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( QUI TUTTI I RIASSUNTI )  RIASSUNTO ANNI dal 1077 al 1081 

ENRICO IV A CANOSSA - DIETA DI RATISBONA - RIBELLIONE IN PUGLIA

ENRICO IV A CANOSSA - ELEZIONE DELL'ANTIRÈ RODOLFO - REAZIONE NAZIONALE IN GERMANIA - TUMULTI DI MAGONZA - DIETA DI RATISBONA - RISORGIMENTO DI ENRICO - IL GUISCARDO CONQUISTA SALERNO - ASSEDIO DI NAPOLI E BENEVENTO - MORTE DI RICCARDO DI CAPUA - GIORDANO DI CAPUA IN AIUTO DEL PONTEFICE - ENRICO IV SCONFITTO A FLORCHHLEIM - SINODO DEL 1080 - DIETA DI BAMBERGA E CONCILIO DI BRESSANONE - L'ANTIPAPA CLEMENTE III - BATTAGLIA DI MERSEBURGO E MORTE DI RODOLFO - IL PATTO DI CEPRANO TRA IL PAPA E IL GUISCARDO - ROBERTO E DURAZZO - RIBELLIONE DELLA PUGLIA E RITORNO DEL GUISCARDO IN ITALIA
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(una precisazione: nonostante dica il "Dizionario di Storia" Ed. Saggiatore- B.Mondadori
che il "celebre incontro sia avvenuto nel 1177" qui noi l'avvenimento lo collochiamo nel periodo esatto)

ENRICO IV A CANOSSA

Nella precedente puntata, abbiamo detto, che con l'anatema lanciato da Gregorio a Enrico IV, e dopo averlo deposto dal trono, come fatto politico-religioso, questo, era la prima volta che un Pontefice si ergeva a giudice di un sovrano e si arrogava il diritto di detronizzarlo.

L'edificio politico-sociale - sono parole del Bertolini - aveva, per la nuova dottrina di papa Gregorio, spostato la sua base. Infatti, lo stato feudale, avendo suo fondamento nel giuramento feudale, ne seguiva, che chi avesse l'autorità di toglier forza a simile giuramento, nelle sue mani rimarrebbe la somma delle cose. Ora papa Gregorio attribuiva a sé, quale vicario di San Pietro, quest'autorità; onde seguiva, che il papato, e non più l'impero, fosse il punto di partenza d'ogni ordine sociale, e l'impero ripetesse dal papato il titolo dell'autorità propria".

Lanciando la scomunica e dichiarando il re decaduto dal trono, forse Gregorio VII non credeva di sconvolgere e nello stesso tempo commuovere, come avvenne, tutto l'Occidente e di raccogliere in brevissimo tempo così tanti frutti.
In verità, all'inizio, ENRICO IV (aveva 26 anni), non fu turbato dai decreti emessi dal concilio lateranense e rimase saldo sulle sue posizioni. E' del marzo del 1076 una sua lettera, indirizzata ad un vescovo tedesco, in cui mostra quali rapporti, secondo lui, intercorrono tra la Chiesa e lo Stato.
Egli afferma che la Chiesa è formata dal "Regnum e dal Sacerdotium", dalla cui unione, voluta da Dio, ebbe origine la sua grandezza, e che se uno di questi due fattori vuole avere il sopravvento sull'altro, l'ordine divino viene sconvolto e la Chiesa vilipesa. Ma queste erano affermazioni teoriche che non valevano a distruggere una realtà molto triste per lui. Mentre in Italia i più potenti principi, ROBERTO il GUISCARDO e la contessa MATILDE, rimasta padrona di vastissimi domini dopo la morte del marito Goffredo (26 febbraio 1076) e della madre Beatrice (18 aprile 1076), si schieravano dalla parte della S. Sede, il terrore prodotto dalla fama di pretesi prodigi (o le maledizioni che si avveravano) rendeva più formidabile la posizione di Gregorio VII: proprio la chiesa di Utrecht era stata colpita da un fulmine e il suo vescovo, mentre tuonava dal pergamo contro il Pontefice, era stato colto da improvviso malore; un altro vescovo, caduto da cavallo, era stramazzato al suolo morto, uno era affogato in un banale ruscello, e un altro ancora, morto cadendo infilzato nello spiedo del suo cuoco. Ma quello che fece più impressione, fu quando l'uomo che a Roma aveva malmenato e rinchiuso nella torre Gregorio la notte di Natale, Cencio, morì per un cancro alla gola.

Ben presto anche in Germania la posizione del re vacillò e si fece critica. Morto il fido Goffredo di Lorena, mancarono al sovrano l'appoggio e la fede degli altri principi tedeschi. I prigionieri sassoni, affidati alla loro custodia, furono liberati e, tornati nel loro paese, chiamarono il popolo alla rivolta, alla quale (prodigio anche questo!) si associò, invece di domarla, OTTONE di NORDHEIM; nella Germania meridionale insorsero altri grandi, fra cui RODOLFO di Svevia, GUELFO III e la famiglia ZAHRINGEN; nell'alto Reno prevalsero gli oppositori del monarca e in breve quasi tutto il regno germanico fu percorso dal vento della ribellione. Anche i vescovi, sui quali Enrico faceva grande assegnamento, atterriti dalle conseguenze che la scomunica portava con sé, iniziarono ad abbandonare la causa del sovrano.
E intanto GREGORIO VII, si faceva più audace. In una lettera del 3 settembre del 1076, indirizzata ai grandi, laici ed ecclesiastici, del regno, il Pontefice affermava che la scomunica del re era un giudizio dello Spirito Santo, e diceva, che se il re non si sottometteva bisognava nominare un successore con il consenso e la ratifica papale.
La lettera del Pontefice ebbe gran peso sull'atteggiamento dei grandi, i quali approfittarono della scomunica del re per restringere la sua potestà regia. Essi si riunirono in assemblea a Tribur, il 16 ottobre del 1076, alla presenza dei legati mandati dal Papa, il quale aveva loro dato facoltà di assolvere i principi e i vescovi colpiti dalla scomunica. Molti di quelli che avevano firmato l'atto di Worms ricevettero così il perdono.

