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CRONOLOGIA

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( QUI TUTTI I RIASSUNTI )  RIASSUNTO ANNI dal 1045 al 1056 

ARABI: ULTIME BATTAGLIE - ENRICO III - PRIME CONQUISTE NORMANNE

L'EMIRATO DI SICILIA DA GIÀBER AD AKHAL - PREPARATIVI DELL' IMPERATORE BASILIO CONTRO I MUSULMANI - SUCCESSO DI AKHAL SUI BIZANTINI - LA GUERRA CIVILE IN SICILIA - ABDALLAH - LA SPEDIZIONE BIZANTINA IN SICILIA - I FRATELLI D'ALTAVILLA - RESA DI MESSINA, BATTAGLIA DI RAMETTA ED ASSEDIO DI SIRACUSA - BATTAGLIA DI TRAINA - MANIACE, STEFANO ED ARDUINO - RISCOSSA DEI MUSULMANI DI SICILIA - ARDUINO E I NORMANNI CONTRO I BIZANTINI - BATTAGLIE DELL' OLIVENTO, DI MONTEMAGGIORE E DI MONTEPELOSO - ARGIRO - RIVOLTA E FINE DI MANIACE - GUGLIELMO BRACCIO DI FERRO CONTE DI PUGLIA - DROGONE - BENEDETTO IX, SILVESTRO II, GREGORIO VI E CLEMENTE II - ENRICO III IN ITALIA - SUA SPEDIZIONE NEL MEZZOGIORNO DELLA PENISOLA E SUO RITORNO IN GERMANIA - DAMASO II E LEONE IX - SUA POLITICA - LA SIGNORIA PAPALE DI BENEVENTO - LEONE IX E I NORMANNI - BATTAGLIA DI CIVITATE - MORTE DI LEONE IX - RICCARDO D'AVERSA E ROBERTO IL GUISCARDO - VITTORE II - SECONDA SPEDIZIONE DI ENRICO III IN ITALIA - BEATRICE DI TOSCANA E GOFFREDO DI LORENA - MORTE DI ENRICO III
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L'EMIRATO DI SICILIA DA GIABER A AKHAL

Abbiamo visto - nelle precedenti puntate riguardanti il Sud Italia- che, morto alla battaglia di Stilo in Calabria ABU'L-KÀSIM, prese il comando dell'esercito musulmano il figlio GIÀBER, il quale, invece di sfruttare la vittoria, se ne tornò con i suoi a Palermo. Giàber, confermato emiro sia dai Siciliani sia dal califfo AZIZ-BILLAH (successo a Moezz nel 975), rimase nell'isola fino al 983, fino a quando fu sostituito dal cugino GIA'FAR IBN-MOHAMMED, principe liberale ed amante degli studi, che governò la Sicilia fino al 985.
Morto Gia'far gli successe il fratello ABDALLAH il quale cessò di vivere nel dicembre del 989, lasciando l'emirato al figlio ABÚ'1-FOTUF JUSUF.
Lodato per la sua saggezza, bontà, magnanimità, giustizia e cultura, Júsuf, dopo otto anni di governo, durante il quale la Sicilia prosperò moltissimo, ammalatosi gravemente, diede l'emirato al figlio GIA'FAR, che dal califfo HÀKEM-BIAMR-ALLAH (successo al padre Aziz nell'ottobre del 996) ricevette le insegne del comando e i titoli di Corona dell'impero (Tàg ed-daula) e la Spada della fede ("Seif-el-milia").

Contro questo principe indolente, avaro e crudele, congiurò insieme con i Berberi e gli schiavi negri il fratello ALI che alla fine del gennaio del 1015, ribellatosi apertamente, si rifugia con i suoi uomini in una località presso Palermo. Il ribelle però non ebbe fortuna: attaccato dalle milizie del fratello qualche giorno dopo, fu sconfitto, fatto prigioniero e messo a morte con tutti gli schiavi insorti; i Berberi, scacciati dall'isola con le loro famiglie, si trasferirono in Africa.
La vittoria riportata sul fratello e l'espulsione dei Berberi che veniva ad assottigliare le sue milizie non rafforzarono la posizione di Gia'far.
Malvisto della popolazione per il suo carattere violento, per la sua crudeltà e per la prepotenza e l'ingiustizia dei suoi consiglieri, il visir HASAN DI BÀGHÀIA e il ciambellano ABÙ-RAFI', provocò con un'esosa tassa l'indignazione della nobiltà e della plebe di Palermo, che il 13 maggio del 1019, prese in mano le armi, assalì il palazzo dell'emiro e se ne sarebbe impadronito e ne avrebbe fatto scempio se il vecchio padre paralitico non avesse implorato ed ottenuto pietà.
Gia'far ebbe salva la vita, ma fu deposto e costretto ad andarsene in Africa: al suo posto fu innalzato il fratello AKHAL.

Il nuovo emiro ricevette dal califfo HÀKEM il titolo di "Sostegno dell'impero" ("Teaîd ed-daula"), fece ritornare la tranquillità nel paese e si rivelò subito molto amante della guerra, mandando alcuni reparti nella penisola, e conducendovi egli stesso milizie in difesa dei ribelli di Puglia.
L'attività guerresca di Akhal fu, senza dubbio, uno dei motivi che spinsero l'imperatore bizantino BASILIO a preparare una spedizione, destinata a ricacciare dalla penisola e dalla Sicilia i Musulmani.
Abbiamo fatto cenno altrove del disegno di Basilio. Egli cominciò col mandare nella penisola l'eunuco ORESTE con numerose milizie, che scacciarono i Saraceni dalle località che avevano occupate in Calabria, e si preparava a spedire a Reggio altre truppe, destinate a sbarcare nella Sicilia, quando, colto dall'infermità che di lì a poco (dicembre del 1025) doveva, condurlo alla tomba, dovette lasciare a mezzo l'impresa.

Allarmato dai preparativi bizantini, Akhal chiese aiuti dall'Africa e dallo zirita MÓEZZ IBN-BÀDIS gli fu inviata una flotta di quattrocento navigli carichi di soldati armati. Ma le navi fecero naufragio nelle acque di Pantelleria e andarono quasi tutte in fondo al mare con il loro carico umano.
" Più efficaci ausiliari - scrive l'Amari - furono ad Akhal la balordaggine di COSTANTINO VIII rimasto solo sul trono a Costantinopoli; una terribile dissenteria che si prese in Calabria l'esercito; e la pessima esperienza di Oreste nel gestire la guerra".
I Saraceni, lo assalirono improvvisamente, gli inflissero una sanguinosa sconfitta e pure alcuni anni dopo, nel giugno e nel luglio del 1031, occuparono Cassano e dispersero un esercito bizantino comandato dal catapano POTHO.
Imbaldanzito da questi successi, Akhal volle tentare imprese più grandi. Ma la nobiltà guerriera musulmana era scemata di numero e infiacchita; e per reclutare milizie mercenarie occorreva molto denaro. Akhal pensò di procurarsene obbligando la popolazione siciliana a pagare il "kharág", cioè la doppia decima invece del dazio fisso e con questo esoso provvedimento provocò la guerra civile.

"Primi a brandire le armi - scrive l'Amari - furono i Siciliani; dei quali pare abbiano fatto capo un ABU-HAFS, fratello di Akhal, impaziente di portargli via il regno, come aveva tentato di fare l'altro fratello Ali, contro Gia'far e lo stesso Akhal.
Primo a chiedere aiuti stranieri sembra sia stato l'emiro; ma contemporaneamente fece pure una richiesta di pace nel maggio 1035. Inviato sull'isola Giorgio Provata che abilmente condusse le trattative, i Bizantini registrarono che tornò a Costantinopoli con in ostaggio il figlio dell'emiro: e verso la fine d'agosto la pace era firmata".

