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CRONOLOGIA

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( QUI TUTTI I RIASSUNTI )  RIASSUNTO ANNO 1943 (2 bis)

IL RE A MAGGIO GIA' MEDITAVA DI "SGANCIARSI"
(e non era la prima volta)


(prosegue il riepilogo dei rapporti Re-Mussolini fino all'abdicazione)
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"La nazione può sempre fare quello che vuole".
Questa frase che abbiamo appena letta nella precedente pagina, è la chiave di volta per comprendere la personalità di Vittorio Emanuele.

Tra il 1919 e il 1925 noi assistiamo in Italia ad una crisi senza precedenti: è il governo espresso dalla maggioranza parlamentare che non adempie al suo primo dovere, che è quello di far rispettare la legge; è il governo che tollera gli illegalismi di sinistra, e poi quelli di destra; è la maggioranza parlamentare che vota le leggi che restringono gradatamente le libertà civili fino a sopprimerle del tutto. In conclusione, non era il sovrano che tentava di estendere il suo potere e di abolire le libertà costituzionali, ma erano rappresentanti del popolo che, per incoscienza, per debolezza, per deliberato proposito, andavano liquidando queste libertà.
Nell'ipotesi che la costituzione sia un contratto che ambedue gli organi si impegnano a rispettare e a far rispettare, il sovrano avrebbe dovuto dunque "costringere" il socio inadempiente a rispettare le clausole del contratto. Ma questo "socio" non era una persona fisica: era il popolo stesso, attraverso l'espressione della sua volontà sovrana, cioè il parlamento!

D'altra parte la monarchia in Italia esprimeva non solo la volontà liberale dalla quale era sorta e nella quale si era consolidata, ma anche quella unitaria. Era, dunque, inevitabile che la crisi delle istituzioni liberali ponesse Vittorio Emanuele III innanzi a un grave dilemma: la difesa delle istituzioni liberali implicava il rischio di una guerra civile; ma in che misura la guerra civile avrebbe posto in pericolo l'unità del Paese? Noi abbiamo visto che i liberali e i democratici che dissentivano, su questo punto, dal re, erano una minoranza esigua. Fino al secondo semestre del 1924 a tutti, anche ad uomini come Giolitti e Croce, l'offuscamento e la soppressione delle libertà civili parve la jattura meno grave della guerra civile. Nell'ottobre 1922 non altra condizione pose il re alla sua permanenza sul trono, che l'unità del Paese. Se questa unità si fosse comunque frantumata nella guerra civile, la monarchia perdeva di colpo le sue fondamenta.

Dopo il 1925, Vittorio Emanuele ha lungamente atteso che la nuova generazione risentisse e ripensasse la libertà, e che la condanna della dittatura mussoliniana fosse pronunciata dalla nuova classe dirigente, dal fascismo stesso. L'attesa fu vana. Per un ventennio, salvo un piccolo, sporadico movimento liberale nel 1932 e, negli ultimi anni, del gruppo di "Giustizia e Libertà", non vi fu altra opposizione organizzata, alla dittatura di Mussolini, che il comunismo.
In questo spaventoso deserto, l'azione di quel piccolo vecchio solitario diventa patetica. Un grande umanista, Concetto Marchesi (Pci) , diceva un giorno all'autore di queste pagine: "Quando la classe dirigente è incapace o inganna il popolo, il re costituzionale deve trasformarsi in "principe"; e imporre la sua volontà". Giusto. Ma questi erano, appunto, i limiti della personalità di Vittorio Emanuele III: egli era un re costituzionale, e non era e non poteva essere un "principe". Questa concezione, di un re che tiene lo Statuto sul capezzale e il Principe di Machiavelli nel comodino da notte, concezione cara in Italia anche agli uomini di sinistra, sembrerà stravagante a molti stranieri.
Fedele alla norma fondamentale "la nazione può sempre fare quello che vuole", mentre attendeva che la volontà della nazione si manifestasse nel senso della libertà, il re vedeva il primo conservatore delle più antiche libertà politiche d'Europa, Winston Churchill, inchinarsi al dittatore italiano, a quell'uomo che lui, soprattutto lui, conosceva nella sua vera natura.

La guerra, di fatto e di diritto, era cominciata. Piacesse o non piacesse, la nazione era in guerra. Il vecchio re, ormai stanco, scelse il suo posto non nella quiete amara dell'abdicazione e dell'esilio, ma accanto a coloro i quali si illudevano che i vincitori avrebbero distinto tra fascismo e popolo italiano, e che avrebbero pagato amaramente questa illusione. Se noi avessimo la prova della sua fiducia nel fascismo, se obbiettivi giudici potessero dimostrare che egli, in qualsiasi momento, aveva considerato il fascismo come una base della monarchia, la condanna sarebbe severa e inappellabile.

Senonché, né gli italiani, né gli stranieri hanno mai saputo quello che noi oggi sappiamo per numerose, inconfutabili testimonianze, che egli, cioè, aveva sempre avversato il fascismo e il suo dittatore, che egli considerava esiziale la politica di Mussolini, anche quando la fortuna lo assisteva, anche quando eminenti personalità degli Stati Uniti, dell'Inghilterra e della Chiesa lo lodavano e lo benedicevano. Nei momenti più calmi, lo considerò provvisorio, e non perse mai la speranza che si manifestasse, alfine, una qualche concreta forza politica sulla quale appoggiarsi per tentare un intervento con probabilità di successo.
Qui sorge ancora una domanda: Perché, dunque, egli non lasciò il trono, in un momento qualsiasi del ventennio? Se egli comprendeva tante cose, anche nei momenti in cui nessuno vedeva giusto, perché non ha sottratto la dinastia alle ultime fatali responsabilità? Egli sarebbe ritornato in trionfo. Sì, ma quando? Dopo la disfatta? Avrebbe, forse, costituito un governo in esilio, e sarebbe ritornato, dopo la disfatta, tra le salmerie dei vincitori, per essere restaurato, come Luigi XVIII, dalle baionette straniere? E quale Talleyrand gli avrebbe risparmiato di diventare l'esecutore del dettato di pace?

