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1949
il velleitario colonialismo del nostro Paese portò l'impronta dell'ondivaga e
nebulosa politica estera



1936 - L'italia guerriera difende in Africa la civiltà bianca con le truppe nere.
Dal fronte Montanelli su "Civiltà Fascista" scriveva il suo "catechismo" di dominatori...


(Da "Civiltà Fascista" n. 1, gennaio 1936)


La guerra continuò! - Poi nel 1949 bastò un ubriaco di Haiti all'ONU e l'Impero si sciolse al sole.

L'IMPERO ITALIANO: COSTO' SANGUE,
RESE ZERO, FINI' NEL RIDICOLO


di ILARIA TREMOLADA

Il 18 maggio 1949 l'Assemblea delle Nazioni Unite bocciava nel suo complesso il compromesso Bevin-Sforza per accettarne in verità una sola parte: quella che pianificava il futuro di Cirenaica e Fezzan. Per entrambe le regioni libiche si prevedeva una trusteeship (amministrazione fiduciaria) internazionale con responsabilità alla Gran Bretagna nel caso della Cirenaica, e alla Francia per il Fezzan.

(le cartine in fondo alla pagina)

L'accordo che il ministro degli esteri italiano era riuscito a strappare al suo corrispettivo inglese in un'atmosfera internazionale fluida sostanzialmente disinteressata alle questioni italiane, prevedeva che Roma recuperasse Tripolitania e Somalia, seppure solo per un'amministrazione fiduciaria, rinunciando però, come visto, alle altre parti della Libia, e all'Eritrea che veniva ceduta e Etiopia e Sudan. Per quanto in gran parte consolatorio, l'accordo venne suonato da Sforza come una vittoria della diplomazia italiana. La popolazione, atterrita nell'orgoglio nazionale da un Trattato di pace severo e umiliante non avrebbe sopportato una declassificazione come quella che le grandi potenze avrebbero voluto infliggerle attraverso la distruzione dell'impero coloniale - così pomposamente chiamato dal duce- faticosamente costruito perchè desse all'Italia quel lustro di grande potenza di cui fin dalla fine dell'800 si era avvertita la necessità.

Il compromesso raggiunto con la Gran Bretagna sembrava rispondere a quest'esigenza colta dai leaders politici, attenti ad ascoltare, in un momento molto delicato per il paese, l'umore della popolazione ferita dalla guerra. Quella che veniva giudicata la vittoria londinese di Sforza non poté però concretizzarsi. Di fronte ai membri dell'Assemblea delle Nazioni Unite, infatti, l'accordo anglo-italiano trovò una consistente opposizione che ebbe però la meglio solo grazie al voto negativo espresso all'ultimo momento dal delegato di Haiti.

Nelle memorie dei testimoni, la votazione assume un sapore faceto. Il ministro Sforza ricorda: "Tragicomico apparve quello che si seppe negli Stati Uniti e qualche ora dopo in Europa: cioè che il solo voto contrario che fece fallire il progetto presentato dall'Inghilterra e calorosamente appoggiato dalla Francia [è da notare che le due potenze erano interessate all'approvazione del progetto in quanto da esso ne avrebbero ricavato l'amministrazione fiduciaria della Cirenaica la Gran Bretagna, e quella del Fezzan la Francia] e dagli USA, fu dato dal rappresentante di Haiti, un tipo di cui le personalità più serie di Haiti ammisero, quasi scusandosi, che quella sera "era ubriaco e comunque non sapeva nulla della Somalia."

Altra versione degli stessi fatti è quella data dall'Ambasciatore Tarchiani: "Quel rappresentante, ottenuto un relativamente lauto compenso per cambiare parere all'ultima ora, bevve un doppio whisky ed entrò nell'aula per votare contro.".
Verrebbe da dire che non poteva esserci conclusione più intonata. Il colonialismo italiano, con la sua storia fatta di tentativi falliti e di episodi che tutto esprimevano fuorché la virilità di un paese banalmente interessato a mostrare i propri, peraltro avvizziti, muscoli, tramontava in modo così ridicolo. L'italia che aveva perso, firmando il Trattato di pace, i territori conquistati durante il fascismo: Albania, Etiopia oltre alle isole del Dodecaneso e Rodi, ritornava così ad essere un paese senza colonie come all'inizio della sua storia unitaria, e improvvisava in quel momento una sorta di spirito a favore della liberazione dei popoli, assolutamente senza radici storiche se non quella nuovissima della bocciatura del piano Bevin-Sforza.

