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( QUI TUTTI I RIASSUNTI )  RIASSUNTO ANNO 1939 (2)
IL CONFLITTO CON LA SOCIETA' DELLE NAZIONI


Invece di dare interpretazioni (le posteriori sono facili a farsi), ci atteniamo ai testi ufficiali dell'anno XVIII (11-12-1940) - Integrali.
Sono di parte, ma di parte diventano solo dopo; al momento questa era l'informazione, tutta consenziente.
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Nella fitta rete degli avvenimenti, di cui è intessuta la storia delle relazioni internazionali, non pochi ti è dato trovarne, dei quali gli uomini politici facevano gran conto nel calcolo dei loro interessi, ma che, al tuo occhio lontano, appaiono ormai senza rilievo sull'uniforme volgere del tempo; altri invece vengono per te in netto risalto, superando di gran lunga le aspettative che avevano potuto suscitare. Gli è che gli uomini sono soliti giudicare proiettando nel futuro questa situazione d'interessi che è legata, nei suoi sviluppi, ad un passato troppo vicino per essere da loro consapevolmente conosciuto.
Tu diventi consapevole del passato, quando arrivi a riconoscerlo come tale nel tuo presente, cogliendo i due termini nel distacco che te li contrappone: tra l'uno e l'altro di essi è la zona incognita del presente che si fa passato, della cronaca che non è ancora divenuta storia.

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Il conflitto con la Società delle Nazioni.

"La nostra impresa etiopica, che ha impegnato il più grosso corpo di spedizione che la storia coloniale ricordi, rappresenta il primo, ma anche risolutivo aperto conflitto tra uno Stato condannato come «aggressore» e la Società delle Nazioni. La creazione dell'Impero italiano è stata la più audace sfida contro l'istituto ginevrino e gli interessi da esso rappresentati : tanto che il significato imperiale della nostra vittoria, più che nell'importanza dell'acquisto coloniale, era soprattutto da riconoscersi nel successo ottenuto contro la lega sanzionista dei cinquantadue Stati. Questo più vero significato è del resto riconducibile all'aspetto rivoluzionario dell'impresa etiopica, che aveva toccato nel profondo delle sue masse il popolo italiano rinnovando sul piano internazionale e con più vasto impeto, dopo tredici anni, lo slancio insurrezionale del fascismo

Il raccostamento tra la Marcia su Roma e l'impresa etiopica consente di mettere in luce una tecnica comune a questi due atti insurrezionali, che solo a distanza di tempo hanno riconosciuto il loro valore rivoluzionario. La spedizione di Abissinia è stato un vero e proprio atto di ribellione contro la Società delle Nazioni, e la nostra vittoria è poi riuscita decisiva per la sfortunata sorte di questa : tuttavia, nei suoi rapporti diplomatici, l'Italia rifiutava di riconoscersi in conflitto con i paragrafi della legge ginevrina, alla quale anzi si è considerata soggetta per più di un anno e mezzo dopo la costituzione del suo Impero; non altrimenti, ancora per alcuni anni dopo la Marcia su Roma, il Governo fascista si ostentava ligio alla costituzione liberale, accettando perfino di adeguarsi, almeno formalmente, alle esigenze della vecchia vita parlamentare. È questa una tecnica del « colpo di stato », una tattica rivoluzionaria che può ben distinguersi come mussoliniana e che ha saputo raggiungere il suo successo e sul piano interno e su quello internazionale.

Tali due aspetti, tra loro apparentemente contradditori (apparentemente, perché rinsaldati dallo scopo più profondo cui tende la tattica che in essi si esprime), della condotta politica del conflitto etiopico consigliano di condurre questo suo esame riassuntivo sotto un duplice punto di vista : che distinguiamo in « diplomatico » ed in « politico ». La visuale « diplomatica » è quella della polemica aperta, che è stata condotta ai margini del conflitto militare, e che vanta una sua logica intessuta su motivi giuridici e politici; la visuale « politica » spazia oltre i dati immediati del conflitto per comprenderne il significato politico, che ritrova al di là dell'impresa militare e della disputa diplomatica.

Il mancato riconoscimento dei compensi, riservatici dall'art. 13 del Patto di Londra, aveva lasciato aperto per l'Italia il problema coloniale, che agiva alimentando i motivi del nostro revisionismo. La cessione dell'Oltregiuba, ottenuta nel 1924 dall'Inghilterra a stralcio e saldo di ogni nostra pretesa nei suoi diretti confronti, non valeva certo a soddisfare le premesse di quel problema, ma solo a dare una maggiore precisazione dei possibili termini della sua risoluzione. La questione, infatti, continuava a restare aperta nei riguardi della Francia con la quale non correvano rapporti del tutto amichevoli ; inoltre l'Italia, che aveva ristabilito negli antichi confini le sue vecchie colonie, si sentiva capace di provvedere anche con i propri mezzi alla soddisfazione delle sue esigenze coloniali. Il campo dischiuso a questa sua soddisfazione era naturalmente l'Abissinia: non soltanto per la sua posizione geografica e le sue possibilità economiche di retroterra delle nostre due colonie dell'Africa orientale, non soltanto per i motivi sentimentali legati al ricordo dei primi aneliti coloniali del giovane Regno, ma anche in ragione di alcuni diritti d'influenza che l'Itala si era riservata stipulando quegli accordi, che diplomaticamente possono anche non voler dire nulla, ma che politicamente sono aperti a tutte le possibilità.

Dalla Francia, comunque potessero venire impostate le cose, molto l'Italia non poteva sperare : non certo abbastanza per soddisfare queste sue aspirazioni coloniali; l'Abissinia invece offriva potenzialmente ben altre possibilità, le quali tuttavia - è subito da notare - non si presentavano di agevole soddisfazione.

Queste difficoltà venivano in considerazione sotto un duplice punto di vista: e nei confronti diretti con l'Impero etiopico, per la resistenza che esso poteva offrire ad una nostra penetrazione; e nei confronti con gli altri due concorrenti, Francia ed Inghilterra, che avevano degli interessi già dichiarati e delle mire mal celate anche in quest'ultimo settore del grande Continente africano. A quest'ultimo riguardo, basti ricordare che l'ammissione dell'Abissinia alla Società delle Nazioni nel 1923 fu caldeggiata dalla Francia e sostenuta anche dall'Italia, perché in quel momento c'erano seri motivi per sospettare che gli inglesi si stessero preparando per approfittare della prima occasione per affermare una loro posizione di vantaggio. Questa concorrenza tra l'Italia, la Francia e l'Inghilterra era di vecchia data, ed era rimasta sempre viva nonostante gli accordi bilaterali o tripartiti che erano stati conclusi per regolarla.