AKHAL accettò dall'impero il titolo di "maestro" ed essendo incalzato da ABÚ.-HAFS chiese aiuti all'imperatore; i Siciliani a loro volta nell'autunno del 1035 chiesero aiuti a MOEZZ-IBN-BÀDÎS, offrendogli l'isola. Moezz inviò il proprio figlio con tremila cavalli ed altrettanti fanti.
Infuriava da circa due anni la guerra in Sicilia quando, nel 1037, il bizantino LEONE OPO, successo ad Oreste nel comando dell'esercito d'Italia, sollecitato da Akhal, passò lo stretto di Messina. L'aiuto dei Bizantini diede ad Akhal la forza del sopravvento, ma questo fu di breve durata, perché Leone Opo, dopo avere sconfitto il figlio di Moezz, temendo di essere tradito dall'emiro, ritornò in Calabria, lasciando l'alleato in condizioni disperate.
Allora Akhal si chiuse a Palermo nella fortezza della Khàlesa, dove poi fu assediato e proditoriamente ucciso (1038), e la sua testa fu mandata ad Abdallah, figlio di Moezz.

Tolto di mezzo Akhal, ABDALLAH rimase padrone incontrastato della Sicilia, e posate le armi, rivolse la sua attività a dare l'assetto all'isola, sconvolta dalla guerra. Non fece in tempo. Un esercito bizantino passava lo stretto e un'altra guerra, che doveva metter in serio pericolo la dominazione musulmana in Sicilia, s'iniziava, costringendo Abdallah a riprendere le armi per la difesa dell'isola.

LA SPEDIZIONE DI MANIACE IN SICILIA

La spedizione bizantina che doveva riconquistare la Sicilia all'impero era capitanata da STEFANO, fratello dell'imperatore MICHELE PAFLAGONE, che comandava la flotta e da MANIACE che aveva il comando dell'esercito terrestre. Della spedizione facevano parte non pochi Lombardi, esuli a cagione delle guerre di Milano, comandati da un valvassore di nome ARDUINO e una compagnia di circa cinquecento Normanni, fra i quali figuravano tre valorosi guerrieri appartenenti alla famiglia di Altavilla.

I NORMANNI CONTRO I BIZANTINI

Erano, questi Altavilla, figli di un prode cavaliere della Normandia, TANCREDI, il quale, dopo aver combattuto nelle guerre del duca Roberto il Magnifico, si era ritirato nel suo castello a passarvi la vecchiaia.
Dalla prima moglie Moriella aveva avuto cinque figli: GUGLIELMO, detto "Braccio di Ferro", DROGONE, UMFREDO, GOFFREDO e SERLONE; da Trasenda, seconda moglie, dieci di figli, sette maschi e tre femmine: ROBERTO, MALGERO, GUGLIELMO, ALFREDO, UMBERTO, TANCREDI, RUGGERO, FREDESINDA, EMMA ed ALVERADA.

Costretti dalla scarsezza del patrimonio paterno, insufficiente a così numerosa famiglia (15 figli), i primi tre figli di Tancredi avevano lasciato la loro patria in cerca di fortuna e, giunti nell'Italia meridionale ove tanti altri Normanni avevano saputo guadagnarsi beni e onori, erano entrati al servizio del principe di Capua, poi con RAINOLFO DRENGOT erano passati alla corte di GUAIMARO IV di Salerno, il quale, forse per liberarsene, essendo diventati troppo molesti, li aveva con promesse di ricchi premi spinti ad unirsi alla spedizione del bizantino GIORGIO MANIACE.
Questi e il patrizio MICHELE DOCEANO (successo a Leone Opo), raccolto l'esercito a Reggio, passarono lo stretto verso la fine del 1038.
Narrano le cronache che l'esercito bizantino, avvicinandosi a Messina, fu impetuosamente assalito dalle schiere musulmane uscite dalla città e, sebbene in numero maggiore, stava per cedere quando GUGLIELMO D'ALTAVILLA "Braccio di ferro", arringati i suoi Normanni con parole ardenti di gloria e onori, fece suonar la carica e alla testa degli stessi si lanciò contro i Saraceni, ne ruppe le file, li assalì a destra poi a sinistra, li mise in fuga e non contento li inseguì fin sotto le mura di Messina e che mise in assedio
La città poco tempo dopo si arrese; ma la caduta di questa città non rappresentava un grande successo per i Bizantini, dominata com'era da Rametta dov'era radunato il grosso delle forze musulmane. Contro questa fortezza allora si rivolse Maniace, che in una sanguinosa battaglia sconfisse i Musulmani, cinquantamila dei quali, secondo i cronisti, che evidentemente esagerarono le cifre, rimasero uccisi.
Della guerra di Sicilia, che durò circa due anni, non si hanno molte notizie; si sa però che, nonostante la disfatta subita a Rametta, i Saraceni si difesero strenuamente nelle altre città e nei castelli, di cui soltanto una dozzina caddero in mano dei Bizantini.

Tra le città che opposero maggiore resistenza si annovera Siracusa. Si narra che, al comparire dell'esercito bizantino, un guerriero musulmano andò incontro al nemico con sprezzo del pericolo compiendo lungo il suo percorso una strage. Aveva già ucciso numerosi soldati di Maniace quando Guglielmo Braccio di Ferro, anche lui audacemente andandogli incontro, l'ebbe vinta lui quando con una lancia lo passò da parte a parte, e mise in fuga tutti gli altri Saraceni che corsero a chiudersi dentro le mura.

Così cominciò l'assedio di Siracusa, la cui tenace resistenza non solo impedì che i Bizantini avanzassero oltre la parte orientale dell'isola, ma diede tempo all'emiro ABDALLAH di raccogliere altri uomini armati e in più con i rinforzi giuntigli dall'Africa mise insieme un esercito di circa sessantamila uomini e con questi iniziò a minacciare gli assedianti dal suo campo posto a Troina.

Minacciato alle spalle ed avendo di fronte le salde fortificazioni di Siracusa, GIORGIO MANIACO fu costretto a togliere l'assedio. Accampatosi a quindici miglia da Troina e diviso l'esercito in tre flotte, una di queste diede con impeto l'assalto ai Musulmani, i quali, sia per il vento che batteva loro in faccia sia per l'audacia del contingente formato soprattutto da normanni, furono sbaragliati e decimati (estate del 1040).
ABDALLAH con pochi dei suoi uomini riuscì a stento a trovare scampo nella fuga. MANIACO, lieto della vittoria riportata da quella schiera con dentro i normanni tornò ad assediare Siracusa; ma questa non diede i risultati che lui si attendeva, e la causa furono le discordie nate nello stesso campo bizantino, che provocarono a Maniaco l'inimicizia di Stefano e la defezione dei Lombardi e dei Normanni dal suo esercito.
STEFANO, da quell'inetto che era, non aveva saputo impedire con la sua flotta che Abdallah ritornasse per mare a Palermo e aveva ricevuto aspri rimproveri da Maniaco, il quale, accecato dall'ira, aveva colpito con un bastone chi aveva per poltroneria lasciato sfuggirsi una così bella preda.
E Stefano, pieno d'ira e di rancore, senza perder tempo, aveva scritto al fratello imperatore una lettera infamante, descrivendo Maniaco come uomo violento, e che era capace di tentare di sbalzarlo dal trono.

Anche ARDUINO si era lagnato che alla sua compagnia non fosse stata data la giusta parte del bottino di Troina e MANIACO per tutta risposta lo aveva fatto denudare e frustare con cinghie di cuoio.
I Lombardi avrebbero voluto prendere le armi e vendicare l'affronto fatto al loro capitano, ma questi li aveva trattenuti e, fingendosi rassegnato, aveva ottenuto licenza di tornarsene solo nella penisola. Ottenuto il permesso scritto da un segretario di Maniaco, con tutta la sua gente a spron battuto si era recato a Messina e passato lo Stretto, se n'era tornato in Campania aspettando un'occasione propizia per vendicarsi.
Intanto cadeva Siracusa e Maniaco si dava a rafforzar le mura delle città conquistate e a porre presidi nelle fortezze per assicurare il dominio delle terre liberate prima di intraprendere la conquista del resto dell'isola.
E già si preparava alle nuove operazioni quando, per ordine della corte bizantina, fu arrestato, messo ai ceppi e mandato a Costantinopoli fu gettato in fondo ad una prigione.
La partenza di Arduino e l'arresto di Maniaco produssero gravissime conseguenze per i Bizantini in Sicilia e nell'Italia meridionale. Nell'isola i Musulmani tornarono all'offensiva, togliendo in breve tempo ai Bizantini tutte le città da dove erano stati cacciati, tranne Messina che fu riconquistata, pare, solo verso la fine del 1043. Mentre nella penisola l'esule ARDUINO che covava vendetta, anche se non c'era più il suo carnefice, messosi d'accordo con GUAIMARO IV di Salerno e con PANDOLFO III di Benevento, radunò i suoi Lombardi ed alcune centinaia di Normanni e si preparò a sostenere la rivolta che era già scoppiata in Puglia, specialmente a Bari che fin dal 1038 era caduta in potere di ARGIRO, figlio di Melo.

