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CRONOLOGIA

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( QUI TUTTI I RIASSUNTI )  RIASSUNTO ANNO 1915 (13)

GRANDE GUERRA - ACCORATI DISCORSI POLITICI - QUELLI DEL PAPA

IL DISCORSO DELL'ON. BARZILAI AL "SAN CARLO" DI NAPOLI - LA CITTADINANZA ROMANA ALL'ON. SALANDRA - DISCORSI DELL'ON. SALANDRA A PARMA E A MILANO - GLI ONOREVOLI SALANDRA E ORLANDO PARLANO A PALERMO- IL DISCORSO DEL MINISTRO ORLANDO - L'ON. BARZILAI A BELLUNO - LA RIAPERTURA DELLA CAMERA - LE DICHIARAZIONI DELL'ON SONNINO - L'ATTEGGIAMENTO DEI SOCIALISTI - L'ORDINE DEL GIORNO CICCOTTI-BOSELLI, L'ALLOCUZIONE DI BENEDETTO XV PER LA PACE E PER LA LIBERTÀ DELLA SANTA SEDE - DICHIARAZIONI DELL'ON. ORLANDO - LA DISCUSSIONE SULLA POLITICA FINANZIARIA - LA VITTORIA DEL GOVERNO - LA RIAPERTURA DEL SENATO - IL PAPA E LA GUERRA
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La vallata dell'Isonzo. Scenario di tante sofferte e tragiche battaglie

I DISCORSI DEGLI ONOREVOLI BARZILAI, SALANDRA E ORLANDO
LA RIAPERTURA DEL PARLAMENTO
L'ATTEGGIAMENTO DEI SOCIALISTI

Essendo chiuso il Parlamento, prorogato fin dal maggio, il Ministero comunicava con il Paese per mezzo della stampa amica e con discorsi dei suoi membri. Il 26 settembre, al San Carlo di Napoli, per iniziativa del circolo artistico e alla presenza dell'on. SALANDRA, il ministro senza portafoglio BARZILAI tenne un eloquente discorso, in cui, riassunta e documentata la storia recente della Triplice, deducendone la necessità della nostra guerra, oltre che per motivi politici anche per ragioni territoriali-strategiche, elogiato il patriottismo del popolo meridionale e ricordato il grande contributo da esso dato alla lotta per l'indipendenza italiana, parlò con calore del nostro intervento e delle nostre azioni belliche, strappando al numeroso e scelto uditorio tanti applausi.
"La guerra fu, - egli disse nella seconda parte del suo discorso, che riportiamo fedelmente - e l'Italia, che malgrado non oscurabili gesta eroiche nel giudizio della coscienza europea, parve si fosse fatta solo perché altri avevano tollerato che si facesse, l'Italia che aveva acquistato la Lombardia con generoso sangue non separato da patteggiamenti e rinunce, la Venezia per le altrui vittorie, Roma per le altrui sventure, intese quale suggestione demoralizzatrice e dissolvitrice avrebbe esercitato l'elargizione imperiale di poche strisce di territorio che non davano né conforto né sicurezza. E sentì la necessità allora e la forza di iniziare la sua vera gesta nazionale, l'ultimo, fortunato cimento della sua storia. Apparve il quadro della guerra quale nel 1866 avevano invano invocato i precursori: guerra per conquistare terre e frontiere, ma anche anima, missione, battesimo e iniziativa in Europa, che valesse a riscattare colpe ed errori del passato, che, per iniziativa di popolo, senza aiuti stranieri nel territorio, con la cooperazione di esercito e di volontari, ci facesse vincere per noi e per le generazioni venture.

" Con la Francia che ci ha trovati, nell'ora del pericolo, fedeli alla tradizione migliore del comune passato, che è oggi con noi in solidarietà salda e sincera d'intenti e di opere e che da al mondo tale spettacolo magnifico di vigore, di compattezza, di resistenza, che non può non avere il premio della finale vittoria. Con la Russia, che ci fu amica quando più l'Austria contro di noi maturava le insidie - e con lei contro di noi cercava di stringere patti segreti - e si rigenera oggi combattendo per prepararsi, con un'immensa forza morale messa a presidio delle armi rinnovate, ad una riscossa, e intanto agli smodati inni degli invasori può ricordare il corso dei mesti pensieri che le nevi di Mosca risvegliarono a Napoleone a Sant' Elena.
Con l'Inghilterra, l'amicizia verso la quale l'Italia ritenne spesso un dogma religioso più ancora che un canone politico, che una notevole opera ha compiuto in questa guerra, ed alla quale uno dei più geniali fra i suoi statisti, Lloyd George, uno anche più vasto ne assegna, che nel rigoglio delle sue forze e con ogni forma di sacrificio essa saprà fortemente adempiere per la causa comune.
Col Belgio eroico ed infelice, a cui vanno sentimenti di ammirazione, propositi di solidarietà, voti di rapida riparazione della più trista impresa di questa barbara infamia di secolo. Con gli Alleati, verso la meta comune. Contro Austria, contro Turchia, prigioniere e pupille dello stesso alleato. Contro entrambe, in corrispondenza alla constatazione storica che sono due anomalie di governo, ugualmente appoggiate a due amministrazioni e a due eserciti per sovrapporsi a popolazioni straniere fra loro di razza, di lingua, di aspirazioni: e oggi, massacrando l'una donne e fanciulli, colpendo l'altra prigionieri e feriti, cercando entrambe sopraffare il nemico col veneficio, colla soffocazione, coi proiettili dilaceranti mostrano di accogliere metodi di guerra in tutto conformi alle loro origini storiche ed alla bontà della loro causa.

"Decideranno le forme ulteriori della nostra ostilità contro l'impero ottomano, le vicende della guerra alla quale partecipiamo con la totalità delle nostre forze, ma con piena libertà del loro punto di applicazione. Occorreva intanto liberarci da ogni solidarietà politica e diplomatica con la violatrice dei patti, protetta dagli Stati centrali contro di noi nella guerra di Libia, oggi associata all'assedio posto da loro ai Balcani. E nei riguardi di questi - mentre si profilano oscure minacce - è lecito affermare che le proposte dell'Intesa, miranti a correggere radicalmente le ingiustizie del trattato di Bucarest, così da porgere soddisfazione larghissima alle aspirazioni nazionali della Bulgaria, e offrire per il loro concorso di sacrifici equo e serio garantito compenso a Serbia, Grecia e Romania, nel guadagnare nuove solidarietà per la guerra, raggiungerebbero - dobbiamo ormai dire avrebbero raggiunto - anche lo scopo alto e civile di assicurare, nella concordia ristabilita, libertà e indipendenza a quelle nazioni.
Riflettano i loro uomini responsabili, giudicando dalla storia antica e recente quali obbiettivi persegua l'opposto aggruppamento europeo, e quale sorte sarebbe loro in definitiva riservata se nel grande conflitto dovesse avere il sopravvento. E la nostra guerra getta giorno per giorno fasci di luce sulla realtà, così da dare quasi talora all'Italia la sensazione del risvegliarsi da un viaggio inconsciamente compiuto nel sonno, sul margine di un abisso.
Ma la costatazione delle insidie naturali che si aspettavano e di quelle che l'Austria aveva apparecchiato con tanta larghezza, a confermare proprio come un solo e vero ideale bellico essa coltivasse - la guerra contro di noi - ad un'altra magnifica rivelazione nell'ora stessa si accompagnava.

"Il Re aveva scritto nel suo ordine del giorno all'Esercito e all'armata:
Il nemico che vi accingete a combattere è agguerrito e degno di voi. Favorito dal terreno e dai sapienti preparativi e dell'arte della guerra, opporrà tenace resistenza, ma il vostro indomito slancio saprà superarla.

"In mare e in terra si delineava la lotta così da rispondere ai felini istinti di quel nemico ben più che alla balda, aperta, generosa capacità d'attacco dei nostri. In mare la lotta d'insidie del sommergibile, in terra quella d'agguato della trincea. Ma noi, ciò malgrado, trovammo una flotta che, nell'attesa d'invidiati, aperti cimenti, compie, quasi ignorata, un altissimo ufficio. Essa riesce a sopprimere ogni traffico austriaco nell'Adriatico, come l'Inghilterra intercetta i traffici della Germania. E deve tenersi paga di quest'ufficio comprimendo impulsi generosi, frenando ardimenti che ben si affermeranno nel giorno in cui l'Austria, se oserà ribellarsi alla soggezione impostale, abbandonerà i suoi rifugi. Dieci anni or sono, l'ammiraglio austriaco Montecuccoli, in un suo proclama, pubblicato in occasione d'esercitazioni navali, assegnava alla flotta austriaca questo compito: "non solo deve essa difenderci, ma scovare e distruggere il nemico in Adriatico".
"Dei propositi così audacemente manifestati, nel pieno vigore dell'alleanza, quale uso fa il suo successore, mentre non volge più stagione di manovre, ma ora di guerra? Si trattava di scovare, ammiraglio Hans, il nemico che vi aspetta per ricordarvi il berretto di Tegethoff levato dinnanzi all'eroismo di Faà di Bruno e di Alfredo Cappellini, non di dare la caccia a donne e a fanciulli nelle città marinare e indifese.
La guerra ci rivelò un esercito guidato da tali capi supremi, quali si augurava Garibaldi dopo Lissa e Custoza, perché volassero a distruggere la baldanza che quelle sventure dovevano dare al nemico. Alla prima solenne prova dell'Italia occorrerà - scriveva il Grande nelle sue "Memorie" - "un Fabio che sappia temporeggiare: verrà poi Zama e uno Scipione, che, senza chiedere il numero dei nemici, li cerca e li mette in rotta".

"Forse avanzando la profezia troverà l'Italia negli stessi uomini l'ardimento di Scipione e la prudenza di Fabio. Oggi, senza concessione ad alcun anche più nobile sentimento, ad alcuna impazienza e irrequietudine, essi alla più grande energia associano, per la fortuna d'Italia, la più severa meditazione. Al loro comando contro un nemico agguerrito, rotto a tutte le insidie, pronto a tutte le slealtà, saturo di odio, disciplinato dal terrore, sorsero a scrivere pagine degne di Omero militi che sanno tutti gli entusiasmi, tutte le abnegazioni, tutte le resistenze, le virtù eroiche, le virtù semplici che dalle aspre ferite traggono incitamento a nuove battaglie e la morte sfidano, disprezzano, affrontano lieti e non si arrendono mai. Uomini di ogni classe, di ogni regione, di ogni fede, borghesia che si diceva infrollita, proletario che si affermava traviato, nobiltà che pareva inconscia, Italia che, come Assuero nel deserto, andava in cerca di una fede, fusa nel bronzo contro la quale si fonderà ogni ira nemica, in una grande unità di anime, consacrata dal sacrificio.
Questi eroi che non appartengono ad uno Stato di tradizioni militari, che forse ignoravano quali giustizie il loro braccio dovesse compiere, quali offese rivendicare, ebbero, si direbbe per influenza atavica, la rivelazione improvvisa della storia che incombeva sulla stirpe e nessuna disciplina diplomatica o educazione materialistica valeva a cancellare, e, con le native energie ingigantite, lottarono così da piegare il nemico al terrore ed all'omaggio. E tra quei combattenti che io vidi all'opera, stretti a tutti i fratelli d'Italia, sul Carso a Montefortino, a Boscocappuccio, a San Michele, i soldati del Mezzogiorno, di Napoli, saldi, eroici, meravigliosi ...."