Fino a pochi giorni prima della sconfitta patita per colpa del cosiddetto ubriaco di Haiti, il personale di Palazzo Chigi si era impegnato totalmente nella difesa della presenza italiana in Africa, nobilitata attraverso una costruzione teorica che tentava di presentarla come nodo centrale della storia statale e non come residuo del recente passato fascista. Nel biennio '47-49 questi temi trovarono diffusione in numerosi settori del mondo politico e dell'opinione pubblica, concordi nel sostenere la necessità per l'Italia di mantenere le proprie colonie giudicate come l'unico mezzo per continuare a essere presenti nel Mediterraneo.

La convinzione della necessità di avere dei territori oltremare andava però riqualificata e dotata di argomenti validi, in grado cioè di ridare credibilità ad un colonialismo tutt'altro che privo di ombre. Era un'operazione piuttosto difficile e che in ogni caso avrebbe potuto fornire solo una nuova facciata, visto che la storia non poteva essere riscritta. Si cercò così di puntare sullo sforzo fatto dall'Italia per imprimere una direzione di progresso alle economie arretrate di Libia, Eritrea, Etiopia, Somalia, e ancora si parlò di valorizzazione delle risorse locali, di necessità di salvaguardare gli interessi dei connazionali residenti in Africa e dell'idea di missione civilizzatrice. Erano argomenti che riprendevano nella sostanza i concetti utilizzati dal fascismo per giustificare l'impresa etiopica e si scontravano con la verità storica che raccontava di violenze e soprusi legati sia alla conquista dell'Etiopia sia a quella precedente della Libia. Nonostante la loro manifesta pretestuosità queste argomentazioni trovarono il sostegno sia del governo sia delle opposizioni e diventarono la base di quella politica di cooperazione con i paesi arabi che costituì in quegli anni, e fino al maggio '49, la strategia mediterranea.

L'accanimento con il quale Palazzo Chigi sostenne la linea coloniale, anche quando "era divenuto ormai chiaro che gli alleati non avevano nessuna intenzione di dare soddisfazione all'Italia", dipendeva dalla convinzione, ormai instaurata anche nell'opinione pubblica, che l'affermazione della tesi coloniale equivaleva alla sopravvivenza dell'Italia come potenza. Un'equazione quest'ultima, pericolosa quanto sbagliata, che avrebbe creato al momento della perdita definitiva dei possedimenti africani una forte delusione e un'impressione di sconfitta totale. Comunque, fino a quel momento del maggio '49, le autorità italiane fecero di tutto per indurre le potenze vincitrici a non umiliare l'Italia anche sul fronte coloniale.

A più riprese si tentò di mercanteggiare l'adesione al sistema atlantico con la richiesta di amministrazione della Libia, dell'Eritrea e della Somalia, "senza rendersi conto che da parte degli alleati questa possibilità era ormai esclusa, e forse non era mai stata presa in considerazione". Purtroppo però solamente alcuni esponenti della classe diplomatica come l'Ambasciatore a Parigi, Pietro Quaroni, e quello a Washington, Alberto Tarchiani, dimostrarono lungimiranza denunciando l'ostinazione coloniale del governo come anacronistica.

Nell'ottobre 1947 Quaroni scriveva al Ministro degli Esteri Sforza: "Bisogna che noi cominciamo col dire che noi vogliamo che le nostre ex colonie siano indipendenti, indipendentissime: che cominciamo col dire come sarà e come dovrebbe essere organizzato questo Stato nuovo che dovrà prendere vita sul territorio delle nostre ex colonie; e come noi intendiamo aiutare nel più breve tempo possibile questo Stato nuovo ad essere del tutto indipendente".
Secondo l'Ambasciatore la lotta per la difesa delle colonie era persa in partenza perché combattuta con armi logore. Essa doveva dunque essere abbandonata, sia per non continuare a investire energie importanti in una battaglia assurda, sia per la convenienza di lasciare il campo coloniale nel modo più indolore e proficuo. Le riflessioni profetiche di Quaroni non ottennero però ascolto, così, forse più che altro per pararsi dalle accuse di debolezza che piovevano dall'opposizione, che non per convinzione personale, i titolari di Palazzo Chigi proseguirono fino all'aprile '49 sulla linea della rigidità e della rivendicazione globale di tutti i possedimenti. Solo allora la diplomazia italiana decise di tentare la strada del compromesso.