I torbidi della Puglia costrinsero il catapano MICHELE DOCEANO a lasciare nella Sicilia una piccola parte dell'esercito e a trasferirsi con il grosso delle sue milizie nell'Italia meridionale per domarvi la rivolta.
La sua non fu impresa difficile: Ascoli fu presa d'assalto e nel novembre del 1040 Bari aprì le porte. Doceano, dopo questi modesti successi, s'illuse che la ribellione era stata domata; e invece il fuoco covava sotto la cenere, tenuto vivo dalle segrete manovre insidiose di Arduino e dei Normanni. Sul finire dell'inverno del 1041 Arduino ruppe gli indugi e invase la Puglia. Erano con lui trecento Normanni, capitanati dai tre fratelli d'Altavilla, GUGLIELMO, DROGONE ed UMFREDO, ai quali il valvassore lombardo si era impegnato di dare dopo l'impresa, metà della terra conquistata.
Nei primi di marzo del 1042, Arduino ebbe per tradimento, senza colpo ferire, la città di Melfi e, messa in questa città la base delle sue operazioni, iniziò scorrerie su Venosa, Ascoli e Lavello, felicemente riuscite per il favore accordato dalle popolazioni pugliesi.

Contro Arduino e i Normanni andò il capitano Michele Doceano, che mise il suo campo operazioni presso Melfi, in vicinanza del fiume Olivento, affluente dell'Ofanto, e il 17 marzo si venne a battaglia, nella quale le armi bizantine furono interamente sconfitte: il catapano con pochi dei suoi, a stento riuscì a scampare al "macello" rifugiandosi sui vicini monti.

Il 4 maggio dello stesso anno 1042 i Bizantini subirono una seconda disfatta a Montemaggiore, presso l'Ofanto. In questa battaglia l'esercito era capitanato da ATENOLFO, figlio di Pandolfo III di Benevento, che aveva il comando di tutte le forze, comprese quelle Lombarde, le Pugliesi e le Normanne. Non sappiamo per quale motivo ad Atenolfo fu dato il comando supremo; ma crediamo di non andar troppo lontano dal vero credendo che, di fronte al grosso numero di Bizantini, i Normanni, i Lombardi e i Pugliesi abbiano chiesto l'alleanza del principe beneventano e poiché lui forniva il maggior contingente di milizie a lui abbiano dato il comando dell'esercito. Anche questa volta MICHELE DOCEANO si salvò con la fuga, riparando a Bari con il proposito di ritornare non appena ricevuti rinforzi da Costantinpoli.

Dopo la battaglia di Montemaggiore, nelle cronache, non viene più citato una sola volta Arduino, la cui fine è avvolta nelle tenebre. Fu detto che, dopo la conquista, egli ebbe metà delle terre prese ai Bizantini ma questa notizia contrasta con l'oscurità stessa che ricopre il resto della vita di Arduino, non essendo, difatti, credibile che il signore di tante terre non abbia lasciato in seguito memoria di sé.
I rinforzi che DOCEANO aspettava giunsero, ma con quelli giunse anche la sua destituzione dell'inetto catapano che fu sostituito, per ordine dell'imperatore, da EXAUGUSTO, figlio di Basilio Bojannes, il vincitore di Melo. Il nome del nuovo catapano era di buon augurio, ma il figlio non ebbe la fortuna del padre. Egli occupò le gole di Mantepeloso, sperando con degli agguati di sorprendere i nemici; ma questi non si lasciarono trarre nelle
insidie e costrinsero il catapano a battersi in campo aperto.

La battaglia volgeva favorevole ai Bizantini quando - secondo alcuni - GUGLIELMO D'ALTAVILLA, essendo infermo e rimasto nella sua tenda, da sopra un'altura, visti ripiegare i suoi, pur malato si lanciò furiosamente nella mischia e trascinò con il suo gesto i Normanni alla vittoria.
Ma altri - come scrive un egregio storico moderno, il De Blosiis - concede il vanto della vittoria a GUALTIERO, figlio d'Amico.
Tornati i Normanni con ancor più audacia all'assalto, le mercenarie schiere bizantine non riuscirono a sostenere il tremendo urto Per sottrarsi dalla morte alcuni cercarono di nascondersi nelle selve, altri fuggirono da ogni parte e, quasi tutti periti i Macedoni e moltissimi gli indigeni, i miserabili avanzi si dispersero, inseguiti per dei lunghi tratti.
Exaugusto perso il contatto dei suoi uomini, premuto alle spalle dalle lance nemiche, per non farsi uccidere si mise tremante a gridare, ma inutilmente perché lui favellava in greco e i normanni in tedesco, che lui era il catapano che voleva arrendersi, voleva esser fatto prigioniero, fin quando qualcuno capì le sue intenzioni e così salvò la vita.
I Normanni tornarono trionfanti a Melfi con le insegne nemiche ed il catapano che, consegnato ad Atenolfo fu poi condotto a Benevento.

Qui però Exaugusto non rimase a lungo; temendo le vendette della corte bizantina ma anche la crescente potenza normanna, volendo ingraziarsi Costantinopoli, il principe beneventano restituì al nemico il prigioniero; ma questo fatto fece rompere i buoni rapporti che correvano tra Atenolfo e i Normanni.
I quali intanto scorrazzavano nei territori nemici, approfittando dell'inattività dei Bizantini che, scoraggiati dalle patite sconfitte e lasciati soli dal nuovo imperatore MICHELE V CALAFATO, nel frattempo successo nel 1041 a Michele Paflagone, se ne stavano chiusi nelle fortezze pensando solo a salvare la pelle.
Dopo la rottura delle relazioni con Atenolfo, i Normanni si scelsero un nuovo capo. Fu, questi, ARGINO, figlio di Melo, caro alle popolazioni pugliesi; e fu proprio per l'ascendente che aveva sui Pugliesi che i Normanni lo fecero loro capo, perché non sarebbe stato loro possibile riuscire vittoriosi in una guerra qualora non avessero avuto anche il favore e l'appoggio delle popolazioni locali.
Cosicché nelle operazioni che seguirono, i Normanni non incontrarono quasi nessuna difficoltà. Avanzando nella Puglia, il 2 febbraio del 1042 entrarono a Bari e, insieme con i cittadini insorti, acclamarono Argino "duca della Puglia".

Ma la scelta non corrispose alle loro speranze e i Normanni presto dovettero convincersi quanto era pericoloso eleggere un capo che per loro era uno straniero, anche se era ben accetto in ambito locale.
Mentre Costantinopoli, non potendo vincere in Italia con le armi, adoperò altri mezzi: l'imperatore COSTANTINO NICOMACO, successo a Michele V (che era stato deposto ed accecato), offrì ad Argiro il grado di patrizio e di catapano che il figlio di Melo accettò. Così Bari e le altre località che erano insorte contro i Bizantini, si ritrovarono con Argiro di nuovo sotto il dominio bizantino. Insomma una beffa.

Altre vicende intanto accadevano nell'Italia meridionale per opera di un uomo prode ad ambizioso che da poco vi era comparso. Era, questi, GIORGIO MANIACE, vittima della propria violenza e dell'odio di Stefano. A lui l'imperatore aveva affidato l'incarico, con il grado di maestro delle milizie, di rioccupare in Italia i territori perduti. Maniace, invece, a Taranto si dichiarò ribelle agli ordini di Costantinopoli e più tardi, ad Otranto, addirittura vestì la porpora imperiale. Sperava di trarre dalla sua parte i Pugliesi e nell'ottobre del 1042 si recò a Bari per guadagnarsi il favore dei cittadini; ma Bari non cedette alle lusinghe del ribelle che, minacciato da Argiro, corse ad Otranto e vi si fortificò. L'anno seguente, assediato da Argino, Maniace, persa la speranza di poter resistere a lungo, fuggì con pochi seguaci attraverso il blocco delle navi nemiche e riparò in Bulgaria, dove poco dopo morì delle ferite che aveva ricevute in combattimento.