Il problema, che si trovava a dover affrontare il Governo italiano, non era dunque di facile risoluzione anche se l'Italia riteneva di potersi riconoscere dei diritti preferenziali rispetto ai suoi concorrenti; per i quali, oltre a tutto, non poteva esistere un vero e proprio problema coloniale per l'acquisto di nuovi possedimenti da aggiungere ai vastissimi territori già posseduti. Di conseguenza, dando forse molto rilievo a questa ultima considerazione, il Governo italiano considerava il problema della penetrazione in Abissinia soprattutto come una questione di tenace perseveranza e, occorrendo, di risolute decisioni. Naturalmente la via che gli si presentava come la più normale, ed insieme la più agevole, era quella di una penetrazione pacifica da realizzarsi d'accordo con lo stesso Governo etiopico. Frutto di queste nostre iniziative pacifiche fu il trattato di amicizia concluso nel 1928: un frutto che però doveva avvizzire presto nonostante il preciso impegno, che avevamo ottenuto, di ampliare e far prosperare i commerci esistenti tra i due Paesi.

I trattati di amicizia non sempre contribuiscono a tendere effettivamente amichevoli i rapporti tra le Alte Parti contraenti : alle volte, quando mancano certi scopi più immediati loro attribuiti, finiscono facilmente per far maturare una crisi in situazioni prima considerate come normali. Questa fu certo la sorte non felice del trattato di amicizia italo-etiopico. La situazione non precipitò subito, nonostante risultasse tosto palese la nessuna volontà del Governo etiopico di dimostrarsi comunque amico nei suoi rapporti con l'Italia. Per vero, considerando che territori soggetti alla dominazione dei suoi ras costituivano motivo di concorrenza tra tre grandi Potenze europee, il Governo abissino cercava di destreggiarsi tra l'una e l'altra di esse, facendo quanto di meglio gli occorreva per impedire che l'Italia, la Francia e l'Inghilterra si mettessero d'accordo a sue spese. Il trattato di amicizia con l'Italia non era che una diversione in questo gioco difficile e pericoloso; d'altra parte il Governo italiano non aveva alcuna intenzione di lasciarsi giocare in quel modo da Tafari Makonnen - divenuto poi, da reggente, imperatore d'Etiopia -, tanto più che il fallimento di quelle sue pacifiche iniziative lo aveva messo in una condizione di svantaggio rispetto agli altri due concorrenti.

In una siffatta situazione, resa ogni anno più difficile per le reazioni che si determinavano tra i due mancati « amici », per l'Italia si era venuta facendo sempre più viva l'esigenza di attuare con altri mezzi e più radicalmente quegli stessi scopi che invano aveva tentato di raggiungere attraverso un trattato di amicizia.
Avendo, dunque, deciso di accentrare le proprie attenzioni ed i propri interessi sul fattore etiopico del suo problema coloniale, il Governo italiano - in una situazione europea che, come si è già detto, sembrava a ciò favorevole - si risolveva a venire ad una transazione anche per quelle che erano le sue pretese coloniali verso la Francia, allo scopo di incominciare ad eliminare uno dei suoi due concorrenti di fronte alle possibili complicazioni a cui potevano giungere i rapporti italo-etiopici : il désistement, rilasciato segretamente da Laval in aggiunta ai Protocolli di Roma, doveva rappresentare questa rinunzia della Francia a continuare ad interessarsi delle faccende abissine. Naturalmente restava ancora da mettersi d'accordo cori l'altro concorrente se fosse stato possibile acquietare anche questo, il risoluto atteggiamento del Governo italiano avrebbe potuto riuscire facilmente a convincere l'imperatore etiopico che non era più il caso di ritentare il vecchio gioco del terzo che gode tra i più litiganti.

Senonchè la concorrenza inglese appariva assai più difficile da eliminare di quanto non si fosse, in un primo momento, creduto. Concluso l' accordo con la Francia, fu subito tentato qualche passo a Londra, con molta discrezione: ma gli inglesi preferivano far finta di non capire, dove l' Italia volesse arrivare. Questo atteggiamento passivo, più che propriamente negativo, essi mantennero anche durante le conversazioni di Stresa, nel corso delle quali i delegati italiani provarono ad affacciare qualche cenno, sempre molto discreto. Gli inglesi non pensavano mai che il Governo italiano fosse deciso di impegnarsi in una vera e propria impresa coloniale e credevano, in tal modo, di poter scoraggiare senza compromettersi eccessivamente quelle che essi consideravano come fossero delle ambiziose velleità di un Governo dittatoriale. Questo duplice equivoco iniziale ha pesato indubbiamente sugli sviluppi della crisi etiopica. L'Italia credeva che un'ampia garanzia a favore di tutti gli interessi che gli inglesi coltivavano intorno al lago Tana, fosse sufficiente per far distrarre l'attenzione del Governo britannico, che non avrebbe dovuto aver sufficienti motivi per impegnarsi a fondo in una questione come quella abissina.

Questa convinzione ha potuto resistere anche alla delusione di Stresa, perché il Governo italiano aveva compreso che gli ambienti londinesi non avevano fatto abbastanza conto della sua risoluzione ad agire fino in fondo, e pensava perciò che sarebbe stato utile e forse sufficiente convincerli di questo. Quanto agli inglesi, non volevano saperne di cedere alle pressioni italiane, comunque fossero esercitate, più che mai convinti che l'Italia non avrebbe mai accettato una loro sfida; essi avevano ritenuto che l'Italia, nei suoi primi calcoli, non avesse considerato a sufficienza quella che poteva essere la resistenza inglese e credevano fosse bastevole persuaderla a rivedere i suoi conti. In questi piuttosto incerti termini prende inizio la polemica italo-inglese, che assumerà poi gli aspetti di un vero e proprio conflitto quando l'Inghilterra tenterà l'intimidazione della sua flotta schierata noi Mediterraneo e chiamerà l'intervento della Società delle Nazioni per avallare questa sua azione contro l'Italia.