No, egli non poteva che rimanere. Egli era esattamente l'unico italiano che non poteva sottrarsi al destino che investiva il Paese. Egli non aveva mai agito in funzione della dinastia. Aveva imparato, da giovane, ad essere soprattutto un soldato. E "soldato", per lui, non fu un vocabolo simbolico: accettò, silenziosamente, di dividere la sorte del più umile cittadino richiamato. Era stato con loro quando la guerra era giusta e la vittoria era in tutti i cuori e in tutte le menti. Sarebbe stato con loro, ora che un presagio di sventura gelava il suo vecchio cuore.
Tutto quello che egli aveva previsto, si avverava. L'esercito non riuscì nemmeno a vincere la resistenza delle poche forze di copertura della già prostrata Francia. La guerra, annunciata come breve, fu lunghissima. I "quattro sassi" dell'Albania ci riserbarono la più cocente umiliazione. L'America intervenne, e il suo intervento fu decisivo.
Senonché, tutto ad un tratto, i suoi sfoghi con Ciano cessarono. Improvvisamente egli divenne "ottimista". Egli aveva delegato la direzione politica e militare a Mussolini. Solo a costui egli poteva esprimere i suoi giudizi e le sue apprensioni: con gli altri, egli aveva il dovere di essere "ottimista". Ciano, nel suo Diario, rileva con irritazione questo "ottimismo ufficiale".
Secondo il suo solito, ogni giorno faceva un'ispezione. Nulla gli sfuggiva. Che cosa fosse divenuta l'Italia, in vent'anni di fascismo, può essere documentato dal confronto tra un episodio della prima guerra mondiale e un episodio della seconda.
La disfatta di Caporetto aveva fatto cadere nelle mani del nemico la quasi totalità delle nostre artiglierie. La nostra situazione era così disperata, che il nuovo ministro della guerra, Zupelli, si precipitò a Genova per consultare i dirigenti dell'Ansaldo. In quanto tempo la nostra industria di guerra avrebbe potuto fabbricare i nuovi cannoni? I fratelli Perrone condussero Zupelli nei depositi dell'Ansaldo e gli mostrarono una selva di cannoni già pronti: quei due generosi italiani non avevano esitato a fabbricare, oltre le artiglierie che lo Stato commetteva, un gran numero di bocche da fuoco a loro rischio e pericolo, e non solo dei tipi adottati dal nostro esercito, ma anche di tipo più recente, che il ministro della guerra non aveva ancora preso neppure in esame.
Quando, dopo la vittoria, la vecchia classe dirigente riprese il potere, venne saldato il conto anche ai fratelli Perrone. La Banca Italiana di Sconto, che era sorta nel 1914 per neutralizzare l'influenza della Banca Commerciale Italiana, il grande Istituto di Credito fondato dai tedeschi nel quadro della Triplice Alleanza, venne letteralmente assalita e crollò. Era la banca che aveva finanziato l'industria di guerra e specialmente l'Ansaldo. In sede di concordato, la Sconto rimborsò i creditori al cento per cento. Tutto questo risultò dal processo, in cui anche i fratelli Perrone dovettero sedere sul banco degli accusati. In America o negli Stati Uniti sarebbero stati messi alla testa della ricostruzione e segnalati alla riconoscenza nazionale. Nell'Italia di Giolitti e di Bonomi, se la cavarono con una sentenza anche se di assoluzione.

Veniamo all'altro episodio. Nel dicembre dei 1940, l'Italia fascista aggredì la Grecia. Il nemico più micidiale fu il freddo: a migliaia i nostri ragazzi ritornarono con le gambe congelate. Come mai? Il nostro esercito non aveva né calzettoni di lana, né equipaggiamenti invernali. E la nostra industria? La nostra industria che il governo fascista aveva protetto, arricchita, potenziata? La nostra industria laniera lanciava con grande successo, proprio in quell'inverno 1940-41, la moda dei calzettoni di lana per signora: mentre i più validi giovani perdevano le gambe in Albania, le belle d'Italia giravano nel dolce clima di Roma e di Napoli coi polpacci fasciati di morbida lana. Questa, la guerra fascista.

Ma l'aspetto già tragico di quell'orribile conflitto fu che, nonostante tutto, si finì per combattere. Giovani che credevano nei miti bugiardi di quella guerra, ce n'erano. Il valore di coloro che combattevano, in quelle condizioni, era persino più meritorio del valore di coloro che avevano combattuto nella prima guerra mondiale ("sono degli eroi a salire su quelli che chiamano carri armati, e sono eroi quel piloti che volano con quelle bari volanti"-
Rommel, Memorie)

Comunque, pochi mesi dopo l'intervento, gli italiani più riflessivi cominciarono a persuadersi che la Germania non avrebbe vinta la guerra. Svaniva, quindi, anche l'umiliante e materialistica prospettiva di essere, in un mondo generalmente nazificato, il primo satellite con titolo onorifico di "alleato". Perché questa, ormai, era tutta la gloria alla quale poteva aspirare il genio di Mussolini.
In conclusione, che cosa si poteva fare? Ormai, per il re non c'era che una realtà: la guerra. Fino a che la decisione rimaneva incerta, il re non poteva far nulla. Poteva ammonire il capo del governo e il capo di stato maggiore, poteva contestare tutte le circostanze che gli cadevano sotto gli occhi. Ma questo, che forse gli salvava l'anima, non aveva alcun rilievo politico.
L'ora dell'Italia scoccò tra la fine del 1942 e gli inizi del 1943. Il re sapeva nel modo più preciso che il nostro esercito era ridotto a poche divisioni, tre o quattro, solo discretamente efficienti, e ad una congerie di uomini male armati, mal vestiti, male istruiti, mal nutriti, che non erano in grado di opporre nessuna resistenza all'invasore; che la nostra flotta, quasi del tutto priva di carburante, non poteva che lasciarsi gloriosamente affondare; che la nostra aviazione era ridotta a poche squadriglie e non sempre efficienti.
I fenomeni di scontento popolare, gli scioperi che si ebbero a Torino agli inizi del 1943, le grida dei genovesi che invocavano la pace, durante una visita del re, non avrebbero avuto grande importanza, come non ne ebbero nel 1916 e nel 1917, se la nazione in guerra avesse conservato delle possibilità di resistenza e di vittoria. Ma nel primo semestre del 1943, la disfatta militare era, ormai, già acquisita.

La vitalità e la combattività del Reich erano, invece, tutt'altro che diminuite, in quel primo semestre del 1943. Anzi, la preparazione avanzata delle "armi segrete" non escludeva la possibilità di un miglioramento radicale della situazione. Tuttavia, mentre Mussolini vedeva approssimarsi il giorno in cui il compito di difendere il regime fascista sarebbe stato assunto dalla SS., il re sapeva che la perdita della nostra forza militare avrebbe significato la soppressione della indipendenza politica del nostro Paese.
Per queste ragioni, già nel gennaio del 1943, il re decise di intervenire per trarre il Paese dalla tragica situazione nella quale andava precipitando. Era evidente, ormai, che lo stesso regime fascista andava disgregandosi. I reduci dalla Russia tennero un'adunanza in Roma, nel teatro Quirino, e pubblicamente attaccarono le alte gerarchie del partito, accusandole di corruzione.
Il mito dì Mussolini decadeva rapidamente sotto il peso delle sconfitte. Fallita, dunque, la direzione politico-militare della guerra, la decisione ultima spettava al re, comandante supremo delle forze armate.
Questi pensieri e questi propositi del sovrano trapelarono. Essi furono accortamente diffusi dall'Acquarone, specialmente nell'ambiente del Senato, allo scopo di sommuovere le acque, e di promuovere qualche riviviscenza di forze politiche diverse da quella fascista. Molto contribuì, alla ripresa dell'agitazione antifascista, l'attività dei principi di Piemonte. Tanto Umberto che Maria José, a Roma come a Torino, cominciarono ad ascoltare personaggi politici della vecchia classe dirigente, e qualche antifascista della nuova generazione. Particolarmente attiva la principessa ereditaria, che dalla sua generosa e civilissima patria di origine e dalla sua vasta e moderna cultura traeva simpatie molto vive per il liberalismo storico di Benedetto Croce, per il partito d'azione e per il socialismo, sebbene queste due ultime correnti si manifestassero nettamente repubblicane.