Poco prima che Maniace si presentasse a Bari, nel settembre cioè del 1042, i Normanni, a Matera, proclamavano loro capo, con il titolo di conte di Puglia, GUGLIELMO "Braccio di ferro", che nel 1043 da GUAIMARO di Salerno e RAINOLFO di Aversa, ne riceveva l'investitura. Il territorio conquistato fu allora diviso fra dodici capi normanni.
Non sappiamo con precisione quali terre a ciascuno di loro siano toccate (è certo però che a "Braccio di ferro" fu data la contea di Ascoli e a Gualtiero d'Amico quella di Civita) né quali territori comprendevano le conquiste normanne. Si crede - scrive il Dina - che "oltre i due punti adriatici di Trani e Monopoli, il territorio diviso tra i conti normanni procedesse su una lunga linea, che iniziava dal Gargano e da Siponto, per la Capitanata e, per Ascoli e Melfi, salendo il bacino dell'Ofanto, e che scendesse lungo quelli del Bradano e dell'Agri verso lo Jonio".

Da qualche tempo tacevano le armi quando, al principio del 1046, cessò di vivere GUGLIELMO "Braccio di ferro"; non lasciava eredi, ed alla contea di Puglia aspiravano il fratello DROGONE e il ricco e potente PIETRO, signore di Trani. Sorta una contesa fra i due, prevalse Drogone, sostenuto da Guaimaro di Salerno.
Con DROGONE i Normanni estesero le loro conquiste a Nord, in direzione del territorio beneventano, e s'impadronirono di Bovino; poi Drogone passò presso Guaimaro di Salerno e lo sostenne nelle lotte contro Pandolfo IV di Capua. Guaimaro per i servigi resi, diede al conte normanno la mano della propria figlia, e voleva con questo matrimonio legare maggiormente a sé i Normanni per essere assecondato nelle sue mire ambiziose; dal momento che, da una parte voleva sottrarsi alla dipendenza tedesca, dall'altra guardava con occhio ingordo ai ridotti temi bizantini rimasti nella penisola con poche forze a difenderli.
L'Imperatore Enrico III però doveva distruggere i disegni politici dell'ambizioso principe e farne decrescere la potenza. Ma l'Italia meridionale tolta ai Bizantini, non da Enrico, ma dai Normanni, doveva essere unificata e andò sotto un solo scettro: quello normanno.
(le prime fasi di queste conquiste le riprenderemo più avanti in queste pagine, poi dedicheremo un intero capitolo alle conquiste normanne dopo il "periodo teocratico")

IL PAPATO DA BENEDETTO IX A LEONE IX

BENEDETTO IX (il papa ragazzino salito al soglio a 12 anni) era stato - come abbiamo narrato - rimesso nel 1038 sul trono pontificio dalle milizie di Corrado II.
Tornato a Roma, aveva ricominciato a condurre la vita di prima, vita di scostumatezze e violenze che non poteva non provocare la reazione della cittadinanza. L'ira del popolo romano, da sei anni contenuta, scoppiò il 7 gennaio del 1044: Benedetto IX, scacciato per la seconda volta, trovò riparo e protezione nella città Leonina, mentre in sua vece fu innalzato al seggio papale, col nome di papa SILVESTRO III, il vescovo della Sabina, che abilmente era riuscito con l'oro a comprare il favore anche dei sediziosi.

Ma il papato di Silvestro non durò che quarantanove giorni. Benedetto IX, sostenuto dagli abitanti di Trastevere e dai baroni della Campagna, prima resistette validamente nella città Leonina contro la furia del popolo, poi riuscì in qualche modo (forse col metodo di Silvestro) a tornare sul seggio.
Sapendosi odiato dai Romani e temendo una nuova e più pericolosa insurrezione, sordo ai consigli dell'abate BARTOLOMMEO di Grottaferrata che lo esortava ad abdicare, il Pontefice che ora aveva poco più di vent'anni, si coprì di vergogna facendo mercato della tiara. Fino allora la simonia si era usata per procacciarsi vescovadi ed abbazie; ora si cominciò ad usare per acquistare il soglio di S. Pietro.
Il l° maggio del 1045 Benedetto IX vendette la tiara per mille libbre d'argento a GIOVANNI GRAZIANO, arciprete di S. Giovanni a Porta Latina, e si ritirò in un suo avito castello della campagna romana.
Era stato così turpe il pontificato di Benedetto che lo scandaloso mercato, anziché sdegno, sia nel popolo che nel clero, ne gioì, se non c'era quello non se ne sarebbero liberati; PIER DAMIANI, monaco per dottrina e per virtù, al nuovo Papa, che aveva assunto il nome di GREGORIO VI, scrisse che con lui finalmente era tornata all'arca santa la colomba recante il ramo d'olivo.

GREGORIO VI era uomo ambizioso senza dubbio, ma energico e risoluto a voler riformare la chiesa, liberandola dagli abusi. E sarebbe riuscito ad attuare il suo proposito se non gli fossero mancati i mezzi. Diede pure prova di possedere finissimo intuito scegliendosi dei collaboratori capaci, e fra questi va ricordato ILDEBRANDO di SOANA, un umile giovane di 25 anni, ma audace frate che fu nominato cappellano del Pontefice e doveva acquistarsi ben presto grandissima fama; in assoluto uno dei più grandi personaggi della Chiesa.
Ma i collaboratori non erano sufficienti per un'opera così difficile qual'era quella che Gregorio VI aveva in animo di compiere. Occorrevano quindi mezzi pecuniari e, invece, i beni della Chiesa erano in mano ai Tusculani.
Si aggiunga che Silvestro III pretendeva di esser lui il Pontefice legittimo e che il giovanissimo Benedetto IX, pentitosi di aver lasciato il soglio papale e spronato dagli avversari della riforma ecclesiastica, era tornato a Roma, che a quel punto si trovò ad avere tre Pontefici che accanitamente si contendevano la dignità papale.

Stando così le cose, alla parte migliore della cittadinanza romana sembrò che un solo uomo potesse e dovesse porre fine ad una situazione tanto anormale: ENRICO III, re di Germania e d'Italia, cui spettava la corona imperiale.
Enrico III, invitato da un concilio, nell'autunno del 1046 scese in Italia, accolto festosamente. Lo seguivano un numeroso esercito, la moglie e molti vescovi. Questi ultimi, quando il sovrano giunse a Pavia, si riunirono in concilio con i vescovi italiani ed Enrico, che vi partecipò, si dichiarò favorevole alle riforme ecclesiastiche, ebbe aspre parole per la simonia, disse che i vescovi che conducevano l'ignobile mercato avrebbero dovuto astenersi dalle funzioni spirituali e, per dare l'esempio, promise che per l'avvenire non avrebbe più chiesto alcuna prestazioni pecuniaria in cambio del conferimento di cariche ecclesiastiche.
Il concilio si chiuse con l'emanazione di un editto che proibiva la simonia, pena, l'anatema e la destituzione.
Dopo il concilio pavese ENRICO III si mise in viaggio per Roma. Già a Piacenza gli andò incontro GREGORIO VI, che sperava di guadagnarsi il favore del re, e lo accompagnò fino a Sutri, dove il 20 dicembre del 1046 il re tedesco convocò un nuovo concilio, citando a comparire i tre pontefici.
Si presentarono soltanto GREGORIO VI e SILVESTRO III. Quest'ultimo, accusato di simonia palese (per aver posto in vendita la tiara), fu deposto e condannato a far penitenza in un chiostro.
Gregorio VI, avendo confessato di aver non venduta ma comprata la tiara, depose le insegne papali e, accompagnato dal fedele giovane ILDEBRANDO, fu condotto prigioniero in Germania, dove rimase fino alla morte.
Lasciata Sutri, il 22 dicembre ENRICO III fece il suo ingresso a Roma e il giorno dopo radunò nella chiesa di S. Pietro un terzo concilio che a carico di BENEDETTO IX pronunziò la sentenza di deposizione. Tre Pontefici nel breve spazio di quattro giorni furono così destituiti. Bisognava dunque procedere all'elezione del nuova Papa.

