ANNO 1943 (10 bis)

< LA NASCITA DELLA REPUBBLICA SOCIALE

L'ESERCITO DEL DUCE DI SALÒ
AL GUINZAGLIO DI HITLER

Quattro divisioni italiane addestrate in Germania (1943) per battersi contro gli
anglo-americani diretti al nord. Ma furono mandate a dar la caccia ai partigiani

di PAOLO DEOTTO

 

"Viva è l'attesa per l'entrata in linea delle grandi unità dell'esercito repubblicano. Pur essendo stato generalmente rilevato il saldo spirito militare e l'entusiasmo di questi nostri soldati provenienti dai campi di addestramento germanici, da più parti ci si augura che vengano adottate le necessarie precauzioni affinché queste granitiche unità siano preservate dal contagio che potrebbe derivare da un prolungato contatto con le nostre popolazioni permeate da uno spirito di rassegnazione, di sfiducia e di rinunzia".
"… l'opinione dei più è che la vicinanza di queste nostre truppe a popolazioni stanche e sfiduciate possa deprimerne lo spirito che la permanenza e la preparazione in Germania hanno così mirabilmente temprato".


Questi che abbiamo appena letto sono due brani estratti dai molti rapporti che l'Ufficio Situazione della GNR (Guardia Nazionale Repubblicana) indirizzava, quasi quotidianamente, ai vertici della RSI (Repubblica sociale Italiana). I rapporti, redatti sulla base delle informative che pervenivano dai diversi comandi provinciali, sono rimasti come preziosa testimonianza del tentativo di riorganizzazione militare operato nell'ultimo periodo del fascismo. In particolare, i due estratti sopra citati riguardano la III Divisione fanteria di marina San Marco e la IV Divisione alpina Monte Rosa, due delle quattro divisioni che, sottoposte al meticoloso e durissimo addestramento in Germania, avrebbero dovuto costituire il nerbo delle nuove forze armate fasciste repubblicane. E in quei due estratti viene subito messo in luce il problema centrale di quelle unità militari, lo stesso problema che afflisse tutta la breve storia della RSI: il distacco dalla realtà civile e sociale, il tentativo di costruire una struttura statale, di cui le Forze Armate sono una delle componenti più importanti, contro la volontà di una popolazione ormai stremata, desiderosa solo di pace, disillusa del fascismo.


Una cartolina di propaganda della Repubblica sociale italiana


Il contrasto tra la retorica ufficiale, amplificata nei campi di addestramento tedeschi, e la triste realtà ritrovata al rientro in Patria fu il primo dramma vissuto dai 57.000 uomini, gli effettivi delle quattro Divisioni, le già citate San Marco e Monte Rosa, la I Divisione bersaglieri Italia e la II Divisione granatieri Littorio. 57.000 uomini che furono l'ultima illusione di riscatto militare del fascismo e che pagarono un durissimo prezzo alla volontà frenetica di Hitler, debolmente contrastata da un Mussolini spento e da un Graziani, Ministro della Difesa della RSI, tanto ricco di retorica quanto povero di effettivo potere. Vorremmo quindi ripercorrere la strada, breve nel tempo ma altamente significativa, di queste quattro divisioni. Rileggeremo una vicenda non solo politica e militare, ma anche umana, atto finale del dramma di una generazione tradita.
Dobbiamo, per inquadrare correttamente il nostro studio, fare una sia pur breve panoramica sulla riorganizzazione militare, che fu uno dei primissimi problemi che il nuovo stato, la Repubblica sociale Italiana, dovette affrontare. Partiamo dalla sera del 18 settembre 1943, quando gli italiani risentirono, trasmessa dalla stazione radio di Monaco di Baviera, la voce inconfondibile che per ventuno anni li aveva guidati.
(Il discorso lo riportiamo a fondo pagina)

Mussolini, (liberato sei giorni prima con un colpo di mano dei paracadutisti tedeschi dalla strana prigionia in cui si trovava a Campo Imperatore), dopo una lunga serie di rievocazioni e recriminazioni su ciò che era accaduto dopo il 25 luglio, enunciava i punti fondamentali su cui si sarebbe fondata l'attività del nuovo Stato repubblicano che egli intendeva instaurare. Il primo punto, "riprendere le armi al fianco della Germania, del Giappone e degli altri alleati", conduceva inevitabilmente al secondo: "preparare la riorganizzazione delle Forze Armate".
Ma per procedere a questa riorganizzazione andavano risolti due quesiti fondamentali. In primis, le forze armate dovevano essere costituite da personale di leva o da volontari? Secondo problema (secondo solo in ordine di enunciazione): si doveva ricostituire un esercito apolitico, o la forza armata doveva avere una chiara connotazione di Milizia di partito?
Tre giorni prima (il 15 settembre) il reaparecido Duce aveva firmato cinque ordini del giorno, nei quali, tra l'altro, ordinava la ricostituzione di tutti i reparti della MVSN (Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale), e ne nominava comandante il quarantasettenne Renato Ricci, fascista inossidabile, già legionario fiumano, fondatore del fascio di Carrara, console generale della Milizia, parlamentare dal 1924, presidente dell'Opera Nazionale Balilla, eccetera.
Nelle sue primissime enunciazioni in materia, Mussolini sembrava propendere per un esercito di partito: "... preparare senza indugio la riorganizzazione delle nostre forze armate attorno alle formazioni della Milizia: "solo chi è animato da una fede e combatte per un'idea non misura l'entità del sacrificio".
Ricci, che già in cuor suo si considerava comandante in capo dell'esercito, parlava pubblicamente di una Milizia composta di "due grandi branche. Una, la Milizia Legionaria,
assorbirà tutti i giovani di leva... L'altra si chiamerà Milizia Legionaria Giovanile e arruolerà i ragazzi dai 18 ai 22 anni che si presenteranno volontari entro il 31 ottobre..."
Dunque, nella visione di Renato Ricci, si doveva costituire chiaramente un esercito di partito, comunque dotato di una base formata da personale di leva.

Di visione opposta era però il neo ministro della Difesa Nazionale, il maresciallo d'Italia Rodolfo Graziani. Nato nel 1882, militare di carriera, era divenuto ministro quasi per caso, o, più propriamente, per mancanza di altri personaggi presentabili, non invisi ai tedeschi, e disposti ad assumersi una tale grana. Graziani non aveva dato brillanti prove di sé. I galloni di maresciallo se li era guadagnati, nel 1936, nella (non certo invincibile) campagna etiopica, ma il suo nome era poi rimasto legato, quale comandante in capo delle forze italiane in Africa settentrionale, alla perdita dell'intera Cirenaica (5 gennaio 1941). Nel febbraio del 41, sostituito dal generale Gariboldi, Graziani si era ritirato a vita privata nella sua villa di Arcinazzo (Roma). E qui era stato raggiunto, il 22 settembre del 43, dal sottosegretario Barracu, che lo aveva invitato ad assumere la carica di ministro della Difesa nazionale nel governo della Repubblica Sociale Italiana. Dapprima riluttante, Graziani poi accettò, anche dietro le pressioni dell'ambasciatore tedesco Rahn.