Fu abbandonata l'intransigenza dei mesi precedenti e si arrivò (il 6 maggio) all'accordo stipulato tra i due ministri degli esteri, di cui si è parlato sopra. La delusione e l'amarezza per la bocciatura all'ONU dell'accordo Bevin-Sforza furono tanto più profonde in quanto alla questione dei possedimenti africani il governo aveva legato il concetto di sopravvivenza del Paese come potenza. Il presidente del Consiglio e il ministro degli Esteri ritenevano personalmente preferibile abbandonare la partita (in questo si allineavano con il parere dell'Ambasciatore a Parigi Quaroni), ma agivano in senso contrario per evitare ulteriori umiliazioni ad un'opinione pubblica che già ferita da un durissimo trattato di pace non voleva accettare l'idea di rinunciare ai possedimenti africani.

Nei giorni successivi alla bocciatura del piano anglo-italiano da parte delle Nazioni Unite, il governo fu travolto dalle critiche mosse sia dall'opinione pubblica, profondamente colpita da quella che come si è già visto era considerata una sconfitta, sia dall'opposizione di destra che lo accusava di scarsa incisività. Oltretutto, il governo doveva trovare il modo di difendersi dalle accuse dei comunisti che mettevano in rilievo come l'adesione al Patto Atlantico non avesse rafforzato la posizione italiana nel mondo, anzi avesse messo, così sembrava, il futuro del Paese nelle mani di Washington e Londra. Questo attacco congiunto delle forze politiche e dell'opinione pubblica provocò alla fine di maggio una vera e propria svolta che portò ad un completo ripensamento della politica mediorientale italiana.

L'obiettivo ultimo rimaneva inalterato: confermare la presenza del paese nel Mediterraneo, mentre gli elementi predisposti per raggiungerlo subivano una completa revisione. La nuova strategia doveva adeguarsi ad una situazione completamente mutata e doveva farlo in fretta. Perciò quella che maturò nel giro di pochi giorni fu una svolta imposta dalla serie di continui fallimenti e non da un processo autonomo di ripensamento. "La nuova politica era figlia di una situazione di debolezza e dell'esigenza di capovolgere in segno positivo una circostanza negativa: l'anticolonialismo era la risposta italiana alla crisi del suo colonialismo."

La presentazione ufficiale della nuova linea ebbe luogo il 31 maggio. Il presidente del Consiglio ne illustrò i contenuti ai delegati libici ed eritrei di passaggio a Roma nel viaggio di ritorno da Lake Success. De Gasperi dichiarò che il governo italiano intendeva favorire la piena indipendenza delle sue antiche colonie, indipendenza che a suo avviso poteva realizzarsi immediatamente per l'Eritrea e la Libia e a breve scadenza per la Somalia. Sui motivi di questo ripiegamento non ci sono dubbi. Esso fu causato dalla necessità di far fronte ad una sconfitta che altrimenti avrebbe portato l'Italia all'esclusione totale dal Mediterraneo. Ponendosi su questo piano il paese anticipava involontariamente i risultati di un anticolonialismo crescente, sebbene agli esordi, che nei successivi dieci anni avrebbe portato alla fase più proficua della decolonizzazione.

Grazie a questa svolta l'Italia si ripresentava in Medio Oriente come la paladina dei paesi arabi, il ponte fra Europa e Africa. Così l'opzione anticoloniale diventava uno strumento positivo per una politica di avvicinamento al mondo arabo, che mostrava buone possibilità di riuscita proprio perché adesso il paese avrebbe potuto meglio comprendere le aspirazioni di autonomia e indipendenza di quei popoli, ancora sottoposti a limitazioni di sovranità. Nell'impostare questa nuova politica, le autorità italiane non dovevano però sottovalutare gli inconvenienti che essa portava con sé. Innanzitutto dovevano stare molto attente a che l'anticolonialismo non venisse interpretato come nuovo colonialismo mascherato dalle buone intenzioni; in secondo luogo, dovevano dimostrare agli alleati come una politica filoaraba fosse compatibile con gli impegni atlantici.

Si chiedeva cioè all'Italia di sciogliere l'eterno dilemma della sua politica estera che ormai per tradizione era divisa tra slancio europeistico e velleità mediterranee. La soluzione fu trovata nell'assunzione da parte dell'Italia di una nuova funzione di cooperazione e mediazione tra oriente e occidente. I grossi vantaggi economici e politici che potevano essere offerti da una penetrazione nel mondo arabo acquistavano adesso maggior valore poiché sembravano in grado di porre il paese come anello di collegamento tra la civiltà europea e quella araba.
"Tradotta su un piano concreto, l'aspirazione italiana era di assumere la leadership di un processo di rinnovamento morale e culturale del mondo mediterraneo, agendo da punto di raccordo fra civiltà occidentale e civiltà araba. Su questo terreno avveniva la saldatura tra interessi nazionali e interessi della comunità atlantica e europea."