ENRICO avrebbe volentieri visto a capo della Chiesa Adalberto, arcivescovo dì Amburgo, prelato di elevati sentimenti e di altissimo merito; questi però, interpellato, declinò l'offerta ed indicò SUGERO, vescovo di Bamberga, che il 24 dicembre fu eletto pontefice e il giorno di Natale, dopo essere stato consacrato col nome di CLEMENTE II, impose sul capo di Enrico e della moglie Agnese la corona imperiale.
È degno d'esser notato che l'elezione di Clemente avvenne per designazione del sovrano, ma anche dietro richiesta del popolo di Roma.
Osserva a questo proposito il Prutz: "Quanto fosse profonda l'impressione prodotta dagli ultimi avvenimenti sull'anima dei Romani laici ed ecclesiastici, quanto forte la convinzione della Chiesa di essere stata del tutto incapace di rialzarsi per forza propria dal suo avvilimento, lo si vide appunto dalla risoluzione comune di conferire ad Enrico III, come patrizio, il principato sull'elezione del papa, cioè non solo il voto più importante, ma anche il più decisivo; e questo equivaleva per Enrico al diritto di nominare il papa, mentre il concorso del clero e del popolo di Roma era ridotto al semplice riconoscimento della persona designata come papa.
Il fatto che il diritto di disporre della S. Sede, diritto posseduto per tanti anni dagli Ottoni, era ora collegato con il patriziato, significava che quel diritto non era soltanto conferito personalmente ad Enrico III, ma che doveva essere pure un diritto ereditario, il quale insieme con il patriziato sarebbe passato al suo successore".

L'elezione di CLEMENTE II rappresentava il trionfo del partito fautore delle riforme e nel medesimo tempo segnava l'inizio di una politica che tendeva a sostituire nelle sedi d'Italia i vescovi indegni con prelati di nazionalità tedesca. Infatti, mentre Enrico III era occupato in una lotta senza quartiere contro i Tusculani, i quali si erano rifugiati nei loro castelli della campagna romana, Clemente II convocava a Roma un concilio che, riunitosi nei primi giorni dell'anno 1047, stabiliva pene severissime contro i simoniaci. Conseguenze di questo concilio fu che non pochi prelati, accusati di simonia, furono sostituiti con vescovi tedeschi, fra i quali troviamo UMFREDO, cappellano dell'imperatore, che fu poi destinato all'importante sede di Ravenna.

Nel febbraio del 1047, debellati i Tusculani, ENRICO III mosse verso l'Italia meridionale. Fu prima a Montecassino, di cui era abate Richerio, devoto alla dinastia salica, poi a Capua, dove tenne una dieta nella quale mostrò chiaramente che la sua politica nel mezzogiorno aveva lo scopo di ricomporre l'equilibrio turbato dalla cresciuta potenza di Guaimaro di Salerno. L'imperatore, infatti, lo obbligò a restituire il principato di Capua a Pandolfo IV e sottrasse dalla dipendenza di Guaimaro, investendoli direttamente delle rispettive contee di Melfi e di Aversa, i due normanni DROGONE e RODOLFO, il quale ultimo era successo a Rainolfo nel giugno del 1045.

Nello stesso mese di febbraio, in compagnia del Pontefice, Enrico III mosse su Benevento. I beneventani si erano resi colpevoli di una gravissima ingiuria fatta ad Agnese d'Angiò, suocera dell'imperatore, quando essa, reduce da un pellegrinaggio al santuario di S. Michele sul Gargano, era passata per la loro città, ed Enrico voleva punirli per questo fatto.
Benevento chiuse le porte in faccia all'imperatore che, con quest'altro affronto, prima devastò e incendio i sobborghi, poi la mise sotto assedio.
Ma attorno alle mura della città Enrico III rimase ben poco: alcune insurrezioni scoppiate nella Lorena guidate dal duca Goffredo e altre agitazioni sorte in Polonia, in Borgogna e in Sassonia lo costrinsero a levare il campo. Prima di partire fece scomunicare dal Papa la contea di Benevento e ne assegnò il territorio ai Normanni; poi con il Pontefice, fece ritorno a Roma e, portandoselo dietro, attraverso la Toscana e la Val d'Adige fece ritorno in Germania.
CLEMENTE II non rimase di là dalle Alpi che pochi mesi: all'inizio dell'ottobre dello stesso anno 1047, era già di ritorno in Italia e si trovava nel monastero di S. Tommaso, presso Pesaro, quando morì improvvisamente il 9 ottobre.
La sua morte fu attribuita a veleno propinatogli da Benedetto IX, il quale, aiutato dal marchese Bonifacio di Toscana, rioccupò il trono pontificio, mentre i Romani si rivolgevano all'imperatore per designare un nuovo Papa.
Enrico III scelse il bavarese POPPONE, vescovo di Bressanone, e fingendo d'ignorare che Bonifacio aveva preso parte alla restaurazione di Benedetto, gli ordinò di accompagnare a Roma il nuovo Pontefice e di scacciare l'usurpatore. Il marchese di Toscana, non stimandosi tanto forte da sfidar la collera dell'imperatore, obbedì, e Poppone, il 17 luglio del 1048, salì al trono papale col nome di DAMASO II.

Benedetto IX tornò a ritirarsi nel suo castello di Tuscolo e da questo momento non si ha più notizia di lui. Il nuovo Pontefice, forse non sentendosi sicuro a Roma, pochi giorni dopo la sua assunzione se ne andò a Preneste, terra de Crescenzi, e qui, il ventitreesimo giorno dalla sua ordinazione, cessò di vivere. La sua morte come quella del suo predecessore rimase avvolta nel mistero, un mistero pauroso che fece considerare il Papato una dignità pericolosissima e, perciò, alla fine quasi indesiderabile.

Quando, infatti, i Romani mandarono legati in Germania all'imperatore per pregarlo di designare un nuovo Pontefice nessun vescovo fu così temerario di accettare la tiara. Infine il vescovo Brunone di Toul, parente di Enrico III, accettò, ma pose la condizione che la sua elezione avvenisse a Roma regolarmente.
"Codesta condizione - scrive il Bertolini -atterrava di colpo il disegno di Enrico III, di costituire, cioè, il papato, e con esso la chiesa sotto la dipendenza dell'impero e quindi dello stato. Il tentativo di ristabilire fra impero e papato i rapporti esistiti al tempo di Costantino, era fallito sotto il terrore destato dallo spettro della morte: il papato ricuperava la sua indipendenza; e seguendo l'esempio datogli dall'impero si accingeva ora a contrapporre alla politica che lo aveva umiliato, una politica di rappresaglia, che dovesse assoggettare alla sedia di Pietro il suo umiliatore.
All'autocrazia imperiale di ENRICO III vediamo quindi contrapporsi la teocrazia papale di ILDEBRANDO; il primo in nome della spada, il secondo in nome della croce, pretendere al generale asservimento della società cristiana: erano due eccessi compiuti, non solo senza tener conto dei diritti, ma ancora delle forze popolari.
E i popoli si vendicarono del doppio dispregio abbattendo nello stesso tempo i due gioghi, e sorgendo a libertà. La nemesi rese la vendetta più compiuta, facendo servire gli avversari stessi del diritto popolare a strumento del trionfo di esso. In questo momento in cui l'autorità imperiale si arrestava nel suo moto ascendente per seguire un moto inverso, un retore milanese, chierico, scriveva la glorificazione di Enrico III: a quella prolissa glorificazione, Ildebrando contrapponeva questo motto, vero ed eloquente nel suo laconismo: "Roma invitta, nella fede e nelle armi".

Il nuovo Pontefice entrò a Roma all'inizio del 1049 senza pompa e privo di insegne, ma umilmente e vestito del saio di pellegrino, accompagnato da ILDEBRANDO, uscito dal monastero di Cluny, dove aveva seguito il deposto Gregorio VI. Il popolo romano accolse con manifestazioni di gioia il nuovo Papa, che aveva ridato ai Romani il diritto di elezione, e dieci giorni dopo l'arrivo, il 12 febbraio, fu ordinato Pontefice col nome di LEONE IX.