Il Re cercò con un supremo sforzo di avere ragione dei grandi. Raccolte alcune schiere di fedeli, andò ad accamparsi ad Oppenheim, mentre i principi, informati delle mosse del re, chiamavano a Tribur le loro milizie. Una battaglia sembrava imminente, e invece tra i grandi e il sovrano si venne ad un compromesso: fu stabilito che i principi avrebbero aspettato un anno dalla data della scomunica prima di deporlo; se, trascorso l'anno egli non fosse stato assolto, lo avrebbero deposto nominando un successore. Intanto Enrico sarebbe rimasto, da privato, a Spira ad aspettare che la dieta di Augusta, convocata per il 2 febbraio del 1077, giorno della Purificazione di Maria, decidesse la contesa tra i grandi e il monarca.
Accettando il compromesso, Enrico se da una parte si mostrava conciliante e disponibile, dall'altra mostrava chiaramente di non aver abbastanza forze da far trionfare con le armi la propria causa. Fu costretto pertanto ad abbandonare la sua guardia, allontanare da sé quei vescovi che si ostinavano a rimanergli fedeli ma erano tentennanti e ambigui; e con uno scarso seguito di fidi andò ad autoesiliarsi a Spira.

Nell'inazione impostagli, il monarca vedeva però lucidamente che la dieta di Augusta, la quale doveva esser presieduta dal Pontefice, avrebbe deciso contro di lui. Anche se avesse deciso favorevolmente, - egli pensava - la monarchia sarebbe stata umiliata dall'arbitrato del Papa ed avrebbe mostrato di riconoscere sopra di sé l'autorità del Pontefice: la sovranità della Chiesa sullo Stato. Era pertanto necessario evitare il giudizio di Augusta; e per conseguire questo scopo non vi era che un mezzo: ottenere l'assoluzione della scomunica prima della dieta, ottenerla sia pure a prezzo dell'umiliazione.

Il 22 dicembre del 1076 ENRICO IV scomparve da Spira, dove si trovava, secondo il patto di Oppenheim, confinato, e solo più tardi si seppe che aveva intrapreso il viaggio per l'Italia. Un viaggio faticoso per la crudezza dell'inverno e anche per l'itinerario prescelto. Il re, invece di seguire la via più breve, poiché questa gli era impedita dai suoi nemici, i duchi di Svevia, di Baviera e di Carinzia, seguì quella più lunga della Borgogna. Era seguito da pochi fedeli e lo accompagnavano il figlio primogenito e la moglie Berta, l'infelice consorte che non aveva mai amato, che aveva anzi cercato di ripudiare, ora si dimostrava essere l'unica persona ad essergli vicina con la sua fedeltà e il suo affetto.
A Besancon il monarca fu ospite del conte Guglielmo, suo cugino, poi per il valico del Moncenisio passò in Piemonte, alla casa "Ubertina ("Savoia") dove la marchesa Adelaide di Torino, sua suocera, e il figlio di lei Amedeo gli fecero subire la prima umiliazione strappandogli la concessione di alcuni comitati (cinque vescovadi) in Svizzera e Borgogna (da dove il capostipite Conte Biancamano, proveniva)

Ma, appena lasciato il Piemonte e superato il Ticino, Enrico dimenticò un po' le sue amarezze davanti all'entusiastica accoglienza che gli fecero i vescovi e i grandi della Lombardia, nemici ostinati di Gregorio e delle sue riforme ecclesiastiche. Gli offrirono perfino aiuti di uomini e di denari e lo spronarono a mettersi alla testa delle loro milizie per abbattere l'orgoglio di quell'odiato Pontefice.
ENRICO IV non era sceso per fare la guerra, respinse l'offerta, calmò le intenzioni guerriere dei suoi sostenitori, affermando che l'ora della vendetta, che attraverso l'umiliazione lui perseguiva, non era ancora suonata.

Quando il re era partito da Spira, Gregorio VII aveva già lasciato Roma e si era messo in viaggio alla volta di Augusta, dove "voleva" celebrare il trionfo del Papato. Lo accompagnavano le milizie della contessa Matilde, che a Mantova dovevano essere sostituite da quelle del vescovo Gregorio di Vercelli. Ma per tre giorni, nella città in riva al Mincio, il Pontefice le aspettò invano: vi giunse invece solo il vescovo, spiegandogli le ragioni del ritardo: che Enrico IV aveva varcato le Alpi, era entrato nella sua città a Vercelli, poi lasciata per poi proseguire a Milano.
Il Pontefice, non conoscendo le vere intenzioni di Enrico, credendo che fosse sceso in Italia come nemico e con un esercito alle sue spalle, fu atterrito da questa notizia.
Non sentendosi sicuro in Lombardia, lasciò Mantova e, ripassato il Po, scese nell'Appennino reggiano, andò a rinchiudersi nella turrita Rocca di Canossa, messa a disposizione dalla sua più fervida sostenitrice, la contessa Matilde.

Un mese era trascorso dalla partenza di Enrico da Spira e il Papa, rassicurato da messi sui propositi del re, ma anche che non esistevano eserciti al suo seguito, era rimasto tuttavia a Canossa in compagnia della giovane marchesa, allora trentenne, e dell'abate Ugo di Cluny, quando nel gennaio del 1077, comparve ENRICO davanti alla fortezza, che tanta fama doveva poi acquistare, per la scena che i narratori di ogni epoca hanno poi dipinto colpendo la fantasia popolare.
Chi la visita oggi stenta a credere che quei ruderi siano gli stessi di quel castello, che pittori e incisori hanno immortalato nelle loro opere. Alcune sono letteralmente fantastiche, con le dimensioni della rocca e del castello moltiplicate per dieci volte.
Più modestamente la rocca si erge sopra un cucuzzolo montagnoso, cinta da triplici mura, in una posizione "quasi" inaccessibile, ma non impossibile.

