'atto di ossequio non alla persona fisica di Adriano era tributato, ma all'Apostolo Pietro, tramite il suo vicario.
Il Barbarossa tenne allora la staffa al Pontefice, gli diede e ne ricevette il bacio e al campo di Sutri, con il giuramento fatto dal re di difendere Adriano, fu da questi e dal sovrano pronunciata la sentenza di morte della repubblica romana.
Messisi in viaggio alla volta di Roma, il re e il papa erano giunti a poche miglia oltre Sutri quando andarono incontro a Federico gli ambasciatori del Senato romano i quali gli dissero che se veniva con intenzioni pacifiche sarebbe stato accolto festosamente e avrebbe ricevuto la corona imperiale; perché Roma, scrollatasi di dosso il giogo papale, aspirava alla millenaria libertà e all'antica signoria del mondo sotto la guida del Barbarossa, novello e glorioso Augusto; che giurasse pertanto di mantenere le leggi confermate dai suoi predecessori, di preservare Roma dal furore dei barbari e di serbare intatta la repubblica e, infine, che offrisse cinquemila libbre d'argento agli ufficiali romani che dovevano coronarlo imperatore in Campidoglio.

Se dobbiamo credere ad Ottone di Frisinga, le parole degli ambasciatori riempirono di sdegno il sovrano, il quale così rispose:

"Ho sentito molto celebrare il valore dei Romani e la loro saggezza; per la qual cosa mi meraviglia il vostro parlare sciocco, arrogante e privo di buon senso. Voi mi parlate della nobiltà della vostra città e mi ricordate il passato della vostra repubblica; ma Roma conobbe il mutare delle sorti del mondo e non riuscì a fuggire al destino che regola tutte le cose umane. Tutti sanno che il fiore della nobiltà romana fu prima trasportata a Bisanzio, tutti sanno per quanto tempo i degenerati Bizantini succhiarono le midolla preziose di Roma e come, poi, su di essa piombassero i forti Franchi che le sottrassero tutto ciò che di nobile e di eletto le restava.
Volete sapere dove andarono l'antica gloria romana, l'austera dignità del Senato, la ferrea disciplina dei cavalieri, l'arte della guerra e l'invincibile valore nelle battaglie? Tutto questo sappiate ora si trova presso di noi Tedeschi; tutto giunse a noi assieme con l'impero. Da noi si trovano i vostri consoli e il senato, nostre sono le vostre legioni. Roma deve andare debitrice della sua vita alla saggezza dei Franchi e alla spada dei suoi cavalieri. Dica la storia se i nostri illustri antenati, Carlo ed Ottone, ricevettero la città per grazia di un uomo qualsiasi o se con la spada la sottrassero, insieme con il resto d'Italia, dalle mani dei Bizantini e dei Longobardi e poi la riunirono all' impero dei Franchi?
Lo seppero i vostri tiranni Desiderio e Berengario che poi prigionieri dei Franchi perirono e le cui ceneri conserva ancora la nostra terra. Ma voi direte: da noi furono chiamati i nuovi imperatori. E con questo? Eravate oppressi dai nemici ed eravate incapaci di scuotere il giogo dei fiacchi Greci; e allora chiedeste l'aiuto dei Franchi; voi miseri invocaste i ricchi, voi deboli chiamaste i forti, voi tormentati vi rivolgeste ai potenti.
E così chiamato, anch' io sono venuto; il vostro signore diventò mio vassallo e voi fino ad oggi siete stati miei sudditi. Io sono il legittimo possessore. Chi dunque oserà strappare ad Ercole la clava? Forse il Siciliano, in cui speri? Lo ammaestri il passato.
Voi mi chiedete un giuramento di tre specie, ma ascoltate: o è giusta o non è giusta la vostra richiesta; se non lo è, né voi potete chiedere né io posso dare; se lo è, non farei che confessare un obbligo contratto spontaneamente e, pertanto, sarebbe superfluo giurarlo.

Come potrei venir meno alla giustizia io che ne voglio render garanti gli uomini più meschini? Come non potrei difendere la sede del mio impero io che voglio renderlo più grande? E ne fa fede la Danimarca da poco soggiogata, ed altre terre ancora farebbero fede se questa spedizione non me ne avesse distolto la loro conquista. Infine voi chiedete denari. Non si vergogna dunque Roma di mercanteggiare con il suo imperatore come se fosse un sensale? Deve dunque egli pagare il primo che trova invece di dispensare grazie? Alla gente minore si chiede loro che adempi agl'impegni; ma poi i maggiori elargiscono benefici.
Perché io non dovrei mantenere le consuetudini tramandate dai miei avi illustri? No, il mio ingresso sia festa per la città e a coloro che ingiustamente chiedono ingiuste cose io per giustizia tutto ricuserò".