Il nuovo Papa trovava la Chiesa in uno stato deplorevole di decadimento e di corruzione che in parte è ritratto in un libro intitolato "Gomorrhianus" scritto da PIER DAMIANI e dedicato a Leone IX. Le cariche ecclesiastiche erano vergognosamente poste in commercio e le compravano le famiglie dei nobili; di orribili peccati contro natura si macchiavano i dignitari della Chiesa; la sodomia e la simonia, nauseanti piaghe che deturpavano il clero, pareva che fossero inguaribili. Una riforma s'imponeva e papa Leone, subito dopo la sua elezione, mise in opera ILDEBRANDO, che era stato creato suddiacono della chiesa romana e abate di S. Paolo.
Due scopi aveva la politica di Leone: la rigenerazione della Chiesa e il riacquisto dei territori su cui la S. Sede vantava diritti. Per conseguire il primo convocò nella Pasqua del 1049, a Roma, un concilio nel quale furono minacciate pene severissime contro i preti simoniaci; ma il Papa dovette riconoscere che se avesse voluto applicarle rigorosamente avrebbe lasciato senza preti le chiese di Roma. Dal malcontento, suscitato dalle deliberazioni del concilio, egli fu costretto ad usare indulgenza, tuttavia parecchi vescovi e preti furono destituiti e sostituiti.
Questa parte della politica papale, nonostante l'impegnativa attività del Pontefice, non fu coronata dal successo. Leone fu continuamente in moto: viaggiò attraverso la Francia e la Germania, tenne concili, tra cui è famoso quello di Rheims del 1° ottobre 1050, tuonò ancora contro la simonia, contro il matrimonio dei preti ed altri abusi, scomunicò vescovi; ma non riuscì com'era suo proposito, a ricondurre la Chiesa alla sua antica purezza.

Miglior fortuna non ebbe l'attuazione dell'altra parte del suo programma politico nell'Italia meridionale, che mirava ad abbassare la potenza dei Normanni. A lui erano giunti messi da Benevento a scongiurarlo che togliesse dalla città la scomunica di Clemente II. Speravano i Beneventani che con l'assoluzione il Pontefice desse loro un aiuto contro i Normanni e per invogliarlo sostenevano che la Puglia spettava di diritto alla Santa Sede.
Leone IX accolse amorevolmente le supplicanti ambascerie e li benedisse; poi, quando furono partiti, volendo rendersi conto delle vere intenzioni dei beneventani e prendere accordi con i suoi fautori, si mise in viaggio per recarsi in pellegrinaggio al Gargano.
Di ritorno dal santuario di S. Michele si recò poi in Germania; verso la fine del 1049 era di nuovo in Italia e, trascorso l'inverno a Roma, nella primavera del 1050 si avviava di nuovo alla volta del mezzogiorno.

Accolto devotamente dai principi di Capua e Salerno, entrò a Benevento, ma, danneggiatisi i rapporti non si sa bene perché, con Pandolfo III, uscì adirato dalla città e, dopo essersi recato a Melfi dai Normanni, cui raccomandò di vivere in pace con le popolazioni indigene, fece ritorno a Roma e in un concilio ribadì la scomunica contro Benevento.
Il partito pontificio di questa città trasse motivo per spingere i beneventani alla rivolta ch'ebbe come risultato la cacciata di Pandolfo e dei suoi "sculdasci".

Nel marzo del 1051 i beneventani, sempre più minacciati dai Normanni, mandarono al Pontefice, che era allora ritornato da un nuovo viaggio in Germania, un'altra ambasceria per mezzo della quale gli offrivano la signoria della città, chiedendogli in cambio l'assoluzione dalla scomunica e l'aiuto contro la prepotenza normanna. Leone X accettò e inviò a Benevento una legazione guidata dal patriarca di Grado e dal cardinal vescovo Umberto, che ricevuto il giuramento di fedeltà e venti ostaggi, ritornarono a Roma in aprile.
Due mesi dopo, nel giugno cioè del 1051, il Pontefice partì per l'Italia meridionale e, dopo un brevissimo soggiorno a Montecassino, il 5 luglio entrò con grande solennità a Benevento che, rinnovatogli il giuramento di fedeltà, fu assolta dalla scomunica.
Per assicurare la città dalla minacce esterne Leone IX chiamò a Benevento GUAIMARO di Salerno e DROGONE di Puglia ai quali al primo affidò la protezione della terra e dal secondo si fece solennemente promettere che i Normanni non avrebbero tentato di estendere le loro conquiste a danno del territorio beneventano.
DROGONE promise, ma il normanno non aveva autorità sufficiente presso i suoi guerrieri da impedire che violassero la promessa da lui fatta. Infatti, era da poco partito per Salerno il Pontefice che i Normanni tornavano ad assalire Benevento. Leone IX a questo punto stava iniziando a muovere lagnanze al conte normanno delle rinnovate ostilità quando gli giunse la notizia che Drogone era stato assassinato nel suo castello di Monte Ilaro (l'odierno Montoglio) e che i Normanni, eletto capo il minore dei tre fratelli d'Altavilla, UMFREDO, non avevano smesso per nulla l'atteggiamento ostile fino allora tenuto verso i Beneventani.
Cercò il Pontefice con le buone di allontanare gli ostinati Normanni ed essendo riusciti vani i suoi sforzi, allora deliberò di annientarli con le armi. Riunito un corpo di milizie, le condusse lui stesso nel territorio di Benevento nella primavera del 1052; ma l'impresa fallì, prima ancora di cominciarla, per opera di Guaimaro di Salerno, il quale, esaltando il valore normanno, suscitò tanto terrore nelle milizie pontificie che queste si sbandarono e il Papa dovette rifugiarsi a Napoli e di lì a Montecassino.

Poco tempo dopo, il 3 giugno dello stesso anno 1052, una congiura ordita dai cognati toglieva di mezzo GUAIMARO, e suo fratello Guidone duca di Sorrento chiedeva aiuto ai Normanni per vendicarne la morte.
UMFREDO, accolto l'invito, occupò Salerno, fece passare per le armi gli uccisori di Guaimaro e innalzò sul trono il figlioletto del morto, che aveva nome GISULFO.
Fu in questo periodo che Amalfi, staccatasi da Salerno, riuscì a costituirsi indipendente. Né questo fu il solo mutamento avvenuto negli staterelli del mezzogiorno d'Italia, poiché Guidone avendo rinunciato al principato di Sorrento, il potere fu appannaggio dei Normanni i quali lo diedero ad un cognato di Umfredo.
Questi fatti non potevano naturalmente riuscir graditi al Pontefice, il quale, preoccupato dalla crescente potenza normanna e invitato insistentemente i fieri guerrieri del nord ad intervenire presso le popolazioni oppresse, tornò nel proposito di scacciar con le armi i suoi ostinati nemici.
Sperando di ottenere aiuti dall'imperatore, si recò in Ungheria, dove allora Enrico III si trovava, e, raggiuntolo, lo accompagnò in Germania. L'imperatore però non volle saperne di una spedizione contro i Normanni, alla quale i vescovi tedeschi erano contrari e in un accordo concluso a Worms nel dicembre si limitò a rinunziare ai diritti dell'impero su Benevento e a riconoscere la sovranità della chiesa romana su quella città in cambio della rinunzia del Pontefice ai diritti sulle città di Fulda e Bamberga concessi da Enrico II con un privilegio del 1020.

Nonostante il rifiuto dell'imperatore, Leone IX non abbandonò l'idea di muover guerra contro i Normanni. Accordatosi con Argiro, catapano di Bari, che gli promise di unirsi a lui con le forze bizantine nell'Italia meridionale, e messo su un esercito con alcune centinaia di avventurieri tedeschi e con milizie raccolte nel centro della penisola e nella Campania, mosse alla volta di Benevento e di là, il 10 giugno del 1053, andò a porre il campo sul Biferno.
Fidando nelle sue numerose forze e in quelle che doveva condurre Argiro, il Pontefice rifiutò di entrare in trattative con i Normanni, i quali gli avevano fatto sapere ch'erano disposti a considerarsi come suoi vassalli e a rendergli tributo. E in verità, Leone IX era sicuro della vittoria, data la superiorità del suo esercito. Difatti- se si deve credere ad un cronista - i Normanni non disponevano che di tremila cavalli e di pochi fanti, forniti da Umfredo di Puglia, da Riccardo di Aversa, da Roberto di Altavilla (fratello di Umfredo), dal conte Geraldo di Buonalbergo, da Rodolfo di Boiano e da altri minori conti normanni.