Enrico IV, era accompagnato dalla suocera contessa Adelaide, dal cognato Amedeo II e dal marchese Azzorre d' Este. All'intercessione di costoro ricorse il sovrano per avere un colloquio con la contessa Matilde. Giunto al cospetto della gran donna, la pregò di farsi mediatrice di pace verso Gregorio VII, assicurando che era disposto a chiedergli perdono, e di riferirgli che era fiducioso nella sua giustizia e nella propria innocenza, che non temeva il suo giudizio, e che non voleva giungere all'anniversario della scomunica e, perciò, umilmente gli chiedeva l'assoluzione e la comunione della Chiesa ed era pronto ad ubbidire ai suoi ordini e a sottoporsi alla sentenza che lui riteneva giusta pronunciare.

"Pensava Matilde - scrive il Tosti e ci piace riportare questo brano - e pensavano gli altri che intercedevano per Enrico che le profferte dell'umiliato Re e le sue preghiere bastassero a piegare l'animo di Gregorio. E si meravigliarono di vedere il Pontefice tutto chiuso nell'austero proponimento di non perdonare Enrico se non a giudizio compiuto e di vederlo con modi decisi far cessare le loro suppliche.
La dubbia fede di Enrico, i suoi giovanili spiriti, sempre baldi ad ogni sorriso di fortuna, le future tentazioni della corte, gremita sempre di adulatori di principesche malizie, erano come un muro, dietro il quale l'apostolico uomo dava del no alle figlie di S. Pietro, Matilde ed Adelaide. E poiché queste non smettevano di pregarlo facendo perfino scongiuri "ebbene -esclamò Gregorio- se davvero è pentito Enrico, venga qua a deporre nelle mie mani la sua corona, e ogni segno di regia potestà, e si confessi innanzi a me che è indegno di portarla, per tanta sua contumacia".

" Io non so se altri, più esperti di me del ritrarre le parole con le commozioni dell'umano spirito, potrebbe effigiare le sembianze con cui Matilde e gli altri oratori dovettero accogliere la dura sentenza di Gregorio. Un supremo ministro di pace, un vicario di Colui, che l'aveva recata qui in terra, puntare così bruscamente le mani al petto di un potentissimo re che pentito, supplichevole, voleva tornare in seno della Chiesa; rigettare le preghiere di coloro che avevano con tanta devozione, aiutato, sorretta la romana sede, erano cose che gettavano quelle fedelissime anime in tentazione di pensare male di Gregorio. Un torto giudizio spuntava loro nella mente, muto, verecondo, che poi con molta ed irosa loquacità suonò nei libri dei protestanti e di alcuni cattolici. E che altro pretende questo prete? Che cuore ha costui che non ammorbidisce né a ragioni né a preghiere? Questa sì che è ferocia da tiranno.

"Ho detto che queste cose forse tacitamente s'insinuavano nella mente di Matilde e degli altri presenti: ma forse anche al Pontefice, perché lo stesso Gregorio lo afferma nella sua lettera ai Germani. Ma non era ferocia di tiranno, non voglia di vendetta, non ambizione di trovarsi solo lui signore del mondo sul dimesso capo di Enrico; Gregorio tendeva alla teocrazia universale, ma conosceva bene che le vie per conseguirla non si aprivano nel materiale appagamento di volgari passioni di odio, di vendetta, bensì nella tranquilla evoluzione di un morale principio; e che doveva persuadere sollevando gli oppressi ed abbattendo ogni vestigia della prepotenza umana. Tuttavia stretto sempre più da quell'assedio che gli ponevano quei preganti, che lo scongiuravano con biblici modi a non stritolare con la severità del giudizio una già piegata canna; lui di malavoglia sì arrese, ordinando di far entrare dentro le mura Enrico per espiare (se veramente era pentito), e soggiacere ai papali decreti per le ingiurie arrecate alla sede apostolica.
"Informato il tedesco dei desideri espressi dal pontefice, Enrico entrò finalmente nelle porte del castello di Canossa con modi e sembianze di un pentimento più unico che raro che la storia ha dei ricordi di molti principi e re.
"Lasciato fuori tutta la sua regia corte, dimesse le splendide vesti ed ogni altro segno del principato, tutto umiliato e contrito, Enrico fu introdotto nella seconda delle tre cinta di mura e lì lasciato in attesa di essere ricevuto. L'inverno (ci narra Donizoni, nella "Vita di Matilde") fu uno dei più rigidi che la storia ricordi; spessa era la neve al suolo, e in tanta inclemenza di cielo e di gelo, questo re di Germania, futuro imperatore, rimase in attesa scalzo, con un frusto saio addosso, con un po' di cibo portatogli al cadere del sole, per ben tre giorni, aspettando che il papale braccio gli si levasse sul capo per togliergli la scomunica".

"Stava tramontando il terzo giorno, Enrico se ne stava tutto umiliato in un angolo aspettando il papale perdono: ma Gregorio non si arrendeva alle suppliche degli intercessori. Il Re allora volle tentare un supremo mezzo, prima che terminasse il tempo concessogli per farsi sciogliere dalla scomunica e per acquietare l'animo del pontefice sulla sincerità delle sue promesse. Si accostò alla chiesetta di S. Niccolò, che era nella terza cinta di mura del castello, e qui c'era Ugo, l'abate di Cluny; lo pregò di accettare sotto giuramento quello che lui voleva promettere e poi di riferirlo al pontefice.
L'abate non volle assumersi quell'impegno, affermando che i canoni vietavano ai monaci di accogliere e poi riferire ad altri un sacro giuramento; ma vedendo come il re, stretto dalla disperazione era sul punto di interrompere la riconciliazione, lo consigliò di rivolgersi a sua cugina Matilde, del pontefice la più prediletta devota. La donna, infatti, fu più disposta a prestare fede alla sincerità della sua penitenza, soprattutto quando il cugino genuflesso ai suoi piedi la pregava con semplici umiltà di modi di supplicare il pontefice. Alla fine Matilde persuase papa Gregorio di accogliere Enrico in grazia.

"Il giorno 26 di gennaio, Enrico, scalzo, quasi sopraffatto dal freddo, e senza nessun segno di sovrano, si presentò davanti a Gregorio, piangendo e quasi gridando: perdono, perdono ! Commosso dalla pietà, Gregorio lo sciolse dal vincolo della scomunica, tuttavia con tante cautele quante n'abbisognavano per premunirsi contro l'attendibilità dei buoni propositi di quel pentito, e a non violare i trattati già intercorsi con i maggiorenti di Germania.
Avrebbe potuto sbarazzarsi subito del suo avversario, ormai popolo, vescovi e principi avevano preso tutti le distanze da Enrico. Ma Gregorio non lo fa. Qui forse prese il sopravvento più l'animo del mistico monaco Ildebrando, che non quello politico di papa Gregorio VII."