Tornati a Roma gli oratori della repubblica, per consiglio del Pontefice, Federico mandò avanti mille uomini a cavallo, i quali, all'alba del 18 giugno del 1155 occuparono la città Leonina; il giorno stesso, da Monte Mario, senza nessun ostacolo, ma anche senza accoglienze, accompagnato dal Papa e dai Cardinali e seguito da tutto l'esercito, Federico entrò a Roma, e nella basilica di S. Pietro ricevette la spada, lo scettro e la corona imperiale.

Alla cerimonia fatta così frettolosamente non avevano assistito che il clero e le milizie del Barbarossa, come se si temesse da parte del sovrano che i Romani ostacolassero l'incoronazione. A questo proposito uno storico tedesco, il Gregorovius, osserva giustamente:

"L'impero del medio evo era un'ombra vana anche su Roma, e nulla lo dimostra meglio di queste incoronazioni che in fretta e furia si compievano nel sobborgo pontificio, mentre con grande ansietà si aspettava che i Romani (dai quali gli imperatori traevano il loro titolo) piombassero con le spade sguainate di qua del Tevere. Un abisso profondo nelle opinioni, nei bisogni, nell'origine di stirpe, separava gli imperatori di nazione germanica dai Romani. Benché questi odiassero lo straniero, Adriano IV come loro principe territoriale e come papa, tuttavia lo potevano ancora rispettare, dove invece per Federico in questo periodo non potevano avere che una forte antipatia. Sulle leggi della città, che tutti gli imperatori abitualmente promettevano di osservare e riverire, Federico non aveva giurato; i voti dei Romani non aveva ascoltato; nemmeno udito le consuete loro acclamazioni; né con donativi le aveva pagate; e a buon diritto pertanto i Romani si sentivano lesi nei loro diritti.

Giusta era la domanda che Federico confermasse la loro costituzione; ma non aver accondisceso non fu per nulla prudente, e venne tempo in cui l'imperatore se ne pentì e a quei disprezzati cittadini dovette lui prestare giuramento.
Dopo che i papi avevano cessato di essere candidati del voto elettivo del popolo romano, il popolo si era visto rapire anche la parte che gli spettava nell'elezione del suo imperatore. E proprio in questi anni, in cui le idee dell'antichità romana erano venute innescandosi in tutti i concetti giuridici delle cose civili e politiche del "grande passato", i Romani non potevano accettare, che Roma non fosse altro che il luogo in cui l'imperatore ed il papa celebravano la cerimonia della loro incoronazione o consacrazione per proprio conto, facendo a meno di loro.

Mentre altre città splendevano per ricchezza e per potenza, l'unico orgoglio della povera Roma era rimasto solo questo: essere Roma!
Durava come tradizione il concetto universale che Roma fosse la città capitale del mondo; in Roma Gregorio VII aveva assegnato al papato il compito di rappresentare l'unità del mondo, e adesso i Romani fantasticavano di fare lo stesso per via della maestà del popolo e della magistratura imperiale dal popolo nuovamente concepita e istituita".

L' incoronazione fatta senza l'intervento e contro la volontà del popolo costituiva un'onta gravissima per i Romani, i quali nonostante avessero perduto la "signoria del mondo", come il Barbarossa altezzosamente aveva detto, più di una volta avevano mostrato agli imperatori stranieri che sapevano ancora maneggiare le armi.
Accorsi al Campidoglio, avevano dichiarato illegale l'incoronazione, poi prese le armi corsero verso San Pietro per impedire lo svolgersi della cerimonia; ma questa era già terminata e le truppe tedesche controllavano gli sbocchi della Città Leonina.
Al Barbarossa scottava sotto i piedi quel particolare suolo di Roma e si affrettò ad allontanarsi e a tornarsene con l'esercito ai prati di Nerone, dove sorgevano gli accampamenti. La sua retroguardia aveva appena varcato il ponte che i Romani invasero la città Leonina, maltrattarono i cardinali e si sarebbero impadroniti del Pontefice se lui non si fosse rifugiato in S. Pietro; poi assalirono i pochi Tedeschi rimasti nella città, facendone una strage.

L'imperatore, saputo il fatto, radunò le sue milizie e marciò su Roma, dalla quale era appena uscito il popolo che dava la caccia ai fuggiaschi. Un feroce combattimento si scatenò tra gl'imperiali bene armati e disciplinati e i Romani, sebbene sbandati e mal guidati, sostennero l'urto con valore e solo dopo una furiosa mischia, prima di essere sopraffatti dal nemico, si ritirarono.
Ma presso il ponte S. Angelo la lotta continuò fino a notte e terminò solo con la ritirata del popolo che aveva fornito una splendida prova di gran coraggio resistendo per così lungo tempo e così vigorosamente a truppe molto più numerose ed agguerrite.
Dei romani duecento furono i prigionieri e un migliaio circa gli uomini uccisi o finiti nel Tevere. Non meno gravi dovettero essere le perdite degli imperiali: lo dimostra il fatto che Federico, il giorno dopo, levò il campo, seguito da Adriano IV, e si ritrasse prima ad Albano, poi a Tivoli, dove il Pontefice celebrò la festa degli Apostoli Pietro e Paolo in cui - secondo un cronista - fu data l'assoluzione ai soldati tedeschi, che avevano ucciso solo per difendere i diritti del loro imperatore.