La Società delle Nazioni era già stata chiamata ad interessarsi di alcuni incidenti di frontiera tra le bande irregolari dei ras abissini e dei nostri posti avanzati. Per vero dire questi incidenti ai confini dell'Impero etiopico si verificavano abbastanza di frequente anche in periodi del tutto normali : ma, negli ultimi mesi del 1934 e nei primi dell'anno successivo, la tensione che inaspriva i rapporti italo-etiopici era, favorevole ai più gravi sviluppi, tanto più minacciosi in ragione dell'agitazione di cui cominciavano ad essere invasati certi ambiziosi capi etiopici che facevano sentire la loro influenza sull'Imperatore. Ailé Selassié, pur sapendo che i territori soggetti ai ras abissini erano oggetto di attenzione - anzi, si è detto, di concorrenza - da parte di tre grandi Potenze europee, trovava tuttavia il modo di coltivare, anche lui, le sue mire espansionistiche, soprattutto per poter arrivare al mare. Secondo il principio della minor resistenza, Ailé Selassié credeva di dover puntare i suoi sguardi verso le colonie italiane: tanto più se gli italiani venivano, in certo qual modo, ad offrirgliene l'occasione manifestando il loro risentimento per la mancata applicazione del trattato del 1928.

Nell'eventualità di serie complicazioni, il Negus doveva pensare di poter fare affidamento sugli inglesi, i cui più urgenti interessi potevano essere facilmente soddisfatti con qualche concessione nella zona del lago Tana. Questi calcoli del Negus potevano anche apparire bene impostati : se l'Inghilterra avesse potuto impedire all'Italia di averla vinta, certamente si sarebbe fatta riconoscere dei diritti intorno alle sorgenti del Nilo Azzurro e degli altri interessi economici d'ordine più generale, ma il Negus con ogni probabilità avrebbe ottenuto il suo sbocco al mare; ora, Ailé Selassié non dubitava che l'Inghilterra fosse in condizioni di fermare l'Italia. Questo era, dunque, opportuno notare per spiegare l'atteggiamento di sfida tenuto dal Negus e le velleità aggressive dei più ambiziosi ras abissini.

Il Negus aveva adito la prima volta la Società delle Nazioni nel dicembre del 1934 per sottrarsi alle proteste che il Governo italiano gli aveva fatto pervenire in conseguenza dell'incidente di Ual Ual. Ci fu un vivace scambio di numerose note ma tutto procedeva normalmente, secondo la più normale prassi ginevrina. Alla 84a sessione del Consiglio la discussione viene rinviata alla successiva sessione ordinaria. Nel frattempo, però, viene annunziata la convocazione di una sessione straordinaria per prendere in esame il problema del riarmo germanico : nuovo ricorso del Negus ed altro rinvio della discussione.

Alla sessione di maggio il Consiglio prende in esame per la prima volta i ricorsi del Negus, che però non vengono in discussione perché i rappresentanti dell'Italia, della Francia e dell'Inghilterra - intermediario Laval - concordano in separata sede una risoluzione, che poi viene votata dal Consiglio, per la ripresa della procedura di conciliazione e d'arbitrato che le parti avevano già tentato senza successo. Per ora tutto continua a procedere normalmente conforme i noti precedenti societari, nonostante che l'Italia abbia già annunciato ufficialmente il richiamo dei contingenti di una classe e la mobilitazione di cinque divisioni. Ma, a questo momento, incominciano a complicarsi le cose perché l'Inghilterra, che ha già dimostrato a Ginevra d'interessarsi particolarmente alla faccenda, prende l'iniziativa di mandare a Roma un suo ministro - mr. Eden, che poco tempo prima era stato nominato a capo di un ministero di nuova creazione per gli affari della Società delle Nazioni -- per proporre al Governo italiano un progetto di risoluzione del conflitto italo-etiopico studiato dal Governo inglese, il quale si riconoscerebbe disposto a fare spontaneamente dei sacrifici territoriali pur di vedere subito liquidata la vertenza.

La risposta è risolutamente negativa, ma la replica non tarda ad arrivare : al prossimo ricorso del Negus il Consiglio sarà convocato d'urgenza in sessione straordinaria. Le discussioni si protraggono per tre giorni: incomincia a farsi evidente l'intenzione della Lega di interessarsi a fondo dei numerosi ricorsi presentati dal Negus.
È trascorso appena un mese dall'infruttuosa visita a Roma, ma nel frattempo la polemica si è venuta inasprendo rapidamente. Nella magra estiva la stampa internazionale tende ad inflazionare le notizie riservando largo spazio ai commenti sul dissidio italo-etiopico.
Fa il giro delle redazioni di tutto il mondo un testo del discorso di Mussolini alle Camicie Nere, radunate ad Eboli in partenza per l'Africa, dichiaratamente offensivo per gli inglesi. Ancora il « tireremo diritto » non è stato pronunziato; ma il giorno stesso, in cui si riunisce a Ginevra la sessione straordinaria del Consiglio dedicata alla vertenza italo-etiopica, un editoriale del « Popolo d'Italia », dallo stile inconfondibile, imposta i termini del problema in maniera univoca nella triplice alternativa : « con Ginevra, senza Ginevra, contro Ginevra ».

Sono le prime avvisaglie del conflitto con la Società delle Nazioni, che si protrarrà per un anno avanti che la Lega sanzionista decida di desistere dall'assedio imposto all'« aggressore », riconoscendo la propria sconfitta. È un anno decisivo nella breve storia della Società delle Nazioni : trascinata dall'Inghilterra essa tenta per la prima volta di esercitare il suo potere esecutivo, impegnandosi pericolosamente ben oltre i ristretti limiti delle sue possibilità. L'insuccesso le sarà fatale.

