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( QUI TUTTI I RIASSUNTI )  RIASSUNTO ANNO 47-44 a. C.

GUERRA IN AFRICA, IN SPAGNA - TRIONFO di CESARE - CALENDARIO

LA GUERRA IN AFRICA - BATTAGLIE DI RUSPINA E TAPSO - SUICIDIO DI CATONE - TRIONFO DI CESARE - LA RIFORMA DEL CALENDARIO - ATTIVITÀ LEGISLATIVA DI CESARE - COMBATTIMENTO DI ULLA - BATTAGLIA DI MUNDA - MORTE DI GNEO POMPEO - ONORI DI CESARE - GRANDI DISEGNI DEL DITTATORE - LA CONGIURA DI BRUTO E CASSIO - LE IDI DI MARZO - ASSASSINIO DI CESARE
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LA GUERRA IN AFRICA

L'8 ottobre dello stesso anno 47 (25 dicembre del vecchio calendario) GIULIO CESARE, da Lilibeo (Marsala) fece vela per la costa africana con sei legioni, ma una tempesta disperse le sue navi e solo dopo tre giorni riuscì ad approdare presso Adrumeto (Susa) con tremila fanti e solo centocinquanta cavalli.
L'Africa era tutta per i pompeiani. Due anni prima CURIONE, mandatovi da Cesare, aveva sconfitto presso Utica PUBLIO ATTIO VARO, ma poi, era stato a sua volta vinto e ucciso da GIUBA, re di Numidia, il quale si era schierato a favore di Pompeo.
I pompeiani disponevano di notevoli forze: quattordici legioni, mille e seicento cavalli, centoventi elefanti e una flotta di cinquantacinque navi; oltre la numerosa cavalleria numidica. Se invece di rimanere inerti nella provincia africana i pompeiani avessero marciato verso l'Egitto e si fossero uniti a Tolomeo prima dell'arrivo di Mitridate, le cose forse avrebbero preso tutt'altra piega per Cesare.

Ma i pompeiani, se disponevano di forze numerosissime, mancavano di un capo abile. CATONE, che pur non essendo un gran condottiero, era molto prudente, aveva rifiutato il comando supremo ed era andato a comandare il presidio di Utica, dove vi era una forte corrente favorevole a Cesare, e METELLO SCIPIONE che era stato nominato comandante in capo, ma che nella campagna che andava ad iniziare fornì tante prove d'inettitudine. Cominciò la guerra con un errore. Invece di ritirarsi nell'interno come consigliava Catone, e lasciare che Cesare si logorasse o affrontasse in condizioni svantaggiose l'esercito nemico in Numidia, lui volle dargli battaglia sulla costa fidando nella superiorità del numero.

Cesare, fallito il tentativo di trarre dalla sua parte Considio che comandava il presidio di Adrumeto, si era spinto su Letti e Ruspina occupandole. A corto di viveri e costretto a provvedere vettovaglie per le rimanenti legioni che nel frattempo gli erano giunte, Cesare era uscito alla testa di trenta coorti dal suo campo per compiere una razzia. Era molto lontano da Ruspina, quando gli piombò addosso LABIENO con quarantamila fanti e numerosi cavalieri.

Costretto ad accettar battaglia in condizioni sfavorevolissime, Cesare seppe trarsi d'impaccio facendo -ancora una volta- risplendere le sue mirabili doti di condottiero. Nonostante il suo esercito fosse inferiore di numero e scarsissimo di cavalleria, impedì abilmente al nemico di accerchiarlo; in un modo molto semplice ma con una forte determinazione, sferrò come un ariete il suo attacco al centro, lo sbaragliò e si aprì in questo modo la via verso Ruspina.

Assalito ancora da LABIENO, che nel frattempo gli erano provvidenzialmente giunti notevoli rinforzi al comando di PISONE e PETREJO, Cesare respinse il nemico con un disperato assalto oltre le colline e rientrò nel suo campo, che fece rafforzare per poter resistere alle truppe di Labieno e a quelle di Metello Scipione, il quale, lasciata Utica, avanzava verso Ruspina.