Contrario, come la maggior parte degli ufficiali di carriera, alle abborracciate milizie di partito, il neo ministro della difesa nazionale esprimeva, sin dalla prima riunione del governo di Salò (27 settembre 1943) l'intenzione di costituire "un esercito a base nazionale, apolitico, con quadri esclusivamente volontari e truppe in gran parte volontarie, inquadrate in uno Stato il più possibile liberale e democratico", rincarando poi la dose con un memorandum del 3 ottobre, nel quale diceva a Mussolini: "La Milizia è odiata e deve essere disciolta immediatamente... L'esercito deve essere nazionale e apolitico, inoltre assolutamente unitario: finirla con la molteplicità delle creazioni militari che ci avevano portato all'impotenza".

Di entrambi i contendenti possiamo notare una scarsa aderenza alla realtà: Graziani, in una repubblica puntellata da Hitler, parla di uno Stato "liberale e democratico"; Ricci, in una situazione militare che presentava già tutti i sintomi della disfatta, pretende, riesumando quella parodia di forza armata che era la Milizia, di opporsi alla schiacciante superiorità degli Alleati in uomini, mezzi e tecnologie.
Ma tutto ciò non stupisce: la Repubblica Sociale fu piena di personaggi persi in un sogno, o quasi protesi a vivere un cupo crepuscolo senza vie d'uscita, con un atteggiamento mentale che impediva loro di valutare appieno la realtà. Se però in Graziani poteva giocare anche una preoccupazione di predisporsi qualche credenziale democratica (invocando un esercito "apolitico", uno Stato "liberale e democratico") in vista dell'inevitabile - e non lontanissimo -
redde rationem, Ricci era invece uno dei migliori esempi di quei fascisti di assoluta fede che nel tramonto restarono disperatamente affezionati a idee di una impossibile riscossa. I tedeschi (che si apprestavano a rendere agli italiani il tradimento dell'8 settembre, avviando trattative segrete in Svizzera con Allen Dulles, capo dei servizi segreti americani) apprezzavano i personaggi come Ricci, considerandoli affidabili cani da guardia.

Tornando invece alla diatriba, e all'uomo che in ultima analisi doveva risolverla, Mussolini, quest'ultimo, come era del resto suo costume, non decise né per l'una né per l'altra posizione. L'antica tendenza al compromesso come strumento di potere su tutti era aggravata dallo stato d'animo del Duce, stanco e sfiduciato e ben conscio di esercitare ormai un potere limitato e comunque soggetto al controllo (se non addirittura agli ordini) dei tedeschi. Dal discorso radio del 18 settembre Mussolini inizia a pencolare tra Graziani e Ricci fino a giungere, nella riunione di gabinetto del 20 novembre, all'istituzione della GNR, ottimo esempio di soluzione di pasticciato compromesso.
La GNR era arma combattente, in quanto quarta forza armata dello Stato (assieme ad esercito, marina e aeronautica). Non dipendeva però dal ministero della Difesa, ma dal partito, tramite Renato Ricci, che era stato nominato comandante generale di questa nuova formazione. Era però anche forza di polizia, come specificato dallo stesso decreto istitutivo. Era formata dalla MVSN (Milizia volontaria per l,a sicurezza nazionale), dai Carabinieri e dalla PAI (Polizia dell'Africa Italiana).
Ricci non poteva quindi arruolare i giovani di leva, che restavano di competenza dell'esercito apolitico di Graziani, anche se quest'ultimo (favorevole, come vedevamo sopra, a privilegiare una ferma volontaria) da subito aveva manifestato tutte le sue perplessità sui richiami alle armi, convinto che avrebbero creato più danni politici che vantaggi. Lo stesso Mussolini temeva che la coscrizione obbligatoria fosse inopportuna e difficile da realizzare, che potesse trasformarsi in un boomerang che da subito avrebbe messo in luce, in caso di elevata renitenza, la scarsa o nulla autorità che veniva, di fatto, riconosciuta al nuovo stato repubblicano fascista.

Le autorità fasciste potevano discutere tra loro quanto volevano, ma i veri padroni, i tedeschi, decidevano. In una riunione a Rastenburg, il 13 ottobre 1943, Graziani esprime le sue perplessità a Hitler, che era accompagnato dal generale Jodl e dal feldmaresciallo Keitel. Il Ministro della Difesa di Salò propone che siano costituite le prime quattro divisioni del nuovo esercito repubblicano attingendo volontari dai 600.000 soldati italiani internati nei lager tedeschi dopo l'8 settembre. Ma Hitler è irremovibile, appoggiato dai suoi generali: i soldati italiani internati non sono affidabili, hanno il morale a terra, sono Badogliotruppen. I tedeschi vogliono che il governo di Salò richiami alle armi i giovani delle classi 1924, 25, 26 e 27, da inviare in Germania per l'addestramento. Dopo lunghe discussioni, tutto ciò che Graziani riesce ad ottenere è che 12.000 volontari (tremila per ogni divisione) vengano tratti dai lager. Dovranno essere scelti tra ufficiali, sottufficiali e soldati anziani e serviranno come istruttori per le reclute italiane, che inizieranno ad affluire in Germania dal gennaio 1944 per l'addestramento. In tal senso il 16 ottobre 1943 il segretario generale dell'esercito, Emilio Canevari, sigla con il generale Buhle, capo di Stato Maggiore di Keitel, gli "accordi fondamentali per la ricostituzione delle forze armate italiane".

E qui conviene fare un attimo di sosta per riflettere su quanto abbiamo letto. La Repubblica Sociale nasce come mera dipendenza germanica e da subito i tedeschi, imponendo il loro placet per la nomina dei ministri, chiariranno che il rapporto di "alleanza" è di fatto un rapporto di vassallaggio. Ciò era tanto più vero per ogni decisione in materia militare, perché le nuove autorità di Salò potevano discutere quanto volevano, ma dovevano fare i conti anche con la realtà, rappresentata dalla gigantesca rapina effettuata dai tedeschi dopo l'8 settembre. Con la scrupolosa passione per l'ordine amministrativo che lo caratterizzava (anche nelle attività sulle quali sarebbe stato meglio stendere il silenzio) il generale Alfred Jodl, capo Ufficio operazioni del Comando Supremo elencava il seguente bottino sottratto all'alleato italiano: 1.255.660 fucili, 38.383 mitragliatrici, 9.986 pezzi di artiglieria, 15.000 automezzi, 6.760 muli e cavalli, vestiario per mezzo milione di uomini. Ai fascisti di Salò non fu restituito nulla; i tedeschi vedevano la ricostituzione dell'esercito italiano come un fastidio, necessario da sopportare per ragioni politiche, ma che non avrebbe avuto alcun peso sotto il profilo militare. A maggior ragione quindi i materiali di equipaggiamento dovevano restare sotto il loro controllo.

