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( QUI TUTTI I RIASSUNTI )  RIASSUNTO ANNO 1936-37

IL FASCISMO E L'ISLAM


IL LIBRO DEL MESE: Mussolini paladino dei Musulmani?
Un recente saggio ricostruisce luci e ombre dell'ambigua vocazione filoaraba del dittatore


di ALESSANDRO FRIGERIO

In oro massiccio, finemente cesellata dagli abili artigiani berberi, la spada dell'Islam puntava dritta al cielo. Sotto, un Mussolini un po' appesantito nel fisico, ma rinvigorito nello spirito dalla recente conquista dell'Impero, la sguainava con soddisfazione, al culmine di una cerimonia sfarzosa e coreograficamente perfetta.

Era il 20 marzo 1937, e nell'oasi di Bugàra, appena fuori Tripoli, si consumava l'atto finale del corteggiamento del fascismo nei confronti degli Arabi e dell'Islam. La spada, consegnata da Iusuf Kerbisc, capo di un contingente berbero utilizzato dagli italiani fin dal tempo della Grande Guerra contro i "ribelli", era il simbolo attraverso il quale una parte del mondo arabo voleva esprimere l'approvazione per la politica islamica del fascismo.

Una politica che dopo il 1945 verrà dimenticata, oppure sbrigativamente inserita nella categoria del più classico opportunismo mussoliniano. Ma che per un decennio, dai primi anni Trenta fino allo scoppio del conflitto mondiale, sembrò interpretare, talvolta in modo disordinato, l'essenza stessa del fascismo, perennemente combattuto tra rivoluzione e ordine, tra la vocazione a farsi paladino revisionista del trattato di Versailles e le ambizioni coloniali da ultima arrivata tra le grandi potenze.

A illuminare l'argomento è appena giunto un agile volume scritto da Enrico Galoppini, studioso e profondo conoscitore del mondo arabo (
Il fascismo e l'Islam, Edizioni all'insegna del Veltro, Parma, 2001, pp. 166), che ricostruisce alcuni aspetti delle inclinazioni filoaraba e filoislamica di Mussolini, indagandole alla luce dei più recenti studi e delle fonti giornalistiche d'epoca, seguendole nel suo percorso disordinato ma incessante, così simile, spiega l'autore, a un fiume carsico che "balzava periodicamente agli onori delle cronache per poi scomparire e proseguire lontano dagli sguardi dei più".

La sorgente nascosta della politica verso il Medio Oriente risaliva agli anni Venti, e di organico aveva ben pochi aspetti, ereditata com'era da quella dell'Italia liberale. La lontana Rodi nel Dodecaneso, la Tripolitania e la Cirenaica ancora non completamente "pacificate" e le due teste di ponte in Africa orientale, l'Eritrea e la Somalia italiana, costituivano un lascito dei primi sessant'anni del Regno d'Italia. Ma negli anni Venti di una specifica politica araba ancora non si poteva parlare. Troppo forte era l'esigenza di Mussolini di giocare la carta della credibilità con l'Inghilterra per azzardare mosse che potessero dispiacere, troppo impellente la necessità di riconquistare saldamente le zone interne della Libia per poter fare degli arabi degli interlocutori politici. E, infine, ancora troppo influenti erano le spinte cattoliche, soprattutto dopo i Patti Lateranensi, per immaginare un avvicinamento al mondo islamico.

Ma nei primi anni Trenta Mussolini si scopre giocatore sempre più audace e decide di sfoggiare una maggiore autonomia e un più marcato dinamismo. Il mondo arabo, sottoposto ai mandati di tipo semicoloniale di Francia e Inghilterra, diventa così una carta appetibile. Ma ancora Mussolini non ha deciso come giocarla. Lusingare le aspirazioni indipendentiste o farsi addirittura protettore dell'Islam?
E ancora, spendere tutto per indurre l'Inghilterra a un
gentlemen agreement che sancisca l'influenza italiana nel Mediterraneo o prendersi ciò vuole in barba a tutto e tutti?

Una cosa però è certa. Fascismo e mondo arabo-islamico concordano nel sentirsi reciprocamente insoddisfatti per le sistemazioni di Versailles. E oltretutto possono dire di vantare anche dei nemici in comune. La Francia, principale beneficiaria dei "mandati", che in Siria e in Libano attizzava il particolarismo e si ergeva a protettrice dei cattolici d'Oriente. L'Inghilterra, che reprimeva il nazionalismo arabo e agevolava l'emigrazione ebraica in Palestina.
E' così che scattano le prime iniziative di "attenzione" verso il mondo arabo.