Infatti, il giorno dopo davanti al campo romano comparve LABIENO; Cesare non voleva di sicuro farsi trovare dentro una città che poi quelli avrebbero assediata; o per coraggio o per strategica necessità, uscì e diede battaglia a Labieno in aperta campagna; in un combattimento, durato dal mezzogiorno al tramonto, lo sconfisse e gli inflisse gravissime perdite.

Dopo questi insuccessi, sebbene Labieno si fosse congiunto con Scipione, Cesare fu lasciato tranquillo e ne approfittò, aspettando con calma che i suoi luogotenenti gli conducessero truppe dalla Sicilia e dalla Siria.
Le cose prendevano buona piega per lui. L'inazione dei pompeiani faceva crescere il numero degli aderenti a Cesare; alcune città gli mandavano messi con offerte di vettovaglie, ad Utica i suoi sostenitori rumoreggiavano e il re Bocco di Mauritania, indotto da Sizzio, uno dei compagni di Catilina, muoveva verso il regno di Numidia.

Il 4 aprile del 46 a.C., quando ebbe presso di sé tutte le sue forze, CESARE decise di passare all'offensiva e mosse su Tapso.
METELLO SCIPIONE per non lasciare in balia del nemico la piazzaforte, dove aveva un forte presidio, corse in aiuto della città, ordinando, quando giunse nelle vicinanze, che fossero costruiti due campi per l'esercito. Giuba era con lui con i suoi Numidi.

Cesare come il solito, anticipava le mosse degli avversari, e anche questa volta, non diede il tempo ai pompeiani di ultimare i loro campi trincerati e li costrinse subito alla battaglia. Questa avvenne il 6 aprile.
METELLO pose alle due ali dello schieramento la cavalleria e sessanta elefanti; Cesare schierò il suo esercito su tre linee, mise alla destra la II e la X legione, alla sinistra l'VIII e la IX, le altre cinque al centro; contro gli elefanti e i cavalieri nemici pose gli arcieri e i frombolieri sapientemente mascherati.

Furono questi che, iniziando il combattimento, assicurarono a Cesare la vittoria Con tiri numerosi e ben aggiustati paralizzarono l'azione della cavalleria nemica, e misero in fuga gli elefanti che andarono a scompigliare le fanterie sul retro.
Mentre quelle di Cesare ben coordinate fecero poi il resto. Assaliti dalle legioni avversarie, i pompeiani, non potendo rifugiarsi nei campi ancora incompleti, quindi senza difese, staccionate, fossati, fuggirono precipitosamente sopra un'altura, dove però l'esercito di Cesare li raggiunse e assalendo un manipolo dietro l'altro, ne fece una alla volta un'orribile strage.

A cinquantamila uomini Plutarco fa ascendere il numero dei pompeiani uccisi quel giorno. METELLO SCIPIONE datosi alla fuga ebbe il tempo di salire a bordo di una nave e fuggire, ma, inseguito dai navigli avversari, per non cadere vivo nelle mani del nemico si diede la morte; Labieno, Atio Varo e Sesto Pompeo riuscirono a rifugiarsi in Spagna, dove Gneo era andato poco prima per ribellare a Cesare quelle popolazioni; Giuba e Petrejo cercarono rifugio a Zama, ma gli abitanti chiusero le porte in faccia al loro re. Allora entrambi decisero di battersi fino all'ultimo sangue, e, brandite le spade, si accanirono a lungo in un mortale duello nel quale Petrejo rimase ucciso, mentre il re di Numidia si fece poi uccidere da uno schiavo.

Rimaneva il presidio di Utica, ultimo baluardo dei pompeiani in Africa e sede dei senatori romani; quelli che avevano voluto seguire la sorte di Pompeo.
Appena avuta notizia della disfatta di Tapso, CATONE rafforzò le opere di difesa, deciso ad opporre una fiera resistenza al nemico. Ma a Utica - abbiamo detto - parte della popolazione era sostenitrice di Cesare, parte aveva seguito i pompeiani; ma sconfitti questi anche i cittadini che militavano contro Cesare gli divennero favorevoli e dichiararono di voler dare la terra al vincitore.