L'impresa di Roma per Federico apparentemente era stata una vittoria; ma in realtà aveva come contropartita ottenuto solo un magro vantaggio: la corona imperiale. Altri vantaggi in verità lui sperava di riuscire ad avere dalla sua discesa in Italia muovendo guerra ai Normanni e il tempo era propizio ad una spedizione nel mezzogiorno.
RUGGERO II era morto (l'anno prima nel '54) e gli era successo sul trono il figlio Guglielmo, non un inetto - come parecchi storici hanno scritto - ma ciecamente fiducioso nell'opera di un uomo, MAIONE, il quale, figlio di un venditore d'olio di Bari, dalla sua umilissima origine aveva raggiunto il grado di Grande Ammiraglio del Regno. Dotato di straordinario ingegno, eloquente, sagace, astuto, ambiziosissimo, avido di dominio e di danaro, Maione aveva saputo sbarazzarsi, carcerandoli o mettendoli al bando, molti prodi guerrieri che avevano fatto la fortuna di Ruggero. Fra questi era il CONTE di POLICASTRO che nel 1155 era stato gettato dentro una prigione di Palermo; un altro valoroso vassallo, il conte ROBERTO di LORETELLO era sfuggito alle insidie del Grande Ammiraglio ed era passato con le sue genti in Abruzzo.
Serpeggiava in Puglia il malcontento contro la politica odiosa di Maione e i non pochi baroni fuorusciti incitavano il Barbarossa ad intraprendere la spedizione contro Guglielmo, sul quale il Pontefice aveva lanciato la scomunica.

Ma Federico non riuscì ad approfittare della situazione in cui si trovava l'Italia meridionale oltremodo propizia ai suoi disegni, perché l'esercito nel Lazio colpito dalle febbri malariche provocate dai calori estivi, reclamò di essere ricondotto in patria. Lasciato a Tivoli il Papa, il Barbarossa passò con le sue milizie a Narni; di qua corse su Spoleto, che aveva rifiutato di pagare i tributi e aveva imprigionato il conte Guido Guerra. Gli Spoletani, usciti dalle mura, si difesero valorosamente; ma a nulla valse questo coraggio: ricacciati dalla cavalleria tedesca dentro la città, questa fu poi presa d'assalto, conquistata, occupata, razziata e in gran parte distrutta (27 luglio del 1155).

Presa la via del nord, FEDERICO giunse ad Ancona, dove trovò una legazione inviatagli dall'imperatore bizantino EMMANUELE COMNENO per sollecitarlo alla spedizione contro i Normanni; ma questa fu rimandata in altri tempo e l'esercito tedesco fu sciolto. L'imperatore, con le poche milizie rimastegli, prese il cammino dell'Italia settentrionale e giunse nel territorio di Verona, dove qui corse il rischio di rimanere annegato per un'insidia tesagli da quegli abitanti, i quali gettarono sull'Adige un ponte molto debole in modo che si sfasciasse sotto il peso delle sue truppe. Il ponte, infatti, crollò, ma solo quando la maggior parte dei Tedeschi erano già passati. A quel punto i Veronesi decisero di inseguire le milizie imperiali, ma alle Chiuse furono loro ad avere la peggio cadendo in una brutta imboscata; cinquecento furono impiccati agli alberi e a molti altri furono mozzati il naso e le labbra.
Qui Federico fece anche altro; ma riprenderemo questi avvenimenti nella puntata successiva.

"Dei successi avuti in Italia l'imperatore al suo ritorno in Germania si diede un gran vanto, colorendo forse un po' troppo le sue imprese. Ma i fatti - e noi qui li abbiamo visti- in realtà erano ben diversi; quelli soprattutto che si riferivano al Papa. Infatti, delle promesse fatte da Federico a Adriano IV, che lo avrebbe rimesso nella signoria di Roma e poi gli avrebbe abbattuto l'odiato regno del normanno Guglielmo, nessuna delle due era stata ottenuta. Il papa non era a Roma ma era fuggito a Tivoli; e lui aveva in testa una corona imperiale data da un Papa che non regnava a Roma.