In questo clima nasce quindi il "nuovo esercito" italiano. Imposto da Hitler come esercito di leva, sognato da Graziani come esercito "apolitico", segna la sua data di nascita col 16 ottobre 1943 (lo stesso giorno degli accordi siglati da Canevari) quando viene trasmesso per radio il comunicato di chiamata alle armi della classe 1925 e dell'ultima aliquota della classe 1924. Il 20 ottobre riprendono a funzionare gli uffici leva e il 9 novembre viene pubblicato il manifesto di chiamata, che impone la presentazione ai distretti militari tra il 15 e il 30 novembre 1943.

La specificità del nostro studio ci sconsiglia di percorrere la strada tormentata delle renitenze alla leva, delle diserzioni, della repressione, nonché del caos in cui versavano buona parte delle caserme italiane, dove mancava spesso anche il minimo equipaggiamento per vestire le reclute e farle dormire. Trasferiamoci quindi in Germania, nei campi di addestramento di Heuberg, Senne Lager, Grafenwohr e Munzingen. Qui stanno terminando il loro addestramento i 57.000 uomini delle quattro Divisioni, Italia, Littorio, San Marco e Monte Rosa. I volontari, tratti dai lager tedeschi in cui erano stati imprigionati dopo l'8 settembre, sono, in definitiva, tredicimilacento, millecento in più di quanto aveva inizialmente autorizzato Hitler. Per uscire dai lager hanno dovuto firmare due dichiarazioni d'impegno che rappresentano un duro colpo alle pretese di "apoliticità" del maresciallo Graziani. La prima dice:
"Il sottoscritto dichiara con ciò di voler combattere come
volontario con l'arma nelle formazioni italiane da costituirsi contro il comune nemico dell'Italia repubblicana fascista e della Grande Germania".
La seconda è politicamente ancora più chiara:
"Aderisco all'idea repubblicana dell'Italia repubblicana fascista e mi dichiaro volontariamente pronto a combattere con le armi nel costituendo nuovo esercito italiano del duce, senza riserve, anche sotto il Comando Supremo tedesco, contro il comune nemico dell'Italia repubblicana fascista del duce e del Grande Reich germanico".
Tra i volontari c'è di tutto: chi ha aderito alla RSI per fede fascista, ma anche chi ha colto al balzo l'occasione per tornare in Italia; c'è chi ha accettato per debolezza, chi per tornaconto, almeno presunto. Le successive vicende delle quattro Divisioni metteranno in luce tutte queste diverse posizioni. Altri 44.398 soldati provengono dall'Italia. Ci sono dei volontari, ma soprattutto, nella grandissima maggioranza, i precettati con le leve, poi renitenti catturati, anche partigiani "rastrellati" e perdonati. Sono giovani di 19, 20, 21 anni che hanno fatto giorni di viaggio nei carri bestiame verso la Germania, dove qualcuno non è mai arrivato, perché abbattuto dalle scorte tedesche mentre tentava di fuggire. Poi, la realtà dura dei campi di addestramento, coi sistemi tedeschi: l'addestramento deve essere durissimo, perché solo così si forma il vero combattente, rendendolo insensibile alla sofferenza propria e altrui, insegnando la disciplina in modo ferreo e assoluto. La sconfitta del 1918 e il disastro ormai palese del secondo conflitto mondiale non hanno insegnato nulla ad una casta militare che per la seconda volta in meno di trent'anni sta portando il proprio paese alla rovina. L'istruzione continua, spezza le ossa e massacra. Tredici soldati della Littorio muoiono per la fatica. Cinque alpini della Monte Rosa tentano di fuggire dal centro di addestramento di Feldstetten, sono ripresi e condannati alla fucilazione, ma prima devono scavarsi la fossa davanti ai commilitoni, per "salutare esempio". Il rancio è quello consentito dalla situazione di fame in cui versa sempre più la Germania.
Dal diario di uno dei soldati della Monte Rosa: "Incontro spesso nella notte alpini a grufolare nelle immondizie nella ricerca di qualche buccia di patata o qualche porzione di crauti marciti…"

L'istruzione continua e intanto gli Alleati sbarcano in Normandia, i cieli della Germania sono solcati dai bombardieri anglo-americani e i pochi che ottengono licenze tornano dall'Italia portando notizie di caos e di disfatta, di città del Nord massacrate dai bombardamenti aerei, le stesse notizie che non possono arrivare con la posta, scrupolosamente censurata. Il morale dei soldati rischia di andare a picco e quindi la propaganda politica e la retorica dei giornali militari si fanno sempre più martellanti, insistendo in particolare su un punto: proprio perché l'Italia è sottoposta a prove durissime, il popolo italiano attende con ansia l'arrivo dei super-addestrati soldati delle quattro Divisioni. Nelle mani di questi uomini è riposta la speranza del riscatto nazionale, della salvezza delle famiglie rimaste nelle città, delle donne, dei bambini. Il ritorno in Italia non potrà che essere accolto con entusiasmo. Le quattro granitiche Divisioni saranno subito impiegate sul fronte Sud, per contenere e poi respingere la spinta degli Alleati.

Con queste speranze, con queste illusioni, le prime a tornare in Italia sono Monte Rosa e San Marco. Destinazione, non il fronte Sud, il combattimento contro il nemico, come promesso. Le due divisioni verranno dispiegate tra Piemonte, Liguria ed Emilia, terre calde di bande partigiane. I tedeschi diffidano comunque dell'affidabilità militare di queste unità, sebbene addestrate da loro e coi loro sistemi e preferiscono adibirle alla lotta contro i partigiani, la cui attività inizia ad essere di qualche rilievo.
E' il 20 luglio 1944 quando la IV Divisione alpina Monte Rosa parte dal campo di Munzingen per rientrare in Italia. E' composta di quasi 19.000 uomini, di cui 650 ufficiali, al comando del generale di brigata Mario Carloni, un napoletano cinquantenne, decorato con croce tedesca in oro, già comandante del VI Bersaglieri in Russia.
Qualche giorno dopo parte da Grafenwohr la III Divisione fanteria di marina San Marco. 14.000 uomini, di cui cinquecento ufficiali. Sono con loro anche un migliaio di Camicie Nere fuggite dalla Grecia l'otto settembre e 1.800 volontari provenienti dalla Decima Mas del principe Borghese. I restanti sono reclute e richiamati. Li comanda il generale di brigata Aldo Princivalle, che una ventina di giorni dopo il rientro in Italia, il 23 agosto, verrà silurato per essersi messo in urto con alcuni generali tedeschi. Verrà sostituito dal generale di brigata Amilcare Farina, bolognese di 54 anni, già distintosi nella guerra civile spagnola, da cui era tornato con tre medaglie d'argento. La propaganda di Salò cercherà di farne un personaggio ("papà Farina", così sarebbe stato per i suoi soldati). Ma, aldilà della retorica, il generale Farina, inguaribile grafomane, per lo storico ha il pregio di aver lasciato, tra diari, ordini del giorno, proclami, numerose interessantissime testimonianze scritte.