"Dopo quattro mesi di guerra noi possiamo segnalare risultati che mutano profondamente i primi presupposti della iniqua situazione geografica e strategica, che li capovolgono quasi. Nessun palmo di territorio nostro abbandonato, come era stata preoccupazione giusta ed assidua di strateghi, di uomini di Stato, di cittadini. Fu portata invece la guerra sul suolo strappato al nemico. Per virtù dei soldati d'Italia la spina acuta del Trentino è spuntata...; e l'alto dorsale della frontiera di Carnia è tenuto con tenacia di ferro; e nella regione dell'Isonzo, la mal segnata frontiera ovunque valicata...; ed oltre Isonzo, da Gradisca al mare,... il valore dei figli d'Italia intacca e corrode lento, ma tenace e costante, le fortissime ulteriori difese nemiche. Tale sintesi -. controllata e sicura - dei primi aurei capitoli della nostra azione di guerra, non arriverà alle popolazioni dell'Austria, sommesse a perpetuo inganno dal loro governo, ma dirà a tutti gli uomini di buona fede d'Italia e d'Europa il risultato grandissimo dei sacrifici compiuti .... Certo ben altri e maggiori sacrifici - ne deve esser conscio il Paese - occorreranno per raggiungere la meta sempre ardua e lontana. Ma saranno infallibilmente compiuti. Lo spettacolo che danno i belligeranti stranieri, alleati e nemici, non può andare perduto e alla meravigliosa macchina di guerra, che fa le sue memorande prove ai confini, in nessun momento mancherà la forza motrice che deve darle l'anima della Nazione".

"L'immagine risvegliata dalla frase "teatro di guerra" non fa credere agli italiani di esser divisi in due schiere: spettatori ed attori. Non spettatori, ma attori e cooperatori tutti e non con il superfluo ma con la parte più viva delle proprie energie, con la sicura coscienza che si combatte oggi sull'Isonzo, sul Carso, dallo Stelvio alla Carnia, per l'esistenza di tutti e di ciascuno, per tutto il nostro avvenire, per un grande avvenire europeo di libertà e di giustizia. Non recriminazione che richieda ad alcuno se favorì od avversò la guerra, quando, dinnanzi all'imponente quesito, erano pur possibili l'esitazione ed il dubbio; oggi che la guerra si combatte per volere di popolo e concorso di Principe, salda concordia di tutti, auspice la stampa di ogni partito, perché tutti, liberali di ogni grado, cattolici, socialisti di ogni tendenza, repubblicani di ogni scuola, solo perché italiani, diano senza posa alla guerra della Nazione la stessa solidarietà e la stessa fede. Questa solidarietà ha un solo contrapposto possibile: la diserzione davanti al nemico, degna della degradazione civile che il popolo, il quale ha intatte le concezioni della grande causa e tutte le risorse preziose delle sue vergini e fresche energie, delle sue idealità mai guaste dal calcolo, saprebbe imporre.

"Di paci come quelle di Villafranca e di Vienna, l'Italia ha portato troppo a lungo nelle sue carni dolorose le tracce, perché possano rinnovarsi oggi che ferirebbero irrimediabilmente per sempre il programma, il nome, l'anima della Nazione. E al sentimento di solidarietà intera, di compartecipazione ad ogni rischio, di completa disposizione ad ogni sacrificio, deve soccorrere la disciplina che dal sentimento tragga il maggior rendimento, così da togliere dall'anima dei combattenti la preoccupazione più acuta, quella delle donne e dei figli lasciati alla cura della Nazione, da alleviare ai militi i disagi del cimento, da prestare in ogni ora allo Stato forza capace di sostenere fino all'ultimo il compito assunto; allo Stato, perché con la sua salvezza e la sua grandezza, all'infuori di ogni minore di tanto superata controversia di gruppi, di particolari programmi, si confonde il Governo, qualunque esso sia, che abbia il mandato, sempre ben revocabile, quando impari esso vi si riveli, di tutelare le sue fortune. Imposte per tener alto il credito, rafforzando il bilancio, le quali, per quanto è dato, non pesino là dove è minima la resistenza; e presso alle imposte, economie anche spietate, private e pubbliche, purché non tali da arrestare le energie produttrici e le giustizie integratrici, che al bilancio della guerra, che è oggi il bilancio massimo della civiltà, lascino la più larga parte dei redditi pubblici, e ai bilanci privati il maggior margine per la cooperazione civile.

" In quattordici mesi, per il rinnovo militare fu compiuta in Italia un'opera che la storia registrerà con ammirazione e stupefazione - ma continue, crescenti sono le urgenze cui conviene dar ascolto perché allo sforzo consegua l'altissimo risultato. E Napoli che, sollevandosi dalla maledizione centenaria di un dominio di oppressione e di corruttela, ha vinto difficoltà senza numero,... in questa guerra che nelle città si prepara e si alimenta perché si svolga sul fronte, sarà all'avanguardia. E se i suoi cittadini, come tutti i cittadini della rinata Italia, sapranno, in presenza alle difficoltà, alle privazioni, agli inciampi che solleva lo stato di guerra contro la tranquillità, la prosperità, le comodità, le libertà dei giorni sereni, trovare in se stessi una scintilla dell'anima dei loro fratelli, che, superando balze ciclopiche, sfidando il terrore degli abissi, affrontano i mezzi più iniqui di guerra, sorridono, cantano, credono e lottano, se tutti combatteranno, con arme diversa e uguale abnegazione, la stessa battaglia, la vittoria sarà delle nostre bandiere".

Il 31 ottobre (il 18 si era sferrata la terza offensiva sull'Isonzo) , l'on. SALANDRA che, nove giorni prima era stato acclamato in Campidoglio cittadino romano, tenne un discorso a Parma, chiamatovi per la posa della prima pietra del nuovo Ospedale civico:
"Questa cerimonia - egli disse - è testimone che il popolo italiano, come tutti i popoli grandi e forti, non interrompe il ritmo normale della sua vita sociale e civile nonostante faccia e debba fare l'estremo sforzo in un opera di guerra. Degni delle nostre memorie e delle nostro forze, noi proseguiamo nella via della civiltà, nel tempo stesso come avanziamo nella via della potenza. E anche quest'opera che oggi si inizia è documento della nostra indistruttibile civiltà latina, che nessuna pervicacia straniera non ha mai potuto vincere, nonostante le vicende della storia. Come ha brillato con Romagnosi il genio della scienza, con l'Allegri e Giuseppe Verdi il genio dell'arte, qui fra voi, ov' è fervido l'amore di patria, qui sorge, si afferma la nostra latinità in cospetto di tutto il mondo".
Poi accennò alla concordia nazionale e, trovandosi al cospetto di numerosi sindacalisti, accennò anche a Filippo Corridoni. "Sopra tutto mi godo l'animo di costatare, allo spettacolo di tutte queste bandiere, manifesta la concordia di tutta la Nazione nelle speranze e nello sforzo cui tutti diamo noi stessi. È una grande prova di concordia nazionale! Credo e sono sicuro e devo averne la fede che l'Italia uscirà vittoriosa dall'aspra contesa in cui si è messa. Costato questa manifestazione di concordia che ha condotto il "tribuno rivoluzionario" di ieri a morire "sotto la bandiera del Re d'Italia".

Durante i primi sei giorni di novembre, l'on. SALANDRA soggiornò a Milano, dove visitò enti, istituti, opifici. In un banchetto al Cova, rispondendo al senatore ETTORE PONTI, presidente dell'associazione liberale, il ministro pronunziò un breve discorso in cui inneggiò all'opera del Partito Liberale:
"Sono grato - egli disse - all'illustre mio amico marchese Ponti per aver egli voluto ricordare l'ultima volta che io ebbi l'onore di visitare Milano. Dissi allora, come propagandista dell'idea liberale ed assertore del diritto del partito liberale a governare il Paese, che alti doveri incombono al partito stesso per rendersi degno di questa missione. Gli eventi, che nessuno poteva prevedere, hanno voluto che una tale missione diventasse molto maggiore di quella che le nostre aspirazioni potessero allora pensare. Il Partito Liberale in quest'anno memorando, come fece la Monarchia Liberale italiana nel '59, deve riunire tutti gl'italiani sotto un solo vessillo che guidi al compimento, alla grandezza della Patria nostra. Io sono perciò onorato di essere qui, in mezzo a voi, duce precario, ma in questo storico momento duce della parte liberale italiana. Ho parlato di partiti. Non si dovrebbe ora parlarne, ma non intendo rinnegare la mia origine, intendo anzi ritornare, quando che sia, al mio posto non più forse di combattente ma di sperimentato consultore.
Oggi però non è giorno di partiti: oggi è il giorno della Patria Come coloro che si battono e muoiono sulle Alpi o sull'Isonzo - cattolici o socialisti, liberali o radicali - sono raccolti tutti intorno al Re, dimentichi, per compiere l'altissima missione loro, di quel che furono, così oggi noi, che di quei valorosi dobbiamo essere collaboratori e animatori, abbiamo l'obbligo di dimenticare divisioni e gare di altri tempi e cooperare, tutti, per il fine comune. Ritornerà l'ora dei partiti. E sarà bene che torni, perché anche ai partiti spetta una nobile ed alta funzione. Riprenderemo allora le nostre battaglie, civili battaglie. Ma vi ritorneremo migliorati. Il partito liberale sarà - lo spero - ringagliardito, ringiovanito, mondo dei suoi rami secchi, epurato dalle scorie ingombranti e malsane, più forte, più largo d'idee, sopratutto più popolare, e cioè con la coscienza che ormai sul campo di battaglia, con il sangue loro, tutti gl'italiani hanno conquistato il diritto al potere. Ritornerà migliorato, perché in questa comunanza di sforzi le nostre asprezze di prima saranno attenuate. Avremo imparato come si può operare tutti uniti per la Patria. E mi gode l'animo di costatarlo, l'esempio più largo, più generoso di concordia ordinata, di concordia organizzata e volenterosa da parte di tutti, qualunque sia la loro provenienza, io lo vedo a Milano; a Milano, che non è la Milano conservatrice o la Milano cattolica o la Milano-socialista, ma che è la grande Milano italiana, quella delle storiche pagine, la Milano della Lega e delle Cinque Giornate. Questa mattina io ho telegrafato a S. M. il Re che ho trovato, qui a Milano, altissimo lo spirito del popolo. Sono orgoglioso di aver io potuto fare una simile constatazione, che mi è sufficiente premio alle ansie e alle fatiche di questi giorni e anche alle altre che verranno. Viva l'Italia ! Viva il Re ! Viva Milano !".

Un altro breve discorso tenne l'on. SALANDRA il 6 novembre, in occasione della posa della prima pietra degli istituti di Alta Coltura, presenti, fra gli altri, il sindaco CALDERA, il senatore COLOMBO e il cardinale arcivescovo FERRARI, che parlarono pure loro. Salandra affermò che nessuna contraddizione si doveva scorgere in quella cerimonia civile, affermazione della forza serena della nostra razza, la quale, combattendo la più aspra guerra dopo il Risorgimento, intraprendeva tranquillamente le opere per il progresso futuro, perché nessuna contraddizione vi era tra le armi e le scuole, non essendovi preparazione bellica che non derivi dalla scienza. Disse inoltre che, l'esperienza di quei mesi in Italia aveva dimostrato esser falso che l'alta coltura prepari una generazione scettica e che vi sia contrasto tra la coltura scientifica e la pura idealità: "Ciò non è vero e io lo dico con orgoglio di italiano: con orgoglio perché io vengo dal campo ed ho visto gli occhi scintillanti di fede e di amor patrio dei giovani usciti dalle nostre Università, ufficiali improvvisati che formano l'ammirazione dei vecchi condottieri, degli antichi e sperimentati soldati che conducono la nostra guerra. Là, al campo, si vede come la coltura sia preparazione a tutte le più pure aspirazioni della vita, a tutti i più nobili sacrifici. Un grande poeta antico osservava con dolore come nel momento in cui la civiltà era al suo apice si potesse presentire la sua decadenza e affermava che ogni generazione era più decaduta, più viziosa della precedente.
Noi invece possiamo, in questi giorni orgogliosamente osservare come la civiltà cristiana si rinnova perennemente e resta indistruttibile, capace dei maggiori progressi, delle maggiori idealità sociali, e possiamo oggi affermare che i nostri figli sono migliori di noi. Ebbene, questo, che facciamo per loro, le opere che oggi sorgono, siamo sicuri di compiere per la maggiore ricchezza, per la maggiore grandezza, per la maggior gloria d'Italia!".