A Ginevra, i motivi di fatto e di diritto che accendono la vertenza italo-etiopica passano ben presto in secondo piano, sfocati dal duello che l'Italia deve sostenere con l'Inghilterra, e poi con tutta la Società delle Nazioni. La diplomazia italiana non può non trovarsi a disagio in quel terreno societario, su cui l'Inghilterra si muove da padrone riuscendo ad imprimere un agile ritmo di azione ad un pesante organismo dalle membra intorpidite. L'Italia preferisce accentuare i motivi del contrasto diretto con l'Inghilterra rifiutando di riconoscersi in conflitto con la Società delle Nazioni; l'Italia - occorre tenere presente - ha già deciso di agire, e di agire rapidamente non appena la stagione le sarà favorevole ma per dare effetto a questa decisione, e portare a compimento l'impresa in una terra inospitale così lontana dalla madrepatria, le è indispensabile uno sforzo economico e militare non indifferente. Non potendo nascondere la sua preparazione, e riservarsi di agire di sorpresa alla prima occasione che non potrà non presentarsi, preferisce ostentare i suoi preparativi bellici : preferisce tagliarsi dietro visibilmente tutti i ponti per mettere gli altri di fronte al fatto compiuto di una decisione non più revocabile.

Il Governo italiano ha valutato esattamente le condizioni della campagna militare e si sente capace di poter ridurre rapidamente il Negus alla ragione; d'altra parte, sul piano politico, ogni calcolo è superato dalla sua decisione di procedere innanzi ad ogni costo. La Società delle Nazioni non gli sembra debba essere motivo per eccessive preoccupazioni, forse perché suppone che finirà per prevalere il tradizionale spirito ginevrino; quanto all'Inghilterra, esso crede che, quali possano essere i suoi interessi effettivamente impegnati, non arriverà mai a lasciarsi trascinare affatto impreparata in una guerra della quale non le sarebbe possibile prevedere tutti gli sviluppi. D'altra parte, l'Italia non ha ancora rinunziato a credere che, “ad vitanda mala malora”, l'Inghilterra stessa e tutti gli altri Paesi ritrovino il loro interesse nell'abbandono del Negus al suo destino per riguadagnarsi la sua preziosa amicizia; appunto perciò, nonostante tutto, il Governo italiano eviterà di distruggere i ponti alle spalle dei suoi avversari e continuerà a mantenere la sua delegazione a Ginevra, anche se è palese l'intenzione della Società delle Nazioni di sposare la causa del rappresentante etiopico.

La tesi sostenuta dalla delegazione italiana a Ginevra verte principalmente su due argomenti, che hanno tra loro una radice comune. L'Abissinia non ha i requisiti propri dello Stato moderno per la mancanza di un'autorità centrale responsabile, capace di mantenere i propri impegni verso la Società delle Nazioni e nei rapporti con gli altri Stati, nonché di assicurare il dovuto rispetto verso i Paesi con essa confinanti ; di conseguenza l'Italia deve provvedere a preservare la sicurezza delle sue colonie lontane dalla madrepatria e non facilmente difendibili contro degli eventuali attacchi improvvisi : quanto alla Società delle Nazioni, essa deve riconoscere che l'Abissinia ha mancato ai requisiti che le erano stati specificatamente imposti al momento della sua assunzione nella Lega e deve, quindi, negarle l'assistenza societaria.

Il memoriale italiano, presentato il 4 settembre 1935 all'apertura della 88a sessione del Consiglio, portava a confronto di questa tesi un'ampia documentazione : tratta per gran parte dalla vasta letteratura che gli inglesi erano venuti allestendo appositamente, in lunghi anni di accurati studi, allo scopo di mostrare che l'Impero schiavista del Negus aveva tutti i requisiti per essere un ottimo possedimento coloniale.
Il rappresentante italiano ha lamentato più volte che il memoriale del 4 settembre non sia stato oggetto di un sufficiente esame e di una esauriente discussione da parte del Consiglio ginevrino : in realtà, però, la Commissione dei Cinque, nominata dallo stesso Consiglio per lo studio del documento, si è dimostrata convinta, nelle sue conclusioni, dei dati di fatto presentati dal Governo italiano. Infatti, le proposte concrete da essa presentate per una pacifica soluzione della vertenza, avevano come premessa il riconoscimento di una condizione di minorità - se così si può dire - dello Stato etiopico, che doveva venir sottoposto al controllo di un organismo societario appositamente creato per dargli assistenza nella riorganizzazione di tutti i suoi servizi pubblici, intesi nel senso più ampio della parola. Ciò che la Commissione respingeva era di dare soddisfazione alle richieste italiane nel modo come erano state presentate : in altri termini, pur riconoscendo che l'Abissinia mancava dei requisiti per essere considerata un membro societario, tuttavia la Lega ginevrina continuava a volerle prestare la sua assistenza pur di impedire la soddisfazione delle pretese che erano state avanzate dall'Italia.

Il corso degli avvenimenti acquista un ritmo che si fa sempre più rapido: in Africa Orientale la rottura delle ostilità è ormai imminente. Il 28 settembre il Negus dà ufficialmente l'ordine della mobilitazione generale, che del resto è già in atto, e il 2 ottobre le truppe italiane passano il Mareb dando inizio alla marcia vittoriosa che, in sette mesi, dovrà condurle ad Addis Abeba.
A Ginevra intanto, per la prima volta in quindici anni, le reazioni societarie sono assolutamente tempestive: il meccanismo sanzionista è già stato montato, basterà metterlo in moto e tosto prenderà l'abbrivio sotto la risoluta condotta dell'Inghilterra. In cinque giorni l'inchiesta societaria è già conclusa, stesa la sentenza, segnato il verdetto di reità : e il 9 ottobre il massimo organo della Lega decreterà l'applicazione delle sanzioni, che verranno subito attuate nel campo finanziario e, parzialmente, anche in quello economico. Viene decisa la sospensione di tutti i crediti, stabilito il divieto di qualunque importazione e di talune esportazioni in Italia per tutti gli Stati societari, salvo per l'Albania, l'Austria e l'Ungheria che si erano astenute, e con alcuni riguardi verso la Svizzera; inoltre sarà minacciato anche l'embargo sul petrolio.

A questo fine il Comitato di coordinamento crea un sottocomitato di esperti per studiare le misure concrete, ma la decisione sarà rinviata di volta in volta in conseguenza del preciso avvertimento, dato ufficialmente dal Governo Italiano, che un simile. passo sarebbe considerato a tutti gli effetti come un vero e proprio atto di guerra. A parte l'immoralità della pena sancita, diversamente efficace a secondo della potenzialità economica degli Stati a cui deve essere applicata - per cui, mentre taluni ne sono del tutto esenti, altri possono restare miseramente soffocati -: a parte questo, l'errore più grave della Società delle Nazioni è stato quello di compromettersi fino a questo punto senza poi avere il coraggio di portare la sentenza di condanna alle sue estreme conseguenze. Ha voluto evitare ogni atto violento sperando nella morte lenta per soffocazione della vittima designata; ma disponendosi nel contempo ad accettare il fatto compiuto, se gli fosse imposto sotto la seria minaccia di gravi complicazioni europee. Questo era il limite evidente dell'azione societaria : limite segnato dagli interessi dei suoi istigatori e che il Governo italiano ha tenuto presente fin dal primo momento, ed in considerazione del quale ha poi atteggiato, con una certa sicurezza, tutto il suo comportamento.