Nel 1930 nasce a Bari la Fiera del Levante, quattro anni dopo Radio Bari inizia a trasmettere anche in lingua araba, a Roma si organizzano un paio di convegni degli studenti asiatici, si promuovono pubblicazioni e partono le prime sovvenzioni a giornalisti e giornali arabi. Inizia un lavorio occulto per prendere contatto con esponenti nazionalisti e panarabi mediorientali.
Fino a quando nel 1934 Mussolini enuncia a chiare lettere la sua svolta. "Gli obiettivi storici dell'Italia hanno due nomi: Asia e Africa. Sud e Oriente sono i punti cardinali che devono suscitare la volontà e l'interesse degli italiani", dichiara alla seconda assemblea quinquennale del regime.
E aggiunge, per sgombrare il campo da fraintendimenti, che "Non si tratta di conquiste territoriali, e questo sia inteso da tutti vicini e lontani, ma di un'espansione naturale, che deve condurre alla collaborazione fra l'Italia e le nazioni dell'Oriente immediato e mediato". Insomma, Italia come ponte tra Oriente e Occidente alla ricerca di una "espansione spirituale, politica, economica" che andasse ben oltre l'ambito ormai sempre più stretto del Mare Nostrum.

Fin qui i fatti, forse non troppo noti ma già documentati anni addietro da Renzo De Felice (
Il fascismo e l'Oriente, il Mulino, 1988). Il merito del volume di Galoppini è invece un altro, e cioè quello di chiarire quali furono le strategie di penetrazione tra gli Arabo-Musulmani e di individuare l'immagine, tutta personale, che il fascismo tentò di offrire di sé e dell'Islam al mondo.
La difficoltà a stabilire "quanto l'opinione pubblica araba fosse davvero ben disposta nei confronti dell'Italia fascista, oppure convinta della strumentalità della sua politica islamica", la si deve soprattutto all'impossibilità a individuare nel mondo arabo-islamico, negli anni Trenta così come oggi, un interlocutore privilegiato. A livello religioso non esisteva un vero e proprio rappresentante dell'Islam, essendo questa religione priva di una gerarchia strutturata sulla falsariga di quella ecclesiastica.
Sul piano politico, invece, mentre esistevano gruppuscoli nazionalisti e indipendentisti, sulla cui affidabilità permanevano tuttavia numerosi dubbi, a livello di politica 'alta' il fascismo doveva confrontarsi con la maggiore influenza di Francia e Inghilterra sulle èlites politiche arabe.

A parte alcuni contatti con la corte egiziana, che non lasciarono grande traccia, in Medio Oriente il fascismo preferì puntare tutto sulla carta 'antiborghese' e sul 'fattore islam'. L'Italia si propose quindi come paladina di giustizia contro le 'demoplutocrazie', avvicinandosi preferibilmente agli esponenti tradizionali del mondo islamico piuttosto che agli intellettuali nazionalisti. Si aprirono così canali privilegiati con il Gran Muftì di Gerusalemme Hajj Amin al-Huseyni e con movimenti palestinesi contrari all'ebraizzazione della Palestina, si fornì assistenza economica e tecnologica all'Iraq, si guardò al sovrano saudita Ad Ibn Sa'ud come a un nuovo 'Duce d'Arabia'.

Nacquero anche organizzazioni arabe d'ispirazione fascista, soprattutto in Egitto e in Siria. Strutturate spesso come formazioni paramilitari e caratterizzate, sulla scia della migliore liturgia nostrana, da divisa colorate (le 'camicie azzurre', le 'camicie verdi'), queste formazioni ammiravano del fascismo l'aspetto militaristico, la sua volontà di rivalsa rispetto alle potenze occidentali e il suo oscillare continuo fra tradizione e progresso.

