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( QUI TUTTI I RIASSUNTI )  RIASSUNTO ANNO 1917 (19)

Dal diario di un sottotenente d'artiglieria

Nelle trincee della Grande Guerra
di Orazio Ferrara

Nell'anno 1927 esce, edito a Sarno (Salerno) per i tipi tipografici Salerno & Milone, uno scarno libretto di 49 pagine dal titolo Memorie di Guerra (1916-1918). L'autore, Pietro Abignente, sa il fatto suo ed è capace di offrire non pochi spunti di riflessione su un tempo di guerra, che sembra lontano anni-luce dal nostro mondo.

La Grande Guerra del '15-'18 mostra subito il suo vero volto terribile e disumano. Dimenticate ormai le oleografiche partenze dal sapore vagamente risorgimentale, tra bandiere sventolanti e lanci di fiori, i soldati italiani, come i combattenti di tutte le altre nazionalità d'altronde, si vedono catapultati in un vero e proprio orrorifico inferno, che ha per gironi le trincee rese fangose dal sangue dei propri camerati e dei nemici uccisi.

La mazurka della Grande Falciatrice comincia immediatamente. Il 23 giugno 1915 - non è passato nemmeno un mese dalla dichiarazione di guerra - ha inizio la 1a battaglia dell'Isonzo. Primo durissimo, sanguinoso tentativo per strappare pochi metri al nemico. Sul terreno, tra morti, feriti e dispersi, restano 15.000 italiani.

Il 18 luglio la 2a battaglia dell'Isonzo. Perdite italiane: 42.000 uomini. Quasi equivalenti quelle austriache.
Il 18 ottobre e il 10 novembre 1915 si svolgono rispettivamente la 3a e la 4a battaglia dell'Isonzo. Perdite complessive degli italiani in queste due battaglie circa 116.000 combattenti contro 70.000 austriaci. Montagne di
cadaveri per insignificanti spostamenti fronte.
L'unico risultato è che, nel giro di pochi mesi, intere armate si sono praticamente dissanguate. Per colmare questi immensi paurosi vuoti, agli inizi del 1916 l'Italia si vede costretta ad estendere la mobilitazione ad altri 800.000 uomini. Vengono così chiamate alle armi altre tre nuove classi. La cosa si ripeterà più volte nel corso del conflitto, fino a mandare in linea i giovanissimi del '99.

E' in quest'anno 1916 che parte per il fronte anche il nostro Pietro Abignente. Di antica e nobile famiglia sarnese, Pietro appartiene a quel ramo degli Abignente stabilitosi ad Udine dove egli stesso è nato. Ciò nonostante si considererà sempre, per sangue e per i lunghi soggiorni nella nostra cittadina, un sarnese a tutti gli effetti.
Appena terminato il corso per ufficiali, viene destinato col grado di sottotenente - verso la fine della guerra sarà promosso tenente - alla nuova specialità bombardieri, allora istituita in quanto lo Stato Maggiore del Regio Esercito ha constatato la necessità di disporre di un'arma qual'è la bombarda, capace di distruggere, fra gli ostacoli passivi, i micidiali sbarramenti di reticolati, contro i quali i lunghi concentramenti di fuoco dell'artiglieria tradizionale si sono dimostrati totalmente inefficaci.

Il 1917, annus terribilis di guerra, vede il sottotenente Abignente Pietro di anni 20, al comando di una sezione di bombarde da 240 in grado di lanciare bombe di circa un quintale, partecipare a numerosi combattimenti, che si svolgono sull'Altipiano. Di quale tenore fossero poi questi combattimenti lo lasciamo dire ad uno stralcio dei suoi Ricordi, dove racconta della morte di un suo amico, il tenente De Vitis.