Dal punto di vista della stessa Società delle Nazioni, l'occasione scelta per dare la prova dei suoi poteri esecutivi non era certo la più adatta. non soltanto per le deficienze che la infirmavano dal punto di vista giuridico - e di cui sopra si è fatto cenno -, ma soprattutto per la capacità di resistenza morale e materiale del popolo italiano, assai superiore alle previsioni che erano state fatte dagli esperti londinesi. Tanto più inadatta, poi, se si considerano i quindici anni di attesa, durante i quali si erano lasciate perdere altre occasioni che, per lo meno, si presentavano molto meglio impostate giuridicamente. Ma per vero, in quel momento, troppi interessi facevano forza dietro all'istituto ginevrino per contrastare il passo all'Italia: alcuni di questi interessi erano completamente estranei alla Società delle Nazioni, altri si erano venuti risvegliando in seno ad essa, man mano che la sua posizione risultava sempre più impegnativamente compromessa.

Tra le forze che più premevano, per esporre la Società delle Nazioni in questa azione repressiva contro l'Italia, era l'Inghilterra : i cui rappresentanti avevano preso letteralmente le redini dell'istituto, come se volessero trascinarlo fino alle estreme conseguenze. Questo risoluto atteggiamento inglese, per la più rigida interpretazione della legge ginevrina, aveva destato la sorpresa, prima di tutti, degli stessi ambienti societari. La Francia per esempio, che aveva sempre dubitato di poter trovare nel Governo inglese uno zelante interprete dei paragrafi della legge internazionale in genere, e societaria in specie, a cagione del vantato realismo della sua politica, non riusciva a convincersi di questo suo improvviso furore societario : tanto da chiedere ufficialmente a Londra delle assicurazioni sulla intenzione del Governo inglese di conservare questa rigida interpretazione del Patto anche in altre evenienze, con parti. colare riguardo ai problemi continentali.

Stava di fatto che l'Inghilterra, non solo dimostrava la sua risoluta intenzione ad agire mobilitando la sua flotta nelle acque del Mediterraneo, ma soprattutto minacciando apertamente, nelle dichiarazioni ufficiali dei suoi uomini responsabili, di non volersi più considerare impegnata nei riguardi della sicurezza collettiva, se questa volta non fosse stata accettata l'interpretazione che essa intendeva fosse data al Patto. La minaccia era tale da impressionare non soltanto la Francia, ma tutti gli ambienti societari che trovavano la Società delle Nazioni improvvisamente impegnata in una situazione quanto mai delicata. Già incominciavano a dimenticarsi da molte parti la crisi dell'istituto, che veniva imputata principalmente ad un certo disinteresse dimostrato in più casi dalle grandi Potenze : se ora l'Inghilterra, senza che nessuno glielo avesse richiesto, offriva spontaneamente il peso della sua enorme potenza - e non a parole soltanto, perché la grande flotta aveva già salpato le ancore -, l'occasione era più che mai propizia per rinsaldare con un clamoroso successo il prestigio societario.

L'Italia, con la sua politica revisionistica e con quel suo fare che veniva giudicato un po' troppo pretenzioso (dodici anni non erano bastati a far dimenticare l'episodio di Corfù), non era d'altra parte considerato come un membro tra i più simpatici: non sarebbero stati in molti a versare lagrime per la lezione che la Società delle Nazioni doveva infliggerle per riaffermare il suo prestigio. Ma anche questa non era che una quinta, se pure di primo piano, in quel complesso scenario in cui la Lega si preparava a rappresentare la commedia delle sanzioni: il cui lontano epilogo doveva poi concludersi con una tragedia.

Sempre restando in questo ordine di idee, l'azione repressiva voluta contro l'Italia avrebbe dovuto servire di ammonimento verso una minaccia che anche l'Inghilterra, ma certo non l'Inghilterra soltanto, vedeva profilarsi all'orizzonte europeo: la minaccia del revisionismo tedesco. A riguardo dell'Inghilterra, si è già detto dello stato dei rapporti che essa coltivava con la Germania; si è detto della stima e del rispetto -- da non confondersi con la simpatia - che il popolo britannico nutriva per quello tedesco e del comportamento favorevole al Reich che il Governo inglese aveva creduto di dover adottare in una certa situazione dello scacchiere continentale : tutto ciò, però, non esclude che l'Inghilterra fosse molto attenta, se non ancora preoccupata, a tutti i movimenti della politica germanica. Che il Governo inglese considerasse sconveniente turbare in alcun modo, in quel momento, i suoi rapporti diretti con il Governo tedesco, non toglie affatto che gli potesse apparire nel contempo altrettanto, anzi più che mai opportuno fargli avere, per via molto indiretta ma non per questo meno efficace, dei significativi avvertimenti. L'esperimento, che si tentava contro l'Italia, poteva in certo qual modo rappresentare la prova generale di ogni altra eventuale azione repressiva da condursi anche nel Continente.

Questa attesa era, soprattutto la molla che aveva indotto il Governo francese a dimenticare tanto facilmente i Protocolli romani sottoscritti pochi mesi prima; questo era, in generale per tutti i Paesi che comunque si sentissero minacciati, il significativo precedente che doveva sanzionare il principio della sicurezza collettiva. E la Germania seppe intendere il monito, prima ancora che fosse del tutto espresso : nonostante le difficoltà dei mesi precedenti, i primi contatti un po' fiduciosi tra l'Italia e la Germania risalgono proprio a quell'autunno del 1935.
La Germania si è rifiutata di collaborare in qualunque modo all'assedio che veniva imposto all'Italia: nel novembre di quell'anno essa respingeva con speciosi motivi la richiesta ufficiale del Governo britannico, diretta a tutti i Paesi confinanti con l'Italia, di fare accompagnare le merci spedite in Inghilterra da un certificato di provenienza.