Ma il filofascismo arabo si esaurì in queste e poche altre manifestazioni, non assumendo mai vere e proprie connotazioni ideologiche. Del resto, come ha puntualmente chiarito Renzo De Felice, "la qualifica di 'fascisti' attribuita anche da studiosi di rilevo al Mufti di Gerusalemme, a el-Gaylani, a Chandra Bose e ad altri esponenti dei movimenti nazionali asiatici ed africani che furono in contatto e collaborarono con qualcuna o tutte le potenze del Tripartito prima e durante la seconda guerra mondiale non regge ad uno studio ravvicinato delle vicende attraverso le quali si svilupparono i loro contatti e la loro collaborazione e alla immagine, al giudizio che di essi hanno i loro rispettivi popoli. […] Quanto al Mufti, in lui il movimento nazionale palestinese vede uno dei maggiori protagonisti della propria lotta nella fase antibritannica e anche sovrani arabi moderati, come quello dell'Egitto, negli anni immediatamente successivi alla fine del secondo conflitto mondiale, videro in lui un uomo da accogliere e trattare col massimo rispetto".

Come mette bene in luce il volume di Galoppini, quel che invece s'impone dalla metà degli anni Trenta è "un'interpretazione dei rapporti con il mondo arabo-islamico che tende a stabilire un'analogia tra il fascismo e l'Islam. L'Italia lascia il posto al 'fascismo'; la rivoluzione starebbe dando i suoi frutti, lasciandosi alle spalle l'Italietta liberale".
Sulla stampa italiana si comincia a parlare di 'razza araba' e della sua superiorità rispetto non solo agli ebrei ma anche agli altri popoli di colore. In barba all'universalità del messaggio del Corano gli arabi vengono identificati come una sorta di razza eletta all'interno del mondo musulmano. E "a furia di assimilare in tutto l'Islam al fascismo - scrive Galoppini - si finiva per scambiare […] l'Islam per un regime d'ordine, quale per certi versi il fascismo fu".

La consegna della spada dell'Islam a Tripoli, nel 1937, costituì l'apice della politica di Mussolini verso il mondo arabo. E da questo punto di vista la Libia fu il laboratorio dove la sua sperimentazione fu più intensa. Per non apparire imperialista e fugare ogni dubbio sulla sua 'vocazione' islamica il fascismo dovette però faticare non poco. Già in occasione della conquista dell'Etiopia la propaganda di regime dovette arrampicarsi sui vetri per fornire una giustificazione umanitaria alle operazioni e all'impiego di alcuni contingenti libici: la guerra d'Etiopia fu fatta passare per una guerra di liberazione dei mussulmani contro le vessazioni perpetrate dal governo 'schiavista' e filoccidentale del Negus. E per recuperare qualche punto anche a livello di immagine, in Libia il fascismo intervenne massicciamente costruendo e restaurando moschee, inaugurando scuole di cultura islamica e fornendo agevolazioni ai pellegrini diretti alla Mecca. La colonia libica rivestì a tutti gli effetti il "ruolo di vetrina delle buone disposizioni italiane nei confronti dell'Islam".

(Alcune righe prese dalla cronaca dell'anno 1937 - Ndr.)
"A Tripoli, davanti una moltitudine araba convenuta per lo storico incontro, viene utilizzata una hollywodiana coreografia; l'"apparizione" di Mussolini su un cavallo bianco che spunta dalla cima di una duna del deserto seguito da duemilaseicento cavalieri, mentre lui snuda la fiammeggiante "spada dell'Islam" d'oro massiccio ricevuta dai capi arabi: Tocc� il vertice della popolarit�. La sua apoteosi sembrava pari a quella di Alessandro Magno; ebbe la sensazione che anche lui stava compiendo una "missione"; la riunione di popoli di varie razze, colore, lingue e religione. Gli balen� anche a lui, forse, come al macedone, "l'unificazione mondiale". L'onnipotenza sulla Terra. L'"Alessandrite" che ha contagiato tutti in 2300 anni.
In Egitto - si disse e si scrisse - Mussolini compiva il suo secondo "miracolo" religioso; i secolari "infedeli saraceni", alla Mecca, davanti alla Kaaba, (era l'assurdo degli assurdi) invocarono Allah di proteggerlo e da lui farsi proteggere; lui "cristiano" (opportunista dei Patti Lateranensi) il "protettore dell'Islam!". Solo in seguito si seppe che quegli arabi erano degli arabo-spagnoli legati ad alcuni esponenti fascisti, "registi" della coreografia e che avevano recitato la parte come in un film, anzi era veramente un film , per i cinegiornali, e servivano per fare propaganda.
)

La missione civilizzatrice del fascismo voleva trasmettere l'idea che il bravo mussulmano fosse anche un bravo suddito coloniale, devoto al suo capo. "È questa la gente della Libia che ha giurato fedeltà all'Italia di Mussolini - si legge in una cronaca dell'epoca -, che è pronta ad agire ad un suo cenno, a prendere le armi contro il nemico comune".