Le vecchie personalità dell'antifascismo uscirono dai loro rifugi e dai loro studi, per stringersi intorno ad Ivanoe Bonomi: erano i liberali e giolittiani Einaudi e SoIeri, i popolari De Gasperi, Spataro e Gronchi, il senatore Casati, il venerando Vittorio Emanuele Orlando. In verità, non c'erano che due formazioni clandestine veramente organizzate ed efficienti: íl partito comunista e il partito d'azione, che poteva contare su potenti appoggi del ceto dei dirigenti industriali. Tutte queste forze eterogenee, nel primo semestre del 1943, si raggrupparono in un comitato di agitazione in cui presero posto i liberali, i popolari, che ora si denominavano democratici cristiani, i vecchi riformisti che, con alcuni radicali e massoni, presero
il nome di democrazia del lavoro, i socialisti e i comunisti.
Questo raggruppamento, attraverso Bonomi, entrò in contatto con Badoglio (che per il suo alto grado militare aveva la possibilità di vedere il re), e, sul comodo terreno del Senato, con l'Acquarone e col vecchio ammiraglio Thaon de Revel.
L'acuto "prefetto -di palazzo" conosceva a menadito la psicologia del re. Egli sapeva che bisognava creare una certa agitazione politica, per dare al sovrano la concreta sensazione che i suoi propositi corrispondevano a una reale corrente d'opinione. Vittorio Emanuele ascoltò alcuni di questi uomini. L'opinione degli altri gli venne riferita da Badoglio e da Acquarone. A tutti egli dette l'impressione di una estrema diffidenza. In realtà, egli attendeva il momento giusto. Questo momento non poteva essere che l'imminenza -perduta la Sicilia- dell'invasione dell'Italia continentale.
Alle sollecitazioni di ascoltare direttamente la voce delle opposizioni antifasciste, e di concordare con loro l'azione necessaria, il re obbiettò l'impossibilità di mantenere, in Italia, il segreto di una così vasta e grave congiura. Egli non ignorava che i tedeschi erano presenti in ogni ministero, in ogni pubblico ufficio con la loro quinta colonna. Egli non ignorava che i tedeschi in borghese a Roma erano molte migliaia e che in poche ore potevano trasformarsi in una organizzata forza di specialisti. Per questa ragione, non solo egli era molto cauto, ma intervenne, ad un certo punto, per imporre la stessa cautela ai principi di Piemonte. Si narrava a Roma che un giorno, a pranzo, egli avesse ordinato alla nuora di non interessarsi ulteriormente di politica. Anzi, la principessa venne allontanata dalla capitale.
Del resto, le trattative e i maneggi delle opposizioni non erano gran che interessanti e allettanti.

Nella coalizione, i più pratici e realisti erano, naturalmente, i comunisti che, messa da parte ogni considerazione ideologica, erano pronti a collaborare con chiunque fosse disposto a combattere contro i nazisti e i fascisti: erano loro, appunto, che propugnavano l'unità d'azione e la convenienza di promuovere l'iniziativa del re. Ci volle il bello e il buono per persuadere i giovanotti del partito d'azione a "servirsi" della monarchia.

In principio, i sei gruppi congiurati accettarono la tesi di Acquarone: un governo militare presieduto da Badoglio e composto di funzionari che, nello spazio di pochi giorni, doveva "liquidare" il regime fascista, per essere poi sostituito da un governo presieduto da Bonomi e composto dagli esponenti dei sei gruppi, col mandato di concludere alla svelta la pace separata con gli alleati.
Successivamente, si adottò una tesi più spinta: presidenza Badoglio e vice presidenza Bonomi con ministri Einaudi, Casati, Soleri, De ' Gasperi, Comandini, un socialista, un comunista e via dicendo.
Finalmente, ai primissimi di giugno il re acconsentì a ricevere Bonomi. Il vecchio sovrano non aveva mai avuta una comunicativa facile. Il colloquio, tuttavia, ebbe molti aspetti umani, alcuni dei quali persino patetici. Bonomi, che non lo vedeva da moltissimi anni, lo trovò molto invecchiato e malandato. Il re, viceversa, trovò l'ex presidente del consiglio molto florido e prestante. Cominciò col lagnarsi dei reumatismi, della vista che gli diminuiva e degli acciacchi della vecchiaia. Ostentava la sua
decrepitezza, quasi si lamentasse di quella pretesa che gli sorgeva intorno insistente: la pretesa che proprio lui, così vecchio e così solo, dovesse prendere un'iniziativa che avrebbe dovuto toccare ad uomini più giovani e vigorosi.

Bonomi ebbe l'impressione che il re volesse sfuggire agli argomenti concreti. Ma egli sapeva molto bene che cosa l'ex presidente del consiglio avrebbe finito per dirgli. Gli antifascisti non avevano mutato avviso: Badoglio presidente, Bonomi vice presidente con ministri liberali, democristiani, demolaburisti, azionisti, socialisti e comunisti. Bisognava, secondo gli antifascisti, che il governo avesse un chiaro, inequivocabile carattere politico, tale da costituire di per se stesso la più netta sconfessione del fascismo e la più solida garanzia per gli alleati ai quali si sarebbe dovuto chiedere la pace separata. La prospettiva di una immediata reazione germanica, lungi dal preoccupare gli antifascisti, apriva, secondo loro, la maggiore prospettiva di essere gettati nel campo degli alleati, non più come nemici sconfitti, ma come cobelligeranti, sia pure di fatto.
Il re non rispose, non espresse giudizi, né favorevoli, né sfavorevoli; Bonomi comprendeva che questo silenzio significava rifiuto, e non esitò ad avvertire il sovrano che ogni rinvio, ogni diverso indirizzo avrebbe compromesso, forse irrimediabilmente, la dinastia. Fu a questo punto che Vittorio Emanuele III rispose, freddamente, che "la nazione poteva fare sempre quello che voleva».

Ma si rendevano conto, gli anti
fascisti, della realtà della situazione? Si rendevano conto che un ministero di cui avesse fatto parte un comunista, cioè un rappresentante dell'Unione Sovietica, avrebbe scatenato una reazione germanica così violenta, da non lasciarci il tempo di prendere un qualche utile contatto con gli alleati? Può darsi che gli alleati si sarebbero fidati più di un Bonomi che di Badoglio; ma un governo Bonomi avrebbe avuto a sua disposizione non i quarantacinque giorni del governo Badoglio, per intavolare e concludere trattative, ma pochissimi giorni e forse poche ore.
Noi oggi sappiamo, per le rivelazioni fatte dai capi responsabili degli Stati Uniti e dell'Inghilterra, che, occupata la Sicilia, le Nazioni Unite non sarebbero sbarcate in Italia; ma avrebbero concentrate tutte le loro forze contro la Francia occupata e in un secondo tempo contro la penisola balcanica. Quindi, se noi ci fossimo fatti attaccare dai nazisti, istituendo un governo che avesse rivelato il nostro proposito, la Germania avrebbe avuto tutto il tempo di schiacciare il nostro Paese. Alla resa dei conti, poco ci avrebbe giovato il sacrificio personale del re e di alcuni vecchi esponenti dell'antifascismo.