"… Da otto giorni la neve non cessa il suo lento e silenzioso cadere…Siamo quasi sepolti da un ammasso bianco il quale va aumentando implacabile; il nostro piccolo ricovero di tronchi e cortecce d'albero non ha altro ingresso che un angusto cunicolo scavato a guisa di galleria eschimese e solo il tubo della stufa ne emerge, per virtù del suo perenne calore…Si scatenò una violenta offensiva nemica, destinata evidentemente ad impadronirsi dell'alta valle di Campomulo, per tagliare fuori i difensori dell'Altipiano dalla Val Brenta. Tre giorni durò quell'inferno, durante il quale rischiammo cento volte la vita e cento volte ci apparve lo spettro di Mathausen (allora temuto campo d'internamento per i prigionieri italiani, sarà poi nel secondo conflitto mondiale ad avere il ruolo, ancora più sinistro, di campo di sterminio). Ma tutti gli sforzi di Kaiserjager e delle Sturm Truppen si infransero innanzi alle baionette degli Alpini…De Vitis comandava la 62a sezione bombarde da 58 B aggregata al battaglione Mercantur, nel settore più battuto e più gloriosamente difeso. Il terzo giorno, quando la lotta era già cessata con l'insuccesso nemico, non vedendolo e forse presago d'una sventura, andai alla sua sezione. Non riconoscevo più i luoghi.
" Il terribile bombardamento aveva mutato la fisionomia del terreno e le trincee sembravano informi fossati ripieni di rottami e di cadaveri. Malgrado il freddo si avvertiva già l'inizio del disfacimento in quei corpi che poche ore prima erano così vibranti di vita giovane…E ritrovai la sezione. O per meglio dire che era stata la sezione. Le piazzuole distrutte, i pezzi frantumati, le riservette saltate in aria: sembrava il cratere di vulcano. Cadaveri d'Alpini, di Bombardieri e di Austriaci dappertutto, a centinaia. Alcuni dormivano sereni come se la morte fulminea li avesse colti all'insaputa, altri serravano ancora convulsamente l'arma tra le mani contratte ed avevano in volto il terribile spasimo dell'agonia. Qualche superstite mi narrò che in quel punto la lotta aveva culminato. Per due giorni consecutivi il nemico aveva portato le sue migliori truppe all'assalto, dopo spaventose piogge di granate. Ma i difensori abbarbicati alle rocce nevose non avevano ceduto…( i pochi superstiti ) quasi tutti feriti, laceri, irriconoscibili, combattevano ancora quando giunsero i rinforzi…De Vitis, crivellato di ferite, era appoggiato ad una roccia, con una bomba stretta nella destra e coi lineamenti stranamente addolciti e nobilitati. Egli era caduto così, di fronte al nemico, mentre dava ai suoi prodi l'ultimo ordine".

"La 62a Sezione Bombarde da 58 B ha cambiato posizione Essa è ora, e per sempre, in batteria nel Cimitero di Campomulo. Le due bombarde contorte e schiantate sono lì in posizione tra le fosse dei loro serventi…Dicono i soldati superstiziosi che nelle notti lunghe e trasparenti sotto il cielo stellato ed in quelle in cui la tormenta ammulina con furia il nevischio le squadre degli artiglieri morti continuino per turno a montare la guardia ai loro pezzi. E nessun nemico mai più passerà nei secoli attraverso la Valle di Campomulo guardata dalla loro memoria."

Analoga orrenda carneficina anche quella dei primi di maggio del '17, quando il sottotenente Abignente, con la sua sezione di bombarde, fa parte delle batterie schierate a quota 1476, presso il bosco di Croce S. Antonio sullo Zembio, altipiano d'Asiago, in appoggio ai taciturni sardi della Brigata Sassari, che hanno le loro trincee sulla cima ad una decina di metri da quelle del nemico, che ha il volto degli ungheresi della 4a Divisione Honved. Quest'ultimi attaccano con feroce determinazione, ma "…i sardi resistono come macigni; cadono, ma non si muovono d'un passo, e gli ungheresi che cercano infiltrarsi fanno i conti col pugnale implacabile…", così annota nel suo diario il nostro ufficiale.
Dal maggio al settembre 1917 gli italiani perdono oltre 680.000 uomini fra morti, feriti, dispersi e prigionieri. E deve ancora venire la tremenda mazzata di ottobre, i giorni di Caporetto.