Riusciti vani i loro tentativi di evitar la battaglia, i Normanni, che erano accampati sul Fortore, deliberarono di attaccare le truppe pontificie prima che con si congiungessero con le milizie di Argiro. A Leone IX, il quale come condizione di pace poneva l'uscita delle schiere normanne dalla penisola, essi risposero fieramente che avrebbero difeso con le armi le terre che con le armi avevano conquistate; poi mossero contro l'esercito del Papa.
La battaglia si combatté il 18 giugno del 1053, nel luogo dove sorgeva l'antica "Teanum Apulum", sulle cui rovine i Bizantini avevano fabbricato un villaggio chiamato "Civitate". L'esercito del Pontefice aveva il vantaggio del numero, ma era composto di truppe raccogliticce, diverse per patria e per lingua, male armate, poco avvezze alle guerre e la cosa più grave prive di disciplina. A queste truppe dalle mura di Civitate il Papa impartì la benedizione, facendo voti che riuscissero vittoriose; ma la fortuna arrise invece il piccolo esercito dei Normanni, audaci, disciplinati, agguerriti, i quali assalirono con grande potenza i nemici, ruppero le loro file in più punti, ne misero in fuga una buona parte e l'altra ne fecero una strage. Dei soldati pontifici soltanto le bande tedesche riuscirono sufficientemente a tenera testa ai Normanni, ma strette da ogni parte e sopraffatte dal numero, combatterono con valore fino all'ultimo uomo poi quando furono del tutto annientate.
La vittoria dei Normanni fu netta e completa: il Pontefice non ebbe nemmeno il tempo di mettersi in salvo con la fuga, e con tutto il suo seguito cadde prigioniero di coloro cui aveva ordinato di lasciare l'Italia.
Era il crollo della sua politica. Lui, che verso il nemico aveva usato un contegno sprezzante, si aspettava come minimo di esser trattato male, e invece i Normanni ebbero per lui i più grandi riguardi e UMFREDO si offrì pure di condurlo in salvo a Benevento a patto però che assolvesse i Normanni dalla scomunica.
Leone IX, che non si trovava in condizioni che gli permettessero di rifiutare l'offerta, accettò e così si vide il Pontefice vinto impartire la benedizione ai vincitori umilmente prostrati ai suoi piedi.
Il 23 giugno 1053, Umfredo mantenne la promessa e accompagnato a Benevento il Papa, questi rimase fino alla primavera dell'anno seguente, sotto la sorveglianza del conte d'Apulia, il quale cercava di costringerlo - come si suppone - a romper l'alleanza con i Bizantini e rinunciare ai suoi progetti espansionistici sull'Italia meridionale.
Il Pontefice tenne duro finché gli fu possibile, sperando nella riscossa e, nonostante la sorveglianza in cui era tenuto, riuscì a inviare alcuni messi all'imperatore di Costantinopoli, chiedendo aiuto e tentando di comporre, ma inutilmente, lo scisma orientale.
Le segrete trattative con la corte bizantina però fallirono per le pretese del Pontefice, che chiedeva la restituzione dei luoghi compresi nella donazione di Costantino. Avvilito dalla sconfitta, sconfortato dall'esito sfavorevole della sua ambasceria, logorato dal clima e dalle notti insonni, dopo nove mesi il Papa cedette alle richieste di Umfredo e solo allora si decise a lasciare Benevento e recarsi a Capua sotto la scorta del conte normanno.
Da Capua Leone IX, già infermo, fece ritorno a Roma, dove il 19 aprile del 1054 cessò di vivere.

LEONE IX fu biasimato dagli storici del tempo per la politica seguita nei riguardi dei Normanni, ma evidentemente il biasimo fa dovuto all'insuccesso dell'impresa. L'infelice riuscita di questa disgraziata campagna non può però offuscare la luce che illumina la figura di questo Papa, che dedicò la sua attività alla riforma della Chiesa, che restituì al popolo di Roma il diritto elettorale e vide le popolazioni del mezzogiorno accorrere devotamente ai suoi piedi attirate dalla fama che lui compiva miracoli.
Questa luce di cui fu illuminato fece sì che, dopo la morte, il vescovo Uldarico gli consacrasse un tempio e un culto a Benevento e che la Chiesa, più tardi, lo innalzasse agli onori degli altari.

ROBERTO IL GUISCARDO - PAPA VITTORE II -
ULTIMI ANNI DI ENRICO III

La battaglia di Civitate del 18 giugno del 1053, non solo fu funesta al Pontefice, ma anche ad Argiro che lo aveva affiancato. Il conte Umfredo, dopo averlo sorpreso alle falde del Gargano dove si era rifugiato, lo sconfisse e costrinse gli ultimi avanzi del suo esercito a chiudersi nelle città marittime. Alcune terre aprirono le porte ai Normanni e non pochi pugliesi si unirono all'esercito dei vincitori, mentre Argiro, ferito gravemente, fu condotto prima Vieste poi a Bari.
Con le due vittorie riportate a Civitate e al Gargano la potenza dei Normanni si affermò nell'Italia meridionale. Ma crescerà ancora di più per merito di due valorosi guerrieri che fanno ora la loro comparsa sulla scena: RICCARDO, figlio del conte Asclittino, e ROBERTO D'ALTAVILLA, cognato del primo, i quali - come abbiamo visto - avevano preso parte alla battaglia di Civitate.

Già da alcuni anni si trovavano in Italia, dove erano venuti per cercar fortuna. con le armi. RICCARDO, irrequieto ed ambizioso, era stato imprigionato da Drogone; ma nel 1047, venuto a morte Rodolfo d'Aversa, era stato nominato conte dai Normanni di quella terra e, per intercessione di Guaimaro di Salerno, Riccardo aveva ottenuta prima la libertà poi anche il permesso di prender possesso della contea.
Roberto d'Altavilla, (detto poi ROBERTO "IL GUISCARDO") come persona fisica era imponente, rosso di viso e di capelli; come carattere era violento, audace, valoroso. Era sceso in Italia con soli cinque cavalli e trenta fanti. Avuto in dono dal fratello Drogone la rocca di S. Marco, presso Bisignano, vi era vissuto per alcuni anni da bandito, spargendo il terrore nella Calabria con continue rapine nelle campagne e diverse incursioni nei centri abitati.
Il suo valore personale e la grande astuzia di cui era dotato (ed è per questo motivo che fu soprannominato il "Guiscardo" (cioè "l'astuto"), lo avevano reso così popolare fra i Normanni che nel 1057, morto Umfredo, sebbene fosse stato designato tutore di Abagelardo, figlio del defunto, riuscì impunemente ad assumere il titolo di Duca di Puglia e di Calabria.

Nel medesimo anno RICCARDO D'AVERSA occupava Capua, la quale, - scacciato Landolfo VIII, ch'era successo al padre Pandolfo V - finiva di essere principato longobardo e, ingrandita con la contea d'Aversa, i due territori diventavano pieno dominio normanno.
Due anni prima che questi fatti avvenissero, il 16 aprile cioè del 1055 a Roma era stato eletto papa il vescovo GEBHARDO di EICHSTÀDT, che prendeva il nome di papa VITTORE II. Questa elezione era dovuta principalmente a ILDEBRANDO di SOANA oltre ad essere appoggiato da Enrico III:

Dalla Francia, in cui alla morte di Leone II il monaco si trovava, era corso a Roma e, consigliata la cittadinanza a rivolgersi all'imperatore perché designasse il nuovo Pontefice, era stato mandato proprio lui in Germania a capo di un'ambasceria. A Magonza, dove era giunto, ILDEBRANDO aveva proposto ad Enrico III il vescovo Gebhardo, il quale, dopo aver temporeggiato, aveva finito con l'accettare, chiedendo però ed ottenendo, che l'imperatore s'impegnasse con un trattato a garantire alla Chiesa il potere temporale, a restituire i beni occupati e a ricuperare altri territori, che sosteneva, erano di proprietà della Chiesa.