I propositi di Bonomi e dei suoi amici erano, dunque, molto nobili, ma poco politici, poco pratici. Il dovere del capo dello Stato non era di cercare delle romantiche soluzioni, ma di limitare, nella misura del possibile, le conseguenze di un ventennio di colpe e di errori.
Il re si era già mosso sul campo della realtà, che era prima di tutto una realtà militare. Aveva manovrato Badoglio, che conservava, naturalmente, una forte influenza negli ambienti dello stato maggiore. Così, si ottenne l'eliminazione di Cavallero, uomo acquisito ai tedeschi; e venne messo, alla testa dello stato maggiore generale, Ambrosio, che già era capo dello stato maggiore dell'esercito, uomo rigido, sicuro, pronto ad eseguire gli ordini del re, anche in senso antifascista.
Il sovrano aveva rinnovato l'arma dei carabinieri, che era comandata da un uomo di sua fiducia, l'Hazon, e dalla quale era minutamente informato della situazione.

Mentre tutti gli esponenti dell'antifascismo concludevano che il silenzio del re significava che non si poteva più contare sulla monarchia, il sovrano attendeva il momento giusto. Il momento che egli attendeva era, esattamente, lo sbarco degli alleati in Sicilia. Da San Rossore venne immediatamente a Roma. Vide Badoglio e, per la prima volta, gli domandò esplicitamente se avrebbe accettato la successione di Mussolini. Ma quando il maresciallo gli disse che avrebbe portato con sé al governo Bonomi, Einaudi, Soleri, Orlando e via dicendo, proruppe, in dialetto piemontese: Ma sono dei fantasmi! - Anche noi, Sire, siamo dei fantasmi! . Risposta umoristica, ma non pertinente. Comunque, risposta non generosa. Veniva da quell'arido vecchio, una dolorosa protesta: "E su chi fondiamo un colpo di Stato di così vasta portata?
Sui settantenni nostri coetanei? E i giovani? Dove sono i giovani?"
Nessuno, in campo antifascista, si rendeva conto che il re aveva non solo deciso tutto, ma preparato tutto. Meglio informati erano i fascisti: quei gerarchi che avevano sempre fatta un po' di fronda contro la dittatura di Mussolini, Grandi, Ciano stesso, Bottai, Federzoni, De Vecchi, e quelle più recenti personalità che, entrate nei ranghi dopo lo stabilimento della dittatura, erano assurte alle cariche che davano accesso al Gran Consiglio. Erano esattamente quei gerarchi che nel marzo 1940 avrebbero dovuto stringersi intorno a Ciano e offrire al re la base politica per la destituzione di Mussolini.

Il più acuto e maturo di questi era, indubbiamente, Grandi. Costui si rese conto che il re, diversamente dal marzo 1940, era più temibile di Mussolini. Il gruppo degli alti papaveri non aveva via di scampo.
D'altra parte, il re non poteva eliminare Mussolini, senza eliminare, con lo stesso gesto, il regime fascista. Nessuno meno del re avrebbe potuto distinguere Mussolini dal fascismo. Infatti, l'azione degli alti gerarchi si era limitata alla mormorazione. Quando essi potevano e dovevano agire, esattamente nel marzo 1940 - ed avrebbero agito non in base a presupposti democratici ma proprio per salvare il "loro" regime, proprio per dimostrare la sua vitalità e la sua capacità di interpretare e di difendere gli interessi della nazione - si erano chinati alla volontà del dittatore. Con questo, essi si erano tagliati fuori da ogni soluzione: non erano, dunque, i loro mormorii che potevano scaricarli di una tremenda corresponsabilità.

Grandi, tuttavia, concepì un audace disegno per strappare al re l'iniziativa e per costringerlo a non escludere i gerarchi fascisti dalla soluzione. Nacque, così, in articulo mortis, il famoso ordine del giorno col quale si invitava il re a prendere in mano la situazione, cioè a privare Mussolini della suprema direzione del Paese.
Proprio in quel momento, gli ingenui gerarchi si facevano una mentalità democratica e parlamentare. Costituitasi in Gran Consiglio una maggioranza a favore dell'ordine del giorno di sfiducia, il re avrebbe dovuto affidare a questa maggioranza la soluzione della crisi: un governo Grandi o Ciano, come programma massimo, un governo Badoglio-Grandi o Badoglio-Ciano come programma minimo.

IL COLPO RIESCE - Si badi bene. Esistono numerose testimonianze di contatti e trattative tra il re e le grandi personalità politiche del vecchio regime. Nessuna traccia di accordo esiste però tra il re e i membri del Gran Consiglio. La cronaca di questa famosa seduta è nota. E desta stupore lo strano atteggiamento di Mussolini, praticamente remissivo. Ignorava tutto? I propositi del re, i maneggi degli antifascisti, la congiura dei gerarchi, il tranello dell'ordine del giorno? Sapeva tutto. La sua apparente remissività era solo una prova della sua consapevolezza. Ma sapeva pure che se avesse usato la forza della polizia contro coloro che gli chiedevano conto dei suoi misfatti, data la situazione che si era ormai creata, il vaso avrebbe potuto traboccare.
Egli aveva una sola speranza: che in definitiva il re non gli avrebbe ritirata la sua fiducia. Il vecchio sovrano era stato abilissimo. Fino al 25 luglio, infatti, nessuno di quelli che lo avevano avvicinato, né Bonomi, né Thaon de Revel, né Soleri, e nemmeno lo stesso Badoglio, potevano dire che egli avesse acconsentito al "colpo di Stato". In realtà, gli uomini che lo circondavano e i loro collaboratori, Badoglio, Ambrosio, Acquarone, Castellano, Carboni, Hazon, si erano limitati a "capire" i silenzi del re. Essi avevano agito a loro rischio e pericolo, destramente spronati e
incoraggiati dal "prefetto di palazzo", in modo che il re potesse intervenire, senza bisogno di scoprirsi, esattamente nel momento più favorevole.
Di tutti i personaggi di questa cupa tragedia, i meno consapevoli erano gli antifascisti: costoro non solo ignoravano i veri rapporti tra il re e Mussolini, ma erano persuasi che il re fosse attaccato al fascismo. I più consapevoli erano i gerarchi fascisti, proprio perché fra loro c'era Ciano, che sapeva tutto dei rapporti tra il suocero e il re.
Mussolini si recò a Villa Savoia persuaso di dovere affrontare una delle solite dispute. In definitiva, l'abituale minaccia della guerra civile sarebbe bastata a ridurre il vecchio ad un innocuo brontolio. Egli non sapeva che non c'era più materia per disputare. Non sapeva, soprattutto, di non essere già più capo del governo, primo ministro, presidente del consiglio dei ministri e cento altre cose. L'aveva fatta lui, la legge del dicembre 1925 sulle prerogative del capo del governo? In questa legge si stabiliva che il decreto di accettazione delle dimissioni del capo del governo doveva essere controfirmato dal suo successore. Le sue "dimissioni" erano un fatto compiuto, nel momento in cui entrava a Villa Savoia.