Visto che non c'era modo di salvare Utica, Catone fece mettere in salvo sulle navi i senatori e le loro mogli e figli. Lui rimase in città con il figlio; era deciso a non cader vivo nelle mani del suo nemico. La vita - ora che la repubblica era finita- la considerava una cosa inutile. Per la libertà lui si era battuto strenuamente; e con la libertà voleva morire.
Poi nel giorno che doveva essere l'ultimo della sua esistenza rimase calmissimo, ma i suoi amici avevano letto in quella calma il proposito del suicidio ed avevano sottratto la spada dalla sua camera.

Catone verso sera fece il suo solito bagno, poi andò a cena; finito il pasto s'intrattenne a ragionar con gli amici di filosofia, indi fece la sua consueta passeggiata e, ritornato a casa, si congedò dagli amici, abbracciò teneramente il figlio e si ritirò nella propria camera. Rimasto solo, si mise a letto e cominciò a leggere il Fedone di Platone per attingere forse conforto dall'esempio di Socrate. A un tratto, alzato il capo dal volume, cercò con gli occhi la spada e, non vedendola, chiamò il suo schiavo per riaverla; ma lo schiavo disse di non saper dove fosse. Catone chiamò gli altri schiavi e ordinò che gli portassero l'arma e, poiché nessuno si muoveva, diede un fortissimo pugno in viso a colui che gli stava vicino, gridando che erano tutti traditori e che lo volevano consegnarlo vivo nelle mani di Cesare.

Alle grida accorsero gli amici e il figlio, che lo scongiurarono, piangendo, che volesse desistere dal suo proposito; ma Catone non si lasciò persuadere e gli altri, usciti, gli mandarono la spada per mezzo di un fanciullo sperando che la vista di una persona in così tenera età infondesse nel suo animo la calma e il desiderio della vita.

Catone prese la spada, licenziò il fanciullo e continuò la sua lettura, poi si assopì. Si svegliò a metà della notte, chiamò uno schiavo e lo mandò al porto a vedere se tutti i senatori erano già partiti. Aspettò tranquillo che il servo tornasse e, appreso che soli alcuni dovevano ancora imbarcarsi e che soffiava un vento furioso, rimandò al porto lo schiavo. Cantavano i galli quando questi tornò ad assicurare il padrone che tutti erano partiti. Catone fece chiudere l'uscio, poi prese la spada e se la immerse nel ventre, in modo maldestro.

Infatti, non morì. Cadde a terra lamentandosi con urla lancinanti, i servi e gli amici accorsi - nel frattempo era svenuto - sperarono di salvarlo ricucendo l'ampia ferita; ma quando riacquistò i sensi, strappò le bende, si riaprì la ferita, trasse fuori le viscere e spirò.

Moriva con lui un uomo che nella generale corruzione aveva dato prova di carattere immutabile e di stoica impassibilità; e insieme con Catone si spegneva la libertà della Repubblica.

La guerra d'Africa era finita. In ricompensa dell'aiuto prestatogli Cesare diede al re Bocco la parte orientale della Numidia; a Sizzio diede il governo del territorio di Cirta, il resto della Numidia lo costituì in provincia col nome di Africa Nuova e di questa fece governatore SALLUSTIO CRISPO che durante la guerra aveva eseguito un fortunato colpo di mano all'isola di Cercina; poi CEASRE partì per Roma dove giunse il 25 di luglio.

TRIONFO DI CESARE - BATTAGLIA DI MUNDA

Giunta a Roma la notizia della vittoria di Tapso, il Senato decretò che in ringraziamento della vittoria fossero fatte per quaranta giorni supplicazioni agli dèi. A Cesare fu conferita la dittatura per dieci anni e la carica di prefetto dei costumi; gli si accordò la facoltà di designare i magistrati ordinari e straordinari, il privilegio di assistere alle assemblee senatorie sulla sedia curule e il diritto di dire il proprio parere, prima delle deliberazioni del Senato.
Non paghi il Senato e il popolo di avere onorato con tali cariche e tanti privilegi il vincitore, gli eressero una statua davanti a quella di Giove, raffigurante Cesare che calcava il globo e portante l'epigrafe "Al Semidio".
Tornato a Roma, Cesare celebrò, per quattro giorni alternati, il trionfo per le vittorie riportate in Gallia, in Egitto, in Asia e in Africa.