Così immensi carnai richiedono altrettanti immensi cimiteri di guerra. Nel ricordo di uno di questi scriverà poi l'Abignente: "…le croci sorgono a migliaia dalle recenti sepolture, vicine alle più antiche dove pure a migliaia dormono i prodi che si contesero per anni l'inferno di Doberdò. Su quelle croci rozze una data ricorre più spesso: 29 giugno 1915, giorno di terrore e di strage, in cui la morte colpiva in silenzio, tra le nubi ancora non note del gas asfissiante, prima i nostri indifesi e poi, mutatosi il vento, i nemici non pur vittoriosi. Quella sera, quanto cadde la notte e le ultime folate di cloro si furono disperse nella brezza vespertina, diecimila corpi d'eroi giacquero per le petraie del Carso, con le bocche ancora contorte dall'ultimo rantolo e colanti bava sanguinosa…".
Già la morte per gas, che spesso per i capricci del vento non fa differenza tra amici e nemici, la più temuta, per l'atroce agonia, da tutti i combattenti. Alcuni tipi di gas, se non uccidono, danno la più completa ed irreversibile cecità.
Per misterioso tacito accordo tra i combattenti dei due eserciti non si fanno prigionieri tra gli uomini delle squadre nemiche addette a tale orrendo compito. Vengono spietatamente uccisi sul posto a colpi di baionetta.
A questa terribile vita di guerra, in cui compagna quotidiana è la morte, il sottotenente sarnese reagisce con la giovinezza dei suoi vent'anni. Confida alle sue Memorie: "…com'era dolce, dopo il turno di linea, dopo quei dieci o quindici giorni di trincea, discender giù dall'Altipiano in cui il cannone non taceva mai, e per l'interminabile strada di Marcesina e di Val Brenta, giungere a Bassano sull'autocarro polveroso e trovare aperte come un nido le braccia d'una dolce amante, sul cui semplice cuore si riposava il mio, stanco di lotte e di stragi! Erano giorni di gioia e di dimenticanza.
La biondina sapeva distogliermi da ogni idea che non conoscesse lei ed il nostro piacere… Ed io andavo, portando con me l'azzurro dei suoi occhi ed il profumo dei suoi capelli. In quante oscure notti di insonne veglia, mi fosti vicina, piccola cara, a sorreggermi dallo scoramento, sulle tetre cime della Caldiera o negl'insanguinati recessi di Col d'Echiele!…"


Thanatos ed eros. E forse grazie agli occhi azzurri della bionda Lina eviterà di perdersi nell'abisso di thanatos perché, come recita un vecchio adagio, a furia di guardare nell'abisso alla fine l'abisso avrebbe guardato in lui.
Il 24 ottobre 1917 ingenti forze congiunte austro-tedesche sfondano a Caporetto, grazie anche all'inspiegabile mancato intervento dell'artiglieria italiana comandata da Badoglio, quest'ultimo sarà poi legato ad un altro tragico momento della vita della nazione italiana, l'8 settembre 1943.
Veloci colonne nemiche penetrano profondamente nel fronte italiano, minacciano d'accerchiamento intere armate. Una delle più audaci di queste colonne è comandata da un certo Rommel, che diverrà poi famoso per le sue brillanti doti di stratega nella seconda guerra mondiale.

Intanto la rotta italiana è generale, solo la III Armata si ritira ordinatamente. Vengono perdute Gorizia, che tanto sangue era costata per liberarla, e Udine, città natale del sottotenente Abignente. Pagine amare e tristi quelle di Caporetto per il Regio Esercito italiano. Episodi di estrema viltà accanto ad episodi di estremo eroismo. Interi reparti che gettano le armi e fuggono, altri invece che si fanno massacrare fino all'ultimo uomo sulle loro posizioni per permettere ad altri un ordinato ripiegamento. Pagine amare e tristi anche per il diario del sottotenente Abignente: "…ed io, cui l'Unno ha distrutto la casa ove nacqui, nella città friulana perduta e saccheggiata; cui è ignota la sorte della famiglia, dispersa per l'Italia nel lutto e forse nel bisogno; cui l'orgoglio di soldato è infranto dalla vergogna della ritirata…ed io rimasi solo nella mia terra Veneta profanata, con la visione delle sue città incendiate, dei suoi focolari spenti, delle sue donne violentate, solo di fronte al dovere…" Eppure egli non è solo, di fronte a quello stesso dovere si sentono moralmente impegnati migliaia e migliaia di altri soldati italiani, che vogliono ancora battersi nonostante tutto sembri perduto.