Si può formulare un'altra ipotesi sulla relativa sicurezza con la quale Mussolini si recò dal re, ipotesi che può essere fondata sulle Memorie del dittatore, apparse nel Nord-Italia, col titolo Il bastone e la carota. Egli riteneva che, al massimo, il sovrano si sarebbe attenuto alla lettera dell'ordine del giorno del Gran Consiglio, e che avrebbe assunto il supremo comando militare, lasciando naturalmente a lui la direzione politica. Alla fin dei fini, questa soluzione poteva persino apparirgli vantaggiosa, poiché lo avrebbe liberato da un carico tremendo.
Le misure militari che vennero prese intorno a Villa Savoia, per ordine del re, sono note. Il colloquio fu breve, Mussolini racconta che Vittorio Emanuele III era convulso. Possiamo credergli. La relazione che il dittatore gli fece sulla seduta del Gran Consiglio non influì minimamente sulla sua decisione, né lo scosse la notizia, vera o falsa, che una parte degli alti gerarchi era già pentita del voto. Il sovrano si limitò a comunicargli, con le consuete espressioni di rammarico, che si imponeva la necessità della sua sostituzione con Badoglio. Si limitò solo a constatare che Mussolini, ormai, non godeva più nemmeno della fiducia del fascismo. Tutte le riserve, in forma di velata minaccia, che il dittatore fece sulle conseguenze che il suo ritiro avrebbe avuto nel Paese, rimasero lettera morta. Il piccolo re lo accompagnò all'uscio, mentre Mussolini parlava ancora,
quasi lo sollecitava ad uscire, dandogli delle piccole spinte. Poi appena scesa la gradinata il perentorio invito di un ufficiale dei carabinieri a salire su un'autoambulanza, "per la sua incolumità".
Solo dopo, nella caserma dei carabinieri di Piazza del Popolo, Mussolini si rese conto che non erano misure protettive, quelle di cui era oggetto, ma una vera propria prigionia.
Che cosa fosse rimasto della sua declinante personalità, è dimostrato dalle espressioni di patriottismo
"e di augurio con le quali egli si rivolse al maresciallo Badoglio."

Alla notizia l'entusiasmo del Paese fu indescrivibile. Non ci fu da parte dei fascisti il minimo accenno di resistenza. Due sole personalità di secondo piano, si tolsero la vita.
Nemmeno, forse, nei giorni di Vittorio Veneto il re venne acclamato con tanta unanimità.
Un lato antipatico nel colpo di Stato, c'era. Non l'arresto precauzionale di Mussolini. Era indispensabile, infatti, che l'ex dittatore venisse sottratto ad ogni contatto con i nazisti. Ma l'arresto nel domicilio privato del re: un'udienza rituale era stata trasformata in tranello. Di questo si dolse, -al momento, soltanto una donna, la regina Elena (in altre pagine il suo racconto)
.
Il proclama del re dopo il 25 luglio conteneva due concetti:
il divieto di ogni "recriminazione" e la "continuazione" della guerra. Noi sappiamo che il proclama dell'avvento al trono era tutto di pugno di Vittorio Emanuele III. Così, sappiamo che il proclama della riassunzione del comando supremo era di Orlando. Alcuni dei partiti antifascisti, i più estremisti, formularono immediatamente una serie di gravi accuse contro il re e il suo governo. Essi osservavano che il re avrebbe dovuto, con un solo colpo, sradicare tutto il fascismo, chiamare al governo i capi dell'antifascismo e proclamare, sia pure unilateralmente, la cessazione della guerra che il fascismo aveva scatenata.
Il divieto delle "recriminazioni" era interpretato come un bavaglio imposto all'antifascismo, e come un tentativo di continuazione del "regime" con uomini e nome diversi. Soprattutto, preoccupava quel "la guerra continua", che significava, secondo gli antifascisti, la continuazione del maggior crimine commesso da Mussolini e dai suoi complici.

Badoglio aveva costituito un governo di tecnici e procedeva grado a grado alla liquidazione degli istituti fascisti. Ma il proclama firmato dal re rispondeva ad una seria ed obbiettiva valutazione della angosciosissima situazione. Oggi si può pronunciare un primo e sereno giudizio. Noi oggi sappiamo che le immediate reazioni naziste alla destituzione di Mussolini e ai primi passi del governo di Badoglio furono estremamente preoccupanti. In realtà, Hitler, che si riteneva legato da un patto personale col collega italiano, aveva fulminato ordini di cattura del re e della famiglia reale. Egli venne dissuaso da così grave misura solo dalla possibilità che il governo Badoglio avesse veramente e seriamente proseguita la guerra. Noi non avevamo che una sola carta per ritardare l'intervento germanico: coltivare questa certezza o questa speranza almeno in una parte delle alte gerarchie fasciste.

Alcuni antifascisti ritenevano, invece, che la esiguità delle forze germaniche stanziate in Italia ci dava la possibilità di proclamare la cessazione della guerra contro le Nazioni Unite e di annientare rapidamente le poche divisioni naziste. Ma, a prescindere dal fatto che la efficienza delle nostre forze armate non era nemmeno tale da poter assolvere questo limitato compito con certezza di rapido successo, noi oggi sappiamo che l'invasione dell'Italia continentale non era affatto nei programmi degli alleati e fu semplicemente imposta loro dallo sviluppo degli eventi.
Nessun generale inglese e americano aveva in progetto di invadere la Germania, partendo dal fondo della penisola italiana, e con in mezzo le Alpi.

In ultima analisi, la cessazione unilaterale della guerra, e il conseguente attacco ai tedeschi, presentavano alcuni gravissimi rischi. C'era la possibilità di essere schiacciati in un primo o in un secondo tempo. I nazisti avrebbero annientato non solo la monarchia, ma ogni forza politica antifascista. L'Italia, completamente dominata dal Reich, avrebbe dovuto continuare la guerra nazista fino all'ul
timo giorno e nelle più atroci condizioni.
Altro rischio, ancora più grave, andava ravvisato nella situazione della Sicilia, ove si era immediatamente delineato un movimento separatista. Se si tiene presente che la direzione politica dell'occupazione militare era tenuta dagli inglesi, e che due volte nei secolo decimonono l'Inghilterra, in occasione della crisi del 1815 e di quella del 1848, aveva tentato di promuovere e di incoraggiare la separazione della Sicilia, si vedrà che due anni di occupazione militare in assenza di qualsiasi legittimo governo italiano, avrebbero determinato una situazione veramente irreparabile.

Noi non possiamo ancora dire se questa è scienza del poi o se furono proprio queste considerazioni che consigliarono il re e Badoglio a scegliere una via normale di negoziati. Certo, il disegno di alcuni antifascisti di giocare il tutto per tutto sulla carta della immediata cessazione delle ostilità contro gli alleati e dell'apertura immediata delle ostilità contro i tedeschi, era letteralmente pazzesco. In quel momento, l'Italia aveva innanzi a sé un problema che somigliava alla quadratura del cerchio. Era, prima di tutto, indispensabile stipulare un armistizio regolare col nemico.
Naturalmente, per poter comprendere l'incalcolabile gravità della situazione, bisognava vincere tutte le suggestioni della propaganda. Teoricamente, date le premesse programmatiche delle Nazioni Unite, bastava che l'Italia avesse totalmente e sinceramente ripudiato il fascismo, perché il nostro Paese si fosse trovato automaticamente dalla parte dei Paesi democratici, con tutti i diritti e i privilegi annessi. In altri termini, se l'Italia della monarchia sabauda e del fascismo mussoliniano fosse sparita per cedere il posto, sia pure per brevissimo tempo, ad una Italia repubblicana e antifascista governata da De Nicola, da Croce, da Orlando, da Bonomi. e rappresentata all'estero da Sturzo, da Sforza, da Borgese, da Salvemini e da Toscanini, noi avremmo dovuto far parte di diritto delle Nazioni Unite e risorgere, dopo la fine della guerra, come vincitori.