Le cerimonie del trionfo furono magnifiche: il carro dov'era il vincitore era tirato da quattro cavalli bianchi e scortato da settantadue littori. Dietro sfilavano i veterani cantando nenie variate e motti pungenti, di cui, in special modo, erano argomento gli amori tra Cesare e Cleopatra.

Il principale ornamento del trionfo furono i prigionieri di sangue reale: l'eroico Vercingetorige, Arsinoe, figlia di Tolomeo, e il figliuolo del re Giuba. Duemilaottocentonovantadue corone d'oro regalate da sovrani e da città furono mostrate al popolo insieme con i tesori, che costituivano la somma di sessantacinquemila talenti e servirono a pagare i premi promessi ai legionari: i tribuni e i prefetti della cavalleria ricevettero ottantamila sesterzi ciascuno, ogni centurione quarantamila ed ogni soldato ventimila.

CESARE distribuì al popolo denaro, frumento, olio e carne e gli offrì un banchetto di ventiduemila triclini. Sapendo che il miglior modo di acquistarsi il favore del popolo è quello di farlo divertire allestì giochi e feste che furono tutti celebrati con un grandissimo sfarzo: finte battaglie navali in un laghetto appositamente scavato presso il Tevere, caccia alle belve con l'impiego di quattrocento leoni; ma anche ludi funebri per onorare la memoria della figlia, moglie di Pompeo.
Una piazza della città fu intitolata a Cesare; fu inaugurato il tempio a Venere Genitrice, che il conquistatore aveva promesso in voto durante la battaglia di Farsaglia, e furono istituiti i "giuochi della vittoria di Cesare" da celebrarsi il 20 luglio di ogni anno.

Ma Cesare non pensò solo a far divertire le folle. Gli occorreva rafforzare il suo governo e renderlo duraturo; occorreva anche che quel popolo che lui abbagliava con le feste e che era abituato a vivere a spese dello Stato non costituisse più, come per il passato, un elemento di disordine, una forza a disposizione dei demagoghi. Dei trecentoventimila cittadini che vivevano a spese della Repubblica, più di un quarto ottenne terre nelle province; l'esercito fu suddiviso fra i municipi e le colonie, ai veterani furono distribuiti terreni; ai soli bisognosi limitate le distribuzioni di grano e i disoccupati furono impiegati nella costruzione di edifici pubblici.

IL CALENDARIO "giuliano"

Per dare un colpo alla potenza dei "pubblicani" e reprimere le angherie e gli abusi limitò l'appalto delle imposte alle indirette; per abbassare il prestigio del Senato introdusse persone non di rado spregevoli e invece di sterminare i suoi nemici volle accrescere il numero degli amici e portò a quaranta il numero dei questori e a sedici quello dei pretori per aver più cariche da distribuire ai suoi sostenitori.

Soppresse inoltre le sette religiose, fece coniare monete con la sua effigie, sostituì per i pagamenti alle verghe d'oro l'"aureus", moneta del peso di quasi otto grammi, e riformò, con l'aiuto del dotto astronomo SOSIGENE d'Alessandria, il calendario, regolandolo sull'anno solare, cui si attribuiva la durata di trecentosessantacinque giorni e sei ore anziché, come fino allora si era fatto, sul lunare.

Essendo il calendario indietro di tre mesi dall'anno solare, il 45, che fu detto anno della confusione, fu fatto di quindici mesi ed ebbe quattrocentoquarantacinque giorni e si stabilì che i dieci giorni che l'anno solare aveva in più del lunare fossero ripartiti, a cominciare dal 44, fra alcuni mesi al gennaio, all'agosto e al dicembre se ne aggiunsero due, uno ciascuno all'aprile, al giugno, al settembre e al novembre.