Oltretutto, non era da trascurare il fatto che con questa politica l'Italia avrebbe contribuito a creare una barriera capace di respingere eventuali pressioni sovietiche sul Medio Oriente. Era su questa natura anticomunista della sua manovra che il governo insisteva per raccogliere i consensi degli alleati occidentali. Altre circostanze sembravano poi confermare la bontà della scelta proaraba. Esasperato dalla questione palestinese, il nazionalismo arabo aveva reso difficili i rapporti con quelle potenze che come la Gran Bretagna e la Francia avevano dominato per lungo tempo la zona, e aveva fatto sorgere dei sospetti anche sulla presenza americana, pregiudicata, agli occhi degli arabi, dalla tendenza ad appoggiare Israele.

Sicché tutto sembrava aprire nuovi spazi ad un paese come l'Italia che potendo contare su un'ottima posizione geografica e su una multiforme tradizione di contatti ed associazioni con il mondo arabo sembrava essere, almeno giudicando da queste premesse, l'ideale sostituto delle vecchie potenze coloniali. La realizzazione di queste premesse ipotetiche era però resa difficile se non impossibile dalla debolezza strutturale del paese e dal ristretto margine che il gioco politico internazionale lasciava all'Italia.
La scarsa influenza diplomatica che Roma avrebbe potuto esercitare sulle discussioni inerenti i delicati equilibri del settore mediorientale era la conferma del perdurare di quella povertà di risorse economiche e politiche che ostacolava la realizzazione degli obiettivi di palazzo Chigi. Tenendo conto, più o meno consapevolmente di tutti questi elementi, il governo italiano si apprestava a realizzare una politica filoaraba che puntava sugli scambi culturali ed economici.

La seconda guerra mondiale e il nuovo ordine internazionale che era seguito alla conclusione del conflitto avevano imposto un nuovo equilibrio e nuove dinamiche tra gli stati. La decolonizzazione, peraltro fenomeno non nuovo, faceva il suo ingresso come uno dei protagonisti della nuova epoca e costringeva l'Europa a guardare in faccia una realtà nella quale il centro politico dell'universo non era più il vecchio mondo. Nella definizione dei due blocchi contrapposti si ridisegnava un equilibrio di potere all'interno del quale la "piccola" Italia sarebbe stata costretta a muoversi con molta attenzione.
La politica estera veniva ripensata da De Gasperi e Sforza e il Mediterraneo vedeva riconfermata la sua centralità. Con i nuovi strumenti indicati dall'assetto postbellico, Roma si apprestava a proseguire, senza soluzione di continuità, una politica mediterranea che fin dall'inizio della storia unitaria del paese si era presentata come un elemento di grande importanza e interesse.

I PRECEDENTI

Negli anni che vanno dal 1861 alla seconda guerra, questa tendenza a espandersi verso i paesi arabi del Medio Oriente venne perseguita con una politica di conquiste che assomigliava del tutto al colonialismo in quanto ne usava gli strumenti e le giustificazioni, pur allontanandosi da esso per le sue dimensioni, diciamo, ridotte. In un'epoca (gli ultimi venticinque anni dell'800) in cui Gran Bretagna, Francia, Belgio, Olanda e, in misura minore Stati Uniti, conquistavano il mondo in nome della diffusione di un superiore progresso europeo, dell'espansione economica, del raggiungimento di una dimensione di grande potenza che poi avrebbe avuto riflesso nell'equilibrio tra gli stati del vecchio centinente, la giovane Italia costruiva a fatica se stessa senza dimenticarsi, seppure in seconda battuta, dell'importanza di riqualificare la sua posizione tra i colossi europei.

Così, più per acquisire un prestigio inesistente che per convinzione radicata nelle menti dei capi della diplomazia, negli anni '80 del XIX secolo anche Roma tentò un approccio, tuttavia rivelatosi maldestro, al colonialismo di conquista. Proprio perchè improvvisato e condotto senza la ricchezza economica di cui le altre potenze potevano disporre, il colonialismo italiano soffrì oltretutto della posizione debole che il Paese occupava tra gli altri stati del continente. In buona sostanza questa condizione di debolezza e povertà costrinse Roma ad una politica coloniale episodica riproposta di quando in quando senza criterio. Il fatto di non essere una grande potenza legò sicuramente, almeno in parte, le mani all'Italia.