E' proprio "papà Farina" a descriverci le peripezie del rientro in Italia. Sino alla frontiera a Tarvisio il viaggio prosegue regolarmente; poi iniziano le interruzioni della ferrovia dovute ai bombardamenti alleati. "… caricare, scaricare, ricaricare. Questi atti vennero ripetuti più
volte, tra bombardamenti e mitragliamenti. Nessuno dei quindici convogli uscì indenne… "
Desenzano, Brescia, Alessandria, Acqui: in tutte queste città la ferrovia è interrotta, bisogna proseguire a piedi, non si sa mai per quanto. I soldati, abituati da mesi alla teutonica precisione tedesca, si rendono conto che le autorità militari italiane hanno predisposto poco o nulla per il loro rientro in Italia e mancano mezzi di trasporto, quasi che i bombardamenti contro le strade ferrate fossero eventi inattesi o insoliti. E quando finalmente le due Divisioni arrivano sui luoghi di attestamento (la riviera ligure di ponente, con qualche reparto nell'Acquese per la San Marco, levante e Piacentino e Parmense per la Monte Rosa) iniziano anche i problemi che sembrano irrimediabili nell'organizzazione militare italiana: irregolarità nella distribuzione del rancio, della paga, della posta.

Ma non sono le bombe o il rancio freddo o la decade che non arriva a gelare i cuori degli alpini della Monte Rosa e dei marò della San Marco. Dopo i mesi di durissimo addestramento in Germania questi uomini si attendevano un'entusiastica accoglienza in patria. E qui riprendiamo a leggere i rapporti della GNR, quelli che leggevamo in apertura, laddove si parlava del rischio di "contagio" con le popolazioni. Dove sono le adunate di popolo che acclama i soldati della nuova Italia? Desenzano, Stradella, Peschiera, Bogliasco, Genova, Savona, Asti, Vercelli, Rovigo. Da tutte queste città i rapporti della GNR contengono sempre le stesse informazioni: freddezza, silenzio, nel migliore dei casi. Ma più spesso manifestazioni ostili: "scappate", "gettate la divisa", "carne da macello", "andate a casa che è meglio". Rifiuti di salutare le bandiere dei reparti. Negozianti che abbassano ostentatamente la saracinesca al passaggio delle nuove truppe repubblicane. Scritte murali offensive.

Gli alpini e i marò si aspettavano ben altro e a qualcuno saltano i nervi. A Peschiera viene ucciso un diciottenne che aveva rivolto frasi ingiuriose agli alpini, ad Asti i marò non sparano, ma iniziano i pestaggi con la popolazione, piena di "badogliani e sabotatori". A La Spezia gli alpini prendono cittadini a caso e li costringono, con la minaccia delle armi, a cancellare dai muri alcune parole ingiuriose. Da Savona un rapporto della GNR mette in luce un problema che è solo all'apparenza secondario e che comunque la dice lunga sul comportamento da padroni che i tedeschi continuano ad avere nei confronti degli italiani: i tedeschi si accompagnano tranquillamente con le ragazze italiane, mentre ai militari italiani era assolutamente vietato, durante la loro permanenza in Germania, di avere contatti con donne tedesche. I marò vogliono rendere pan per focaccia ai tedeschi: ne nascono pestaggi tra soldati "alleati" e qualcuno, meno controllato degli altri, estrae anche la pistola.

Botte e spari: secondo alcuni fascisti è "buon segno" perché questo sta ad indicare "l'alta tensione ideale e fascista dei combattenti". Sono fascisti, ma dotati di buon senso, anche gli ufficiali dell'Ufficio Situazione della GNR, che compilano i rapporti. E torniamo ancora agli estratti che leggevamo in apertura, nei quali si prende atto di una realtà drammatica: l'ostilità non è la manifestazione di qualche piccolo gruppo di "sabotatori" o di "badogliani", ma è un sentimento generalizzato nelle popolazioni. Il morale dei soldati inizia a calare, aggravato anche dal fatto che le Divisioni vengono spezzettate in reparti con ufficiali spesso sconosciuti, con cambiamenti di compiti rispetto a quelli a cui si era stati addestrati in Germania, con una generale disorganizzazione che si traduce spesso in disastrose carenze. Leggiamo in un rapporto di un sottufficiale della Monte Rosa, raccolto al solito dalla GNR: "… la truppa è ancora equipaggiata con tenute di tela kaki e se si pensa che alcuni reparti sono dislocati da Colle dell'Agnello a Passo Baran (3.200 metri) si comprende come sia già avvenuto qualche caso di congelamento…"
"… le operazioni di rastrellamento eseguite insieme a reparti delle Brigate Nere hanno portato la truppa a lamentare la diversa retribuzione corrisposta agli appartenenti a quelle formazioni. Questo è un motivo di grave malcontento…".

Ostilità delle popolazioni, cattivi rapporti coi tedeschi (un ufficiale di Farina, il maggiore Santoro, arriva a chiedere di essere inquadrato come soldato semplice per non subire più, in divisa da ufficiale, umiliazioni dai tedeschi), disorganizzazione. I marò e gli alpini toccano ormai con mano lo spessore delle menzogne che la propaganda aveva loro ammannito nel periodo di permanenza in Germania. Ma i guai non sono solo "esterni" alle divisioni. Sottratte alla disciplina ferrea degli istruttori tedeschi, le "grandi unità" iniziano a palesare le loro intrinseche debolezze.
Un infuriato generale Farina indirizza, il 1° ottobre 1944, un ordine del giorno diretto a tutti i reparti della Divisione. In dieci punti il comandante riassume ciò che non va nella Divisione e farebbe forse prima a dire "cosa" vada. Dalla rampogna agli ufficiali (accusati di debolezza e lassismo), allo scarso spirito combattivo contro i ribelli (partigiani), alla vergogna della cattiva manutenzione delle armi, il quadro che ne emerge è drammatico, aggravato da un fenomeno che inizia a dilagare in entrambe le Divisioni: quello delle diserzioni.