L'immane tragedia di Caporetto è costata al Regio Esercito qualcosa come 300.000 perdite di soli prigionieri e con essi 3000 pezzi di artiglieria, oltre immensi magazzini di mezzi e materiali.
Ed ecco il miracolo del Piave. Di qua non si passa, dicono i fanti dapprima con voce sommessa; poi con voce più alta. E di là non si passa per davvero.
Le continue offensive del baldanzoso nemico, convinto di essere a breve a Venezia, s'infrangono regolarmente, con gravissime perdite, sulle sponde del fiume. Certo quella disperata difesa costa lacrime e sangue. Anche in termini di umanità. Le torme di sbandati e di disertori, tristi regali di Caporetto, vengono fermate e si procede alla decimazione in massa con le fucilazioni sul posto. I plotoni d'esecuzione dei Reali Carabinieri lavorano giorno e notte. E' una pagina volutamente ignorata, ma vera della nostra storia patria.

E' nel mese di dicembre del '17 che il fronte si assesta definitivamente sulla nuova linea del Piave, che ha dimostrato di poter resistere a qualunque poderosa spallata degli austriaci. In quei giorni il sottotenente Pietro Abignente riceve il sospirato foglio azzurro di una licenza premio per Natale. Deve tornare nell'amata Sarno, la terra degli avi, dove anche la sua famiglia ora risiede. E' felice il nostro sottotenente, rivedrà finalmente i suoi cari. Alla stazione di Bassano, dove l'aspetta la tradotta militare con la solita lunga teoria di carri cavalli 8 - uomini 40, si preoccupa soltanto " di trovare un vagone col minor numero possibile di cimici ". Quando il treno si muove, non può fare a meno di pensare di andare finalmente verso la vita.
La vita che può essere rappresentata da una bella donna o dal frenetico movimento di una città, anche se può sembrargli che " le divise eleganti degli imboscati e le succinti vesti femminili stonino maledettamente coi nostri logori panni bigi, cui le folate di gas asfissiante hanno dato una sfumatura gialliccia ". Il viaggio sembra non terminare mai. Esasperata lentezza delle vecchie e care tradotte militari. Gli riaffiora alla mente quello che si mormora in trincea " sono i direttissimi che devono correre veloci perché i pescecani vadano in breve a Roma a concludere mercati sulla nostra pelle ". E' il feroce sarcasmo del combattente contro coloro che reputa " imboscati e pescecani ". Dopo Caporetto il mito del combattente tradito ha ormai radici profonde.

Intanto, nei carri, i fanti cantano le loro canzoni di sempre. Si sente che è una tradotta che scende, che porta i soldati a casa. Ogni tanto s'incrocia una tradotta che sale, anch'essa gremita di militari. Ma è silente. Non si odono canti. Vanno verso il fronte e sanno che per molti di essi non vi sarà ritorno. Eppure vanno. Ognuno spera soltanto che non tocchi a lui. L'Appennino, poi la Maremma, infine Roma e finalmente Cancello. Qui per il sottotenente Abignente altre lunghe ore d'attesa nella gelida stazione per un treno che lo porti a Sarno. E' notte fonda quando giunge nell'amata cittadina. I suoi ignorano l'arrivo. Ed è il suo vecchio cane a dargli il primo caloroso benvenuto.
Come sempre i giorni di licenza volano via veloci. Ai primi di gennaio del '18, eccolo alla stazione di Napoli su un carro cavalli 8 - uomini 40 di una tradotta che sale. Breve sosta a Bologna per dimenticare fra le braccia di un'avvenente amica, che l'aspetta, la tristezza infinita del soldato che ritorna al fronte. Infine nuovamente la trincea. Fango, pidocchi, sangue e ancora sangue. In quel ritrovato inferno come appaiono lontani, quasi sbiaditi, i giorni sarnesi.