Più di una volta, e basti ricordare la rinuncia forzata alla Tunisia, dichiarata terra di espansione francese durante il congresso di Berlino del 1878, nell'ambito di una politica tra stati condotta in nome della diplomazia segreta che stabiliva assetti e sistemazioni a tavolino, il paese dovette accettare, seppure a malincuore, di rimanere estraneo e intoccato dalle manovre con le quali il mondo intero veniva spartito.

Il primo atto della storia coloniale italiana fu l'acquisto della baia di Assab nel mar Rosso, nel 1869. Il governo anticipò i fondi mentre l'armatore genovese Rubattino, spinto dalla prospettiva di un incremento del traffico commerciale nel Mediterraneo, che sembrava realizzabile dopo l'apertura avvenuta in quello stesso anno del canale di Suez, diede la sua copertura all'impresa. Realizzando un'idea lanciata da Giuseppe Sapeto, un ex-missionario che aveva a lungo viaggiato e vissuto in Africa orientale, l'Italia poneva le basi dell'espansione nel continente nero. L'acquisto della baia di Assab, una striscia di terra di 6 chilometri costata allo stato 30.000 lire, avvenne il 15 novembre 1869 ma rimase per lungo tempo priva di seguito. L'arida ed assolata costa del mar Rosso apparteneva all'Egitto che protestò energicamente e cancellò in breve ciò che l'Italia aveva fatto per rendere visibile la sua presenza.

Peraltro si capì ben presto che gli interessi economici erano ben limitati e il commercio verso l'oriente alquanto faticoso e privo di reale sostegno da parte delle autorità. Furono motivazioni, queste ultime, che bastarono a frenare ogni successiva iniziativa. Solo nel 1882, lo stato italiano rilevò a Rubattino la concessione sulla baia egiziana e riorganizzò, ampliandoli attraverso nuovi acquisti, i possedimenti africani dell'Italia. Ne seguì, tre anni dopo, la facile occupazione di Massaua andata a buon fine più per la rinuncia a difendersi decisa dai capi abissini impegnati nel contrasto con i sudanesi che minacciavano di occupare la parte settentrionale dell'Etiopia, che per il puro merito dell'azione orchestrata da Roma.

Fin da questi primi passi, il colonialismo italiano mostrava di non essere ben congegnato e finalizzato, di non avere motivazioni economiche serie e di non godere, oltretutto, dell'appoggio della popolazione, per la maggior parte ostile a imprese tanto costose quanto pretestuose. La conferma di quanto appena affermato non tardò a venire. Incoraggiato dalla conquista di Massaua il governo di Roma organizzò una successiva espansione che si scontrò con il contingente indigeno guidato dal ras Alula. Questi uomini, di cui la preparazione a combattere fu costantemente sottovalutata attaccarono il fortino italiano a Dogali infliggendo, il 26 gennaio 1887, al colonnello De Cristoforis una sonora sconfitta che costò la vita a molti giovani. L'episodio allarmò l'opinione pubblica italiana e suscitò un'ondata generale di proteste che ben indicavano quanto poco radicata fosse l'adesione ad un colonialismo complessivamente non condiviso da un paese ancora troppo giovane per porsi velleità di potenza. La sufficienza con la quale il governo aveva gestito questa prima prova di conquista non bastò però per modificare un atteggiamento basato totalmente su vane speranze affidate alla presunta ignoranza di una popolo, quello abissino, reputato primitivo.

Il trattato di Uccialli, stipulato tra l'Italia e il negus Menelik dal governo di Crispi nel 1889, fu infatti interpretato da Roma come una sorta di via libera all'espansione italiana nella regione.
Il Primo ministro, uomo determinato a fare del suo paese una potenza di rilevanza mondiale, riaprì la partita coloniale nel 1893. Appena tornato al governo pensò che oltretutto un nuovo tentativo di conquista fosse un buon sistema per distrarre l'opinione pubblica dalla crisi economica e dalla fortissima tensione sociale causata dalla rivolta dei Fasci siciliani.
Nei tre anni successivi, i segni incoraggianti furono veramente pochi, ma questo non servì a fermare o a far indietreggiare Crispi. Convinto che nulla avrebbe potuto fermare la corsa dell'Italia verso la conquista del suo "posto al sole", il capo del governo indicò come obiettivo la conquista dell'Etiopia.
Il negus Menelik, che con il trattato di Uccialli tutto pensava di aver concesso fuorché il protettorato italiano sull'intera zona, raccolse tutte le sue forze e si preparò allo scontro. La battaglia di Adua fu combattuta il 1° marzo 1896 da un contingente italiano tre volte inferiore alle forze messe insieme dal negus. Queste ultime costrinsero i loro avversari ad una resistenza disperata e infine ad una pietosa ritirata: 5000 italiani e 1000 eritrei persero la vita. La sconfitta ebbe anche immediate ripercussioni sul governo. Crispi si dimise salutando per sempre gli scranni governativi sui quali non si sarebbe più seduto e stendendo al contempo un velo su ogni impresa espansionistica. Lo sostituì Di Rudinì: un uomo di destra deciso anticolonialista con inclinazioni pacifiste.