Del resto anche lui nei tre giorni fu tormentato da un grande dilemma. Se perdonava il penitente con l'insegnamento di Cristo ogni cosa restava invariata o peggiorava la situazione; se credeva al pentimento simulato pure; ma se lo puniva implacabilmente rischiava il Capo della Chiesa di Cristo di essere tacciato di crudeltà, di tirannia, d'ambizione. E i vescovi lombardi proprio di tirannia già lo avevano accusato, figuriamoci dopo avere deposto il re, quando solo trent'anni prima a Sutri erano i re che deponevano i papi. La società medioevale degli anni 1000 non era ancora preparata ad una simili audacia, e Gregorio non poteva certo prevedere come avrebbe reagito. Né quanto fosse pericoloso per la Chiesa l'uso del potere temporale, perché andava a sconvolgere nel profondo una realtà considerata, ormai per tradizione secolare, legittima.

Torniamo al perdono

"Gregorio perdonava, e faceva consegnare alla scrittura le condizioni di quel perdono. Si presentasse Enrico alla dieta dei principi dell'impero, nel luogo e nel giorno fissato, a rispondere ai suoi accusatori, e suo giudice il romano pontefice; che avrebbe alla fine del verdetto finale solo definito che restava re se era innocente, privato della corona se colpevole.

"Fino al giorno della sentenza finale doveva: a) smettere ogni regia potestà; b) non toccare l'erario dell'impero, né quello della corona, ma avere solo il necessario a vivere; c) non ingerirsi nelle cose dello Stato; d) tutti gli obbligati a lui per giuramento erano nel frattempo sciolti davanti a Dio e agli uomini; e) bandire i tristi consiglieri, e specialmente i vescovi di Bamberga e di Casheim che gli avevano dato i pessimi consigli; f) promettere obbedienza al pontefice e il suo impegno nel riformare la Chiesa di Cristo; ed infine, g) come non data l'assoluzione della scomunica se contravveniva ad una sola delle anzidette condizioni e che - in questo ultimo caso- avevano i principi dell'impero la facoltà a scegliersi un altro re.

"Enrico accettò queste condizioni e promise con il giuramento di adempierle; ma Gregorio volle che coloro che erano stati gli intercessori, garantissero con la propria fede quella di Enrico. I vescovi di Vercelli e di Ceitz, Matilde, il marchese Azzo ed altri principi confermarono con giuramento le promesse di Enrico; solo l'abate Ugo non andò al pericoloso sacramento, perché lui affermava che era un monaco.
"Fra promesse, giuramenti e le impegnative scritture lette sopra, non restava altro da fare a quel punto che assolvere e sciogliere solennemente dalle censure Enrico, ed è quello che fece Gregorio, poi lo benedisse".

Tuttavia Gregorio non aveva fiducia nelle promesse e nei giuramenti di Enrico; pessimi esperimenti ne aveva fatti; e volle andare fino ai miracoli per scrutarlo fino in fondo all'anima. Sacrificò alla Messa, e quando fu al punto di mangiare il Corpo del Signore, tenendo il pane nelle mani indirizzò queste parole ad Enrico:
"È già da molto tempo che io ho avuto da te e dai tuoi partigiani indegne lettere, che mi accusavano di avere occupato l'apostolico seggio con un'eretica simonia, e di avere contaminata la mia vita, prima e dopo il vescovado, di certi delitti, che a norma dei canoni mi avrebbero dovuto sbarrare ogni via ai sacri ordini.
Affinché io possa rigettare l'accusa non mi affido al giudizio umano, ma a quello divino per far cancellare nell'animo di tutti ogni ombra di dubbi con una sua decisa dimostrazione, ecco qua il Corpo del Signore che ora sto per mangiare, che l'onnipotenti Iddio mi purghi dal sospetto di delitti se io sono innocente; o se invece sono reo, che mi finisca qui all'istante di repentina morte"
.

Pronunciò queste ed altre terribili parole, poi mangiò parte del Corpo del Signore. La gente presente non vedendo nessun accidente di sorta, esplose nell'entusiasmo gridando "innocente, innocente!". Poi Gregorio si volse ad Enrico, e, offrendogli l'altra parte del pane eucaristico, gli suggerì di fare altrettanto, vale a dire, a proclamare la sua innocenza con la tremenda testimonianza di Dio.
Ma Enrico fu turbato e con l'animo così poco disponibile per affrontare quel terribile argomento di discolpa rimase incerto su cosa fare, poi pregò il pontefice a rimandare alla dieta quella prova soprannaturale della propria innocenza, non essendo presenti a Canossa né i suoi accusatori né i suoi difensori, ed entrambi non avrebbero gradito quel modo sbrigativo per affossare accuse o testimonianze. Gregorio si lasciò convincere da queste ragioni, impartì la comunione ad Enrico ma non gli chiese nessuna pubblica declamazione.
Poi lo tenne a mensa, colmandolo di onori e di cortesia, ma non smettendo mai di ricordargli ad ogni istante le sue giurate promesse.


ELEZIONE DELL'ANTIRE RODOLFO - SCONFITTA DI FLARCHHLEIM AVVENIMENTI NELL'ITALIA MERIDIONALE - SINODO DEL 1080

Gregorio VII, assolvendo Enrico dalla scomunica, non intendeva rinunziare a tutto quello che aveva guadagnato sul re, ma intendeva lasciar tutto in sospeso fino alla dieta che doveva presiedere. E poiché ai principi tedeschi poteva sembrare che il pontefice avesse agito troppo precipitosamente e non avesse saputo lasciare Enrico nelle difficoltà in cui il patto di Oppenheim lo aveva messo, Gregorio scrisse ai grandi di Germania una lettera in cui, per mitigare l'impressione che il perdono di Canossa poteva suscitare, fra le altre cose diceva:

" .... Allo scopo di disporre tutto, con l'aiuto divino, per la pace della Chiesa e per l'unione del regno, che sempre abbiamo sostenuto, nella prossima occasione noi desideriamo venire nella vostra regione, perché vogliamo che sappiate .... che tutta la faccenda rimane sospesa, di modo che la nostra presenza fra voi e l'unanimità dei vostri consigli sembrino assolutamente necessari per portarla a fine. Siate pertanto tutti pronti a perseverare, come finora avete fatto, nella fede e nell'amore della giustizia e della misericordia, senza esporre a pericolo la vostra e la sua anima".