Grande risonanza ebbe il discorso che il ministro ORLANDO pronunziò il 10 novembre al Teatro Massimo di Palermo, discorso che l'oratore stesso chiamò "ricostruzione della storia interiore della guerra nostra" e disse:
"Per quanto si riferisce allo stato d'animo con il quale il popolo italiano entrò in guerra, i nostri nemici hanno divulgato la menzogna più visibile e più sciocca, affermando che allora si credeva di avere dinnanzi a sé un compito semplice, rapido e sicuro, quasi di altro non si trattasse che di dare l'ultimo colpo a un nemico già vinto e prostrato, o di un giuoco da cui fosse eliminato ogni rischio. Tale affermazione conferma l'incredibile inabilità ed ignoranza loro per quanto tocca alla psicologia collettiva, che poi un osservatore anche mediocre avrebbe subito rilevato com'era diverso, anzi opposto, fosse l'animo italiano nel valutare la gravità del cimento. Non giova dir tutto a questo proposito ma ognuno di voi ben sa come in alcuni spiriti e in alcuni ambienti, la cui fede patriottica non sarebbe giusto di mettere in dubbio, il pessimismo con cui si consideravano le difficoltà e i rischi e i pericoli dell'impresa, si esaltasse al punto di determinare veri fenomeni di inibizione psicologica. Ma, anche a prescindere da codeste che potrebbero dirsi eccezioni, erano generali le esitazioni, che appunto la coscienza dello straordinario cimento determinava, in organizzazioni, in partiti, in uomini politici.

" Tale ricordo vuol essere puramente storico e servire soltanto a sventar l'accusa nemica e a rivendicare la nobiltà generosa della decisione nostra: e, per altro, alla preoccupazione inspirata dall'immensità del rischio, che le vicende della guerra ben rendevano valutabile e tangibile, non si sottrassero neppure coloro sui quali gravava più immediata e più formidabile la responsabilità della decisione. Se troppo cruda è la frase di Amleto, che la coscienza rende codardi, è pur vero che anche quando al lume dell'intelletto il proposito più ardimentoso appare come preferibile, tuttavia l'analisi, la meditazione, la critica non hanno mai contribuito a rendere più risoluta un'azione, e quale azione ! Fu allora che un miracolo avvenne e volontà di popolo lo produsse. So bene che tutti i partiti, ed anche i più democratici, riconoscono il popolo solo nelle manifestazioni che coi loro fini concordano; mentre, negli altri casi, valgono le altre espressioni di "folle incoscienti" e di "minoranze audaci" che si impongono per sopraffazione e per violenza. Ma chi ricorda le giornate di maggio, se non vorrà venir meno alla più elementare realtà storica, dovrà bene riconoscere che mai sentimento di popolo esplose con maggiore impeto e mai voce di popolo parlò con maggiore autorità, capace di infrangere tutti gli ostacoli e di vincere tutte le esitazioni.

"Parlò questa voce e fu squilla che, coi vecchi ardimenti, suscitò i vecchi inni della Patria e parve che veramente dalle tombe balzassero i morti ad alimentare di più viva fiamma le speranze, i sogni, le idealità sino allora represse o sopite. Fu davvero la voce d'Italia; e fu voce che cercava il rischio, aspettava il cimento, invocava il pericolo. Ora codesto avvenimento tanto più deve apparire prodigioso e - direi quasi - avvolto in un nembo di casualità mistica, in quanto la preparazione cui per lunghi decenni lo spirito pubblico italiano era stato assuefatto, era la meno bellicosa che possa concepirsi. Anzitutto, le seducenti teorie sulla solidarietà umana e la fede che con la scorta dei principi di una suprema giustizia immanente si potessero senza più violenza comporre le grandi competizioni mondiali, avevano ottenuto un più facile e decisivo trionfo nell'anima latina, per una natura più aperta al fascino di generose utopie. Di poi, la fortuna economica che in questi ultimi anni aveva arriso all'Italia determinando, se non la ricchezza in senso assoluto, l'arricchimento in senso relativo, aveva sviluppato le qualità, ma anche i difetti dei popoli mercantili e delle società industriali.

" Con compiacimento, se non con gloria, si citava il rapido incremento degli indici della ricchezza economica, onde poi si alimentavano ed acuivano, intorno alla ripartizione dei profitti, gare e contese tra città e città, tra regioni e regioni, tra classi e classi. E in tutti i modi si veniva sempre più rallentando ed estenuando la virtù coesiva dell'attaccamento al gruppo statale; che anzi, ridotto il dovere civico ad una specie di controprestazione, la quale presuppone una prestazione e ad essa si commisura, i cittadini italiani, e persino gli stessi servitori dello Stato, si erano tramutati in altrettanti creditori molesti, petulanti, inesorabili; ogni giorno, era una cambiale che scadeva e che era presentata con violenza non separata da villania; individui e collettività urgevano e premevano continuamente, chiedendo con minaccia, accettando con dispregio.

"E a questa mentalità economica, che esaltava le efficienze dell'egoismo individuale o municipale o di classe, e deprimeva quelle del generoso sacrificio verso la suprema idea collettiva di Patria, si era venuta conformando una mentalità politica, che preferiva girare l'ostacolo anzi che affrontarlo, comporre le questioni anzi che risolverle, preoccuparsi della tranquillità presente anzi che delle ragioni dell'avvenire; che il maggior vanto di un popolo ripose nel pareggio del bilancio, così come, fra le pubbliche funzioni, massimamente ebbe in onore la contabilità dello Stato e la perfezione dei controlli finanziari, - una mentalità, insomma, che aveva potuta corrisponder bene a quelle date situazioni, ma che, certamente era assai più atta ad alimentare le virtù della prudenza che quelle dell'eroismo, ad assicurare la comodità piuttosto che la gloria. Se, dunque, questo popolo, per tante cause pacifico, scelse liberamente e volontariamente la via del sacrificio, quando per ben dieci mesi era durata la suggestione snervante delle stragi e degli orrori della guerra, e culminava l'immane conflitto in un momento non certo favorevole alla causa di quelli che diventavano i nostri alleati, la ragione di questo prodigio deve ritrovarsi in ciò: che il nostro popolo intese, anzi dirò meglio, intuì, per virtù d'istinto, che l'assentarsi da quella guerra avrebbe segnato il proprio suicidio e nell'astensione presentì una minaccia più oscura e un disastro più irrimediabile di tutte le minacce che la guerra conteneva, di tutti i disastri che avrebbe potuto determinare.
Così è nelle ore tragiche della vita dei popoli, quando s'impone il dilemma inesorabile dell'"essere o non essere", è questa misteriosa e meravigliosa virtù che, prorompendo dalle inesplorate profondità dell'anima collettiva, previene le ponderate decisioni della coscienza e sospinge sulla via della salvazione. L'istinto della conservazione collettiva arriva così a vincere il più possente fra gli istinti individuali, che è quello della propria conservazione, ed il popolo italiano volle che migliaia dei suoi figli morissero perché vivesse l'Italia. Per tal modo, della giustizia e della necessità della guerra l'istinto popolare procedendo per sintesi, come suole, aveva intuito le cause profonde ed ineluttabili; l'intelligenza con il suo più lento processo, per analisi, ne dà la dimostrazione".

"E sta qui il momento logico e storico del nostro intervento. Nell'ultimo quarantennio si era venuto formando in Europa un sistema regolatore della convivenza pacifica tra le Nazioni, per mezzo di un equilibrio di forze, capaci di determinare quel limite reciproco, che è il presupposto essenziale di ogni diritto interno o internazionale. Tanto più felicemente quest'equilibrio aveva assicurata la pace e garantito ad ogni popolo un'armonica sfera di sviluppo, in quanto che, nelle questioni particolari, non sempre né completamente potevano coincidere le aspirazioni ed i bisogni delle singole Potenze alleate; onde, in taluni casi, interessi autonomi legittimavano autonomi atteggiamenti; e in taluni altri casi, un disinteresse relativo determinava un più equo apprezzamento ed esercitava un'influenza moderatrice. Così, nel primo senso, le sue alleanze non avevano più impedito all'Italia di concludere sulle questioni mediterranee utili e locali accordi con l'Inghilterra e con la Francia e di trovar nella Russia, a proposito dell'impresa libica, un consenso ben più spontaneo e una simpatia ben più fervida che non presso gli alleati.

Dalla stessa Germania, a non parlare del famoso trattato di controgaranzia stipulato con la Russia, si possono citare non pochi esempi di un'azione decisamente favorevole a quella della Russia o della Francia e non sempre concorde con quella dell'Italia e della stessa Austria. Nel secondo senso, un intervento moderatore di alleati verso alleati scongiurò la grave minaccia che la questione del Marocco aveva suscitato contro la pace europea; e soprattutto, dopo la guerra balcanica, quando inevitabile pareva il conflitto tra la Russia e l'Austria, valse ad impedire l'azione disinteressata o meno interessata delle altre Potenze. E chi può osare di asserire che l'evento il quale diede occasione, o meglio, pretesto alla guerra attuale, racchiudesse in sé elementi più inconciliabili e più irriducibili? Con il partecipare a questo sistema di equilibrio europeo l'Italia giovava al suo interesse, essenzialmente pacifico, e nel tempo stesso serviva ad un grande ideale di civiltà; essa collaborava attivamente ad una corrispondente concessione del diritto e della vita intersociale dei popoli ed affermava la sua dignità e il suo grado di grande potenza. Quale valore essa attribuisse a tali altissime finalità è dimostrato dalla grandezza del sacrificio che si era dovuto imporre. Essa aveva affrontato l'incredibile paradosso di esser l'alleata della sua naturale nemica; giacché - secondo una frase rimasta celebre e che gli avvenimenti hanno dimostrato sino a qual punto fosse vera - fra l'Italia e l'Austria si poneva il dilemma inesorabile: "o alleanza o guerra".

"Ma alleanza doveva significare, se non dimenticanza delle ragioni del dissidio, almeno leale e sincero sforzo di temperarlo e in ogni caso di non inasprirlo. E la storia di questi ultimi decenni dimostra con quanta abnegazione l'Italia abbia a questo dovere adempiuto e con quanta pertinace mala volontà l'Austria l'abbia violato. Si fa qui palese un altro grossolano errore di sentimentalità collettiva commesso dai nostri nemici quando essi, ricordando che altre terre italiane fanno parte di altri Stati, troverebbero coerente che noi, o facessimo guerra a tutto il mondo, o ci associassimo ad una generale denuncia verso tutto il mondo. Essi non comprendono che l'anima italiana, appunto perché scevra di qualsiasi satanica ambizione imperialista, non si è già ribellata di dolore e di sdegno perché genti di nostra stirpe fossero comprese in altri gruppi politici, ma con eguaglianza di garanzie e con rispetto della loro dignità etnica, bensì perché dall'Austria si volesse comprimere ed anzi annullare l'incoercibile carattere di italianità di quelle terre e di quegli uomini, e con opera ora brutale ora insidiosa, ma sempre metodica e tenace: che non si desistesse dal tormentare quei fratelli nostri con ogni persecuzione e con ogni umiliazione per punirli di ciò: che essi erano e volevano continuare ad esser Italiani.