La realtà, anche in quella terribile estate del 1943, appariva profondamente diversa. Gli Stati Uniti avevano già pensato, nel 1942, a costituire un Comitato di liberazione italiano da porre accanto al Comitato di De Gaulle, col carattere di governo in esilio, ed avevano fatto delle offerte concrete al conte Sforza. Costui pose delle condizioni: cioè che venissero garantite all'Italia antifascista le frontiere nazionali e coloniali del 1919 e che questo governo venisse trasferito sul primo lembo dell'Italia liberata. Queste condizioni non vennero accolte, perché ad esse si sarebbero certamente opposte la Francia, la Jugoslavia, la Grecia, che facevano parte delle Nazioni Unite, e che si riservavano di presentare delle rivendicazioni territoriali nei confronti dell'Italia. A queste difficoltà si aggiungeva quella, molto grave, della persistente ostilità inglese.
Dobbiamo, dunque, considerare come un grande successo il fatto
che il governo presieduto dal maresciallo Badoglio sia riuscito, in quarantacinque giorni, a stipulare un regolare armistizio e ad assicurare al nostro Paese la possibilità di eseguirne scrupolosamente le condizioni.


Le terribili difficoltà alle quali andavamo incontro, erano state attentamente vagliate nel re, quelli furono per lui i sei mesi più atroci della sua vita, di gran lunga più tragici dei giorni di Caporetto. Con quale profondo senso di responsabilità egli agisse nei momenti supremi del Paese, è dimostrato dalle "istruzioni" che egli impartì per iscritto al maresciallo. Il governo di Badoglio non era un ministero parlamentare, che dovesse indirizzarsi nel senso indicato dalla maggioranza del Paese; esso derivava il suo potere dalla fiducia del re, capo supremo della nazione in guerra, ed era chiamato ad assolvere un compito che interessava la vita stessa del Paese. Le istruzioni furono dettagliate e precise. Il re aveva ordinato che il governo conservasse e mantenesse in ogni sua manifestazione il carattere di governo militare enunciato nel proclama del 25 luglio, e che lasciasse ad un secondo tempo e ad una successiva formazione ministeriale l'affrontare i problemi politici; aveva ordinato altresì che venisse limitata per il momento l'eliminazione stabilita come massima di tutti gli ex-appartenenti al partito fascista, ma che si eseguisse con attenta cura la revisione delle singole posizioni, per eliminare gli indegni e i colpevoli; ordinava, inoltre, che a nessun partito politico venisse autorizzata un'organizzazione "palese".

Un'attività eccessiva delle commissioni di epurazione istituite presso ogni ministero, secondo il giudizio del re, era sfavorevolmente accolta dalla parte sana del Paese e all'estero, perché lasciava intendere che ogni ramo della pubblica amministrazione era inquinato. Quali erano le conseguenze che Vittorio Emanuele III temeva? • La massa onesta degli ex-appartenenti al partito fascista, di colpo eliminata da ogni attività senza specifici demeriti, sarà facilmente indotta a trasferire nei partiti estremisti la propria tecnica organizzativa, venendo così ad aumentare le future difficoltà di un governo d'ordine; la maggioranza di essa, che si vede abbandonata dal re, perseguitata dal governo, mal giudicata ed offesa dall'esigua minoranza dei vecchi partiti che per venti anni ha supinamente accettato ogni posizione di ripiego, mimetizzando le proprie tendenze politiche, tra non molto ricomparirà nelle piazze in difesa della borghesia per affrontare il comunismo, ma questa volta sarà decisamente orientata a sinistra e contraria alla monarchia.

Questo documento è del luglio 1943. Giudichi il lettore, alla luce dei posteriori avvenimenti, se il giudizio di Vittorio Emanuele III era errato.
Fino all'ultimo momento, gli alleati avevano considerato con diffidenza la politica del governo Badoglio. I "quarantacinque giorni"
si erano svolti su un filo di rasoio. Le parole rassicuranti contenute nel proclama reale, la "parola d'onore" che l'Italia non stava "trattando", data dal ministro degli esteri Guariglia a Ribbentrop nel convegno di Tarvisio, le assicurazioni date dal re al nuovo ambasciatore germanico von Rahn, avevano evitato che i tedeschi ci aggredissero, ma non avevano potuto evitare che un buon numero di divisioni tedesche entrassero, senza preavviso, in Italia.

Naturalmente, il piano del maresciallo Badoglio si fondava soprattutto sull'immediato intervento degli alleati, che avrebbero dovuto sbarcare a nord di Roma e negli aeroporti della capitale, con forze aerotrasportate. In questo modo si sarebbe salvata l'Italia meridionale e centrale e i tedeschi sarebbero stati costretti ad organizzare la difesa nella valle Padana.
Ma all'ultimo momento si apprese che gli alleati avevano annullato l'operazione di sbarco negli aeroporti di Roma e che sarebbero sbarcati non a nord della capitale, ma molto più a sud, a Salerno. Respinta la richiesta avanzata da Badoglio di un breve rinvio della pubblicazione dell'armistizio, Eisenhower comunicò al mondo che l'Italia si era arresa "senza condizioni". L'annunzio venne fatto con notevole anticipo.


La revoca dello sbarco negli aeroporti di Roma era stata fatta in conseguenza di un rapporto del generale americano Taylor, che si trovava a Roma. Costui era rimasto molto impressionato del pessimismo del generale Carboni, comandante del corpo corazzato, concentrato intorno a Roma, sull'esito dell'operazione. D'altra parte gli alleati non avevano voluto informare tempestivamente le nostre autorità del luogo dove sarebbero sbarcati. In un primo tempo, noi ritenemmo che il loro atteggiamento fosse ispirato da diffidenza nei nostri riguardi. Oggi sappiamo che non era tanto la diffidenza a consigliarli, quanto la estrema esiguità delle forze di cui essi potevano disporre per appoggiare il governo italiano.