Fra gli altri interessi che, durante il periodo sanzionistico, consigliavano la Germania a dare per quanto possibile incremento ai suoi traffici con l'Italia, non ultima è stata la preoccupazione delle conseguenze continentali nell'eventualità di una resa italiana. Più sopra si è fatto cenno dell'interesse dell'Italia a veder risolto il suo problema coloniale avanti che altri avvenimenti venissero a maturare nel Continente : sullo stesso piano per la preoccupazione di questi possibili avvenimenti, la Società delle Nazioni riteneva di avere interesse, e come persona collettiva e nella maggior parte dei suoi singoli membri, a reprimere l'azione italiana in Africa orientale allo scopo di prevenire altre azioni nel Continente. L'Italia era la vittima designata per essere sacrificata a Ginevra sull'altare della sicurezza collettiva.

>I motivi di contrasto, di cui si è fatto cenno e che sono tutti riconducibili in termini di politica coloniale e di equilibrio continentale, valgono certo a mettere in luce, nei loro riflessi immediati, le cause che hanno portato al conflitto tra l'Italia e la Società delle Nazioni; nei loro riflessi immediati, che possono cogliersi nell'atteggiamento tenuto dall'Italia nelle sue relazioni internazionali e nei suoi rapporti diretti con la Lega ginevrina, nell'azione dell'Inghilterra a Ginevra e fuori di Ginevra, nel comportamento della Società delle Nazioni ed in genere di tutti gli Stati più o meno direttamente interessati. Tutto ciò sta bene, ma quei motivi non riuscirebbero ad illuminare, neppure di lontano, lo sviluppo irresistibile degli avvenimenti anche dopo la soluzione della crisi etiopica. Non si è mancato più sopra di mettere in rilievo il proposito del Governo italiano di « non distruggere i ponti alle spalle dei suoi avversari », ora merita confermare che, almeno apparentemente, allorché nel luglio del 1936 furono tolte le sanzioni, tutte le vie erano ancora aperte per una riconciliazione generale, e non mancarono i tentativi per realizzarla. Apparve allora manifesto che il conflitto etiopico non era stato combattuto soltanto su questo o quel paragrafo del “Covenant”, o sugli interessi della politica coloniale e dell'equilibrio europeo, ma intorno ad una barricata, che ancora non era stata espugnata.

Lontano dalle pallide Cancellerie diplomatiche, le ragioni più profonde di questo conflitto erano già state avvertite dal popolo italiano, che con spontaneo trasporto aveva offerto alla patria i suoi figli ed i pochi grammi d'oro - tutta la sua ricchezza -, ed insieme dall'opinione pubblica democratica che, lasciata improvvisamente ogni professione di pacifismo, invasata di sacro furore nella difesa della legge internazionale, esigeva dai suoi capi la crociata contro il fascismo, perturbatore dell'ordine pubblico internazionale.

Il conflitto tra l'Italia e la Società delle Nazioni, a parte ogni definizione « diplomatica », fu sostanzialmente un atto di rivolta contro la legge internazionale : contro quella legge internazionale che aveva il suo statuto fondamentale nel trattato di Versaglia e, soprattutto, nelle tavole ginevrine integrate da una lunga serie di accordi internazionali. Prescindendo dal trattato di Versaglia, sottoscritto in circostanze del tutto eccezionali - le quali, però, hanno lasciato un marchio profondo in tutta la costituzione europea - la Lega delle Nazioni, come primo tentativo di una società internazionale, costituì un avvenimento di grande valore storico.

Ora, non è qui il luogo per portare giudizi sulla ideologia che ha presieduto all'istituzione della Società delle Nazioni; tuttavia basta il solo rilievo che l'istituto ginevrino, che doveva essere la più superba realizzazione dell'idea democratica, è riuscito, in realtà, la più evidente dimostrazione dei limiti di questa concezione politica che, nel suo divenire storico, aveva già raggiunto la fase dissolvente. In ogni modo, anche per la Lega delle Nazioni può rilevarsi che un'istituzione, la quale voleva essere di portata universale e doveva, comunque, riuscire un esperimento di così grande valore storico, avrebbe meritato di nascere in un'atmosfera meno passionale e meno artefatta di quella che gravitava sull'Europa e sul mondo intero nell'immediato dopoguerra.

Con questo si vuole prescindere dal considerare quelle che potevano essere allora le effettive intenzioni dei Governi di Parigi e di Londra, i quali, rifatta la carta politica dell'Europa e dei Domini coloniali a proprio uso e consumo, non avevano altro desiderio che quello di garantirsi, a poco prezzo, una tranquilla digestione della ricca preda di guerra. Si prescinde da queste considerazioni, non tanto per la difficoltà di istituire oggi un processo alle intenzioni di allora, quanto perché, quali che fossero le mire degli uomini di Governo di Francia e d'Inghilterra, al momento in cui fu istituita la Società delle Nazioni, ed ancora per i primi anni della sua vita, il mito ginevrino trovo piena sincera rispondenza nella coscienza dei popoli. Fu solo più tardi, quando la Società delle Nazioni dimostrò la sua insufficienza di fronte alla realtà delle relazioni internazionali, rivelando i gravissimi difetti che avevano irreparabilmente viziato la sua costituzione, fu allora che la legge ginevrina incominciò a svuotarsi di ogni suo valore intrinseco riducendosi a strumento degli interessi delle due Potenze che si erano spartiti quattro Continenti in due rispettive « zone d'influenza ».

Fu in questo momento che si iniziò la vera e propria lotta contro l'istituto di Ginevra. La lotta si organizzò su due fronti : da un lato i grandi Stati che non godevano del privilegio di potersi considerare grandi Potenze democratiche, dall'altro il Comintern che, fin dal primo momento, aveva manifestato chiaramente la sua ostilità.