Le imprese africane furono abbandonate e il governo si limitò a firmare con Menelik una pace sommaria. Qualche anno più tardi le terre eritree vennero riorganizzate di pari passo ai primi tentativi di allargamento verso la Somalia. Era un tentativo per non abbandonare definitivamente i sogni imperiali che sarebbero risorti solo dopo avere curato e dimenticato le ferite patite a Dogali e Adua. Nel 1911 il governo guidato da Giolitti giudicò che era giunto il momento per riprendere in mano il discorso interrotto con la sconfitta del 1896.
Erano ormai passati 15 anni e quella stessa borghesia, quella parte del Parlamento che aveva ostinatamente rifiutato le improvvisate conquiste africane, ora appoggiava compatta e supportata da una valida e incessante campagna di stampa la nuova fase del vecchio colonialismo. Si arriva con la logica a immaginare che la Libia dei primi anni del '900, ovvero il paese più povero del Mediterraneo di allora non fosse un bocconcino appetibile. Prima della scoperta dei giacimenti di petrolio il territorio di Cirenaica, Tripolitania e Fezzan era solo, come venne chiamato, un immenso scatolone di sabbia. Le falde acquifere, quasi inesistenti, il clima torrido che provocava continue carestie, non permettevano di certo la pianificazione di un'agricoltura produttiva che facesse concorrenza a quella dell'Italia meridionale diventando così la nuova casa dei molti cittadini che migravano, a quei tempi, verso Germania e Stati Uniti. In conclusione la Libia non poteva essere un buon investimento per l'economia del paese.

Ma il fascino che emanava era dato dal fatto di essere l'unico paese africano ancora libero da legami coloniali. Francia e Gran Bretagna, Belgio e Olanda avevano occupato buona parte dei territori del grande continente nero realizzando un sistema coloniale che nel caso della prima tendeva a sostituirsi ai locali indicando loro una nuova forma di governo, una nuova economia, una nuova classe dirigente e governativa formata per lo più da francesi disposti a trasferirsi, mentre nel caso del Regno Unito puntava ad una gestione meno invasiva basata sulla fiducia accordata agli indigeni legati alla potenza imperiale da trattati in vario modo vincolanti.
La debole e povera Italia doveva così, qualora avesse voluto, accontentarsi delle briciole. L'unico territorio ancora disponibile nel 1911 era la Libia e questo sembra l'unico vero motivo alla base della scelta di trasformare quell'arido deserto prima della scelta del territorio da conquistare. Perché un paese che aveva già avuto risultati disastrosi in materia di conquiste e che oltretutto aveva raggiunto un buon livello di sviluppo economico avrebbe dovuto tentare nuovamente la strada del colonialismo? La risposta è facile se si pensa che questo tipo di imprese anche in passato avevano avuto il solo scopo di distrarre l'opinione pubblica da situazioni complicate attinenti alla politica interna. Lo sviluppo industriale conseguito dal paese provocò in quegli anni di inizio secolo un forte aumento della conflittualità sociale.

I movimenti operai acquistavano una certa importanza e le destre nazionaliste chiedevano che l'Italia ponesse fine in qualche modo alla condizione per la quale gli alleati europei, Austria-Ungheria e Germania, nonostante la triplice Alleanza stipulata nel 1882 imponesse consultazioni preventive in caso di espansione oltre i confini statali, si erano potuti permettere di decretare l'annessione della Bosnia-Erzegovina all'Austria senza interpellare Roma. Praticamente ciò che le destre chiedevano era la fine della debolezza che costringeva il paese a stare ai margini delle relazioni e delle decisioni internazionali, che costringeva a rinunciare al completamento della propria unità territoriale e che costringeva, oltretutto, molti italiani a lasciare il paese per cercare lavoro altrove. In questa situazione molto fluida e mutevole ebbero fortuna le teorie dello scrittore Enrico Corradini, secondo cui il contrasto fondamentale non era più quello fra le diverse classi all'interno di un paese bensì quello tra paesi ricchi e poveri, tra "nazioni capitalistiche" e "nazioni proletarie", cioè con un'eccedenza di popolazione rispetto alle risorse economiche.