I nostri piani vennero, in tal modo, sconvolti. Nel pomeriggio, i capi militari e politici tennero una riunione alla presenza del re. Da qualcuno venne avanzata la proposta di sconfessare l'armistizio e il generale Castellano che lo aveva stipulato, in considerazione della situazione disperata in cui ci metteva il precipitoso e singolare procedere degli alleati. Il re ascoltò attentamente. Non espresse la sua opinione. Tolse la seduta e ordinò al maresciallo Badoglio di dar corso all'armistizio.
Il nostro governo sapeva che a Roma c'erano diecimila SS. in borghese. Il re venne pregato di trasferirsi con la sua famiglia nel ministero della guerra, che era più facilmente difendibile. Il vecchio sovrano, accompagnato dalla regina, arrivò in via XX Settembre al calar della sera. I due vecchi, i due poveri vecchi, si rifugiarono nel brutto appartamento destinato ad alloggio del ministro della guerra. Il re, brontolando contro l'orribile mobilia, si raggomitolò su una poltrona e la regina sedette su un bracciuolo. Così, al buio, attesero g
li eventi.
Si aspettava che i tedeschi attaccassero. La speranza che si fossero ritirati al Nord svanì dopo poche ore. Gli attacchi cominciarono. Alle quattro del mattino il capo di stato maggiore dell'esercito giudicò che il re e il governo dovessero abbandonare la capitale. Vittorio Emanuele III, pur riconoscendo la necessità strategica e politica del movimento, si ribellò all'idea di muoversi da Roma: "Sono vecchio disse, secondo quanto riferisce Paolo Monelli nel suo bel libro su Roma nel 1943, che volete che mi facciano?"•. Ma poi si persuase.
Il movimento, che l'opinione pubblica chiamò fuga, fu certamente troppo precipitoso. Le au
torità politiche e militari non provvidero a lasciare a Roma un comando chiaramente e saldamente investito, con funzioni precise ed istruzioni dettagliate. La mattina del 9 settembre Roma si svegliò praticamente senza governo e senza re. Tutto pareva abbandonato al caso. Come si poteva impedire che si diffondesse e si consolidasse nell'animo di tutti, specialmente negli uomini d'ordine, l'impressione che il re e il governo fossero fuggiti? Il re, la regina, il principe di Piemonte, e le principali autorità militari e politiche, si erano imbarcate per Brindisi, i sovrani a Ortona a Mare, gli altri a Pescara.
In diritto, per virtù della "resa senza condizione", tutto il territorio nazionale era alla mercé del vincitore. Di fatto, gli alleati lasciarono l'estrema punta della penisola salentina al governo legale. In realtà, l'unica concretezza dello Stato italiano era nell'armistizio, le cui
clausole doveva eseguire. A questa sola funzione era limitata la sua vita e la sua speranza di riconquistare la sovranità perduta. Questa vita e questa speranza erano alimentate dalla buona fede degli alleati, che avevano sinceramente il proposito di restituire gradatamente autorità e giurisdizione al nostro governo.
L'attività del governo dell'armistizio cominciò, si può dire, con una matita. Governo? Esso si riduceva al re e a Badoglio. C'erano altre autorità militari, ma autorità politiche, nessuna.
Nell'Italia meridionale la confusione degli spiriti era enorme. Il re e Badoglio non riuscirono a costituire che un rudimento di ministero, con un certo numero di funzionari e di tecnici qualificati "sottosegretari". Le personalità politiche, che in qualche modo rappresentavano le correnti dell'opinione pubblica, si rifiutarono di collaborare con Badoglio nella formazione di un governo politico.
Le più importanti correnti consistevano nei liberali e nei cattolici, che facevano capo ad uomini di primissimo piano come Croce e Rodinò, nel partito d'azione che contava uomini di grande rilievo, come Omodeo, e, reduci dall'esilio, come Sforza, Tarchiani e Cianca, nei socialisti e nei comunisti. L'opposizione più grave e tenace venne dai liberali e dai democristiani, che esigevano almeno l'abdicazione di Vittorio Emanuele III.
Gli alleati fecero tutto quello che era in loro potere per indurre i gruppi politici a collaborare col re. Essi non avrebbero mai ammesso che l'abdicazione del re e l'eliminazione della monarchia determinassero delle ragioni, da parte di un governo antifascista, per respingere le conseguenze della guerra perduta. Gli alleati esige
vano che la continuità legale del governo italiano proseguisse ininterrotta e indiscussa.

Quanto al re, egli fece tutto quelIo che era in suo potere per persuadere gli esponenti politici dell'Italia meridionale. Era molto vecchio e molto stanco, ma più della sua vecchiaia e della sua stanchezza, gravava terribilmente sulla situazione il suo carattere, la sua mancanza di comunicativa umana. Vittorio Emanuele. III non era "simpatico" nel senso grato agli italiani. Rude, scontroso, misantropo, taciturno, egli aveva tutte le caratteristiche sgradevoli per il gusto latino e mediterraneo.

Una sola volta egli aveva colpito ed entusiasmato la fantasia degli italiani: il 25 luglio 1943. Quel piccolo vecchio che aveva osato cacciare e arrestare quel gigante, che era ancora temuto da innumerevoli persone, che era detto dittatore e tiranno, aveva lusingato l'immaginazione del nostro popolo. Per questa stessa ragione, la "fuga di Pescara", l'immagine di questo piccolo re che fugge all'alba, abbandonando l'orgogliosa capitale, nella quale suo nonno era entrato con tanta sicurezza affrontando lo sdegno dell'opinione pubblica mondiale, aveva letteralmente offeso la fantasia e il sentimento degli italiani.

Lo storico, qui, non ha niente da dire. Non c'erano in Italia, da una parte e dall'altra, che i sentimenti: sentimenti elementari. Spiegabile sentimento di offesa e di umiliazione, da parte degli italiani onesti che avevano militato nel fascismo e che si vedevano confusi e mescolati coi disonesti e coi criminali. Spiegabile sentimento di rancore da parte degli antifascisti che avevano subìto un ventennio d'oppressione, d'esili, di carceri e di confino. Spiegabile sentimento d'intransigenza da parte dei repubblicani che accusavano la monarchia delle disgrazie della patria. Spiegabile sentimento d'indignazione da parte dei monarchici, che vedevano nella monarchia non la causa della dinastia sabauda, ma quella dell'unità della patria, minacciata dalle conseguenze della disfatta. Spiegabile sentimento d'onore quello dei giovani, che avrebbero preferito combattere fino alla fine piuttosto che subire l'onta della "resa senza condizioni".

Ad ognuno di questi sentimenti, si potevano opporre le ragioni della realtà. Tutte queste ragioni consigliavano a superare ogni discordia e a concentrare ogni sforzo per costituire un governo di unione nazionale, capace di collaborare utilmente con gli alleati.
Per questo, nonostante la sua vecchiaia e la sua stanchezza, il re resistette ad ogni pressione. Egli si ostinava a rinviare ogni decisione sull'abdicazione al momento della liberazione di Roma, al momento in cui il governo italiano avrebbe avuto, sia pure di fatto, più larga giurisdizione, e il capo dello Stato avrebbe potuto meglio valutare la consistenza delle varie correnti politiche. Tutte le ragioni che si adducevano, per indurlo a tenere conto degli interessi della dinastia, lo trovarono invece sordo.
Per renderci conto dello smarrimento degli spiriti nell'Italia meridionale, basterà leggere due passi del Diario di Benedetto Croce. Scriveva l'illustre filosofo, in data 27 luglio 1943: "Del resto, anche oggi ansiosa attesa di notizie, e molta tristezza e sentimento di ribellione per le parole pronunziate contro l'Italia da statisti inglesi, che forse si apprestano a far pesare su di noi, nel nome della giustizia e della morale, la nostra guerra sciagurata. E nondimeno, nel bivio, era sempre per gli italiani da scegliere una sconfitta anziché l'apparente vittoria accanto alla qualità dì alleati che il Mussolini ci aveva imposto, vendendo l'Italia e il suo avvenire e cooperando alla servitù di tutti in Europa".