Per collocare le sei ore eccedenti, fu aggiunto -ogni quattro anni- al mese di febbraio un giorno, e fu chiamato bisestile l'anno che risultava più lungo degli altri di un giorno.
Chiamato "bis-sestus" perché s'intercalava un giorno dopo il sesto giorno antecedente alle calende di marzo, cioè sesto per la seconda volta, da cui "bisestile".
Il settimo mese (ex quintile) prese il nome di luglio (julius) da Giulio Cesera, e più tardi l'ottavo (ex sestile) prese il nome di agosto (augustus) da Augusto il quale apportò qualche altra correzione.
Con questa riforma del calendario (detto "calendario anno giuliano") la durata dell'anno e dei mesi diviene costante, fino alla riforma con il "calendario gregoriano" del 1582, quando furono soppressi 10 giorni che in sedici secoli si erano accumulati con i resti delle 6 ore.

Presi tutti questi provvedimenti, Cesare decise di dare nel corso dello stesso anno 45, il colpo definitivo ai pompeiani che avevano scelto la Spagna come teatro della loro resistenza, riuscendo ad associare alla loro causa gran parte della popolazione.
Nei ventiquattro giorni del suo viaggio Cesare compose un poemetto, l'"Iter", dove vi descriveva il viaggio stesso.

Appena giunto nella Spagna, Cesare cercò di trarre partito dalle numerose relazioni che vi aveva e da ambasciatori, giuntigli segretamente da Cordova, dove si trovava SESTO POMPEO (GNEO era all'assedio di Ulla), fu sollecitato di marciare su quella città su cui sarebbe stato facile piombare di sorpresa non essendosi ancora divulgata la notizia del suo arrivo. Contemporaneamente gli giunsero messi da Ulla che lo supplicarono di soccorrere la città assediata.

Cesare inviò sei coorti di fanti e un corpo di cavalleria, dando il comando di queste truppe ad un valoroso e prudente capitano spagnolo, di nome GIUNIO PACHECO. Questi fornì magnifica prova della sua abilità. Approfittando di un violentissimo uragano che rendeva più tenebrosa la notte, passò attraverso il campo nemico ingannando le sentinelle con il far credere che i suoi uomini appartenevano all'esercito di Gneo ed andavano a tentare un assalto di sorpresa contro la città.
Giunto con questo stratagemma alle porte di Ulla, fece il segnale convenuto, le porte gli furono aperte e, unite alle sue truppe le milizie della guarnigione, si gettò sugli assedianti causando delle gravissime perdite.
Mentre Pacheco recava soccorso ad Ulla, Cesare rivolgeva la sua attività a Cordova. Per far più presto fece mettere in groppa ad ogni cavallo assieme al cavaliere un fante e si presentò davanti le mura della città, il cui presidio, credendo che si trattasse di un assalto di sola cavalleria, fece una sortita, che si risolse in sanguinosa sconfitta; di alcune migliaia di pompeiani che erano usciti solo qualche centinaio riuscì a rientrare a Cordova.

Sesto Pompeo, impressionato da questo scacco, chiese urgenti soccorsi al fratello Gneo che corse subito in suo aiuto con tutte le sue truppe lasciando così libera Ulla.
Presso Munda, nella Betica, il 17 marzo del 45 a.C., avvenne la grande battaglia che doveva segnare la fine della guerra contro i pompeiani.
L'esercito di GNEO POMPEO si trovava in condizioni vantaggiose occupando un'altura ed era superiore di forze; disponeva di tredici legioni, schierate con la cavalleria alle ali e protette alla destra da alcuni pantani prodotti dallo straripamento di un ruscello che scorreva tra i due campi.

CESARE non aveva che venti coorti ed ottomila cavalli, forze troppo esigue in confronto delle pompeiane, le quali oltre le legioni avevano seimila fanti armati alla leggera ed altrettanti ausiliari; ma faceva assegnamento sull'esercito del re Bocco di Mauritania che, passato in Spagna, muoveva verso Munda, e sulla propria cavalleria.

Per invitare il nemico a scendere dall'altura Cesare avanzò con l'esercito fino a metà della pianura, ma Gneo non si mosse; si spinse ancora in avanti fino al ruscello e lo attraversò; ma il nemico rimase nelle sue posizioni. Allora Cesare si fermò. I pompeiani, credendo che i nemici avessero paura, mossero contro di loro. Questi non aspettarono il segnale del combattimento e la battaglia incominciò.