Applicata all'Italia, questa teoria portava a una contrapposizione nei confronti delle democrazie occidentali, a una ripresa dell'iniziativa coloniale che avrebbe dovuto assorbire le spinte sociali indirizzandole verso gli obiettivi imperiali. In questo clima politico si costituì un movimento nazionalista che basandosi sulle idee di Corradini si diede nel 1910 una struttura organizzata con la fondazione dell'Associazione nazionalista italiana. Confluivano, in quest'ultima, elementi eterogenei ma d'accordo nella convinzione che l'Italia dovesse elevarsi dalla condizione di potenza di secondo rango attraverso un'impresa coloniale che ne avrebbe mostrato il valore.
Questo gruppo che si ispirava in tutto e per tutto alle idee di Corradini aprì, dalle colonne del nuovo periodico romano "L'idea nazionale" una martellante campagna di stampa in favore della conquista della Libia. Rafforzati dall'appoggio dato loro dai gruppi legati alla Banca di Roma, che da tempo era impegnata in una penetrazione economica nella regione africana, i membri dell'Associazione nazionale contribuirono non poco a spingere l'Italia verso l'intervento che ebbe luogo nel 1911 in seguito alla imminente estensione al Marocco del protettorato francese.

Nel settembre di quello stesso anno, Giolitti mandò in Libia un contingente di 35.000 uomini che si scontrò in un primo momento con la reazione dell'Impero turco, tutore nominale della regione africana. La guerra fu più lunga del previsto e vide l'allargamento delle ostilità alle isole di Rodi e del Dodecaneso. Solo nell'ottobre 1912 la pace di Losanna consegnava nelle mani italiane la Libia. La guerra in realtà, nonostante in patria si dicesse che il paese africano fosse ormai sotto la sovranità del governo di Roma, non cessò dopo la pace, ma continuò per lungo tempo.
Le popolazioni nomadi della zona non si arresero al passaggio di sovranità decretato dalla pace di Losanna e continuarono una resistenza che costò vite umane e denaro ad un'Italia che nel frattempo pubblicizzava il bel risultato. Negli anni successivi, tutto ciò che si era atteso dalla conquista di un proprio impero coloniale mostrò la propria vacuità. Non ci fu nessun beneficio economico e pochissimi italiani furono disposti a colonizzare un deserto che certo non reggeva il confronto con le promesse e le speranze che sapevano regalare l'idea di una migrazione negli Stati Uniti o in Francia.
Oltretutto neanche le motivazioni politiche trovarono soddisfazione. Giolitti che aveva creduto di pacificare i contrasti sociali interni al paese e di mettere a tacere le spinte estreme dei gruppi di destra, per poi riprendere il suo riformismo basato sul controllo e la cristallizzazione delle dinamiche interne ed esterne al Parlamento, lasciò la guida del governo nel maggio 1914 di fronte alla constatazione che a nulla era valso il suo tentativo di soluzione di contrasti sociali che era giusto l'Italia vivesse in quel momento di fermento diffuso a tutta l'Europa.

Chiusa la campagna di Libia e concretamente sepolta la possibilità di integrare il territorio africano nelle dinamiche di crescita dello stato italiano, il colonialismo visse di nuovo un momento di totale oblio. Fu un momento, a dire il vero, parecchio lungo, che durò fino al 1935. Questa episodicità del colonialismo italiano, come si è già detto, denuncia l'incapacità del paese a perseguire con una certa continuità una presunta vocazione coloniale vagamente e genericamente civilizzatrice per niente presente negli interessi e nelle facoltà di uno stato troppo debole e di marginale importanza. E conferma allo stesso tempo la volontà di usare le imprese coloniali come mezzo attraverso il quale dare prestigio al paese.

In questa accezione rientra anche la prova "trionfale" che portò Mussolini alla conquista dell'Etiopia. Analizzando i moventi dell'impresa troviamo una stupefacente coincidenza tra quelli addotti dal regime fascista e quelli che 15 anni prima avevano spinto l'Italia giolittiana ad un'analoga impresa. Ancora ritornano le mire di grandezza, adesso più accentuate trattandosi di un regime totalitario o che almeno aspirava ad esserlo, e ancora parliamo della conquista dell'Etiopia come di un pretesto per distrarre la popolazione dalle difficoltà economiche giunte in Italia con la crisi che alcuni anni prima, nel 1929, aveva catastroficamente colpito gli Stati Uniti. Fu diversa l'adesione dell'opinione pubblica, in verità uguale a quella tenuta nei confronti dei tentativi coloniali ottocenteschi.