"Eppure tutto questo noi soffrimmo; e soffrimmo che inascoltati rimanessero i gridi di dolore di Trento e di Trieste, indomite e fedeli; appellammo vero patriottismo il biasimo di ogni voce patriottica, la repressione di ogni generoso tentativo di protesta; restammo muti e inerti costringendo fremiti e impulsi pur così umanamente spontanei, con la più dura e intollerabile disciplina. Così, a un ideale di pace e di civiltà, facemmo olocausto dei nostri affetti e dei nostri odii, delle nostre lacrime e delle nostre ire, delle nostre aspirazioni e dei nostri diritti, insomma di ogni cosa più fieramente esecrata e di ogni cosa più fieramente diletta.

"Ma venne il giorno in cui bruscamente, brutalmente, tutto l'edificio crollò, e l'Italia si trovò dinanzi al tragico problema di determinare quale decisione dovesse prendere in una guerra che, per il modo stesso onde venne ad impegnarsi, involgeva tutte le questioni, toccava tutti gli interessi, supponeva e imponeva l'integrale revisione delle cause e delle condizioni per la libera coesistenza dei popoli civili .... Nelle immani catastrofi, come quella cui assistiamo, l'efficienza della volontà degli individui, per possenti che siano, non è mai decisiva; l'uomo è strumento di una fatalità storica, che quella crisi determina. Deve allora la guerra considerarsi ora come un urto di razze perché ne trionfi una, superiore e predestinata, ora come un urto di idee perché trionfi quella in cui si affermi un progresso della civiltà: le guerre di Roma o le guerre della rivoluzione francese.

"Sotto il primo aspetto, se in quella attuale fosse vero che un popolo abbia creduto di adempiere ad una missione ad esso spettante per mistico potere e di attuarla con la forza inesorabile delle armi, segnando con la propria vittoria una novella fase nella storia del progresso umano, non poteva tale pretesa non apparire a noi come un orgoglio folle, come un'ebrietà smisurata; a noi, rappresentanti di una civiltà che ha materializzato di vitale nutrimento tutta la vita sociale delle Nazioni più progredite e che pulsa ognora di forza e di giovinezza immortale e non potevamo sentire tutta la nostra solidarietà morale ed etnica con gli altri popoli che sono sorti a difesa del proprio valore storico e della propria ragione d'essere nel mondo. Che se, invece, si vogliono considerare le cause della guerra sotto l'aspetto del trionfo di una nuova idea di civiltà e di progresso, chi può dire tali quelle che abbiamo sentito enunciare, non soltanto da singoli filosofi o pensatori, ma anche da uomini di Stato che parlavano in nome della loro nazione: esser condannabile il principio stesso dell'equilibrio europeo; i campi dell'attività di un popolo non doversi misurare che esclusivamente con il criterio dei propri bisogni in funzione con la propria forza; solo fondamento e solo presidio del diritto essere la buona tempra dell'acciaio e la pressione irresistibile del maglio; lecito, anzi doveroso, il sacrificio delle nazionalità minori in quanto di ostacolo alla esuberante, illimitata espansione di un grande popolo? E quando, per fare lo sforzo, probabilmente in buona fede, di dare alla loro guerra un carattere difensivo, si afferma di aver voluto prevenire un attacco che si preparava, e di aver aggredito per non essere aggrediti, si esprime un concetto sostanzialmente affine a quella tragica alternativa: "bisogna sottomettere gli altri per non esser sottomessi", onde un altro sognatore di egemonie mondiali, Napoleone, cercava di giustificare le sue guerre di conquista.

"Se dunque, una ragione ideale ci orientava, una più energica ragion politica ci sospingeva, fatalmente, nel senso medesimo. Imposta la guerra al di fuori della nostra volontà, anzi contro di essa, si era creata un'impossibilità morale che noi, a fianco o meglio al seguito dei nostri antichi alleati, combattessimo contro i nostri sentimenti, contro le nostre aspirazioni, contro i nostri interessi .... Ebbene il non aver la possibilità di combattere insieme costituiva di per sé stesso la spinta più decisiva a combatter contro, a meno che noi non ci fossimo dichiarati incompetenti verso tutto ciò che di più essenziale è nella vita e nel diritto dei popoli, indifferenti verso qualsiasi soluzione di un conflitto, in cui, insieme agli interessi di tutto il mondo, erano in giuoco tutti gli interessi italiani. E, se inconcepibile era una tale indifferenza, quale altra causa si sarebbe potuta attribuire alla nostra astensione se non il timore dell'alea e la preoccupazione del pericolo? Ognuno dei gruppi del terribile contrasto avrebbe considerato chi non era stato con loro come contro di loro: sicché, quale che fosse stato il vincitore, l'Italia, non combattendo, si dichiarava vinta in anticipo. E vinta con ignominia, essendo per un popolo assai peggio dell'esser battuto l'esser considerato incapace di battersi".

Dopo di aver detto che la nostra guerra, pur serbando il carattere nazionale, si "era collegata" e "saldata" con la guerra internazionale, dopo aver affermato che non poteva "mai darsi utilmente una nostra vittoria isolata" come "una pace isolata", dopo di aver sostenuto che senza limiti doveva essere la solidarietà degli alleati e coordinato doveva essere ogni sforzo collettivo, l'on. ORLANDO parlò degli interessi italiani nella penisola balcanica e nell'Adriatico, si commosse allo spettacolo della concordia nazionale, e del valore del nostro esercito e della nostra armata, rilevò le grandi difficoltà che offriva la nostra fronte, elogiò il contegno della popolazione italiana che nobilmente e infaticabilmente operava in collaborazione con i combattenti, e non mancò di bollare tutti coloro che nulla davano alla guerra, anzi da essa cercavano di ricavar profitti:
"Guai agli assenti, ai contumaci, agl'inutili; guai agli avari di danaro e agli aridi di cuore, a coloro che si chiudono nell'angusta cerchia del loro egoismo, a coloro che possono continuare a godere la loro frivola vita, dimentichi di coloro che danno la loro nobile vita per la difesa comune! Tutti codesti, se non allo stesso girone, appartengono certo alla stessa cerchia dei traditori della Patria: di coloro, cioè, che speculano sulla sciagura collettiva, dagli incettatori ingordi ai fornitori rapaci".

Accennato alla prova meravigliosa di calma, di serenità, di disciplina, d'ordine, di dominio dei propri nervi che dava l'Italia al mondo, il quale di tutto ciò la credeva incapace; accennando alle enormi difficoltà dinnanzi alle quali si trovava il Governo e della necessità che lo aveva costretto a costituire, a poco a poco, un "corpus juris" della guerra, "�.opera, nel suo complesso, immane che ora ha dovuto mettersi contro le tradizioni, o da ogni tradizione prescindere, e che ha innovato, spesso profondamente, tutti i cinque codici", il ministro toccò brevemente la situazione della Santa Sede:

"Difficoltà di altr'ordine, ma se è possibile, ancor più delicate creava la situazione del SOMMO PONTEFICE, la cui speciale sovranità era stata riconosciuta da una legge fondamentale dello Stato con tutta lealtà applicata. In essa l'evento della guerra non era regolato espressamente; né l'omissione era dipesa da imprevidenza, bensì, come attestano gli atti parlamentari del tempo, dalla esitazione e dalla perplessità, che generava la visione delle gravi complicazioni, che quell'evento avrebbe determinato in una materia già per sé stessa così ardua. Ebbene, noi queste difficoltà, che avevano resi perplessi uomini pur così grandi, le abbiamo affrontate e superate col semplice presidio di una scrupolosa osservanza della legge, non soltanto mantenendo inalterate tutte le guarentigie ch'essa attribuiva, ma qualche lacuna, che l'esperienza rivelava, colmando con uno spirito di larga interpretazione del principio fondamentale della legge stessa: di riconoscere cioè e di garantire quella speciale forma di sovranità spirituale. Per tal modo, mentre in altre, non più di questa, gigantesche lotte di interessi e di popoli, la qualità sacra di Capo della Chiesa non aveva impedito che il Sovrano temporale soffrisse persecuzioni e violenze, prigionia od esilio, da Gregorio VII a Bonifazio VIII a Pio VII, nella presente spaventosa procella che non ha risparmiato i principi più indiscussi, né gli imperi più possenti, e che ha dimostrato quel che valgono gli impegni internazionali più solenni, il Sommo Pontefice governa la Chiesa ed esercita il suo altissimo ministero con una pienezza di diritti, con una libertà, una sicurezza, un prestigio, quali si convengono alla veramente sovrana autorità, che nel campo spirituale gli compete".

Acclamatissimo fu la chiusura del discorso:
"Con le eroiche virtù del suo esercito, rifulgenti sui campi di battaglia, e con la fortezza austera onde il suo popolo ha sopportato i sacrifici, le rovine, i dolori della terribile guerra, l'Italia ha già riportato una vittoria, di cui immenso è il valere morale. Anche nella breve cerchia di nostra vita individuale, il facile bene è meno desiderabile, e il più stentato più caro: la meta che più costa di sofferenza più dona di gioia a chi la raggiunge. Non diversamente è nella vita dei popoli. L'indipendenza, massimo dei beni, non è appresa davvero e non è conservata con la religione del suo valore, se non sia il frutto di un grande sacrificio collettivo, cui abbiano partecipato ogni individuo e ogni generazione Nessun popolo potrà possedere una salda compagine nazionale, se non la temprò a lunghi e duri cimenti se non la conservò a prezzo di una difesa, vigile sempre e qualche volta disperata. Lo Stato più fortemente unitario e nel quale più vibra lo spirito patriottico, la Francia, affermò la sua indipendenza in una guerra di cento anni; e la Germania -anche a prescindere dalle guerre napoleoniche - dalla duplice guerra del 1866 e del 1870 balzò fuori, sanguinosamente ma vittoriosamente, come una poderosa organizzazione statale.

"E se la Sicilia nostra avverte così intensa la forza del sacrificio collettivo e serba così tenace l'impronta di sentimento e di pensiero unitario, egli è perché la sua storia fu profondamente segnata da gesta, cui contribuì col suo valore, coi suoi beni, col suo sangue, il popolo tutto, ond'essa con eroico coraggio e con nuovo spirito nazionale sostenne da sola, contro mezza Europa, tre battaglie campali e quattro navali, e tre invasioni sofferse e tre ne respinse, e più volte, di poi, nel corso dei secoli, sollevò come un braccio solo il braccio di tutti i suoi figli per la difesa della sua individualità storica e della sua essenza ideale.