Ma il 4 di ottobre dello
stesso anno Croce scriveva: "Stamane mi sono svegliato dopo le tre e non ho potuto ripigliare sonno. Sono stato a rimuginare la guerra, il diritto internazionale e altri concetti affini, cercando, sotto la stretta della terribile passione di questi giorni, la parte da condannare moralmente; ma la conclusione è stata la rassodata conferma della vecchia teoria che la guerra non si giudica né moralmente né giuridicamente, e che quando c'è la guerra, non c'è altra possibilità né altro dovere che cercare di vincerla".
.
Il paradosso della situazione italiana fu questo: che Palmiro Togliatti, venuto dall'Unione Sovietica a porsi a capo dei comunisti, avverti che egli avrebbe "collaborato" col re, in un governo che si fosse proposto di combattere seriamente ed energicamente il nazifascismo. Il governo del re, dal canto suo, aveva formalmente dichiarato la guerra alla Germania e aveva ottenuto per il nostro Paese la situazione e la qualifica di "cobelligerante". Era un fatto che forti nuclei di forze partigiane, nell'Italia occupata dai tedeschi, erano formati da ufficiali e da soldati fedeli al re. Fedeli al re erano i marinai già morti in mare e quelli che combattevano in mare, fedeli al re i soldati che si erano fatti massacrare in Grecia e nell'Egeo.

Non c'era che un solo dovere: fare la guerra e imporre silenzio a tutte le "recriminazioni". Fu il capo dei comunisti che lanciò questo appello e venne, naturalmente, subito ascoltato. Si formò, finalmente, con la presidenza di Badoglio, un ministero politico. Si era alla fine dell'aprile 1944. Il re aveva preso l'impegno di nominare,
al momento della liberazione di Roma, il principe di Piemonte a luogotenente del regno. Del "regno", si badi, non del "re": era un modo astuto per dare modo ai repubblicani di sostenere che Umberto era, in pratica, un reggente. Infatti, la nomina sarebbe stata irrevocabile.

I ministri si presentarono al re a Ravello, dove Vittorio Emanuele III aveva posto la sua residenza, e firmarono una dichiarazione con la quale ognuno riservava il suo giudizio sulla questione istituzionale.
Un mese dopo Roma veniva liberata, e il re manteneva il suo impegno. Chiese una cosa sola: che gli venisse concesso un aeroplano per potersi recare nella capitale e firmare nel Quirinale il decreto di nomina del luogotenente. Non era una formalità. Anche quella voleva essere un'affermazione unitaria. Egli non aveva che una sola preoccupazione: quella che aveva dominata tutta la sua esistenza, tutto il suo regno, e che era l'essenza della monarchia costituzionale: l'unità d'Italia. Il re aveva mandato il duca Acquarone da Benedetto Croce, per esporgli
il suo desiderio. Il sovrano si diceva persuaso che il grande filosofo avrebbe compreso le ragioni sentimentali della sua richiesta. Acquarone riferiva anche che il re si augurava di vedere Croce alla testa del governo.

In consiglio dei ministri, Croce dovette lottare due ore per convincere i colleghi ad aderire cortesemente al "desiderio di un vecchio signore". Ne persuase dieci su sedici. Il re aveva anche chiesto che se gli alleati avessero rifiutato, il rifiuto gli fosse messo per iscritto. Senonché, mentre il consiglio dei ministri del governo di Salerno deliberava, il generale Mac Farlane si era già recato a Ravello e aveva costretto Vittorio Emanuele a firmare, tambur battente, il decreto che nominava Umberto di Savoia, principe di Piemonte, luogotenente generale del regno (vedi il documento)
In quello stesso giorno, Vittorio Emanuele III ordinò che venisse sospesa la guardia reale a Villa Sangro, sua residenza. Era una compagnia di granatieri. Volle salutare i due ufficiali il capitano Morozzo della Rocca e il tenente Giaccio. Colloquio freddo, gelido. Il re parlava del più e del meno, con un tono stanco e indifferente. Poi li congedò. Ma, accompagnandoli per qualche passo, toccò un braccio, lui così piccoletto, del più giovane dei due ufficiali e borbottò: "I miei granatieri!"

LA FINE

Il suo regno era finito. Era pronto, già nei giorni di Caporetto, prontissimo ad abdicare a favore del rivale, il duca d'Aosta. Ma non aveva voluto abdicare il 25 luglio, né sotto le pressioni di uomini autorevoli e fedeli alla monarchia, come Croce e De Nicola. Riteneva il figlio impreparato, come disse Acquarone? No. Egli sentiva, egli sapeva che con lui non finiva un sovrano, ma la monarchia costituzionale, quella che era nata nel 1860 dalla profonda coscienza dei patrioti italiani.

Si trasferì a Napoli, qualche tempo dopo, a Villa Maria Pia, come ora si chiamava la romantica Villa Rosebery, a Posillipo. Pescava: lunghe, lunghe ore di silenzio, macerate dai ricordi amari. Aveva fatto e continuava il suo calvario di uomo privato. Il destino volle che i suoi dolori di padre fossero quelli del più umile cittadino. Ad una figlia, Giovanna di Bulgaria, i nazisti avevano spento il marito col veleno; un'altra, Mafalda d'Assia, era morta atrocemente in un campo di concentramento nazista, come migliaia di altre povere donne.
Pescava in riva al mare di Posillipo, quel piccolo uomo, che era un padre come tutti gli altri, più triste, più infelice, più vecchio di tutti gli altri, più solo degli altri. Egli attendeva, innanzi a quel mare, che era stato il mare della sua giovinezza. Innanzi a quel mare era stato felice, giovane anche lui, innamorato. tutto teso a conquistare la vita. Possiamo dire che in quelle ore egli avrà disperatamente invocato la morte, perché il destino gli risparmiasse, almeno, di morire in esilio? Ma il destino fu severo. Vennero un giorno da Roma a fargli firmare un atto di abdicazione. Partì, quasi di nascosto sull'incrociatore Duca degli Abruzzi per Alessandria d'Egitto.
Egli aveva detto al figlio, consegnandogli il potere e protestando il suo costante, immutato amore per il bene della patria:
"Posso avere sbagliato".

Queste furono le sue ultime parole ufficiali. Nessuno degli uomini della sua generazione, nessuno di coloro che avevano come lui il dovere di difendere le libertà costituzionali, ha mai ammesso di avere sbagliato.
Al Cairo, dove un re amico gli fu prodigo di ospitalità e di deferenza, ebbe, un mese dopo, la notizia che la monarchia era finita in Italia. Si spense in un ospedale italiano, mentre moriva il 1947, e niente era più incerto della sorte del nostro Paese.

Fine

Qui sopra abbiamo anticipato molti eventi -quasi fino alla fine del conflitto-
mentre ora dobbiamo proseguire ripartendo dal 20 luglio 1943

VERSO IL 25 LUGLIO - ROMA BRUCIA !! > >

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