Nel '35 l'Italia non sentiva la necessità di un'impresa che sarebbe costata molto ad un paese già in crisi. Le vicende della conquista dell'Etiopia furono così seguite con un certo disinteresse fino al giorno in cui, la decisione della Società delle Nazioni di applicare sanzioni economiche al paese, accusato di avere attaccato senza motivo uno stato libero, provocarono un'ondata di patriottismo che riuscì a coinvolgere, nel nome della difesa di una nazione alla quale per invidie insane la comunità internazionale tentava di impedire la conquista di un proprio impero, intellettuali antifascisti come Benedetto Croce.
I giornali fecero anche di più, dalle loro pagine inneggiavano "l'italia guerriera".

Nonostante le difficoltà causate dalle sanzioni, l'Italia riuscì comunque a conquistare l'Etiopia il 6 maggio 1936, quando le truppe capeggiate dal maresciallo Badoglio entrarono trionfalmente ad Addis Abeba. La vittoria, che diede a Mussolini la corona di imperatore, fu un indubbio successo politico sul piano interno. Molti italiani ebbero la sensazione che finalmente il paese avesse acquisito uno status di grande potenza anche a dispetto e contro i colossi occidentali. In realtà il contingente fascista ebbe la meglio contro un esercito formato da uomini non abituati a combattere, mal equipaggiati e decisamente molto meno numerosi. Questa prova perciò non poteva essere letta come una verifica della forza italiana. Le successive vicende avrebbero mostrato che la penisola non era in grado di affrontare uno scontro con una grande potenza, ma la vittoria conseguita in Etiopia dette a Mussolini la sensazione di poter condurre una politica aggressiva e lo spinse a consolidare il legame in precedenza abbozzato con la Germani nazista. L'ultima impresa coloniale della storia italiana prerepubblicana ha infatti come unico movente la necessità di tenere il passo dell'alleato con il quale dal maggio 1939 il regime mussoliniano aveva stipulato il cosiddetto "Patto d'acciao".

La successiva occupazione dell'Albania fu infatti un tentativo unilaterale messo in piedi dal duce per cercare di porsi come polo di potere a fianco del dittatore tedesco che a quell'epoca aveva già annesso al suo impero l'Austria e si apprestava a concludere l'occupazione dei Sudeti.

La catastrofe della guerra azzerò ogni conto. L'Italia trattata alla stregua di nazione sconfitta perse automaticamente il diritto alle colonie conquistate durante il ventennio fascista e vide messa in discussione la presenza nelle colonie prefasciste. Ciò che successe negli anni dopo la guerra lo abbiamo già visto all'inizio di questa trattazione che si potrebbe concludere con una riflessione sul dilemma di una nazione costretta a comportarsi come una potenza per acquisirne il rango, ma assolutamente incapace, per debito strutturale e debolezza cronica, di giocare in quel ruolo.

(Ndr. - Ed anche all'ONU, questa debolezza cronica si farà sentire. Probabilmente le due potenze che erano alleate all'Italia, Germania e Giappone, e che uscirono dal Grande Conflitto perdenti (ma non proprio del tutto umiliate come l'Italia) riusciranno a sedersi fra i 5 membri permanenti all'Onu, accanto all'Inghilterra e alla Francia.
Ci attende un'altra umiliante beffa?)


ILARIA TREMOLADA

BIBLIOGRAFIA
Le guerre coloniali del fascismo, a cura di Angelo del Boca, Laterza, Roma-Bari, 1991.
Mussolini e la conquista dell'Etiopia, di Renato Mori, Le Monnier, Firenze, 1978.
Libia ed Etiopia nella politica coloniale italiana (1918-1919), di Vanni Clodimiro, Quaderni dell'Istituto di Studi Storici, 1986.
Guerre italiane in Libia e in Etiopia, di Giorgio Rochat, PAGVS, Padova, 1991.
La conquista dell'Etiopia, di Paolo Gentizon, Hoepli, Milano, 1937.
La politica estera dell'Impero, di Fulvio D'Amoja, Cedam, Padova, 1967.
Venti anni di politica estera, di Paolo Cacace, Bonacci, Roma, 1986.
Il colonialismo italiano, di Giorgio Rochat, Loescher, Torino, 1988.
L'età degli imperi, 1875-1914, di Eric Hobsbawm, Laterza, Roma-Bari, 2000.

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Caserme di Ascari a Mogadiscio - 1936

Soldati Ascari - Al centro il padre dell'autore di Cronologia

Il porto di Massaua - 1936

Il lungomare Volpi a Tripoli - 1936

La piazza di Harrar - 1936

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