Dall'una parte e dall'altra si combatté con grandissimo accanimento: i pompeiani sapevano che dall'esito di quella lotta dipendevano le loro sorti e si battevano perciò disperatamente; i soldati di Cesare, abituati a vincere, volevano ad ogni costo avere ragione della resistenza che opponeva il nemico. Ma questi era sormontante per numero e favorito dalla posizione e il successo non tardò a delinearsi dalla sua parte.
Già le coorti di Cesare cedevano e qualcuna, scompigliata, volgeva le spalle, già le truppe nemiche, imbaldanzite, raddoppiavano gli sforzi per ricacciare gli avversari oltre il ruscello e sbaragliarli. Cesare vide perduta la giornata e tentò di rianimare i suoi. Sceso da cavallo, a capo scoperto, percorse il fronte di battaglia e incitò i legionari al combattimento, poi imbracciò uno scudo, impugnò la spada e si slanciò da solo verso la fronte nemica. Quando lui fu giunto a dieci passi dai pompeiani, attorno a lui caddero una pioggia di frecce; ma Cesare rimase impavido, aspettando che i suoi lo seguissero.

I soldati videro il loro generale tutto solo di fronte al nemico e si vergognarono del loro contegno; le schiere si ricomposero rapidamente, i fuggitivi rivolsero il viso ai pompeiani e le coorti ritornarono con un impeto inaudito alla battaglia.
In quel momento giunse la notizia che il re Bocco si avvicinava e i soldati di Cesare presero nuova forza d'animo.
A fronteggiare il nuovo nemico corse LABIENO con mille e cinquecento cavalieri pompeiani, ma questa mossa fu fatale all'esercito di Gneo, il quale, credendo che Labieno fuggisse, preso dallo sgomento, imitandolo, cedette di schianto.
Gneo, disperato, prontamente accorso nella prima fila, riuscì a ravvivare il combattimento, ma non a mutare le sorti della battaglia ormai decisa per il tremendo incalzare della X Legione, lanciatasi come una furia contro l'ala destra dei pompeiani in fuga.
Dopo nove ore di accanita battaglia il campo era ormai in mano di Cesare.
Lui perse un migliaio di uomini, mentre i nemici uccisi furono trentamila. Fra questi ultimi vi erano LABIENO e VARO.

GNEO POMPEO in fuga pure lui con pochi cavalieri si rifugiò a Cartea, dove s'imbarcò in una nave della sua flotta. Subito inseguito dai navigli di Cesare gli distrussero un terzo della flotta prima di prendere il mare aperto e fu costretto a ritornare sulla costa; sbarcato, si rifugiò in una caverna di una rupe, ma fu scoperto e ucciso.

SESTO, dopo la disfatta di Munda, si ritirò ad Ossuna; di là fuggì nella regione dei Celtiberi e trovò la salvezza oltre i Pirenei, dandosi alla guerriglia. Lo ritroveremo più tardi.
Cesare, lasciata parte dell'esercito ad assediare Munda, marciò contro Cordova e se ne impadronì, uccidendo - secondo quel che narrano gli storici - ventimila nemici, poi puntò su Ispali che si arrese.
Qui Cesare diede assetto alle cose di Spagna e nel settembre del 45 rientrò a Roma.
Cesare oramai poteva dirsi padrone di quasi tutto il mondo.

E proprio per questi grandi successi, che a Roma i suoi nemici
tramavano, congiuravano; gli onori di cui era stato ricoperto avevano rinfocolato gli odi, fatto nascere nell'animo dei suoi nemici il desiderio della vendetta.


Sta maturando la congiura.... che narreremo nel prossimo capitolo

...periodo dall'anno 45 al 44 a.C. > > >


Fonti, Bibliografia, Testi, Citazioni: 
TITO LIVIO - STORIE (ab Urbe condita)
POLIBIO - STORIE
APPIANO - BELL. CIV. STORIA ROMANA
DIONE CASSIO - STORIA ROMANA 
PAOLO GIUDICI - STORIA D'ITALIA 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
I. CAZZANIGA , ST. LETT. LATINA, 
+ altri, in Biblioteca dell'Autore 


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