Gli eventi accaduti nell'Italia meridionale dopo la partenza dell'imperatore, obbligarono il papa a seguire una politica propria, per non perdere la posizione che i suoi predecessori avevano ottenuto su quei paesi per la Santa Sede. Sulle prime era parso -con Guglielmo- che il regno del Guiscardo andava incontro ad un'improvvisa dissoluzione. Infatti, la rivolta delle province promossa dall'oro, dalle milizie bizantine, e l'invio di una flotta ad Ancona, aveva preso proporzioni vastissime. ROBERTO di BASSAVILLA si era impadronito della Puglia Marittima; ROBERTO di CAPUA era ritornato in possesso del suo principato. RICCARDO D'AQUILA si era fatto padrone di Suessa e Teano; e ANDREA di RUPE CANINA, di Alife.
A settembre i bizantini avevano ripristinato la loro autorità su tutta la costa, da Taranto ad Ancona.

Il papa, visti i successi e incitato dagl'insorti a recarsi nel regno apparentemente in sfacelo per ricevere il loro omaggio, giudicando spacciata la causa del re Guglielmo (fra l'altro gravemente ammalato a Palermo), aveva accettato l'invito e con un grosso contingente di truppe mercenarie, era sceso a San Germano (ottobre 1155). Ricevuto qui il giuramento dei signori della Campania, era passato a Benevento. E fu qui che giunsero a incontrarlo i legati di Costantinopoli con offerte di una grande alleanza antimperiale e antinormanna da parte dell'imperatore Emmanuele Comneno; ma il papa, o perché non ritenne necessario un suo appoggio in Puglia, o perché non voleva alienare i rapporti con il Barbarossa, respinse la proposta.

Ma con il sorgere del nuovo anno (1156), la scena mutò improvvisamente. Il Regno e il suo Re, entrambi malati sembravano che avessero solo più qualche mese di vita, il secondo ricomparve più sano di prima, più ardito e più energico al di qua dello stretto con il suo potente esercito e in brevissimo tempo risanò anche il Regno, riportando all'ubbidienza tutte le province ribelli. Bari pagò per tutte con l'essere rasa al suolo. I principi ribelli per salvarsi dalla sicura forca furono costretti a fuggire e a cercare ricovero a Benevento presso il Papa; Riccardo di Capua, che tentava di resistere fu alla fine fatto prigioniero accecato e nonostante la pesante menomazione fu mandato a finire la sua misera vita nelle carceri di Palermo.

Il Papa stesso a Benevento non si sentì più sicuro. Ma da uomo accorto qual era, si tolse dai pasticci dove sconsideratamente si era andato a cacciare, non con una fuga, ma abbandonando alla loro cupa sorte tutti i baroni suoi alleati, e cambiando in fretta bandiera, salì sul carro del vincitore e stipulò la pace (Trattato di Benevento) con il re Normanno. Al quale non solo conferì la consueta triplice investitura del regno di Sicilia (con la legalizia apostolica) del ducato di Puglia e del principato di Capua, ma lo nominò pure signore di Salerno, Amalfi, Napoli e degli Abruzzi, estendendo l'una e l'altra nomina al figlio del re, RUGGERO, che, allora, contava appena 5 anni di età (giugno del 1156).

La pacificazione Adriano IV con il re normanno ne portò con sé un'altra ancora più importante per il papa: la pace con i Romani. Costoro, spinti dall'odio che provavano per l'imperatore Federico, vedendo ora il papa staccarsi da lui, accettarono la mediazione di re Guglielmo; fu pace anche a Roma rimettendo in vigore quel (precario) patto stipulato dal Senato con Papa Eugenio III.

Queste due paci essendo così insincere, innegabilmente recavano nel loro grembo i germi di un'altra guerra, e quale guerra! L'anglosassone papa Adriano IV lo sapeva bene, e ben lungi dallo sgomentarsene, ne provocò lo scoppio (Bertolini)".

Dobbiamo ora tornare in quel campo vicino a Verona
dove Federico, dopo la brutta esperienza fatta a Roma si era fermato, e prima di rientrare in Germania, con un suo atto, qui aveva già acceso una miccia per lo scoppio della nuova guerra in Lombardia; e quando gli arrivò in Germania la notizia che il Papa cambiando bandiera, aveva fatto con i Normanni e con Roma una pace, di miccia Federico ne accesa un'altra.

Ed è il prossimo capitolo dei fatti e della seconda spedizione di Federico Barbarossa.


periodo dall'anno 1156 al 1159 > > >

(VEDI ANCHE I SINGOLI ANNI o nella TEMATICA)

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
LANZONE - Storia dei Comuni italiani dalle origini al 1313
GREGORIUVUS - Storia di Roma nel Medioevo - 1855

L.A. MURATORI - Annali d'Italia
MAALOUF, Le crociate viste dagli arabi, SEI, Torino 1989
J.LEHMANN, I Crociati,- Edizioni Garzanti, Milano 1996
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi

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