Quando GEBHARDO (papa VITTORE II) prese la tiara il 16 aprile 1056, ENRICO III era già sceso per la seconda volta in Italia con un forte esercito. A varcare le Alpi lo aveva spinto il desiderio di ristabilire nella penisola l'autorità imperiale, scossa in special modo in Toscana (il marchese Bonifacio era stato assassinato il 16 maggio del 1052 e la vedova BEATRICE si era risposata con GOFFREDO di LORENA, che era il più fiero avversario dell'imperatore).
A Roncaglia, ENRICO III convocò un'assemblea dei grandi dell'impero; a Firenze presenziò a un concilio convocato dal Pontefice, nel quale furono confermati i decreti di Leone IX contro la simonia e il matrimonio dei preti; poi rivolse il suo pensiero alla Toscana, con il fermo proposito di punire la marchesa Beatrice, la quale non solo aveva sposato Goffredo senza il consenso imperiale, ma aveva anche assunto il governo della Toscana, facendolo effettivamente esercitare al marito GOFFREDO.
Questi, all'avvicinarsi dell'imperatore, tentò di allontanare dal proprio capo la tempesta, inviandogli ambasciatori per assicuragli la sua fedeltà e devozione; ma Enrico III respinse quelle proteste che erano indubbiamente dettate dal pericolo. Allora Goffredo tentò di muovere in proprio favore l'animo dell'imperatore per mezzo della moglie. Beatrice andò incontro ad Enrico I, in compagnia della figliuola MATILDE, che contava allora otto
anni (altri figli del defunto marchese Bonifacio erano Federico e Beatrice, entrambi in tenera età); ma non riuscì a piegarlo e invano tentò di giustificare il suo secondo matrimonio; il suo tentativo anzi le riuscì dannoso, perché l'imperatore ordinò che la marchesa e la figlia fossero trattenute in ostaggio. Cessarono di vivere in quel periodo, a poca distanza l'uno dall'altro, i due altri figli di Bonifacio, e la piccola Matilde rimase l'unica erede dei vastissimi domini paterni.

Dopo questi fatti ognuno comprese che era fermo proposito di Enrico III di abbattere la famiglia di GOFFREDO. Per sfuggire all'ira dell'imperatore, il cardinale di Lorena, fratello del marito di Beatrice, reduce da Costantinopoli dove papa Leone IX l'aveva mandato con il cardinale Umberto di Selva Candida e l'arcivescovo Pietro d'Amalfi per trattare dell'unione della chiesa greca con la latina, si rifugiò a Montecassino, presso l'abate RICHERIO, e qui nell'Abbazia indossò il saio monastico; Goffredo, vedendo che per lui non spirava più buon vento in Italia, fece ritorno in Lorena per molestare il regno germanico d'accordo con il margravio Baldovino di Fiandra, altro accanito nemico dell'imperatore.
Comprensibilmente premendogli, più dell'Italia la Germania, ENRICO III diede assetto alle cose della penisola affidando al Pontefice l'amministrazione temporanea dei suoi feudi, investendolo del ducato di Spoleto e della Marca di Camerino e nominandolo vicario del regno italico, poi si affrettò a ritornare in Germania dove, durante la sua assenza, il duca GUELFO III di CARINZIA e il vescovo Gebhardo di Ratisbona avevano ordito una congiura che aveva lo scopo di uccidere Enrico e far salire al trono il proscritto CORRADO, duca di Baviera.
La congiura però fu sventata dalle rivelazioni fatte in punto di morte dal duca Guelfo e l'imperatore poté facilmente punire i cospiratori.
Nonostante questi fatti, perdurò in Germania il fermento. Enrico III che vedeva scomparire il suo sogno di pace universale e nutriva serie preoccupazioni per l'avvenire, presentendo forse prossima la fine, volle disarmare i suoi nemici amnistiandoli, nella speranza che, dopo la sua morte, non sarebbero insorti contro il figlio ENRICO (il futuro E. IV) che contava allora sei anni. Liberò pertanto dalla prigione coloro che avevano partecipato alla congiura, perdonò il vescovo di Ratisbona e il duca di Lorena, che rientrò in possesso della vasta eredità del marchese Bonifacio, permise a Beatrice di tornarsene in Toscana e diede in sposa la figlia Giuditta a Salomone, figlio ed erede del re Andrea d'Ungheria.

Inoltre, per rafforzare la posizione della sua dinastia in Italia, ENRICO III fidanzò il piccolo Enrico con Berta, figlia del potente marchese di Susa, e volendo provvedere alle necessità della penisola invitò il Pontefice a recarsi in Germania per discuterne.
VITTORE II raggiunse l'imperatore nei primi del settembre del 1056 a Goslar, in Sassonia dove questi era corso per domarvi una rivolta da poco scoppiata. Ma i giorni di Enrico III erano contati: verso la fine del mese, mentre si trovava a Botthfeld, in cima all'Harz, si ammalò.
Era la fine. Radunati intorno al suo letto il Papa, il patriarca d'Aquileia e i grandi, prese le sue ultime disposizioni, ordinando, fra l'altro, che fosse restituito ai legittimi proprietari tutto ciò che non gli apparteneva di diritto, infine fece eleggere dai convenuti il piccolo figlio ENRICO al trono e raccomandandolo alle cure del Pontefice e alla fedeltà degli elettori.
Enrico III morì il 5 ottobre del 1056, all'età di trentanove anni ed ebbe la sepoltura nel duomo di Spira.
" Con ENRICO III - scrive il Gregorovius - ebbe termine la serie dei potenti imperatori di stirpe franca, che avevano innalzato la Germania al culmine della sua potenza universale. Vicino alla sua tomba restavano un re fanciullo (Enrico IV) e una donna (Agnese) come sua tutrice: i territori germanici e quelli italiani cadevano nel disordine dell'anarchia; ma, la Chiesa, che tendeva ad elevarsi, si vedeva improvvisamente libera dalla dittatura imperiale.
Mentre VITTORE II lacrimava presso la bara del suo amico, come una volta
Silvestro II aveva pianto presso il letto di morte di Ottone II, il monaco ILDEBRANDO aveva di che predire a se stesso i trionfi che riporterebbe su quel piccolo erede dell'imperatore di Germania e del re d'Italia".
Nemmeno lui li avrebbe mai immaginati! Ildebrando dominerà la Chiesa e l'Impero con il suo ingegno nei prossimi 30 anni.

ENRICO III, morendo lasciava in Italia come unico suo sostenitore,
il tedesco VITTORE II, dallo stesso imperatore designato Papa su indicazione di ILDEBRANDO, il giovane e intelligente monaco sempre al suo fianco,
e VITTORE II perseguiva una politica pacifica, che era come quella dell'imperatore, ma era teorica, nella sostanza era solo dei compromessi, o reciprocamente farsi delle contenute concessioni. Non aveva, né forse avrebbe avuto la forza di imporsi pur con l'Imperatore bambino Enrico IV.
Altrettanta debolezza nel perseguire una riforma ecclesiastica,
le garanzie alla Chiesa del potere temporale, e la restituzione dei beni occupati.
Forse avrebbe ancora tentato, ma dopo la scomparsa dell'imperatore, la sua vita aveva i mesi contati, e non ebbe il tempo di fare più nulla.
Non così il suo (di fatto ma non di nomina) successore, un uomo semplice ma ardito.
Sta comparendo sulla scena, ILDEBRANDO, il futuro papa GREGORIO VII.
Napoleone disse un giorno "Se in non fossi Napoleone, vorrei essere Gregorio VII".

FINE

Il prossimo capitolo è quasi interamente dedicato a Hildebrando, e alla sua politica teocratica,
mentre la sua effettiva elezione a Papa sarà solo alla fine del detto capitolo.
Andiamo dunque al periodo dall'anno 1056 al 1073 > > >

 

(VEDI ANCHE I SINGOLI ANNI o nella TEMATICA)

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
LANZONE - Storia dei Comuni italiani dalle origini al 1313
GREGORIUVUS - Storia di Roma nel Medioevo - 1855

+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE  

 

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