A due mesi dal rientro in Italia, San Marco e Monte Rosa iniziano già a scricchiolare. Ci sono inizialmente le diserzioni fisiologiche ad ogni reparto militare, ma c'è anche un nuovo tipo di diserzione, assolutamente nuova e spiegabile solo col caos generalizzato della Repubblica sociale. E' la diserzione per arruolarsi in altre formazioni, in genere perché elargiscono una paga migliore (è il caso delle Brigate Nere) o perché si confida in possibili imboscamenti. Il 15 dicembre 1944 il comando divisionale della Monte Rosa indirizza questa circolare a tutti i reparti: "Diffida ai militari che vanno in licenza. Si ritiene opportuno diffidare tutti i militari che vanno in licenza o per altri motivi si assentano dalla divisione, che ogni loro tentativo di arruolamento presso la GNR, Brigate Nere, enti territoriali o presso le organizzazioni del lavoro (Todt) ecc., sarà decisamente stroncato, provvedendo alla loro denuncia al Tribunale militare di guerra quali disertori".

Se non si considerasse che parliamo di tempi di guerra fratricida, di morte, ci sarebbe da sorridere…
Ma, a parte queste diserzioni un po' curiose, già col mese di settembre inizia a farsi preoccupante il fenomeno delle diserzioni di interi gruppi, che lasciano i reparti, spesso con l'armamento, per passare nelle file partigiane o semplicemente per sottrarsi a una guerra ormai persa. Al 15 settembre 1944 già 2.415 soldati hanno lasciato le Divisioni Monte Rosa e San Marco. Il generale Ott, ispettore dei gruppi di addestramento tedeschi presso le Divisioni italiane, annota pignolescamente che "…presso le truppe regolari e i reparti ben guidati la percentuale dei disertori è solamente del 2%, mentre Monte Rosa lamenta già il 5,5% di disertori e San Marco il 10%…" Che fare? Il generale tedesco non ha esitazioni: fucilare disertori e favoreggiatori, rappresaglie contro le famiglie. In più Ott impartisce delle disposizioni che da sole ci dicono il clima pesante, di diffidenza e di sospetto in cui già si trovano le divisioni italiane: gli ufficiali devono sorvegliare i rapporti della truppa con la popolazione, ma gli ufficiali devono a loro volta essere sorvegliati da altro personale di fiducia della Sezione "I" (informazioni). La sorveglianza totale deve essere effettuata dal comando di collegamento tedesco. La gendarmeria da campo (ex carabinieri) - che in teoria dovrebbe sorvegliare tutti e tutto - deve essere "attentamente sorvegliata".

In una catena di sorveglianza, nessuno si fida più di nessuno. E intanto le diserzioni continuano, nonostante la costituzione dei Tribunali Divisionali e le fucilazioni. Gli ordini del giorno della Monte Rosa e della San Marco riportano con sempre maggior frequenza notizie di diserzioni e, in alcuni casi, di cattura dei disertori e condanna degli stessi, alla fucilazione o a pene detentive. Nel caos degli ultimi tempi di guerra molte documentazioni andarono perse e non è possibile sapere il numero preciso dei disertori della Monte Rosa. Per la divisione San Marco è invece possibile fissare alcuni dati al 1° gennaio 1945, con lo specchio della "dislocazione e forza dei reparti" allegato al diario 1945 della Divisione. Ne risulta una forza complessiva di 9.520 uomini. Considerando le perdite (189 morti, 389 feriti e 100 dispersi) risultano "assenti ingiustificati" - eufemismo per non dire la brutta parola disertori - 3.500 marò. Considerando la forza iniziale di 14.000 uomini, in cinque mesi "papà Farina" ha perso il 25% degli uomini. Lo stesso diario storico della Divisione elenca, per il periodo 1° gennaio - 16 aprile 1945, 282 casi di allontanamento arbitrario dai reparti, spesso con le armi, ma non è dato sapere se si tratti di un dato completo.

L'infaticabile scrittore generale Farina dirama, in data 28 febbraio 1945, un ordine del giorno segreto, diffuso in sole 136 copie, in cui elenca i marò puniti o portati in giudizio, con nome, cognome e grado. "La Giustizia, il castigo - che col punire i colpevoli premia gli onesti - è stato, è, sarà sempre".
E' il disastro. Il 20 gennaio 1945 Graziani, accompagnato da Pavolini va a renderne conto a Rudolf Rahn, plenipotenziario del Reich in Italia. Il Maresciallo cerca una giustificazione nell'inedia in cui sono state lasciate le truppe e nella mancanza di equipaggiamenti. Cerca di scambiare le cause con gli effetti, poi lamenta la mancanza di assistenza da parte del generale Leyers, capo del dipartimento Armamenti e produzione bellica dell'amministrazione militare tedesca in Italia. "…Leyers continua a menarci per il naso… per vestire pochi uomini abbiamo dovuto ricorrere alla borsa nera… mandiamo al fronte "Se siete sicuro del morale delle vostre truppe, io farò di tutto per aiutarvi.
Almeno una Divisione, facciamola distruggere dal fuoco nemico, ma non facciamola morire d'inedia come adesso sta morendo". Rahn replica gelido: "Dimenticate le diserzioni?" e Graziani ammette: "Le prime due Divisioni hanno dato complessivamente cinquemila disertori…" Rahn obietta con una sola parola: "Diecimila". Poi aggiunge: "Se siete sicuro del morale delle vostre truppe, io farò di tutto per aiutarvi". Ma sono promesse fatte ormai senza la minima convinzione: poco convinti da sempre dell'efficienza militare italiana, i tedeschi lo sono tanto più adesso. Rahn non farà nulla, come nulla ha fatto per le altre due Divisioni di cui finora non abbiamo parlato, la I Divisione bersaglieri Italia e la II Divisione granatieri Littorio.

Non abbiamo ancora parlato di queste due Divisioni perché la loro storia è ancora più breve di quella di Monte Rosa e San Marco. La Littorio rientra in Patria tra il 20 ottobre e il 1° novembre 1944, attraverso difficoltà enormi, con lunghissime marce a piedi per l'interruzione della ferrovia del Brennero in Val d'Adige. La forza è costituita da 18.500 uomini, al comando del colonnello brigadiere Tito Agosti. L' Italia, 14.000 uomini al comando del generale di brigata Guido Manardi, medaglia d'argento della Guerra di Spagna, rientra ai primi di dicembre. Per entrambe le divisioni l'impatto con la realtà è ancora più duro di quello subìto dai commilitoni di San Marco e Monte Rosa. E la realtà italiana è ormai quella della disfatta, l'insofferenza della popolazione è sempre più palese. Anche per i bersaglieri e i granatieri, come già per i marò e gli alpini, la sensazione sarà quella di essere degli estranei mal visti in una Patria che avrebbe dovuto, secondo quanto era stato detto in Germania, osannarli e accoglierli a braccia aperte.