Ma i risultati della politica filo-araba, perseguita nel corso di tutti gli anni Trenta, alla fine si dimostreranno decisamente scarsi. L'Inghilterra li sopravvaluterà ampiamente, cadendo preda di una psicosi da 'italiano sotto il letto'. Una psicosi che contribuirà, assieme alla conquista italiana dell'Etiopia, a far perdere a Mussolini quel poco credito conquistato a Londra fino ad allora.

Con la Germania, invece, l'Italia non riuscirà mai a stabilire una strategia comune. A Hitler, disinteressato alle colonie e attento esclusivamente alla conquista dello spazio vitale a est, la carta araba interessava solo in funzione antibritannica. Ma in alcuni casi ciò contribuì a fare del Reich un rivale di Mussolini, in quanto il totale disinteresse coloniale nazista fu in molti casi percepito dal mondo arabo come assai meno ambiguo del tentativo mussoliniano di tenere assieme il 'posto al sole', l'impero coloniale, con la tutela del modo arabo e dell'Islam.


ALESSANDRO FRIGERIO
Bibliografia
Il fascismo e l'Islam, di Enrico Galoppini, Edizioni all'insegna del Veltro, 2001, pp. 166.

Questa pagina (solo per Cronologia)
è stata offerta da Franco Gianola
direttore di http://www.storiain.net

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UM INTERVENTO

QUESTA E’ STORIA
Un messaggio agli islamici che non sanno

di Filippo Giannini


Fin dai primi anni la politica estera del fascismo manifestò l’intento di stabilire o di sviluppare le relazioni dell’Italia coi Paesi musulmani e non solo nell’area mediterranea. Con questo scopo fu concepita, nel 1923, una spedizione politico-scientifica, guidata da Gastone Tanzi e Luigi Piperno, spedizione che doveva giungere sino in Afghanistan per contattare l’emiro Amanullah per attivare relazioni diplomatiche e di amicizia.
Fu tuttavia negli anni ’30 che la politica fascista assunse un carattere prettamente filo-islamico. Si iniziò a dare maggiore impulso agli studi arabi. Iniziarono i Convegni, ad esempio, quello di Roma degli studenti asiatici del 1933 e del 1934, le pubblicazioni bilingue italiano-arabo; Radio Bari dette inizio, nel 1934, a trasmissioni in lingua araba. Cominciarono anche a diffondersi movimenti e organizzazioni giovanili arabe, fra questi sono da ricordare il Partito Giovane Egitto (Hizb Misr al Fatà) guidato da Ahmad Husayn e le Falangi Libanesi (al-Katà’ib al-Lubnàniyya) di Pierre Jumayyùl). Sono da ricordare, inoltre, le Camicie Verdi (al-Qumsàn al-Kkhandrà) e le Camicie Azzurre (al,-Qumsàn az-Zarqà), le une e le altre egiziane che guardavano con simpatia al fenomeno “Fascismo”.

Il 18 marzo 1934 Mussolini dette questo indirizzo alla politica italiana: <Gli obiettivi storici dell’Italia hanno due nomi: Asia e Africa (…). Questi nostri obiettivi hanno la loro giustificazione nella geografia e nella storia. Nessuno fraintenda la portata di questo compito secolare che io assegno a questa e alle generazioni italiane di domani. Non si tratta di conquiste territoriali, e questo sia inteso da tutti, vicini e lontani, ma di un’espansione naturale che deve condurre alla collaborazione fra l’Italia e le nazioni dell’Oriente mediato e immediato (…).>.

Questa politica trova conferma instaurando ottimi rapporti commerciali con lo Yemen dell’Imam Yahyà, con il rinnovo di un trattato d’amicizia e di relazioni economiche; e con il Re Fu’àd d’Egitto, ma anche con il Sovrano dell’Iraq Faysal Ibn Husayn. Una missione medica permanente venne istallata presso l’Imam dello Yemen, e in Siria. Altre missioni sanitarie e tecnico-scientifiche nel mondo arabo sorsero sia ad Ammàn, con la costruzione di un ospedale italiano, sia con l’ambulatorio di Jedda.