"Non lo pensava allo steso modo Enrico, né gli si può dar torto. Benché avesse promesso al Pontefice di aspettare che la sua vertenza con i principi tedeschi fosse risolta da Gregorio, lui, sciolto dalla scomunica, si sentiva ed era in diritto di riprendere la potestà regia.
II monarca della Germania usciva da Canossa profondamente umiliato, ma con l'animo pieno di propositi di vendetta, propositi che il contegno dei grandi tedeschi, sempre ostile verso di lui, accresceva. Ma era persuaso che per raggiungere il suo scopo era necessario usare prudenza e circospezione e non dare motivo al Pontefice di guastarsi nuovamente con lui. Questa prudenza e circospezione lui la usò con i vescovi lombardi, i quali, dopo averlo accusato di aver tradita la loro causa, lo minacciarono di rapirgli il figlio Corrado e di incoronarlo re d'Italia. Enrico cercò di rivolgere a suo favore lo sdegno dei vescovi lombardi e chiese al Pontefice che autorizzasse l'arcivescovo di Milano a coronarlo re d'Italia, ma non vi riuscì per il contegno risoluto di Gregorio VII, il quale alla domanda, remissiva ma astuta, rispose con un reciso rifiuto.

Più che dai grandi della Lombardia Enrico IV aveva da temere dai principi tedeschi. Questi, che in quel perdono di Canossa vedevano la loro sconfitta, tentarono di render nullo il patto di Oppenheim. A questo scopo i principi della Germania meridionale, verso la metà del febbraio del 1077, si riunirono ad Ulma. Non essendosi qui giunti ad alcuna conclusione stabilirono di convocare un congresso per il 13 marzo a Forchheim per decidere la sorte di Enrico; e invitarono Gregorio ad intervenirvi o ad inviarvi propri legati".

L'assemblea si riunì nel giorno e nel luogo stabilito e vi parteciparono tredici vescovi con alla testa SIGIFREDO di Magonza e molti principi tra i quali è ricordato GUELFO di BAVIERA. Il Pontefice non riuscì a prendervi parte perché Enrico, il quale aveva capito che dal congresso sarebbe stata decisa la sua rovina, gli aveva negato il salvacondotto; furono presenti invece i legati papali.
La discussione fu tempestosa e, sebbene i messi pontifici consigliassero di non prendere in quel consesso una decisione e di aspettare che il Papa potesse esser presente, i convenuti stabilirono di eleggere un nuovo re.
La scelta cadde su RODOLFO di RHEINFELD, duca di Svevia, cognato di Enrico. I legati pontifici, non avendo potuto far trionfare il loro parere, imposero all'eletto che si impegnasse ad osservare le forme dell'elezione canonica nel conferimento dei vescovadi e ad investire i prelati non più con l'anello e il pastorale, ma con i cosiddetti regali. Dal canto loro i principi stabilirono che la corona non si poteva ottenere che con l'elezione e che i figli del re non potevano vantare nessun diritto ereditario.

Il congresso di Forchheim paradossalmente anziché nuocere giovò ad Enrico IV. Le sue decisioni non rappresentavano l'espressione della volontà nazionale, ma quella dell'odio e dell'interesse di una fazione; inoltre l'abolizione della monarchia ereditaria urtava contro il sentimento popolare. Fu il popolo che, sollevandosi contro l' "antirè", volle elevare alta la sua protesta contro le deliberazioni del congresso.
Due settimane dopo, il 26 marzo del 1077, giorno della consacrazione del nuovo re, a Magonza il popolo si levò a tumulto e costrinse RODOLFO alla fuga. Rifugio sicuro per Rodolfo e centro dell'opposizione ad Enrico nella lotta che divampava fu la Sassonia.
Le sorti di Enrico IV si rialzavano non solo in Germania, ma anche in Italia. Con i Lombardi si era riconciliato, tanto che prima di partire aveva dato loro in custodia il figlioletto Corrado e ne aveva ricevuto aiuto di armi. Si distingueva fra i suoi partigiani il patriarca SICARDO di Aquileia, che nella dieta di Tribur aveva, in qualità di legato pontificio, sostenuto la deposizione di Enrico, ma poi era passato dalla parte del re, che aveva saputo ingraziarselo concedendogli la marca del Friuli con l'Istria e la Carniola.
Appena entrato in Baviera, Enrico fu accolto festosamente dagli avversari del duca Guelfo e riuscì a riunire in breve tempo un esercito di dodicimila uomini, mentre il suo rivale era riuscito a radunarne nemmeno cinquemila. A Ratisbona Enrico IV, il 1° maggio dello stesso anno 1077, convocò la prima dieta nella quale RODOLFO, BERTOLDO di Carinzia e GUELFO di Baviera furono giudicati e condannati alla pena capitale.

La guerra tra i due rivali stava per essere affidata alle armi quando da varie parti, furono fatti tentativi di risolvere pacificamente la contesa. Un primo tentativo fu fatto dal Pontefice, che con il proposito di risolvere con il suo supremo giudizio la lite chiese, per mezzo del cardinale BERNARDO, ai due re il salvacondotto di recarsi in Germania. Ma non lo ebbe da nessuno dei due. Esito negativo fu un secondo tentativo fatto da alcuni vescovi e principi germanici, i quali convocarono una dieta fissata per il 1° novembre in cui doveva esser decisa la grande contesa. Ma la dieta vide raccolto un numero troppo esiguo di convenuti e alla fine si sciolsero senza aver decisi nulla,
anche perché il Pontefice, che desiderava trattare personalmente la questione, non aveva voluto aderire.
Quanto più in Germania risorgeva la fortuna di ENRICO IV, tanto più decadeva quella di GREGORIO VII in Italia. Rimasto al nord della penisola (Sempre a Canossa) senza osare mettere il piede in Lombardia, la quale gli era tutta ostile, e senza speranza di passare in Germania, nel settembre del 1077 il Pontefice lasciata la Rocca di Matilde, ritornò a Roma per sorvegliare più da vicino l'Italia meridionale dove, nel frattempo gravi avvenimenti erano accaduti; li abbiamo già accennati nelle "conquiste dei Normanni" in altre pagine, ma che dobbiamo qui riprendere.