In più l'Italia patisce anche le più gravi carenze di equipaggiamento: prima di partire dalla Germania ha dovuto cedere parte di armi e materiali ad alcune unità tedesche in costituzione per il fronte francese. Alla fine di gennaio 1945, dice Graziani in una delle sue periodiche lamentazioni con Rudolf Rahn, la Divisione bersaglieri ha ancora il 25% degli uomini disarmati. Dispiegata in Emilia, la Divisione Italia inizia a sciogliersi da subito, tant'è che il 28 gennaio il generale Manardi, in una circolare intitolata "Serriamo le file e irrigidiamo i ranghi" lamenta che "… le assenze arbitrarie cominciano ad essere in numero rilevante e rischiano di compromettere la compagine dei reparti… I comandi di corpi e i capi servizio mi facciano proposte per lo scioglimento dei reparti che hanno dimostrato di non avere la consistenza organica necessaria al particolare momento…"

Il fenomeno delle diserzioni si allarga a macchia d'olio, nell'Italia come nella Littorio e a poco valgono le fucilazioni dei disertori catturati. A febbraio 1945, secondo le stime tedesche, sono ormai sedicimila i soldati che hanno abbandonato le quattro Divisioni che dovevano, nell'illusione di Salò, permettere il riscatto militare italiano. Su consiglio del comandante tedesco della XIV Armata, generale Lemelsen, e vista l'inefficienza degli organi di polizia italiani nella ricerca e cattura dei militari disertori, viene attuata l'estrema e più odiosa delle misure: la rappresaglia contro i familiari dei soldati che si allontanino arbitrariamente dal reparto. Il Ministero degli Interni di Salò dirama una circolare a tutti i prefetti, prescrivendo le "misure di rappresaglia contro i familiari dei disertori", che possono arrivare all'internamento in campo di concentramento, al sequestro di bestiame, al ritiro di licenze commerciali, alla radiazione da albi professionali, al licenziamento in tronco per i lavoratori dipendenti.

Sono misure odiose e impopolari, che non fanno che scavare ancora più in profondità l'abisso che ormai separa la popolazione dalle autorità di Salò. I tedeschi, che le avevano consigliate e fatte attuare, pensano già concretamente al futuro, dimostrando maggior realismo dei fascisti. Già dalla fine di febbraio 1945 il comandante delle SS in Italia, generale Wolff, dà pieni poteri al suo subordinato a Milano, colonnello Rauff, per aprire col cardinale Schuster le trattative segrete per la resa. Sono le ultime settimane di vita per il governo di Salò e per il suo esercito.

Vediamo nel dettaglio la fine delle quattro Divisioni.
Il 23 aprile 1945 il Maresciallo Graziani ordina l'operazione Nebbia Artificiale. Il nome in codice sta a significare che quel che resta dell'esercito di Salò deve ripiegare sulla sinistra del Po e quindi sulla linea delle Prealpi. E' un ordine tardivo, che i soldati devono eseguire sotto la pressione del nemico e con l'insurrezione antifascista che ormai si accende dovunque. La Monte Rosa, raggiunta dall'ordine in Piemonte, dispone ancora di circa 10.000 uomini, che iniziano un ripiegamento verso Pinerolo, Torino e Ivrea. Le armi vengono deposte a Ivrea, a Lanzo e presso Cuneo, a Casteldelfino. Diversi alpini cadono negli scontri finali, altri vengono fucilati dopo la cattura. Anche la Littorio si trova in
Piemonte. Il comandante Agosti ha dovuto affrontare un problema spinoso: molti dei suoi uomini, compresi diversi ufficiali, si rifiutano di effettuare operazioni di rastrellamento e di polizia. La Divisione è stata quindi trasferita al fronte, fra il Cuneese e la Val d'Aosta, su un arco molto esteso. Il 29 aprile la Littorio depone le armi a Cuneo e viene catturato anche il generale Agosti, che dichiara ai suoi uomini: "Io non lascerò che un branco di traditori mi processi". Sarà di parola: il 27 gennaio 1946 si suiciderà, impiccandosi nel carcere militare di Forte Boccea, dove era rinchiuso in attesa di processo.

La divisione Italia si arrende in Emilia, il 29 aprile, dopo un attacco vittorioso a Modena, effettuato per rompere l'accerchiamento alleato e raggiungere Fornovo di Taro. Ma poco dopo trova la va Emilia sbarrata dalla 1° Divisione Brasiliana, nelle cui mani depone le armi. Il giorno successivo anche gli ultimi reparti di bersaglieri gettano le armi a Collecchio.
Resta la Divisione San Marco, attestata tra Liguria e Piemonte. L'unità di Farina ha ancora parecchi uomini e molte armi, nonché ottanta milioni nella cassa divisionale. Nella situazione di sfacelo generale "papà Farina" non rinuncia a tenere il suo diario. Leggiamone due pagine significative:
22 aprile 1945: "Io dico ai miei ufficiali: noi siamo già al disopra di ogni avvenimento; noi siamo e restiamo, per l'Italia, l'Onore e la Fede… E ci siamo messi con la fede in Dio, dataci dalla Mamma, a corpo morto, oltre la vita, oltre tutto… Siamo degli impossibili idealisti, che pensano solo all'Italia e alla sua Gloria, che vogliamo di nuovo splendente…"
26 aprile 1945: "il comando della divisione è isolato. Le stazioni di intercettazione riescono a dare una sola idea: che in Italia si è scatenato il caos".


Il 27 la San Marco, dopo un rifiuto da parte di Farina di arrendersi al maggiore inglese Johnston, si mette in marcia per raggiungere Alessandria e il Po. E' una lunga colonna che la caccia anglo americana mitraglia e bombarda a lungo. Molti marò cadono, ma il grosso della Divisione riesce a raggiungere Alessandria e Valenza. Il 28 aprile Farina tratta la resa con il CLN di Alessandria, dopo aver constatato che non era più possibile comunicare con Graziani (che si era consegnato agli americani il giorno prima). Nella notte tra il 28 e il 29 aprile "papà Farina" lancia il suo ultimo ordine del giorno, con cui dichiara la resa della Divisione San Marco.
Le quattro Divisioni, che dovevano essere il nerbo del nuovo esercito fascista repubblicano, si arrendevano così dopo essere state sfiorate dal contatto col nemico, che di fatto si era realizzato solo, come vedevamo sopra, nelle operazioni di ripiegamento verso Nord. La loro attività era stata soprattutto di rastrellamento e di antiguerriglia; in definitiva i tedeschi le avevano utilizzate come gli altri reparti della Repubblica Sociale (GNR, Brigate Nere, più le varie "legioni" e altri gruppi "autonomi"), per coprirsi le spalle, salvo abbandonarle al loro destino quando la partita era ormai palesemente persa.
Le molte diserzioni che dissanguarono queste unità si spiegano per diversi motivi. Anzitutto e soprattutto incise il primo impatto con una popolazione ostile, l'esatto contrario di quanto propagandato nei campi di addestramento tedeschi, né la vastità di questa ostilità consentiva di attribuirla ai soliti "badogliani" e "sabotatori". Poi l'impiego nella guerra civile, addirittura rifiutato, come vedevamo, da alcuni reparti. E proprio l'antiguerriglia si rivelerà un boomerang per le autorità fasciste, perché molti dei disertori andranno ad ingrossare le fila partigiane, portandosi seco anche l'armamento. E infine, teniamo conto del fatto che queste Divisioni, e particolarmente l'Italia e la Littorio, tornarono in Italia trovando un paese ormai sconfitto, dove la prosecuzione delle ostilità era imposta dall'alleato-padrone tedesco. Ma ormai mancava ogni seria speranza di vittoria e il timore della resa dei conti rendeva sempre più scottante sulla pelle una divisa con i "fascetti" al posto delle stellette militari tradizionali.