All'Italia, superato il periodo eroico della costituzione come unità politica, era sinora mancato il cimento in cui affermarsi come organica unità di popolo. Che anzi erano stato soprattutto, vicende di tempi e complicazioni internazionali, fortuna di eventi e accortezza di governanti che alla Patria nostra avevano dato alcune delle regioni che ne sono l'orgoglio, con sacrifici neppure paragonabili a quelli che ci costano ora una vetta alpina o una quota anonima di altipiano. Roma stessa, aspirazione, passione, sogno di millenni, meta radiosa e sanguinosa di popoli, a volta a volta ondeggianti e cozzanti sotto le sua mura immortali, Roma noi ottenemmo con una pena assai minore di quella che non ci costi oggi la conquista di pochi metri quadrati, sulla desolata nudità del Carso. Si poteva temere che per tale modo si fosse generata l'indolente e imbelle fiducia in una provvida stella, per cui bastasse l'essere italiani perché i destini dovessero piegarsi a darci per benevolenza ciò che altri ha acquistato con dure vigilie e con fatiche asprissime e con sforzi disperati. Invece, quando il popolo italiano ha sentito che lo si chiamava per la prima volta come unità di Nazione, non in una formula politica o in un ben calcolato carteggio diplomatico, bensì sul campo di battaglia sotto il fuoco e contro il fuoco nemico, esso ha con fede e letizia accolto il suo battesimo di sangue ed ha mirato intrepido gli orrori della guerra. Così esso ha detto al mondo che l'Italia contemporanea non gode solo degli incanti della natura e dell'arte, ma conosce pure l'aspra e sana virtù del sacrificio e della sofferenza: che non è solo genitrice di pensatori e di poeti, ma di tutto un popolo illuminato dall'idea e temprato all'azione che la nostra fede ha muscoli, ha nervi, ha sangue, onde non abbiamo soltanto cuori per sognare la grandezza della Patria, ma anche e soprattutto salde mani per ghermire le alate vittorie.

"
E di questa già conseguita vittoria, il riconoscimento ci viene dalla fonte meno sospetta: dal nostro stesso nemico. Noi lo avevamo cercato e combattuto a viso aperto sui valichi e sulle sponde dello sciagurato confine, nel leale cimento della guerra, dove, pur nella reciproca strage, il soldato rispetta il soldato che gli sta di fronte. Ma il nostro nemico più vede la vittoria onorevole sfuggirgli e più la sua rabbia cresce, più si accanisce la sua perfidia, più l'odio suo spietatamente si disfrena contro gl'inermi, sperando di asservirci con l'intimidazione collettiva. E l'abbiamo visto procedere man mano all'uso insidioso delle nostre insegne, alle finte rese dissimulanti l'aggressione, al disumano infierire verso la Sanità militare, alla stupida distruzione di capolavori d'arte e di bellezza, al bombardamento di città indifese ed aperte. Ma noi resistevamo e vincevamo egualmente; ed ecco gli assassinii in massa di Verona e di Brescia, ed ecco i criminosi naufragi dell'Ancona, e del Firenze. Così l'Italia può dire di aver sofferto il più esecrabile dei delitti ond' è stata disonorata questa guerra: di modo che, se in altre loro consimili atrocità si poteva mendicare al cospetto del mondo inorridito una ragione sia pur fallace o inadeguata, come il trasporto di cose atte alla guerra o il preavviso relativo a certe zone determinate, quale mai pretesto potrà l'uomo anche più sfrontato far valere per quelle innocenti navi che portavano fuori d'Italia la povera inerme umanità che segue, lungi dalla guerra la sua vicenda di fatiche e di dolori?

" Ebbene, alla inaudita infamia novissima, mentre il Governo adempie al suo dovere provvedendo alle difese, noi rispondiamo in questa Palermo, che nei duemila anni della sua storia non ha mai conosciuto che cosa sia la paura, riaffermando l'incrollabile proposito che l'assassino non consegua il premio del suo delitto. Esso voleva intimidirci; e noi invece perdureremo nella guerra con sentimenti non mai sinora provati. Noi combattevamo senza odio e non per vendetta come chi sa di perseguire un suo diritto: ma finché gli orecchi nostri saranno disperatamente straziati dalle invocazioni e dagli urli delle nostre donne affoganti, ma finché dinanzi ai nostri occhi appariranno volti di madri improvvisamente impazzite dal terrore ed esangui, piccole mani di bimbi nostri, levate verso Dio, e poi tutto un mostruoso viluppo di persone e di cose che scompare nell'impassibile seno del mare, oh fino ad allora combatteremo con odio e per vendetta, combatteremo fino all'ultimo centesimo delle nostre sostanze e sino all'ultima goccia del nostro sangue, non solo per vincere un nemico, ma per domare una belva. E vinceremo. E il nostro odio sarà seme di amore fra i popoli che tendono a più civili forme di vita: e la nostra vendetta resterà al cospetto della storia quale atto de ammonimento di solenne giustizia".

Applauditi discorsi pronunciò il ministro BARZILAI a Verona il 22 novembre e a Belluno il 23. Il 10 dicembre 1915 si riaprì il Parlamento, dove molto ascoltate furono le dichiarazioni che fece il ministro SONNINO:
"Il 23 maggio il Governo, confortato dai voti del Parlamento e dalle solenni manifestazioni del Paese, dichiarò, in nome di S. M. il Re, la guerra all'Austria-Ungheria. Le ragioni che determinarono questo passo risultano chiare dal Libro Verde presentate al Parlamento pochi giorni prima, dagli altri documenti successivamente pubblicati e dai discorsi pronunciati durante questi mesi dal Presidente del Consiglio e da alcuni miei colleghi. Per effetto della situazione creata tanto dalla violazione dei patti essenziali della Triplice Alleanza per parte dell'Austria-Ungheria con la premeditata aggressione contro la Serbia, come dalla non riuscita delle trattative che tentammo con lei dal dicembre al maggio, mossi dal vivo desiderio di evitare al Paese le calamità di una guerra, apparve urgente ed imperiosa la necessità di provvedere con le armi alla difesa dei nostri più vitali interessi di sicurezza e di indipendenza, oltre che al raggiungimento delle fondamentali nostre aspirazioni nazionali. Dichiarata la nostra guerra contro l'Austria-Ungheria, la Germania ci notificò che si considerava con l'Italia in stato di rottura di relazioni. Il 20 agosto abbiamo dichiarato la guerra alla Turchia.

" Sono note le violazioni del Trattato di Losanna commesse da quel Governo, iniziate anzi fin dall'indomani della firma del trattato stesso Le ostilità fomentato e dirette dalla Turchia contro di noi in Libia, il continuato invio di ufficiali e di armi nella nostra colonia, la mancata restituzione dei prigionieri e per gli inammissibili intralci alla partenza di funzionari consolari, le sopraffazioni contro cittadini italiani che chiedevano di tornare in Patria pazientemente condotte sino al limite imposto dalla nostra dignità sono tutte circostanze ormai conosciute, le quali, insieme al desiderio nostro di procedere in perfetta comunione d' intenti con gli Alleati nella penisola balcanica e in Oriente, ci condussero alla dichiarazione di guerra contro l'Impero Ottomano. L'Italia ha proseguito nei Balcani la tradizionale sua politica, continuata ormai durante parecchi lustri, ispirata al principio di nazionalità ed all'indipendenza dei popoli balcanici; la nostra azione fu a questo fine intensamente diretta di pieno accordo con gli Alleati. E difatti la pacifica attribuzione alla Bulgaria, con larghi compensi da assicurarsi alla Serbia, della Macedonia, che le era stata assegnata dal trattato fra gli Stati balcanici del 1912 costituiva la base dell'accordo politico tentato dalla Quadruplice Intesa.

"Ma, se la politica della Quadruplice era diretta all'unione degli Stati balcanici, quella degli Imperi centrali fomentava per contro il dissenso e la rivalità, ed in ciò purtroppo trovava più favorevole il terreno su cui lavorare. Lo strascico di odio e di vendette lasciato dalla seconda guerra balcanica forniva naturalmente ai nostri nemici efficaci strumenti di azione, di cui, per il fine propostosi, non poteva disporre la Quadruplice. L'opera della diplomazia, del resto, ben poco poteva fare di fronte allo stato psicologico prodottosi nell'opinione pubblica e presso quei Governi in seguito agli eventi militari. La loro mentalità rimase impressionata dagli avvenimenti singoli, trascurando il complessivo apprezzamento della situazione da cui doveva scaturire la sicura fiducia nella vittoria finale degli alleati. Quegli uomini di Governo, preoccupati solamente da recenti rancori e da rivendicazioni immediate, posero in disparte le maggiori e più vitali finalità dell'indipendenza politica ed economica dei popoli. La Bulgaria disprezzò le vantaggiose offerte della Quadruplice e volse invece le sue armi contro la Serbia allorché scorse il piccolo valoroso popolo assalito con ingenti apparati bellici dagli eserciti uniti dei due Imperi centrali. In queste contingenze la via era all'Italia chiaramente tracciata. Abbiamo dichiarato la guerra alla Bulgaria insieme agli alleati, coi quali abbiamo proceduto costantemente uniti nei tentativi di componimento. Così nello svolgersi dogli eventi, nel comune concorde sforzo dei negoziati diplomatici, nella lotta tenace, ma proseguita con le armi nei vari teatri della guerra, si è venuta affermando la piena e ammirevole solidarietà degli Alleati.

"Il contributo efficace delle armi italiane alla causa comune è da ognuno conosciuto. Sino dall'inizio della nostra guerra fu risentita nel campo nemico la pressione formidabile dell'esercito italiano, avventatosi alla conquista dei confini naturali d'Italia. E più, palese apparve l'efficacia del nostro concorso militare, allorquando nel passato settembre l'Austria si trovò costretta a trasportare in fretta considerevoli contingenti verso le Alpi dalla Galizia e con ciò fu resa possibile in quel settore la vittoriosa controffensiva russa. E questa opera concorde, proseguita per vari mesi nella guerra, come nei negoziati, ci ha persuasi della necessità di dare una pubblica e solenne attestazione della solidarietà esistente tra gli Alleati, mediante una disciplina comune delle cinque Potenze, rinnovante quella intervenuta tra la Francia, l'Inghilterra e la Russia il 5 settembre 1914 e alla quale poi si unì il Giappone. L'atto formale della nostra adesione è stato firmato a Londra. E questo fu il suggello.

"
L'atteggiamento della Grecia ha dato luogo a preoccupazioni e a controversie che raggiunsero per un momento una certa tensione, ma la situazione si è fortunatamente chiarita ben presto mediante uno scambio di note, avendo la Grecia acconsentito senza difficoltà a dare gli affidamenti richiesti in armonia colle precedenti sue dichiarazioni di benevola neutralità, onde tutto dà a sperare che, dissipati ormai i sospetti e le diffidenze, si riprenderanno col regno ellenico le migliori relazioni di fiduciosa cordialità. Ciò servirà ad agevolare e regolare soddisfacentemente le singole questioni interessanti la garanzia, l'incolumità e la libertà di movimenti delle truppe alleate così a Salonicco come nelle strade d'accesso e la sicurezza dei rifornimenti per le vie del mare. L'indipendenza politica e economica della Serbia formò sempre uno dei capisaldi della politica italiana nei Balcani. Essa risponde ad una necessità vitale dell'esistenza stessa dell'Italia come grande Potenza. L'asservimento politico ed economico della Serbia da parte dell'Austria-Ungheria rappresenterebbe un grave e costante pericolo per l'Italia, elevando insieme una muraglia insuperabile per la nostra espansione economica sulla sponda opposta dell'Adriatico. Il Libro Verde che ebbi l'onore di presentare al Parlamento nel maggio scorso rende nota l'azione nostra a difesa della Serbia prima ancora della nostra entrata in guerra. D'accordo coi nostri Alleati noi consideriamo come fine imprescindibile di questa guerra la restaurazione dell'eroico popolo serbo nella pienezza della sua indipendenza.

"Oggi l'esercito serbo, sotto il peso della duplice aggressione, cerca la via dello scampo verso il mare. Nonostante i lodevoli sforzi del corpo Anglo-francese: sbarcato a Salonicco, l'Italia non può rimanere insensibile all'angoscioso appello che giunge attraverso l'Adriatico. Faremo dunque al più presto quanto da noi dipende per portare soccorso all'esercito di Re Pietro, assicurandone, di concerto con gli Alleati, il vettovagliamento ed il munizionamento e facilitandone la concentrazione, nell'attesa che giunga il momento della riscossa.