Abbiamo detto come ROBERTO il GUISCARDO e RICCARDO di Capua si erano alleati per darsi reciproco aiuto contro Salerno e Napoli. Nel giugno del 1076 Roberto aveva stretto d'assedio Salerno: la città aveva eroicamente resistito fino alla metà del dicembre, ma il 13 di quello stesso mese era caduta in potere dei Normanni che, favoriti dalla notte, vi erano penetrati da una porta lasciata senza custodia. GISULFO di Salerno (che era cognato di Roberto per averne sposata la sorella Silgegaite) era riuscito però a chiudersi nella rocca e qui era stato bloccato con un assedio dal cognato.
Presa Salerno, Roberto aveva mandato la flotta al servizio di Riccardo il quale già dal maggio teneva assediata Napoli, che si difendeva anch'essa eroicamente procurando gravissime perdite al nemico; poi Roberto aveva intensificato il blocco della rocca salernitana, che nel gennaio del 1077 si arrendeva stipulando dei patti. Questi siglarono la fine dell'ultimo principato longobardo rimasto indipendente, durato centotrentasette anni.
Lo sfortunato GISULFO, rimesso dal vincitore in libertà, aveva trovato asilo a Capua.

Durava ancora, né accennava a finire, l'assedio di Napoli, quando papa Gregorio da Canossa fece ritorno a Roma. Non erano ancora trascorsi due mesi dal suo ritorno che due gravi notizie gli giungevano dall'Italia meridionale: il 17 novembre era morto LANDOLFO VI, vassallo del Pontefice, e due giorni dopo ROBERTO il GUISCARDO, aveva cinto d'assedio la città di Benevento.

Gregorio VII aveva sentore che, perduta Benevento, sarebbe tramontata l'influenza politica del Papato nell'Italia meridionale e, non potendo soccorrerla con le armi di un esercito che non aveva, ricorse a quelle che aveva, alle armi spirituali. Nel sinodo del marzo 1078 scomunicò i Normanni che assediavano Benevento e quelli che, invasa la campagna romana, tentavano di impossessarsi dei territori di Fermo e di Spoleto.
La scomunica produsse il suo effetto: RAINOLFO, conte di Cajazzo e di Avellino, e GIORDANO, figlio di Riccardo di Capua, si schierarono dalla parte del Papa e, recatisi entrambi a Roma per farsi assolvere, promisero al Pontefice di difendere i domini della Santa Sede. Poco tempo dopo, lo stesso Riccardo, sentendosi in fin di vita, restituì per consiglio del vescovo di Aversa, le terre della Chiesa che aveva occupato quando benedetto cessò di vivere il 5 aprile 1078.
Successo al padre nel principato di Capua, GIORDANO tolse l'assedio da Napoli, poi con le milizie sue e con quelle dello zio RAINOLFO mosse contro il GUISCARDO e, non contento di averlo costretto a ritirarsi a Troia, mandò suoi agenti in Puglia per incitare i conti normanni alla ribellione.
Ottenuti questi successi, GREGORIO VII rivolse il pensiero alla riforma ecclesiastica ed alla questione germanica.

Nel novembre del 1078 tenne un secondo concilio lateranense in cui rinnovò ai laici il divieto di conferire investiture ecclesiastiche, minacciando di scomunica i vescovi che le ricevevano; del conflitto tra Enrico IV e Rodolfo rimase interessato spettatore, nutrendo però speranza che la vittoria fosse del secondo perché essa, abbassando la potestà regia con il trionfo della monarchia elettiva sulla ereditaria, avrebbe immensamente giovato alla teocrazia papale.
Ricevuta nel gennaio del 1080 la notizia che il 27 di quel mese presso Flarchhleim, in Turingia, le milizie di Enrico erano state battute da quelle del rivale, il Pontefice, credendo ormai sicuro il definitivo trionfo dell'antirè, si dichiarò apertamente per Rodolfo.

Nel marzo del 1080 Gregorio convocò un nuovo concilio e, sentite le accuse dei legati di Rodolfo contro Enrico, scomunicò per la seconda volta quest'ultimo, sciogliendo i suoi sudditi dal giuramento di fedeltà ed assicurando che nella prossima festa degli Apostoli avrebbe annunziato la deposizione di Enrico IV dal trono.
Merita di essere riferita la parte finale del discorso papale. Rivolgendosi ai Santi Pietro e Paolo, Gregorio VII disse:
"Fate conoscere a tutti, o potentissimi principi della Chiesa, che, se avete il potere di legare e di sciogliere in Cielo, potete anche in terra togliere a chi meriti gl'imperi, i regni, i principati, i ducati, i marchesati, le contee e i beni di tutti gli uomini, come spesso avete ripreso agli scellerati e agli indegni e concesso ai buoni, i patriarcati, le primazie, gli arcivescovadi e i vescovadi. Se avete potestà di giudicare delle cose spirituali, a più forte ragione potete disporre delle temporali; se giudicate gli angeli che imperano sui superbi principi, avete il diritto di giudicare gli schiavi di questi. Imparino dunque i re e tutti i principi del mondo quanto voi siete grandi e potenti; essi devono temere di disprezzare i comandamenti della vostra Chiesa e la vostra giustizia piombi sul capo di Enrico di modo che tutti sappiano com'egli non sia caduto dal trono per la forza delle umane vicende ma travolto dalla vostra potenza. Dio lo confonda per richiamarlo ad una sincera penitenza e che gli procuri la salute dell'anima nel gran giorno del giudizio supremo".