Possiamo quindi affermare che la vicenda delle quattro Divisioni è tra le più emblematiche per comprendere, con buona pace di certa storiografia "nostalgica", che il governo di Salò non può essere considerato dallo storico un governo legittimo, perché mancò di uno dei connotati essenziali per l'esercizio legittimo del potere: il consenso dei cittadini.

PAOLO DEOTTO

BIBLIOGRAFIA
* L'esercitodi Salò, di Giampaolo Pansa - Mondadori, Milano 1970
* La generazione che non si è arresa, di Giorgio Pisanò - Edizioni FPE, Milano 1968
* L'Italia della guerra civile, di Indro Montanelli e Mario Cervi - Rizzoli, Milano 1983
* Storia dell'Italia partigiana, di Giorgio Bocca - Laterza, Bari 1966

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Discorso di Mussolini
del 18 settembre 1943
Il Duce parla da Radio Monaco

"Camicie Nere, Italiani e Italiane! Dopo un lungo silenzio, ecco che nuovamente vi giunge la mia voce e sono sicuro che la riconoscerete: è la voce che vi ha chiamato a raccolta nei momenti difficili e che ha celebrato con voi le giornate trionfali della Patria. Ho tardato qualche giorno prima di indirizzarmi a voi perché, dopo un periodo di isolamento morale, era necessario che riprendessi contatto col mondo. La radio non ammette lunghi discorsi. Senza ricordare per ora i precedenti, vengo al pomeriggio del 25 luglio, nel quale accadde quella che, nella mia già abbastanza avventurosa vita, è la più incredibile delle avventure. II colloquio che io ebbi col Re a Villa Savoia durò venti minuti e forse meno. Trovai un uomo col quale ogni ragionamento era impossibile, poiché egli aveva già preso le sue decisioni. Lo scoppio della crisi era imminente.

E' già accaduto, in pace e in guerra, che un ministro sia dimissionario, un comandante silurato, ma è un fatto unico nella storia che un uomo il quale, come colui che vi parla, aveva per ventun anni servito il Re con assoluta, dico assoluta, lealtà, sia fatto arrestare sulla soglia della casa privata del Re, costretto a salire su una autoambulanza della Croce Rossa, col pretesto di sottrarlo ad un complotto, e condotto ad una velocità pazza, prima in una, poi in altra caserma dei carabinieri. Ebbi subito l'impressione che la protezione non era in realtà che un fermo. Tale impressione crebbe, quando da Roma fui condotto a Ponza e successivamente mi convinsi, attraverso le peregrinazioni da Ponza alla Maddalena e dalla Maddalena al Gran Sasso, che il piano progettato contemplava la consegna della mia persona al nemico.

Avevo però la netta sensazione, pur essendo completamente isolato dal mondo, che il Führer si preoccupava della mia sorte. Goering mi mandò un telegramma più che cameratesco, fraterno. Più tardi il Führer mi fece pervenire una edizione veramente monumentale dell'opera di Nietzsche. La parola "fedeltà" ha un significato profondo, inconfondibile, vorrei dire eterno, nell'anima tedesca, è la parola che nel collettivo e nell'individuale riassume il mondo spirituale germanico. Ero convinto che ne avrei avuto la prova. Conosciute le condizioni dell'armistizio, non ebbi più un minuto di dubbio circa quanto si nascondeva nel testo dell'articolo 12. Del resto, un alto funzionario mi aveva detto: "Voi siete un ostaggio". Nella notte dall'11 al 12 settembre feci sapere che i nemici non mi avrebbero avuto vivo nelle loro mani.

C'era nell'aria limpida attorno all'imponente cima del monte, una specie di aspettazione. Erano le 14 quando vidi atterrare il primo aliante, poi successivamente altri: quindi, squadre di uomini avanzarono verso il rifugio decisi a spezzare qualsiasi resistenza. Le guardie che mi vegliavano lo capirono e non un colpo partì. Tutto è durato 5 minuti: l'impresa rivelatrice dell'organizzazione e dello spirito di iniziativa e della decisione tedesca rimarrà memorabile nella storia della guerra. Col tempo diverrà leggendaria. Qui finisce il capitolo che potrebbe essere chiamato il mio dramma personale, ma esso è un ben trascurabile episodio di fronte alla spaventosa tragedia in cui i1 governo democratico liberale e costituzionale del 25 luglio ha gettato l'intera nazione. Non credevo in un primo tempo che il governo del 25 luglio avesse programmi cosi catastrofici nei confronti del partito, del regime, della nazione stessa.

Ma dopo pochi giorni le prime misure indicavano che era in atto l'applicazione di un programma tendente a distruggere l'opera compiuta dal regime durante venti anni ed a cancellare vent'anni di storia gloriosa che aveva dato all'Italia un impero ed un posto che non aveva mai avuto nel mondo. Oggi, davanti alle rovine, davanti alla guerra che continua noi spettatori sul nostro territorio taluno vorrebbe sottilizzare per cercare formule di compromesso e attenuanti per quanto riguarda le responsabilità e quindi continuare nell'equivoco. Mentre rivendichiamo in pieno la nostra responsabilità, vogliamo precisare quelle degli altri a cominciare dal Capo dello Stato, essendosi scoperto che, non avendo abdicato, come la maggioranza degli italiani si attendeva, può e deve essere chiamato direttamente in causa.