"La presenza della nostra bandiera sulla opposta sponda adriatica gioverà pure a riaffermare la tradizionale politica dell'Italia nei riguardi dell'Albania, la quale rappresenta ora come in passato un interesse di prim'ordine per noi, in quanto la sua sorte è intimamente legata all'assetto dell'Adriatico. Ha importanza grandissima per l'Italia il mantenimento dell'indipendenza, del popolo albanese, la cui spiccata e antica nazionalità fu invano, per scopi interessati, discussa e negata. Alla rivendicazione dei confini naturali, alla conquista delle porte d'Italia provvede, con tenacia ed abnegazione pari allo slancio, la virtù delle armi italiane e insieme conseguiremo il riscatto delle genti di nostra razza, che da lunghi anni sostengono una lotta disuguale contro la subdola, pervicace opera di snazionalizzazione perseguita dal Governo austriaco. La difesa strategica dell'Adriatico costituisce un altro caposaldo della nostra azione politica. E' per l'Italia necessità assoluta di vita di legittima difesa conseguire un assetto adriatico che compensi la sfavorevole configurazione del nostro litorale orientale.

(NOTA: il 6 -11 ottobre 1915 ingenti forze austro-tedesche avevano attaccato l'esercito Serbo, che in gran parte arretrando si era poi rifugiato in Albania. A fine dicembre gli Austriaci inizieranno l'occupazione del Montenegro, per poi penetrare in Albania Su queste coste già ai primi di dicembre l'Intesa aveva programmato una vasta operazione di soccorso ai Serbi, con la partecipazione di navi e truppe italiane. Che però il generale Cadorna osteggerà.)
(Gli sviluppi di questa offensiva in Albania li leggeremo nel successivo capitolo).

"Finalmente - proseguiva Barzilai - la tutela gelosa dei nostri vitali interessi mediterranei sta al sommo del cuore del Governo. Allorquando, or sono quattro anni, fu minacciato l'equilibrio del Mediterraneo occidentale, l'Italia si vide costretta a entrare in guerra per la conquista della Libia e il nostro popolo bene ne comprese l'alto significato politico. E quando fu posto in discussione e reso necessario l'assetto del Mediterraneo orientale, ove tracce indelebili lasciò la storia gloriosa delle nostre repubbliche marinare, ove fiorenti colonie italiane attendono che la patria tenga sempre alti e inconcussi la sua posizione e il suo prestigio di fronte alle altre potenze concorrenti, mal poteva l'Italia timida appartarsi, e con il disinteressamento suo subire tutte le esclusioni, sanzionare tutte le rinunce. Accennato così sommariamente alle finalità della lotta aspra e difficile che il nostro esercito combatte strenuamente da sei mesi al di là del confine, sostenuto dalla fervente fede dell'intera Nazione, chiudo il mio discorso proclamando ancora una volta, che l'Italia è fermamente risoluta a condurre innanzi animosamente la guerra con tutte le sue forze ed a costo di qualunque maggiore sacrificio, sino al raggiungimento delle sue sacrosante aspirazioni nazionali come di quelle condizioni generali di indipendenza, di sicurezza e di mutuo rispetto dei popoli, che sole possono formare la base di una pace durevole e che rappresentano la stessa ragione d'essere del patto che stringe insieme noi e i nostri Alleati".

Della dichiarazione di guerra alla Bulgaria, dei soccorsi all'esercito serbo accennati nel discorso del ministro SONNINO e, in genere, dell'azione dell'Italia nei Balcani - lo abbiamo già detto sopra- parleremo in un altro capitolo. Accenneremo qui alla discussione parlamentare che seguirono le dichiarazioni del Governo. Parlarono liberali, cattolici, repubblicani, riformisti, socialisti ufficiali. Alcuni difesero l'istituto parlamentare, che il Governo aveva troppo a lungo trascurato, altri criticarono la marina che non aveva prevenuto o represso le offese alle coste, altri ancora si lagnarono degli internamenti; i. socialisti furono i più aspri nelle critiche e nelle accuse.
A nome del partito socialista ufficiale parlò l'on. CLAUDIO TREVES, il quale criticò l'intolleranza della censura, si compiacque della "vittoria" del regime parlamentare, elogiò il valore e i sacrifici compiuti dal popolo, disse male della politica dell'Intesa, si dichiarò contrario all'allargamento della guerra, ebbe aspre parole contro il sistema capitalistico e il militarismo, lodò il convegno socialista di Zimmerwald (5-8 settembre) e chiuse invocando la pace.

A tutti rispose, il 4 dicembre, l'on. SALANDRA. Disse di acconsentire alla glorificazione fatta dell'istituto parlamentare:
"Noi ne siamo figlioli, ne siamo convinti. Ma io non posso consentire nelle tendenze che alcuni oratori hanno dimostrato di avere: di ritenere cioè quasi una "vittoria" dell'istituto parlamentare la riconvocazione delle Camere all'epoca solita nella quale le Camere sono riconvocate. "Vittoria" perché? Quale mai responsabile aveva dubitato dell'intangibilità dell'istituto parlamentare? Se noi abbiamo usato poteri straordinari, essi sono i poteri che voi ci avete liberamente delegati. Dell'uso che ne abbiamo fatto voi potete liberamente oggi, domani, sempre, giudicare. Voi potete volere magari un altro Governo a questo posto, ma non potrete avere in questo momento se non un Governo che abbia mezzi sufficienti a fronteggiare la situazione e sia ben sorretto dalla Camera e senza sottintesi".

Disse che le comunicazioni del ministro degli Esteri, erano state chiare e precise; affermò che la fiducia nella vittoria finale rimaneva intatta: a chi avrebbe voluto maggiore attività da parte della marina rispose che essa avrebbe esaurito il suo compito con valore e con coscienza; quanto alle popolazioni adriatiche esse sopportavano ed avrebbero continuato a sopportare patriotticamente la guerra, la quale era principalmente la loro guerra. Del resto le condizioni topografiche d'inferiorità lamentate da qualche oratore in un sol modo si potevano sanare: "...mediante la guerra vittoriosa che ci dà dall'altra parte dell'Adriatico tale situazione che, non solo la sicurezza del nostro Paese ne sia garantita, ma anche sia tolto qualsiasi dubbio sulla libertà nostra in quel mare. E pur considerando che altri popoli e altre nazionalità hanno diritto di affacciarsi nell'Adriatico, noi dobbiamo affermare che a noi, per il nostro territorio, per i nostri interessi, per la superiorità della nostra civiltà, conviene avere nell'Adriatico un' egemonia civile".

Anche l'on. SALANDRA, come l'on. TREVES, stigmatizzò la mala brama di ricchezza che induceva, alcuni trafficanti a fornire ai nostri soldati alimenti adulterati o indumenti non sufficienti e forse in condizioni non buone, e diede assicurazione che aveva contro di essi presi severissimi provvedimenti. Difese il Governo dall'accusa di avarizia nei riguardi delle vedove e degli orfani dei militari morti in guerra, dichiarando che le pensioni che si davano ai minorati dalla guerra e alle famiglie dei Caduti erano superiori e quelle concesse in Francia, in Germania e in Austria, e assicurò che si sarebbero dati sussidi immediati e che si sarebbe pensato a migliorare le condizioni dei lavoratori.
Quanto alla censura, disse della necessità di mantenerla.

Al discorso dell'on. Salandra seguì lo svolgimento degli ordini del giorno. Illustrando il suo, l'on. CICCOTTI ottenne un clamoroso successo:
"Non è questo - egli disse fra l'altro - il momento per apologie, per condanne, per dileggi per acclamazioni. Il Paese ci ha segnato la via in quel concorde raccoglimento in cui si confonde la passione soffocata delle madri che offrono i figli con la rassegnazione degli orfani che accettano la loro sciagura come un sacrificio, e l'olocausto di quelli che non vollero la guerra, e le consacrano la vita, e il dolore che si nobilita con l'abnegazione dell'oscurità e del silenzio. Se una funzione politica può e deve avere questa riconvocazione del Parlamento, non è che questa anzitutto: un'animosa professione di fede, fuori di ogni smarrimento, fuori di ogni jattanza; di quello smarrimento che fiacca lo spirito e le forze, di quella importuna jattanza che, facendo perdere il senso della realtà, prepara, necessariamente la delusione. Perciò, qui non si tratta di votare per un Ministero; dobbiamo votare per una nobile causa e per il Paese. E cerchiamo di essere degni della causa e del Paese. Tristo chi, nell'esercizio di un potere che gli è affidato per il bene comune, nel momento del più alto cimento, non riesce a dissipare le preoccupazioni di fini particolari e di fazione; tristo più assai di colui che froda l'obolo estorto al contribuente più misero, più tristo ancora di colui che altera la vestimenta che devono riguardare dai rigori. del clima il nostro soldato.

" Ma pur rivendicando qui la causa della libertà con cui si combattono le guerre d'indipendenza, con cui solo si sostengono e si fanno trionfare le nobili cause nazionali, pur rivendicando sopratutto la correttezza del costume politico, non io, non voi, faremo opposizione a un qualsiasi Governo che ci sarà dato a sostenere gagliardamente una lotta legittima, e condurre fino all'estremo la nostra suprema difesa. Quest'ora che passa deve essere, se non siamo al di sotto di noi stessi, la fiamma in cui tutto deve consumarsi che non sia nobile e puro. Il voto a cui ci si invita oggi non può essere che una sacra promessa di dare al nostro Paese, alla nostra causa tutte le nostre energie, un impegno di serbare e rafforzare quell'alta disciplina civile e morale che sola potrà rendere feconda la guerra, che sola potrà temperare le amarezze di ogni insuccesso, e che sarà il segreto di un nostro migliore avvenire. Onorevoli colleghi, l'Italia ebbe glorie e sventure, ma ciò che più brucia davanti alla memoria non è il ricordo dei danni patiti, quanto quello dei giorni in cui ci accadde di essere noi stessi inferiori agli avvenimenti.
Sotto questi torbidi venti di bufera popoli e Stati hanno rinnegato e rinnegano spesso, la via del dovere e dell'onore. Noi viviamo e moriamo con essi. Chi così muore risorge dalle sue ceneri".

Eguale successo ebbe la sobria, calda illustrazione che del suo ordine del giorno fece l'on. PAOLO BOSELLI, ordine del giorno cui aderì il Ciccotti e che fu accettato dal Governo. Un ordine del giorno dell'on. CALLAINI, così concepito:
"La camera, orgogliosa dei nostri soldati e marinai che dettero e danno prove mirabili di sublime eroismo per la difesa e per la grandezza della Patria, manda ad essi il più affettuoso saluto di gratitudine e l'augurio fervido della vittoria". fu approvato per acclamazione.
Dimostrazioni ostili accolsero le dichiarazioni di voti fatte dagli onorevoli CAPPELLI e TURATI. Si venne quindi alla votazione per appello nominale che diede il risultato seguente: presenti 454; favorevoli all'ordine del giorno Boselli-Ciccotti 405, 1 astenuto, e solo 48 contrari provenienti dal PSI e da alcuni sostenitori di Giolitti.