Al tempo del conflitto etiopico l' U.R.S.S. era entrata da poco a far parte della Lega delle Nazioni con tutti gli onori di grande Potenza democratica. Il seggio ginevrino si rivelò subito ricco di molte risorse per la duplice politica del Comintern, la quale aveva per obiettivo immediato la lotta contro la Germania nazista (questa divenne poi anche lotta contro l'Italia fascista nella speranza di inferire, con la già scontata resa del fascismo italiano, un colpo decisivo al Terzo Reich) e come fine ultimo l'azione sovvertitrice di tutto l'ordine europeo.
Per vero, a Ginevra la Russia trovava modo di ricostruire con la Francia il vecchio fronte antitedesco, e questa collaborazione, che avrebbe dovuto irretire non soltanto Praga ma anche Varsavia e la Piccola Intesa, offriva all'abile politica del Comintern la possibilità d'insinuarsi in tutti i più delicati meccanismi dell'istituto ginevrino. Invece di assaltare la cittadella nemica di fronte, il Comintern era così riuscito a penetrarvi dentro con l'aiuto degli stessi assediati per continuare la lotta dall'interno. L'azione frontale contro il sodalizio di Ginevra era stata, invece, intrapresa prima con diversi adattamenti tattici dal Giappone, dalla Germania e dall'Italia per diventare poi una lotta a fondo.

Per riconoscere il valore rivoluzionario dell'azione condotta dall'Italia contro la Società delle Nazioni, è necessario precisare prima quale fosse la validità di quell'ordine internazionale che era su di essa costituito; validità, non già da un punto di vista giuridico in senso tecnico, ma secondo quella morale pattizia - la quale tiene luogo e funzione del diritto nelle relazioni internazionali -, fondata sulla fede nei trattati che s'ispiravano, attuavano una certa concezione della vita internazionale. La Società delle Nazioni aveva posto alla base dell'ordine europeo, disegnato a Versaglia secondo il principio della nazionalità, una concezione della vita internazionale fondata sull'eguaglianza di tutti gli Stati e sulla garanzia della sicurezza collettiva.

L'esistenza di questa morale pattizia, fondamento di quell'ordine, avrebbe dovuto riconoscersi nell'agire di ogni Stato per la soddisfazione dei propri interessi nel rispetto ed in armonia con quelli degli altri Stati, secondo le norme dettate dalla consuetudine o da precisi accordi internazionali. L'insufficienza di un regime pattizio di tal natura - nel quale mancava naturalmente la solida struttura organizzativa di un vero e proprio ordinamento giuridico - si è rivelata, non tanto nel fatto che singole violazioni di essa sfuggissero alla dovuta sanzione, quanto piuttosto nella possibilità, divenuta presto realtà, che quell'ordine internazionale, che doveva garantire il libero svolgimento di ogni Stato, fosse ridotto a strumento di una egemonia continentale.

Questa insufficienza era tanto più grave della prima, ché nell'un caso la violazione delle singole norme non riusciva a toccare l'intero sistema - il cui prestigio doveva poter resistere anche alla mancata applicazione della dovuta sanzione fin tanto che trovava nella coscienza dei singoli soggetti internazionali quella corrispondenza che era il fondamento medesimo della sua validità -, nel secondo caso invece tutto il sistema normativo veniva scardinato dalla sua stessa ragione d'essere perché, dalla garanzia di libertà di tutti, era divenuto strumento di dominazione per l'Inghilterra e per la Francia.
Questa degenerazione dell'ordine europeo si è operata con lo svuotamento, nel sistema normativo che lo reggeva, di ogni valore intrinseco e la conseguente riduzione di ogni norma al suo valore formale: ciò è a dire con l'annullamento della norma medesima. La quale tuttavia continuava a mantenere un apparente vigore perché, sotto la sua espressione puramente formale, agiva il potere politico effettivo dell'Inghilterra e della Francia, che se ne servivano per la più egoistica soddisfazione dei loro interessi particolari : tanto che, in un certo momento, si è venuto ad avere un'assoluta coincidenza e reversibilità tra la legge che reggeva quell'ordine europeo e gli interessi egemonici franco-inglesi. Questo inaridirsi della norma era il segno del suo anacronismo.

Il rifiuto dell'Italia di rispettare la sentenza di Ginevra, sottolineato dalla minaccia di provocare il peggio se la macchina sanzionista fosse stata condotta fino in fondo nei suoi conseguenti sviluppi, non è stato un semplice atto di contravvenzione contro un ordine fondato su di una salda morale pattizia internazionale, ma nella sua realtà storica oggettiva esso è riuscito come un vero e proprio atto di rivolta, con tutte le sue conseguenze rivoluzionarie. L'insufficienza dell'istituto societario è stata rivelata dallo squarcio inferto alla norma che, priva di ogni suo contenuto giuridico, aveva mantenuto una validità puramente formale; al di là della quale - attraverso quello squarcio - fu manifesta la politica dell'Inghilterra che aveva dato all'azione ginevrina l'impulso, ma anche il limite, dei suoi interessi egemonici. Il furore societario di vasti ambienti dell'opinione pubblica nei Paesi democratici era l'ultimo tentativo per salvare il mito della sicurezza collettiva, che doveva cadere infranto sotto le rovine del-tempio ginevrino.

Non già, tuttavia, che il mito sia stato distrutto per la rovina del tempio, bensì il tempio ha potuto restare scalzato dalle sue fondamenta perché l'offesa che gli era stata recata, se pure aveva appena intaccato la sua pesante mole, era però valsa da sola a distruggere il mito.

Per reprimere l'azione ribelle dell'Italia, fu messo in movimento per la prima volta il pesante macchinario della sicurezza collettiva, previsto dall'art. 16 del Patto. A parte le poche defezioni di cui si è detto, due furono gli avvenimenti di maggior rilievo che rivelarono l'inconsistenza del mito della sicurezza collettiva e della pace indivisibile. Primo, l'atteggiamento della Svizzera; secondo, la manifesta volontà - nonostante ogni contraria apparenza - della maggior parte delle Cancellerie europee di circoscrivere il conflitto armato entro il ristretto settore italo-abissino. Il rifiuto dell'Austria, dell'Ungheria e dell'Albania a partecipare alla coalizione antitaliana, ha più che altro un valore morale, ma la pretesa del Governo di Berna di riservare la sua libertà d'azione di fronte agli obblighi che gli derivavano dalla deprecata applicazione dell'art. 16, è un avvenimento che dovrà avere ben altra portata politica : perché il Governo di Berna si appella direttamente alla sua qualità di Stato neutrale. Eppure l'entrata della Svizzera nella Società delle Nazioni sembrava avesse importato necessariamente la sua rinunzia a quel regime di neutralità a cui era stata, per tradizione, legata la sua indipendenza. Il sacrificio era stato accettato, non senza vivi contrasti, in omaggio al nuovo dogma della sicurezza collettiva che doveva liberare il mondo dal flagello della guerra.