Nel settembre 1918 Pietro Abignente, che nel frattempo è stato promosso tenente, riceve un ordine di trasferimento. Con la sua sezione di bombarde da 58 B deve prendere posizione in Val Lagarina, che rientra nella parte di fronte tenuto dalla 1a Armata, detta del Trentino e che è sotto il comando del vecchio Pecori Giraldi. Dispiace al tenente sarnese abbandonare il caro Altipiano, legato al ricordo di venti mesi di guerra in prima linea. Al ricordo dei tanti e tanti amici caduti. "…dal Kaberlaba all'Assa, dalla Marcesina allo Zebio, da Cima Echar a Monte Melago, il mio ricordo ha per pietre miliari le tombe…" confiderà poi, con tristezza, alle sue Memorie.
La nuova destinazione lo vede aggregato in appoggio al 2° battaglione della III Divisione cecoslovacca dalle mostrine bianche e rosse. I colori della Boemia. Il compito è quello di sempre, aprire con le bombarde ampi varchi negli intricati reticolati, dove si lanceranno le fanterie per l'assalto alle trincee nemiche. E poi lo scannamento atroce del corpo a corpo.
La guerra si è incrudelita ancora di più. Particolarmente in questo settore. Già perché i cecoslovacchi vengono considerati come disertori dagli austriaci, essendo la loro patria parte integrante del vecchio impero asburgico. Se vengono presi non li aspetta un campo di prigionia, ma la morte immediata e infamante per impiccagione. Loro lo sanno e si regolano di conseguenza.
Una notte due pattuglie boeme, guidate rispettivamente dai tenenti Keller e Jankowich, escono per una perlustrazione e per eventuali colpi di mano. Hanno però la sfortuna di incappare in un grosso pattuglione nemico, uscito per lo stesso scopo. Lo scontro è inevitabile.

Alla fine i cecoslovacchi riescono a rientrare alla base, trascinandosi dietro quattro feriti e lasciando sul terreno due morti. Lo sganciamento è riuscito grazie ai due tenenti, i quali con le loro armi hanno aperto un micidiale fuoco di sbarramento per attardare gli austriaci. Sembra però che siano stati fatti prigionieri. La cosa mantiene in agitazione tutti gli ufficiali e la truppa. Lasciamo alle pagine delle Memorie dell'Abignente raccontare il successivo drammatico sviluppo degli avvenimenti:

"…La notte è trascorsa insonne, e l'alba si è levata tra le brume mattinali… quando odo un clamore in linea. D'un balzo sono ad una feritoia ed osservo. Dalle trincee austriache prospicienti si ergono due pertiche da cui pendono, impiccati, due cadaveri…La brezza mattutina fa oscillare le lugubri forche, ed un volo di corvi volteggia di già in alto sulle misere spoglie dei due Boemi. Alcuni soldati Cechi, intorno a me, piangono come bambini…Ed un gigante biondo, dagli occhi azzurri come quelli di un bimbo, mi grida - Vendichiamoli, signor Tenente! - Sì, amico mio, stanotte li vendicheremo…La vendetta è compiuta. Nell'oscurità, senza esplodere un colpo, dopo aver varcato i reticolati siamo giunti alle linee nemiche inavvertiti, coi pugnali nudi. Soffocate le vedette li abbiamo sorpresi nel sonno. Trecento austriaci giacciono ora sgozzati in fondo alle trincee.
Ma il ritorno è stato funebre. Coi nostri feriti, abbiamo portato indietro pietosamente anche i due cadaveri gonfi ed orrendi. I fanti Boemi ed i miei bombardieri li hanno trasportati su improvvisate barelle per dar loro onorata sepoltura…".

Ore cupe come queste fanno pensare ai fanti che non riusciranno mai a liberarsi dell'incubo di quella guerra, eppure le radiose giornate di Vittorio Veneto sono vicinissime e con esse la fine della Grande Guerra. La fine dell'incubo.

di Orazio Ferrara

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