L'ALLOCUZIONE DI BENEDETTO XV
LA DISCUSSIONE SULLA POLITICA FINANZIARIA
LA VITTORIA DEL GOVERNO - IL PAPA E LA GUERRA

Due giorni dopo che la Camera votava la fiducia al Governo, BENEDETTO XV, nel concistoro segreto del 6 dicembre, pronunciava un'allocuzione, nella quale invocava la pace e si doleva della situazione in cui si trovava la Santa Sede:
"Vi sono note senza dubbio - diceva, rivolgendosi ai cardinali - le difficoltà che impedirono di convocare prima d'ora il Sacro Collegio, e se oggi ci è dato finalmente vedervi numerosi in questa nobile aula, non è perché quelle difficoltà siano venute meno, ma perché abbiamo temuto che da un ulteriore ritardo avesse a soffrire il buon andamento di questa curia romana. Ed è per questo che non pochi sono i vuoti che sia nello scorso anno, sia in questo, si sono successivamente verificati nel Sacro Collegio.
Se in altri tempi al romano pontefice avrebbe recato dolore la perdita di consiglieri così illuminati e di così fidi assistenti, tanto più abbiamo a dolercene noi che assumemmo il governo della Chiesa in questo periodo storico gravissimo. Nonostante che immense rovine si siano già accumulate nel corso di ben sedici mesi, nonostante che cresca nei cuori il desiderio della pace ed alla pace anelino nel pianto numerose famiglie, nonostante che noi abbiamo adoperato ogni mezzo che valesse in qualche modo ad affrettare la pace e comporre le discordie, pur nondimeno questa guerra fatale imperversa ancora per mare e per terra, mentre d'altra parte sovrasta alla misera Armenia l'estrema rovina.

Quella stessa lettera che all'inizio della guerra indirizzammo ai popoli belligeranti ed ai loro capi, quantunque avesse una riverente accoglienza, non produsse tuttavia i benefici effetti che se ne attendevano. Vicario in terra di Colui che è il Re pacifico, il Principe della Pace, non possiamo non commuoverci sempre più per la sventura di tanti nostri figli e non levare di continuo le nostre braccia supplichevoli al Dio dello Misericordie, scongiurandolo con tutto il cuore che si degni porre ormai un termine, con la sua potenza, a questo sanguinoso conflitto. E mentre procuriamo, per quanto è da noi, di alleviarne le dolorose conseguenze con quegli opportuni provvedimenti che vi sono ben noti, ci sentiamo mossi dall'apostolico ufficio ad inculcare nuovamente l'unico mezzo che possa presto condurre all'estinzione dell'immane conflagrazione per preparare la pace quale è ardentemente desiderata da tutta intera l'umanità, e cioè una pace giusta, duratura e non profittevole ad una soltanto delle parti belligeranti.
Una via che può veramente condurre ad un felice risultato è quella che fu sperimentata e trovata buona in simili circostanze e che noi ricordammo nella medesima nostra lettera, quella che in uno scambio di idee, diretto ed indiretto, siano, con animo volenteroso e con serena coscienza, esposte finalmente con chiarezza e debitamente vagliate le aspirazioni di ciascuno, eliminando le ingiuste e le impossibili, e tenendo conto, con equi compensi ed accordi, se occorre, delle giuste e possibili.

"Naturalmente, come in tutte le controversie umane che vogliono dirimersi per opera dei contendenti medesimi, è assolutamente necessario che da una parte e dall'altra dei belligeranti si ceda su qualche punto e si rinunci a qualcuno degli sperati vantaggi. E ciascuno dovrebbe fare di buon grado tali concessioni, anche se costassero qualche sacrificio, per non assumere dinnanzi a Dio ed agli uomini l'enorme responsabilità della continuazione di una carneficina di cui non vi è esempio e che, prolungata ancora, potrebbe ben essere per l'Europa il principio della decadenza da quel grado di prospera civiltà alla quale la religione cristiana l'aveva innalzata.

"Questi i sentimenti dell'animo nostro riguardo alla guerra, considerata in ordine ai popoli che vi si trovano disgraziatamente impigliati. Che se poi consideriamo gli inconvenienti che dal conflitto europeo sono derivati alla Chiesa Cattolica ed all'Apostolica Sede, ognuno vede quanto gravi essi siano e quanto lesivi per la dignità del romano Pontefice. Già altra volta, seguendo le orme dei nostri predecessori, lamentammo che le condizioni del Romano Pontefice fossero tali da non consentirgli l'uso della piena libertà che gli è assolutamente necessaria per il governo della Chiesa. Chi non vede che ciò si è reso ora tanto più evidente nelle attuali circostanze? Certo non fece difetto a coloro che governano l'Italia la buona intenzione di eliminare gli inconvenienti; ma questa stessa dimostra chiaramente che la situazione del romano Pontefice dipende dai poteri civili e che, col mutare di uomini e di circostanze, può anch'essa mutarsi ed ancora aggravarsi. Nessun uomo sensato potrà affermare che una condizione sì incerta e così sottoposta all'altrui arbitrio sia proprio quella che convenga alla Sede Apostolica.

"Del resto, neppure si poté evitare, per la forza stessa, delle cose, che si verificassero parecchi inconvenienti di un'evidente gravità. Per tacere di altri ci limitiamo ad osservare che taluni degli ambasciatori o ministri accreditati presso di noi dai loro Governi furono costretti a partire per la tutela della loro dignità personale e delle prerogative del loro ufficio. Il che importa per la Santa Sede la menomazione di un diritto proprio e nativo e la diminuzione di una necessaria garanzia, del pari che la privazione del mezzo ordinario, che più di ogni altro è acconcio, di cui suole servirsi per trattare gli affari con i Governi esteri. Ed a questo proposito dobbiamo rilevare, con dolore, come nell'altra parte belligerante sia perfino potuto nascere il sospetto che noi, per necessità di cose, nel trattare gli affari che riguardano i popoli in guerra, ci lasciamo ormai regolare e guidare dai soli suggerimenti di coloro che ci possono far sentire la loro voce.

"Che dire poi delle cresciute difficoltà delle comunicazioni fra noi ed il mondo cattolico per cui ci si rese così arduo di poterci formare quel completo ed esatto giudizio sugli avvenimenti che pure ci sarebbe stato così utile? Ci sembra, o venerabili fratelli, quanto abbiamo detto fin qui basti a mostrarvi quanto cresca di giorno in giorno il nostro dolore, sia perché cresce spaventosamente questa carneficina di uomini appena degna dei secoli più barbari, sia perché peggiorano nel tempo stesso le condizioni della Sede Apostolica. Abbiamo la certezza che voi, come partecipate alle cure ed alle sollecitudini che c'impone l'apostolico ufficio, così condividerete questa nostra duplice afflizione: crediamo anzi che tutto il popolo cristiano faccia eco al nostro dolore.
Ma perché dovremmo sgomentarci, quando il Principe dei pastori, Cristo Gesù, ha promesso che non avrebbe fatto mancare mai la sua assistenza alla Chiesa e molto meno nei momenti più ardui e procellosi? All'amatissimo Redentore del genere umano salgano dunque le nostre fiduciose preghiere, accompagnate da opere di carità e di penitenza, perché egli, ricco in misericordia, voglia affrettare il termine delle sofferenze, fra le quali oggi l'umanità si dibatte".

La sera stessa del 6 dicembre, l'agenzia Stefani diramava il seguente comunicato ufficioso che rappresenta un commento e una rettifica a qualche punto dell'allocuzione pontificia:
"Le parole del Pontefice relative agli ambasciatori e ministri accreditati presso la Santa Sede i quali sarebbero stati costretti a partire per tutelare la loro dignità personale devono derivare da inesatte informazioni a S. S. Sta invece in fatto che i rappresentanti degli Imperi Centrali, nonostante le più esplicite assicurazioni del Governo per la tutela della loro sicurezza personale e dei diritti e privilegi loro spettanti giusta la legge, vollero di loro spontanea volontà allontanarsi da Roma".

Rispose il giorno dopo, a questo comunicato con una nota ufficiosa l'"Osservatore romano", organo del Vaticano, nella quale era detto:
"Riconosciamo che il Governo italiano dimostrò buona volontà di eliminare le difficoltà derivarti dallo stato di guerra, per ciò che concerne i rappresentanti degli imperi centrali presso la Santa Sede e di conservare loro quelle prerogative che, secondo il diritto internazionale, competono agli agenti diplomatici. Tuttavia prescindendo da altre considerazioni d'ordine secondario, crediamo di sapere che il Governo italiano non avrebbe ad essi mantenuto il diritto di reciproca corrispondenza anche cifrata con i rispettivi Governi, libera e indipendente, volendola sottoposta ad un qualche controllo, sia pur quello della Santa Sede. Tale ci sembra la più genuina espressione dei fatti e possiamo ammettere con tutta franchezza come lo stato di guerra offrisse (pur senza toccare la rispettabilità delle persone) seri motivi per non riconoscere al diplomatici dell'Austria Ungheria e della Germania il su accennato diritto. Ma nessuno vorrà negare che il diritto medesimo è essenziale a qualsiasi missione diplomatica, la quale non si può concepire senza di esso. E d'altra parte stimiamo che la Santa Sede non avrebbe potuto accettare la grave responsabilità di simile controllo. Ci sembra dunque essere ben vero che i predetti diplomatici non furono espulsi dal governo italiano (il che non ha certo detto Sua Santità), ma si videro costretti ad allontanarsi da Roma per la forza stessa delle cose. "Sui muneris ac dignitatis tuendae causa", come precisamente e con ogni esattezza si è espresso il Papa nella sua allocuzione".

Le difficoltà in cui si trovava la Santa Sede, accennate nell'allocuzione, erano certamente esagerate i ne era prova il fatto che a Roma, durante il conflitto europeo, erano stati liberamente tenuti un conclave e due concistori, nell'ultimo dei quali non mancavano rappresentanti del clero tedesco. Forse il Pontefice aveva voluto rispondere alle dichiarazioni del ministro Orlando in Palermo sulla legge delle guarentigie, facendo su di esse riserve che rientravano nel sistema tradizionale di protesta da parte della Santa Sede contro il regime stabilito in Roma nel 1870.
Ad ogni modo le lagnanze di BENEDETTO XV non potevano non avere ripercussioni nel Parlamento italiano, dove, nella seduta del 7 dicembre, l'on. LOMBARDI proponeva che la Camera protestasse immediatamente contro le affermazioni papali e il ministro ORLANDO, fra le generali approvazioni, così difendeva la politica ecclesiastica del Governo:

".... Io ripeto alla Camera, nel modo più formale e preciso, che essi (gli ambasciatori) si sono allontanati dall'Italia di loro libera volontà. E non è troppo ardito supporre che essi personalmente preferissero di andarsene, ma facendo credere che se ne andassero per forza. Questo è, ad ogni modo, affare che riguarda loro, non noi .... Il Governo ha rispettato e rispetterà questa legge e la manterrà, considerandola come una ragione di gloria per l'Italia contemporanea, ragione di gloria tanto maggiore in quanto, mentre le tradizioni parlamentari inglesi reputano la politica estera al di fuori e al di sopra dei partiti, in Italia dal 1870 ad oggi, la politica ecclesiastica incardinata, sull'osservanza pura e semplice della Legge della Guarentigie come una fonte di diritto italiano, è stata eseguita senza eccezione da tutti i Governi e da tutti i Guardasigilli che si sono succeduti a questo posto, da Pasquale Stanislao Mancini a Giuseppe Zanardelli .... Noi, all'infuori di ogni sentimento di utilità, intendiamo perseverare su questa via.