La fase successiva della politica islamica del Fascismo si apre nel 1937 quando dal 12 al 21 marzo 1937 il Duce si recò, accompagnato dal solito entusiasmo di popolo, in Libia dove, fra l’altro inaugurò la grande strada litoranea detta “Balbia” (1) e la “Fiera di Tripoli”. Pose la “prima pietra” per un sanatorio, per una scuola elementare e <quando il Duce appare a cavallo sulla più alta duna, il triplice grido di guerra “Ulad!” lo saluta. I cavalieri prescelti offrono al Duce la spada lampeggiante dell’Islam in oro massiccio intarsiato (…). Il Duce snuda la spada e l’alza fieramente puntata verso il sole, lanciando a voce altissima il grido Ulad!” (…). Il Duce lascia la duna e si avvia verso Tripoli, seguito da duemila cavalieri galoppanti> (“Il Popolo d’Italia” 19/3/1937) (2).

Il viaggio in Libia fu programmato in previsione di un piano quinquennale per l’insediamento di 53 mila coloni in Tripolitania. Negli anni 1938-1939, in due riprese, sbarcarono in terra d’Africa 20 mila coloni veneti scelti fra i non proprietari di terra e trasportati nei nuovi villaggi. Ad essi vennero assegnate le case coloniche con apprezzamento di terreno; ogni casa era corredata da pozzi artesiani con quanto necessario per il pompaggio di acqua potabile. Ogni giorno automezzi dell’Ente Nazionale della Libia rifornivano le famiglie di quanto necessario per vivere, nonché attrezzi e sementi per rendere quelle terre verdi di piante.
La stessa assistenza venne riconosciuta anche alle famiglie arabe, i cui possedimenti furono inseriti fra quelli dei coloni italiani per apprendere, da questi, le tecniche più moderne necessarie per il miglior sfruttamento del suolo.
A Tripoli e a Bengasi vi erano due ospedali civili, di moderna concezione, dove potevano accedere (al contrario di quanto accadeva al di fuori delle nostre colonie) anche i cittadini autoctoni.
Le locali stazioni dei carabinieri erano composte anche da militari indigeni perché, come vedremo più avanti considerati “Italiani della Quarta Sponda” come tutti i libici, arabi ed ebrei.

Per ritornare al viaggio del Duce in Libia, riteniamo interessante ricordarne alcune tappe: Mussolini visita la piccola città di Sirte dove <la popolazione indigena, adunata intorno ai vessilli dell’Islam, accoglie, con fervide dimostrazione di fedeltà, di devozione, di entusiasmo il Duce, che traversa la città in piedi sull’automobile e risponde con il saluto romano alle intense acclamazioni della folla>. Quindi si sposta a Tauroga, poi a Misurata, dove ispeziona i lavori di bonifica e di irrigazione; quindi si porta a Bir Tumina, ove scaturisce acqua da un pozzo artesiano, capace di irrigare tremila ettari di terreno attraverso cinquemila metri di canali.
********
Nella 179° riunione del Gran Consiglio del Fascismo, tenutasi il 26 ottobre 1938, esaminando la posizione della Libia, relatore Italo Balbo, venne approvata la mozione che <proclama che le quattro province della Libia entrano a far parte del territorio nazionale>.
Questo provvedimento non fu che l’estensione del R.D. Legge 3 dicembre 1934 XIII N° 2012 e del R.D. 8 aprile 1937 XV N° 431, dove nell’articolo 4 è riconosciuto: <Una cittadinanza italiana speciale per i nativi musulmani delle quattro province libiche che fanno parte integrante del regno d’Italia>.
Le quattro province libiche erano: Tripoli, Bendasi, Berna e Misurata.
Per il tempo e la mentalità di allora, questo decreto era veramente rivoluzionario. Mai nulla di simile era stato realizzato da alcun Paese coloniale: ma questo determinò un ulteriore motivo di attrito con Londra e Parigi, che mal sopportavano qualsiasi mutamento allo “status quo”.

QUANDO GLI IRAKENI
NON SPARAVANO CONTRO GLI ITALIANI


L’Irak di Saddam Hussein disponeva dei seguenti titoli?

1) Aveva un proprio territorio?
2) Aveva una popolazione che lo abitava?
3) Aveva un governo?
E ancora:
a) Aveva Ambasciate e Consolati all’estero?
b) Ospitava sul proprio territorio Ambasciate e Consolati stranieri?
c) Aveva una propria moneta?
d) Aveva proprie leggi e le applicava?