Non sarà qui superfluo riportare alcune osservazioni di un dotto storico tedesco, il LEO:
"GREGORIO VII riconobbe RODOLFO re di Germania, non d'Italia e dispose tutto in un modo da far della Germania quasi un feudo della Santa Sede come aveva fatto dei domini normanni nella parte meridionale della penisola. Con il patrimonio della Chiesa, con i beni di Matilde in Toscana e in Lombardia e con le città che gli erano devote, aveva in animo di formare un grande stato, fra i Normanni e i Tedeschi, sotto la sua diretta dipendenza.
Se poi fosse riuscito a metter la Spagna e l'Ungheria in condizioni di feudi della Chiesa e a rendere obbligatorio il giuramento, che esigeva dai vescovi ed era già stato prestato dal patriarca d'Aquileia, un vero e proprio giuramento di vassallaggio che in tutta la cristianità cattolica separava pienamente la Chiesa dal potere secolare, il fine dei suoi disegni era compiuto; la Chiesa avrebbe dominato tutti gli stati della terra, il Papa sarebbe veramente divenuto il re dei re".

L'ANTIPAPA CLEMENTE III -
IL PATTO DI CERANO - IL GUISCARDO IN GRECIA

GREGORIO VII aveva -come abbiamo detto- creduta decisiva la sconfitta di Enrico a Flarchhleim ed era pure convinto che la seconda scomunica avrebbe nuovamente prostrato il re di Germania. Invece s'ingannò la seconda volta come la prima, perché la sconfitta non indebolì militarmente il sovrano e la scomunica non gli alienò i suoi partigiani. Questi anzi si strinsero maggiormente intorno al loro re con il fermo proposito di difenderlo e farlo trionfare sul rivale Rodolfo e sul Pontefice.

LA DIETA DI MAGONZA
E CONCILIO DI BRESSANONE

I vescovi della Germania, schieratisi tutti dalla parte di Enrico, nella Pasqua del 1080 si riunirono a Bamberga e si dissero pronti a separarsi dal Papa; poco tempo dopo, il giorno della Pentecoste, nella dieta di Magonza, con il consenso dei principi là convenuti, deposero Gregorio e stabilirono di eleggere un antipapa, mettendosi d'accordo con i vescovi cisalpini, che avevano proposto di convocare a Bressanone un concilio per pronunciare l'anatema contro il Pontefice.
Il concilio di Bressanone ebbe luogo il 25 giugno del 1080 e vi si trovarono riuniti circa trenta vescovi italiani; quelli tedeschi vi giunsero al seguito di Enrico. Nel primo giorno, sentite le accuse del cardinale UGO, fu decretata la deposizione di GREGORIO VII. La motivazione era gravissima: si accusava il Papa d'essersi fatto eleggere con la frode e con l'oro (simonia), di aver sovvertito l'ordine della Chiesa e perturbato il cristiano impero (eresia), di aver voluta la morte di un re cattolico, pacifico di corpo e di animo, di aver seminato la discordia, le liti, gli scandali, i divorzi, di aver predicato il saccheggio e l'incendio, di aver difeso lo spergiuro e l'assassinio, di aver messo in dubbio la transustanziazione, di avere infine condiviso l'eresia di Berengario e creduto alle divinazioni, ai sogni ed alla negromanzia.

L'ANTI-PAPA CLEMENTE

Nel secondo giorno il concilio elesse il nuovo papa nella persona di GUIBERTO, arcivescovo di Ravenna, che prese il nome di CLEMENTE III. Questi si portò dietro il figlio del sovrano, ed entrambi promisero di scendere in Italia per restaurarvi il prestigio della corona.

Ma prima era necessario ad Enrico IV rafforzare la sua posizione in Germania e liberarsi di Ridolfo, al quale il Pontefice aveva mandato una corona con un'efficace iscrizione: "Petra dedit Petro, Petrus diadema Rodulpho". Inoltre in Germania la guerra si era riaccesa con maggiore violenza e la fortuna stava sorridendo alle armi dell'antirè, ma non sorrise fisicamente allo stesso RODOLFO. Il 15 ottobre del 1080, sull'Ester presso Merseburgo, i Sassoni, capitanati da OTTONE di Nordheim sconfiggevano in battaglia i Bavaresi di Enrico; ma Rodolfo dal fendente di un cavaliere ebbe troncato di netto il braccio destro, quello stesso braccio che aveva alzato quando aveva giurato fedeltà ad Enrico IV.

L'alfiere di quest'ultimo, GOFFREDO di BUGLIONE (il famoso personaggio che guiderà i Crociati alla conquista del Santo Sepolcro) finì l'antirè ficcandogli nel ventre la lancia dello stendardo imperiale. Il corpo di Rodolfo fu sepolto nella cattedrale di Merseburgo e lì, tutt'oggi, esiste il braccio mozzato, che secondo un'altra versione, era stato staccato dal busto per castigo di aver violata la fede giurata al sovrano.

La morte di Rodolfo se non disarmò i Sassoni arrecò un grave colpo alla reputazione del Pontefice il quale aveva predetto fine di Enrico ed anche questa volta si era sbagliato. La fine l'aveva avuta il suo sostenitore.
Già, prima della battaglia sull'Elster, Gregorio VII si era accorto della brutta piega che prendevano in Germania gli avvenimenti per il suo protetto e per non rimanere solo aveva pensato di rappacificarsi con ROBERTO il GUISCARDO.
Le trattative con il duca di Puglia erano state condotte dall'abate DESIDERIO di Montecassino e sulla fine del giugno del 1080 Roberto e il Pontefice, giunti l'uno a Benevento e l'altro a Salerno, si erano incontrati ad Aquino ed avevano stretto un patto d'alleanza. Il Guiscardo aveva giurato di difendere la Santa Sede contro qualunque nemico e di non recar molestia a Benevento ed alle altre terre della Chiesa. In cambio Gregorio lo aveva assolto dalla scomunica e, a Ceprano, gli aveva conferito l'investitura della Puglia, della Calabria e della Sicilia, consentendo che tenesse provvisoriamente Salerno, Amalfi e la parte invasa della marca di Fermo.
Quando Gregorio chiedeva questa alleanza al Guiscardo, il Normanno nella sua mente stava progettando ben altro.
Le mira delle sue brame era l'Oriente; sperava di mettere sul proprio capo la corona di Costantinopoli. Ci pensava da qualche tempo ma a fornirgli in anticipo l'occasione d'intervenire negli affari dell'impero d'Oriente fu una rivoluzione di palazzo che, cacciando dalla reggia l'imperatore MICHELE VII, il figlio COSTANTINO e la giovane sposa ELENA, che era poi la figlia di Roberto, aveva messo sul trono di Costantinopoli (1079) NICEFORO BOTONIATE.