"A parte le altre vittorie che la guerra nostra dovrà serbare all'Italia, è già questa una grande vittoria, un'affermazione che il Papato, il quale nella storia delle alterne e gravi vicende da esso traversate non ha trovato giammai garanzie sufficienti né nell'ampiezza dei confini territoriali, né nella garanzia e nella protezione di questo o di quell'altro Stato possente, abbia potuto in mezzo a questa, che è forse la più terribile procella che l'umanità abbia provato, mantenere intatto il suo prestigio e godere di tanta libertà e indipendenza. Così noi abbiamo assistito in Roma, in una delle maggiori basiliche della cristianità, ad un funerale ordinato dal Santo Padre in suffragio di tutti i caduti della guerra, senza, eccezione, comprendendo quindi fra loro anche i nostri nemici. E quale magnifico spettacolo di serenità e di imparzialità non abbiamo avuto in Italia allorché il Papa ha potuto affermare limpidamente con piena autorità, nell'ultimo concistoro, il pensiero suo dinanzi a tutti i cardinali qui convenuti e che abbiamo ugualmente rispettati senza ricercare se appartenenti a nazioni nemiche. E bene vorremmo che tutti gli Stati combattenti potessero dire lo stesso per ciò che riguarda il rispetto alla libertà dei Principi della Chiesa chiamati a Roma ad ascoltare la parola del Pontefice".

L'8 dicembre, come già abbiamo visto, il ministro del Tesoro fece l'esposizione finanziaria. La discussione intercalate da incidenti clamorosi specie per opera dell'on. ENRICO FERRI, il quale aveva presentato il seguente ordine del giorno tendente a limitare la concessione dell'esercizio provvisorio chiesta dal Ministero: "La Camera, ritenendo indispensabile nelle presenti condizioni di vita nazionale il controllo la cooperazione del Parlamento, accorda al Governo l'esercizio provvisorio dei bilanci non ancora approvati per l'anno 1915-1916 durante il terzo trimestre dell'anno stesso, e passa all'ordine del giorno".

L'11 dicembre, l'on. SALANDRA rispose a tutti gli oratori, spalleggiato da un applaudito discorso dell'on. BISSOLATI e chiese il voto di fiducia sull'ordine del giorno RAVA che era così concepito:
"La Camera, confidando nell'opera del Ministero, passa alla discussione degli attuali disegni di legge"; quindi si passò all'appello nominale sull'ordine del giorno Rava con questo risultato: votanti 432, favorevoli al Ministero 391, contrari 40, astenuti 1. Un altro voto sull'applicazione delle nuove tasse proposte diede i risultati seguenti: votanti 337 , favorevoli 277, contrari 53, astenuti 9. Lo scrutinio segreto sul disegno di legge per l'esercizio provvisorio e le tasse diede: votanti 369, favorevoli 313, contrari 56.
Il 13 dicembre, al grido di Viva l'Esercito ! Viva l'Armata. ! Viva il Re! la Camera si prorogava al 1° marzo 1916.

Mentre la Camera si chiudeva, si apriva il Senato. Qui il 16 dicembre, il senatore SARZELLOTTI pronunciò un attacco a fondo contro la politica del Governo, dicendo che dissentiva da esso non nei fini nazionali, ma nei mezzi, criticandolo perché non aveva fatto buon uso dei poteri straordinari, rivendicando al Parlamento l'esame e il giudizio sull'opera del potere esecutivo ed affermando che il Ministero, nelle grandi decisioni implicanti le sorti e l'avvenire del Paese, si era tenuto costantemente in disparte dal Parlamento. L'oratore concluse che occorreva stare fra gli Alleati con dignità e con pieno diritto, avere volontà e iniziative proprie; che bisognava illuminare il popolo sulla verità dei fatti e delle cose, togliendolo da un regime di minorità politica e civile, e terminò mandando un riverente saluto all'esercito e al Re, il cui nome era auspicio di certa vittoria rivendicatrice dei diritti e dei confini nazionali.

Favorevolissimi al governo furono i senatori MARAGLIANO ed ENRICO di SAN MARTINO. Parlarono poi MOLMENTI, FRANCESCO PULLÈ, GUGLIELMO MARCONI, MAZZIOTTI e, nella seduta del 17, MURATORI, il generale MORRA di LAVRIANO, ROLANDI-RICCI, FOÀ, VERONESE.

Rispose a tutti, molto abilmente, l'on. SALANDRA. Messo in votazione per appello nominale l'ordine del giorno Muratori, approvante le dichiarazioni del Governo, questo si ebbe un voto unanime di fiducia (221 sì su 221 votanti).
II 18 dicembre il Senato prendeva le vacanze, esprimendo per bocca del presidente MANFREDI fervidi voti per la vittoria e la grandezza della Patria.
Il 22 dicembre, come altrove è stato detto, veniva emesso il terzo prestito nazionale. L'entusiasmo col quale gl'Italiani (una parte degli italiani con denaro) si apprestavano a sottoscriverlo mostrava che la Nazione, nonostante i sacrifici sopportati e la coscienza dei futuri e maggiori sacrifici, era fermamente decisa a continuare la guerra a fondo.

La pace, invece, continuava a sognare il Santo Padre, il quale, la vigilia di Natale, così rispondeva agli auguri del cardinale VINCENZO VANNUTELLI, Decano del Sacro Collegio:

"È pur troppo vero che una nube di tristezza avvolge anche quest'anno la lieta solennità natalizia, ed ella signor Cardinale, nel presentarci a nome del Sacro Collegio l'espressione dei sentimenti inspirati dalla soave ricorrenza, non ha potuto spogliare la sua commossa parola dalla lugubre veste del comune dolore. Se infatti volgiamo lo sguardo a vicine e lontane regioni, ci colpisce anche oggi il ferale spettacolo di una umana carneficina. E se nell'anno scorso lamentavamo, in simile circostanza., l'ampiezza, la ferocia, gli effetti del tremendo conflitto, oggi dobbiamo deplorare l'estensione, la pertinacia, l'oltranza, aggravate da quelle micidiali conseguenze che del mondo hanno fatto un ospedale ed un ossario e dell'appariscente progresso dell'umana civiltà un anticristiano regresso.

"Ciò nonostante, Ella, signor Cardinale, innalzando l'occhio alle più ulte regioni della fede, ha saputo trarre dalla presente festività argomenti d'augurio per la nostra persona, di conforto per i sofferenti, di auspicio per l'avvenire dell'umanità. Grati per l'omaggio e riconoscenti per la nobile forma dei voti, noi accettiamo con animo volenteroso e con paterno gradimento le augurali elevazioni dei Sacro Collegio tanto più lietamente quanto meglio scorgiamo in esse, non solo il conforto di crescente affetto filiale, ma anche il valore di più intense preghiere che nell'imperversare del turbine il Sacro Collegio, consapevole dell'estremo bisogno, innalza a Colui, che solo può sedare la procella. Queste preghiere, lo diciamo con alto convincimento, ci confortano più che ogni altra testimonianza d'ossequio. Ed, oh, quante volte nei mesi del nostro pontificato, resi dolorosi dalla fatale tardanza di ogni componimento delle fatali contese, ad esse ci riaffacciamo col cuore come ad unica salvezza!

"Ma finché Dio non ci soccorre, che cosa noi possiamo? Nulla, per fermo. Chiamati al Governo della Chiesa nei più trepidi momenti della storia, amammo sperare che il buon volere del Padre non sarebbe tornato infruttuoso agli sventurati figliuoli; oh vana speranza! Fermi per già sedici mesi nel proseguire il nostro caritatevole intento, vedemmo sterile in gran parte l'opera nostra e la stessa nostra voce, che, obbediente al "Clama", "ne cesses", si proponeva di non tacere fino a quando non avesse trovato eco in cuori meno duri, vedemmo troppe volte cadere nel vuoto come voce "clamantis in deserto".
E che dire degli ideali, di quei beni che si sarebbero potuti forse procurare, come frutto e conseguenza di pace, alla religiosa ed alla civile società? Per lo contrario ogni volere, ogni proposito, ogni ideale si infranse nelle avverse congiunture ed anche sotto questo aspetto ci è mestieri riconoscere che noi poco o nulla potemmo. Pure nondimeno la nostra fiducia non si scuote, ottemperante a quelle divine parole onde in analogo frangente il Signor Nostro Gesù Cristo segnava ai suoi seguaci una linea di condotta che ora, più che mai, appare provvida e fida. Abbiamo nel cuore, come l'Apostolo delle genti, una grande speranza contro ogni umano sperare: in "spem centra spem" ed in Dio, soltanto in Dio riponiamo ogni nostra fiducia invincibile, sorretti dalla promessa onnipotente racchiusa in quel sereno e rassicurante rimprovero: "Modicae fidei quid dubitastis?" Egli, ne siamo certi, glorificherà il nome suo salvandoci "ex hac hora", anche se per il momento risponderà come il cielo alle parole di Gesù con tuoni e con folgori ed anche se per lungo tempo ancora Egli soggiunge: "nunc iudicium est mundi". Questa fiducia che vive negli animi nostri in ogni giorno dell'anno, si alimenta e si riafferma in particolare maniera, quando una soave ricorrenza ravviva al nostro pensiero il consolante spettacolo di ciò che accadde nella grotta di Betlemme. E chi non vede come non costituisca per noi un vuoto ricordo, ma un reale rinnovamento, il ritorno di quella data in cui, composto nella fede persino il barbaro mondo pagano, scese fra gli uomini nelle più miti sembianze il Re essenzialmente pacifico?".

Il Pontefice continuava invocando dalla Vergine l'intervento per il bene dell'umanità dolorante e, ricambiando gli auguri del Sacro Collegio, impartiva l'apostolica benedizione ai cardinali, ai vescovi ed ai prelati presenti.
In questo nuovo discorso papale vivo era il desiderio della pace, ma vana cosa sembrava al Pontefice invocarla dagli uomini, decisi più che mai a conseguire i loro scopi con le armi; e si rivolgeva a Dio, a Colui che aveva nelle sue mani il destino dell'umanità, pregandolo di far cessare, quando volesse, l'immane flagello che insanguinava il mondo.

E purtroppo il Natale del 1915, aveva insanguinato copiosamente già l'Italia. Oltre 3-400.000 italiani piangevano la morte di un figlio, di un fratello, di un padre, con il nefasto bilancio di 62.000 morti, e altri 4-500.000 italiani si erano visti tornare a casa un familiare con i 170.000 feriti o invalidi.

Lasciamo in Italia per il momento, gli spettrali scenari di guerra, la politica, le allocuzioni papali, e torniamo indietro di qualche mese in agosto, dopo la dichiarazione di guerra alla Turchia, per fare il quadro sulla nuova situazione che si era creata nei Balcani, e più precisamente in Albania, diventato improvvisamente (dopo quello in Libia) un altro grosso problema per l'Italia, con le varie dispute fra gli Imperi centrali, quelli dell'Intesa e della Russia per la presumibile spartizione dei vari stati balcanici se uno dei due maggiori contendenti usciva sconfitto dal conflitto. Ma non mancarono pure i contrasti all'interno del supremo comando italiano, dove il Capo di Stato Maggiore Cadorna aveva le pretese di voler condurre senza intromissioni politiche, quella che non è più soltanto una guerra italiana, ma è in gioco il destino dell'equilibrio dell'intera Europa oltre che dell'Italia.

�La spedizione italiana in Albania > > >

Fonti, citazioni, testi, bibliografia
Prof. PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - (i 5 vol.) Nerbini 1930
TREVES - La guerra d'Italia nel 1915-1918 - Treves. Milano 1932
A. TOSTI - La guerra Italo-Austriaca, sommario storico, Alpes 1925
COMANDINI - L'Italia nei cento anni - Milano
STORIA D'ITALIA Cronologica 1815-1990 -De Agostini

CRONOLOGIA UNIVERSALE - Utet 
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi

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