Se la risposta a tutte queste domanda è Sì, ne consegue che disponeva di tutti i requisiti indispensabili per qualificarsi STATO SOVRANO.
Aveva però un problema: era uno degli Stati ricchi di “oro nero”: e questo ha smosso la cupidigia dei gangsters d’oltre Oceano. Scrivo volutamente “gangsters” perché fu proditoriamente attaccato e invaso senza una “dichiarazione di guerra”, come dovrebbe prescrivere una leale competizione fra Stati sovrani. Questo non c’è stato: di conseguenza, la comunità internazionale civile non dovrebbe tollerare un simile modo di operare. Lo Stato attaccante si è comportato come “sodalizio predatore”, avendo inviato i suoi mercenari a distruggere, uccidere e depredare le ricchezze di un popolo sovrano.

Che le cose, poi, non siano andate – e non stiano tuttora andando – per i gangsters predatori, nel verso sperato, è un altro discorso. E per gli uomini onesti questo non può che sollevare un senso di piacere, anche se, e questo per inciso, la situazione creata dai gangsters crea, e ancor più in avvenire creerà, dei problemi di difficilissima soluzione.
Per fermarci solo alle vicende dell’Irak, vogliamo ricordare le menzogne date in pasto al mondo intero? Ricordate le “armi di struzione di massa”? (3) Ricordate l’embargo decretato dai “gangsters” alla fine del secolo scorso, embargo che ha causato decine di migliaia di vittime irakene, la stragrande maggioranza di queste bambini? Ricordate la risposta che dette l’allora Segretaria di Stato Madeleine Albright ad alcuni studenti americani che le chiesero se valse la pena di aver ammazzato mezzo milione di bambini irakeni? La “dolce” Albright rispose in perfetto stile yankee con queste allucinanti parole: <Sì, mi pare che fosse un prezzo giusto>.

Se tutto ciò è vero, perché sono state inviate nostre truppe in appoggio dei “gangsters” e per di più mimetizzando questa operazione di predatori con l’asserzione di “operazione di pace”?
Tutto ciò mi è servito come introduzione per un altro avvenimento che, stranamente, viene obliato e riguarda un fatto che vede in primo piano “l’adorabile tiranno” (sì, sempre Lui), l’Islam degli anni ’40 e gli irakeni, sempre di allora, nonché, ancora, sempre loro: i “gangsters”. Ecco “quel pezzo di storia” che pochi ricordano, perché argomento “non politicamente corretto”.

Il Medio Oriente nel primo dopoguerra era costituito da una serie di piccoli Stati cosiddetti “indipendenti”, ma, in effetti, rigidamente controllati da Francia e Inghilterra. Come si vede, molto poco è cambiato con il mondo di oggi; solo che ad un padrone ne è subentrato un altro, molto più infido. Fra gli Stati del Medio Oriente si imponeva l’Irak, governato dall’uomo di fiducia di Londra: Taha el Haschimi, che fu destituito nella primavera del 1941, con un colpo di stato dal generale Abdul Karim Kassem, il quale nominò capo del governo Rashid el Gaylami, di chiara passione antibritannica e molto vicino al Governo italiano.

Gaylani chiese prontamente aiuti militari sia a Roma che a Berlino. Si ricordi che in quegli anni sia l’Italia che la Germania erano in guerra contro l’Impero britannico, e questa rivolta antiinglese si sviluppava in un momento particolarmente propizio per l’Asse. Si presentava, insomma, un’altra occasione irripetibile per infliggere una forte punizione all’Impero di sua Maestà britannica. Questa possibilità fu intuita da Mussolini, ma non da Hitler, anche perché i suoi pensieri erano protesi verso quella - che poi si dimostrerà disastrosa – “Operazione Barbarossa”.
La richiesta di Gaylani non poteva essere disattesa da Mussolini, ma si presentavano enormi difficoltà per reperire altri mezzi bellici, sia per il trasporto di questi, sia per le pressioni internazionali alle quali l’Irak era sottoposto: pressioni guidate (neanche a dirlo) soprattutto dagli Usa.