Sollecitato dalla Dalmazia e spronato dal Pontefice, che da un trionfo dei Normanni in Oriente ci vedeva abbattuto lo scisma greco, arrestata la conquista musulmana e Roma al vertice della Chiesa universale, ROBERTO il Guiscardo mandò a Costantinopoli come ambasciatore un certo RAOUL, detto "Pelle di Lupo", per intimare a Niceforo Botoniate di restituire la corona a Michele VII.
L'usurpatore, com'era da prevedersi, oppose un rifiuto, e questo accese la miccia e fu decisa così la guerra.
Fatti i preparativi, Roberto navigò prima con una flotta all'isola di Corfù e se ne rese padrone, poi sbarcato di là nell'Epiro, pose l'assedio a Durazzo, con l'esercito assottigliato da epidemie e dalla carestia.

Invano il nuovo imperatore d'Oriente ALESSIO COMNENO, nel frattempo
succeduto a Botoniate con un altra nuova rivoluzione di palazzo, si unì in lega con Venezia, invano egli stesso marciò con un esercito contro l'invasore normanno. Il 18 ottobre del 1081, in una battaglia decisiva, nella quale prevalse la tattica di Roberto al numero molto maggiore del nemico. Si distinsero per coraggio la duchessa Sigelgaite, che con la lancia ricacciava verso il combattimento i Normanni che fuggivano, e per valore il giovane Boemondo - nato dalle prime nozze del Guiscardo. Gli imperiali alla fine del sanguinoso scontro furono sconfitti, lasciando sul terreno seimila morti.

ALESSIO, battuto, a stento riuscì a ritirarsi a Tessalonica con alcuni resti del suo esercito. Roberto, che nel ricco bottino aveva trovato una croce di bronzo fatta, secondo la tradizione, da Costantino il Grande, simile a quella che gli era apparsa in Cielo, riprese con maggior vigore l'assedio di Durazzo. La piazza era comandata dall'albanese COMISCORTE, la cittadella era difesa dai coloni veneziani e il porto dalla flotta mandata in soccorso da Venezia e da Costantinopoli.
Dopo parecchi mesi di assedio, il tradimento di un cavaliere veneziano fece cadere in potere dei Normanni la città. Si chiamava, costui, DOMENICO: essendo partite le navi, a causa dei rigori dell'inverno, consegnò a Roberto la più forte torre di Durazzo ottenendo la promessa che avrebbe avuto in sposa una nipote del Guiscardo. La notte del 14 febbraio del 1082 i Normanni penetrarono nella città e, dopo tre giorni di combattimento nelle vie, riuscirono a conquistare e a occupare Durazzo.
Reso baldanzoso dal successo, il Normanno lasciò al governo della città Fortino di Rossano e marciò con l'esercito alla volta della Macedonia. Già Castoria era stata espugnata e i vincitori marciavano contro Tessalonica quando gravi notizie dell'Italia costrinsero Roberto ad interrompere l'iniziata conquista e fare ritorno nella penisola, richiamato dal Pontefice, perché minacciato da Enrico IV che si era messo in marcia verso Roma; ma richiamato anche dal figlio Ruggero in difficoltà nell'Italia meridionale.

L'imperatore per liberarsi del Guiscardo in Oriente, aveva incitato alla ribellione la Puglia e la Calabria distribuendo oro e con l'aiuto di GIORDANO di Capua, il quale, temendo, o forse geloso dell'amicizia stretta tra il Pontefice e Roberto e forse impressionato dalla discesa di Enrico, si era alleato con questo dandogli in ostaggio il figlio.

Ascoltando più l'appello del figlio Ruggero che invano aveva cercato di domare la rivolta, che non quello di Gregorio, il Guiscardo affidò in Macedonia l'esercito a BOEMONDO e, caricato un esiguo corpo di milizie su due navi, a inizio aprile del 1082 fece vela per l'Italia. Sbarcato ad Otranto, marciò contro i ribelli; ma non fu un'impresa facile domarli, come non fu facile la successiva spedizione fatta con il fratello contro Giordano. Capua ed Aversa rimasero assediate circa una settimana dalle milizie dei due fratelli d'Altavilla, e nonostante percorsero il territorio, saccheggiandolo e distruggendo raccolti, e diversi scontri con i soldati di Giordano, ottennero poco. Anche perché Ruggero abbandonò il fratello e corse in Sicilia, dove il figlio - come altrove abbiamo detto- gli si era ribellato occupando due castelli. E Roberto tornò nelle Puglie a continuare le operazioni contro i ribelli incitati dai Bizantini.
Il Pontefice dovette aspettare parecchio tempo ancora e trovarsi con l'acqua alla gola prima che il Guiscardo movesse con un forte esercito di fanti e cavalli per andare a soccorrerlo.
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Nella prossima puntata, leggeremo la discesa in Italia e a Roma di Enrico IV
il "liberatore" Guiscardo con il suo terribile saccheggio di Roma;
la morte di Gregorio VII, del Guiscardo e di Ruggero
ed è il periodo dall'anno 1081 al 1101 > > >

(VEDI ANCHE I SINGOLI ANNI o nella TEMATICA)

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
LANZONE - Storia dei Comuni italiani dalle origini al 1313
GREGORIUVUS - Storia di Roma nel Medioevo - 1855
RINALDO PANETTA - I Saraceni in Italia, Ed. Mursia
L.A. MURATORI - Annali d'Italia,
VITORIO GLEIJESIS - La storia di Napoli, Soc. Edit Napoletana
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE  

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