Il valore di questa rinunzia emergeva dall'impegno, solennemente assunto, di collaborare con attiva solidarietà insieme a tutti gli altri Stati membri della Lega per garantire l'applicazione del Patto. La Svizzera aveva così firmato una grossa cambiale in bianco, la cui scadenza e la determinazione del prenditore dovevano dipendere dal verificarsi di una determinata condizione: l'aggressione sofferta da un qualunque Stato membro della Lega.
Ma la sua insufficiente definizione rese questa stessa condizione del tutto potestativa : e, ciò che più importa, ebbe il sorprendente risultato di fare dei principali obbligati i soli beneficiari di tutti gli impegni assunti dai numerosi avallanti. Allorché, poi, questi medesimi beneficiari ritennero opportuno (cioè corrispondente ai loro interessi particolari) di mettere la cambiale in scadenza intestandola ad un qualunque prestanome, l'equivoco si rese manifesto e la Svizzera rifiutò il pagamento del debito. Potevano non mancarle delle buone ragioni per contestare la validità di una così bizzarra obbligazione : ma, quale che fosse il fondamento delle sue eccezioni, il risultato storicamente acquisito - risultato di eccezionale importanza politica - fu che al momento in cui, per la prima volta, il principio della sicurezza collettiva avrebbe dovuto trovare attuazione e spiegare la propria efficacia, ecco risorgere ed imporsi nel suo originario valore il vecchio principio della neutralità, già rinnegata sulla carta ma sempre vivo nello spirito per ininterrotta continuità.

Come si è detto, una volta decretata l'applicazione delle sanzioni all'audace ribelle, si volle però evitare ogni azione tempestivamente efficace. Fu deciso di procedere gradualmente nella vantata previsione che un improvviso rivolgimento interno o le stesse intrinseche difficoltà dell'impresa, fortemente aggravate dalle sanzioni economiche, riuscissero a far desistere l'Italia dalla sua spedizione coloniale. E, fin qui, emesso il verdetto di condanna, quale che fosse il criterio accolto per la sua esecuzione, la legge sembrava seguire effettivamente il suo corso. Ma, quando più tardi il perfetto funzionamento - per scienza di capi e valore di soldati - dell'apparato bellico di cui si rivelava dotata l'Italia e, soprattutto, la decisa compattezza di tutto un popolo di oltre quaranta milioni fecero chiaramente manifesta la insufficienza delle misure repressive già applicate, fu allora che anche per l'uomo della strada fu possibile avvertire la tragica sorte che era legata alla novissima logica della sicurezza collettiva. Non una, tra le sanzioni che l'Italia aveva preventivamente dichiarato di considerare come atti di guerra, le venne applicata : e, nel contempo, faceva il giro delle capitali straniere la notizia che l'Ammiragliato inglese, in un'ora che poteva riuscire decisiva per il destino di milioni di uomini, si sarebbe trovato nella necessità di cedere di fronte ad un formale ultimatum del Governo italiano.

Davanti alla suprema responsabilità di allargare il conflitto in una conflagrazione generale, i principi fondamentali dell'istituto ginevrino rivelavano tutta la loro pericolosa inanità, e proprio nel momento in cui erano chiamati a dimostrare la loro efficacia.

Se la Società delle Nazioni si era assunta, in teoria, il compito di garantire la pace indivisibile, nella realtà effettiva il suo solo successo fu segnato nella direzione opposta : concorrendo a circoscrivere il conflitto armato in un determinato settore. Il merito fu proprio della Società delle Nazioni? Di sicuro, non soltanto per sua grazia; ma ciò con interessa : quello che, importa rilevare, invece, è che, in ogni caso, la Società delle Nazioni si sarebbe resa benemerita non già seguendo i fini per i quali era stata creata, anzi venendo meno ai propri principi basilari. Il rispetto della sicurezza collettiva e della pace indivisibile doveva portare alla guerra : fu appunto la rinunzia ad esso che permise di mantenere la pace. Al mito societario della pace indivisibile e della sicurezza collettiva si è contrapposta, ed imposta, la concreta realtà della guerra divisa e della insicurezza individuale per i singoli Stati.

Per chi consideri, dunque, che la rinunzia al rispetto della sicurezza collettiva fu, in fin dei conti, voluta proprio dall'Inghilterra e dalla Francia - che, in qualche caso, dovettero far resistenza al furore degli Stati minori, perché, tutto considerato, i Governi di Londra e di Parigi erano convinti che i loro interessi immediatamente in gioco non erano abbastanza rilevanti per affrontare una guerra -, potrà riuscire evidente la gravità della crisi che colpì la Società delle Nazioni, dopo la liquidazione dell'affare etiopico, per l'ammutinamento delle piccole Potenze che dichiaravano di voler tornare al loro tradizionale regime di neutralità. Le piccole Potenze avevano accettato di rinunciare alla loro neutralità e far parte della Lega delle Nazioni, sopportando anche le umiliazioni che a volta a volta venivano loro imposte dalla egemonia anglo-francese, pur di godere le garanzie che venivano offerte alla loro integrità territoriale dalla organizzazione della sicurezza collettiva. Ma ora era divenuto chiaro che, fin tanto non fossero in gioco gli interessi fondamentali delle due grandi Potenze societarie, l'eventuale vittima, non solo non sarebbe efficacemente soccorsa, ma finirebbe col trovarsi isolata per non estendere agli altri la sua sventura.

Tutto ciò aggravato dall'altra conseguenza : che il giorno in cui, al contrario, le grandi Potenze decidessero, in considerazione dei propri interessi (ed in questa valutazione avrebbero un'importanza decisiva le condizioni del loro riarmo), di provocare o far provocare la guerra, molte delle piccole Potenze sarebbero chiamate ad offrire, nell'interesse comune, e il teatro della lotta e le prime truppe d'assalto. Una delle conseguenze più gravi della crisi etiopica, sofferta dalla Società delle Nazioni, è la rinascita del principio di neutralità. La rinascita di questo principio riuscirà decisiva sui successivi sviluppi della politica europea.


LA FINE DEL SANZIONISMO > > >

 

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