La Seconda guerra mondiale poteva essere vinta alle condizioni che il comando militare, e la conseguente strategia, fossero poste sotto un unico comando. Il nemico da battere erano gli Imperi che avevano rapinato le ricchezze del mondo e nocivo fu cercare nuovi, potenti avversari, nella fattispecie l’Unione Sovietica. In ogni caso, era in atto una vera rivolta armata anti-inglese e l’Asse inviò in aiuto ai rivoltosi un contingente decisamente inferiore a quanto richiesto e necessario. Hitler, soprattutto lui, non comprese quanto fosse di primaria importanza lo scacchiere mediterraneo e quello del Medio Oriente, sia come area strategica, sia perché ricchissimo di petrolio; ma, soprattutto, perché gli inglesi erano lì.
Il pericolo che poteva derivare dal perdere il controllo di quell’area fu, invece, ben intuito da Churchill, che provvide prontamente.

Il 7 maggio 1941 Mussolini impartì direttamente ordini per l’invio di una squadriglia di caccia e una di bombardieri e l’approntamento di 150 tonnellate di materiale bellico (400 tra mitragliatrici e fucili, alcune mitragliere da 20 mm., cartucce, proiettili ecc.).
In questa sede è superfluo ricordare le difficoltà che si presentarono per il trasporto, ma questo non può giustificare l’aver sprecato un’altra occasione che, se portata avanti con decisione e coordinamento, avrebbe inferto all’Impero britannico, e al suo protettore d’oltre Oceano, un colpo mortale, e oggi il mondo non avrebbe conosciuto la sudditanza ad un impero di gangsters.
I primi aerei italo-tedeschi, una cinquantina, giunsero in Irak il 23 maggio. A maggior dimostrazione che mancò fra tutti gli attori dell’impresa (ribelli irakeni fra i primi) una sia pur elementare operazione di coordinamento. Le poche forze dell’Asse si presentarono sul teatro delle operazioni in ritardo, cioè dopo che i ribelli avevano subito pesantissime perdite ad opera della Raf e delle truppe britanniche. Questo soprattutto perché non poterono avvalersi delle forze aeree italo-tedesche non ancora entrate in azione. E, di conseguenza, queste ultime non poterono usufruire, a loro volta, dell’ausilio delle forze di Gaylani. E’ superfluo ricordare che negli anni ’40 quelle popolazioni attendevano gli italiani come liberatori; oggi, in qualunque modo si voglia mimetizzare la nostra presenza militare in quelle aree, ci presentiamo come invasori, con l’aggravante di essere al servizio di interessi altrui.

In conclusione: le forze aeree italiane avevano perduto in pochi giorni di attività 7 aerei da caccia e da trasporto. La Luftwaffe ne aveva persi 23; mentre la Raf lamentava la distruzione di 28 aerei di ogni tipo, pareggiando in tal modo le perdite italo-tedesche.
Per la conoscenza storica Gaylani, si rifugiò in Italia dove ebbe modo di incontrare il Gran Muftì di Gerusalemme Haj Amin al Hussayni (zio di Yasser Arafat, recentemente scomparso). A Roma, con Mussolini si studiò la possibilità di costituire alcune Unità militari arabe da impiegare sul fronte africano. Anche questa iniziativa non trovò soluzione soprattutto per la carenza del nostro potenziale bellico. Ma possiamo aggiungere che questa idea avrebbe potuto rappresentare una leva politica non davvero trascurabile se posta in opera in quello scacchiere in ebollizione. Venne accantonata un’altra opportunità che avrebbe potuto essere d’ausilio per cambiare il corso della storia.
Anche questo è stato il Fascismo.


1) Questa opera gigantesca prende il nome dal suo ideatore, Itali Balbo. Essa si estendeva dai confini della Tripolitania con la Tunisia, a quello della Pirenaica con l’Egitto per un percorso di 1882 chilometri. Tempo impiegato: un anno.
2) L’avvenimento si svolse il 20 marzo 1937 nell’oasi di Bugàra nell’immediata vicinanza di Tripoli. <La spada, consegnata da Iusuf Kerbisc> scrive Alessandro Frigerio <capo di un contingente berbero era il simbolo attraverso il quale una parte del mondo arabo voleva esprimere l’approvazione per la politica islamica del fascismo>. Ma Mussolini innalzando la spada verso il cielo, assicurava con questo gesto simbolico che l’Italia fascista faceva proprie le ragioni arabe.
3) Ora sarà la volta dell’Iran, poi della Siria… e poi?

di Filippo Giannini

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