E' la stessa dinastia che, durante tutto il periodo della guerra, pur avendola il Re dichiarata, è stata l'agente principale del disfattismo e della propaganda antitedesca. II suo disinteresse all'andamento della guerra, le prudenti e non sempre prudenti riserve mentali, si prestarono a tutte le speculazioni del nemico mentre l'erede, che pure aveva voluto assumere il comando delle armate del sud, non è mai comparso sui campi di battaglia. Sono ora più che mai convinto che casa Savoia ha voluto, preparato, organizzato anche nei minimi dettagli il colpo di stato, complice ed esecutore Badoglio, complici taluni generali imbelli ed imboscati e taluni invigliacchiti elementi del fascismo. Non può esistere alcun dubbio che il Re ha autorizzato, subito dopo la mia cattura, le trattative dell'armistizio, trattative che forse erano già incominciate tra le due dinastie di Roma e di Londra. E' stato il Re che ha consigliato i suoi complici di ingannare nel modo più miserabile la Germania, smentendo anche dopo la firma che trattative fossero in corso.

E' il complesso dinastico che ha premeditato ed eseguito le demolizioni del regime che pur vent'anni fa l'aveva salvato e creato il potente diversivo interno a base del ritorno dello Statuto del 1848 e della libertà protetta dallo stato d'assedio. Quanto alle condizioni dell'armistizio, che dovevano essere generose, sono tra le più dure che la storia ricordi. II Re non ha fatto obbiezioni di sorta nemmeno, ben inteso, per quanto riguardava la premeditata consegna della mia persona al nemico. E' il Re che ha, con il suo gesto, dettato dalla preoccupazione per l'avvenire della sua Corona, creata per l'Italia una situazione di caos, di vergogna interna, che si riassume nei seguenti termini: in tutti i continenti, dalla estrema Asia all'America, si sa che cosa significhi tener fede ai patti da parte di casa Savoia.

Gli stessi nemici, ora che abbiamo accettata la vergognosa capitolazione, non ci nascondono il loro disprezzo, né potrebbe accadere diversamente. L'Inghilterra, ad esempio, che nessuno pensava di attaccare e specialmente il Führer non pensava di farlo è scesa in campo, secondo le affermazioni di Churchill, per la parola data alla Polonia. D'ora innanzi può accadere che anche nei rapporti privati ogni italiano sia sospettato. Se tutto ciò portasse conseguenze solo per il gruppo dei responsabili, il male non sarebbe grave; ma non bisogna farsi illusioni: tutto ciò viene scontato dal popolo italiano, dal primo all'ultimo dei suoi cittadini. Dopo l'onore compromesso, abbiamo perduto, oltre i territori metropolitani occupati e saccheggiati dal nemico, anche, e forse per sempre, tutte le nostre posizioni adriatiche, ioniche, egee e francesi che avevamo conquistato non senza sacrifici di sangue.

II regio Esercito si è quasi dovunque rapidamente sbandato. E niente è più umiliante che essere disarmato da un alleato tradito tra lo scherno delle popolazioni. Questa umiliazione deve essere stata soprattutto sanguinosa per quegli ufficiali e soldati che si erano battuti da valorosi accanto ai loro camerati tedeschi su tanti campi di battaglia. Negli stessi cimiteri di Africa e di Russia, dove soldati italiani e tedeschi riposano insieme, dopo l'ultimo combattimento, deve essere stato sentito il peso di questa ignominia. La regia Marina, costruita tutta durante il ventennio fascista, si è consegnata al nemico, in quella Malta che costituiva e più ancora costituirà la minaccia permanente contro l'Italia e il caposaldo dell'imperialismo inglese nel Mediterraneo. Solo l'aviazione ha potuto salvare buona parte del suo materiale, ma anch'essa è praticamente disorganizzata.

Queste sono le responsabilità indiscutibili, documentate irrefutabilmente anche nel discorso del Führer, il quale ha narrato, ora per ora, l'inganno teso alla Germania, inganno rafforzato dai micidiali bombardamenti che gli angloamericani, d'accordo col governo di Badoglio, hanno continuato, malgrado la firma dell'armistizio, contro grandi e piccole città dell'Italia centrale.
Date queste condizioni, non è il regime che ha tradito la monarchia, ma è la monarchia che ha tradito il regime, tanto che oggi è decaduta nelle coscienze del popolo ed è semplicemente assurdo supporre che ciò possa compromettere minimamente la compagine unitaria del popolo italiano. Quando una monarchia manca a quelli che sono i suoi compiti, essa perde ogni ragione di vita. Quanto alle tradizioni, ve ne sono più repubblicane che monarchiche: più che dai monarchici, l'unità e l'indipendenza d'Italia fu voluta, contro tutte le monarchie più o meno straniere, dalla corrente repubblicana che ebbe il suo puro e grande apostolo in Giuseppe Mazzini.

Lo Stato che noi vogliamo instaurare sarà nazionale e sociale nel senso più lato della parola: sarà cioè fascista nel senso delle nostre origini. Nell'attesa che il movimento si sviluppi fino a diventare irresistibile, i nostri postulati sono i seguenti:
1 - riprendere le armi a fianco della Germania, del Giappone e degli altri alleati: soltanto il sangue può cancellare una pagina cosi obbrobriosa nella storia della Patria;
2 - preparare, senza indugio, la riorganizzazione delle nostre Forze Armate attorno alle formazioni della Milizia; solo chi è animato da una fede e combatte per una idea non misura l'entità del sacrificio;
3 - eliminare i traditori e in particolar modo quelli che fino alle 21,30 del 25 luglio militavano, talora da parecchi anni, nelle file del partito e sono passati nelle file del nemico;
4 - annientare le plutocrazie parassitarie e fare del lavoro, finalmente, il soggetto dell'economia e la base infrangibile dello Stato. Camicie Nere fedeli di tutta Italia! lo vi chiamo nuovamente al lavoro e alle armi.

L'esultanza del nemico per la capitolazione dell'Italia non significa che esso abbia già la vittoria nel pugno, poiché i due grandi imperi Germania e Giappone non capitoleranno mai. Voi, squadristi, ricostituite i vostri battaglioni che hanno compiuto eroiche gesta. Voi, giovani fascisti, inquadratevi nelle divisioni che debbono rinnovare, sul suolo della Patria, la gloriosa impresa di Bir el Gobi. Voi, aviatori, tornate accanto ai vostri camerati tedeschi ai vostri posti di pilotaggio, per rendere vana e dura l'azione nemica sulle nostre città. Voi, donne fasciste, riprendete la vostra opera di assistenza morale e materiale, cosi necessaria al popolo. Contadini, operai e piccoli impiegati, lo Stato che uscirà dall'immane travaglio sarà il vostro e come tale lo difenderete contro chiunque sogni ritorni impossibili. La nostra volontà, il nostro coraggio e la vostra fede ridaranno all'Italia il suo volto, il suo avvenire, le sue possibilità di vita e il suo posto nel mondo. Più che una speranza, questa deve essere, per voi tutti, una suprema certezza. Viva l'Italia! Viva il Partito Fascista Repubblicano!"

 

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