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( QUI TUTTI I RIASSUNTI )  RIASSUNTO ANNI 1891-1892

IL 1° MINISTERO RUDINÍ - RINNOVO TRIPLICE ALLEANZA (testo)

FORMAZIONE DEL MINISTERO DI RUDINÌ; IL PROGRAMMA - NEGOZIATI ITALO-INGLESI PER DELIMITARE I CONFINI TRA L'ERITREA E IL SUDAN - LA NOMINA DELLA COMMISSIONE D'INCHIESTA PER I FATTI COMPIUTI DA CAGNASSI E DA LIVRAGHI - DISCUSSIONE PARLAMENTARE DI ALCUNI DISEGNI DI LEGGE E INTORNO ALLA POLITICA E AGLI INTERESSI ITALIANI IN AFRICA - LA POLITICA TIGRINA - IL CONVEGNO DEL MAREB - IL GEN. GANDOLFI SOSTITUITO DAL COL. BARATIERI - UCCISIONE DEL CAPITANO BETTINI - RINNOVAZIONE ANTICIPATA DELLA TRIPLICE ALLEANZA - IL TESTO DEL TRATTATO - INTESA FRANCO-RUSSA - PROVOCAZIONI DEI PELLEGRINI FRANCESI A ROMA - DISCUSSIONE PARLAMENTARE SULLA POLITICA ECCLESIASTICA - ABOLIZIONE DELLO SCRUTINIO DI LISTA - I TUMULTI DEL 1° MAGGIO A ROMA - LA LETTERA DI F. CRISPI AL RE PER LA FORTIFICAZIONE DI BISERTA - LA POLITICA FINANZIARIA DEL MINISTERO DI RUDINÌ - DIMISSIONI DEL MINISTERO RESPINTE - NUOVO PROGRAMMA FINANZIARIO - CADUTA DEL GABINETT0 DI RUDINÌ
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FORMAZIONE DEL MINISTERO DI RUDINÌ

Con il precedente capitolo abbiamo fatto una pausa sulle vicende africane (che riprenderemo dopo questo capitolo, dopo quello su Giolitti, e quello su Crispi). Ripartiamo dal secondo ministero Crispi, e alle sue dimissioni nel gennaio 1891; che fu costretto a darle, quando, ribattendo alle forti critiche sul suo governo (soprattutto a Borghi), perse le staffe e con violenza accusò la destra di aver condotto, quando erano loro al governo, una "politica servile verso lo straniero!". Sollevò un putiferio proprio dentro le file della destra, cui si unirono quelli della sinistra; che da qualche tempo stava iniziando a diventare una destra moderata e che, nonostante al governo, al pari dell'opposizione, criticava Crispi e l'intera linea della sua politica.

Per formare un nuovo governo si fece alcuni tentativi, tutti falliti, per dar vita ad un Gabinetto di coalizione con Giolitti e Zanardelli

Dato il motivo occasionale della crisi, il nuovo ministero non poteva non avere colore di Destra. A comporlo fu così chiamato dal Sovrano, il marchese ANTONIO STARABBA di RUDINÌ, palermitano e nemico giurato di Crispi, il quale, dopo la morte di LANZA, SELLA e MINGHETTI, era considerato il capo della Destra.

RUDINÌ costituì il nuovo Gabinetto il 6 febbraio del 1891, assumendo la presidenza del Consiglio, gli Esteri e l'interim della Marina (ministero che fu alcuni giorni dopo assegnato all'ammiraglio di SAINT-BON); l'Interno fu affidato a NICOTERA, le Finanze a GIUSEPPE COLOMBO, il Tesoro a LUIGI LUZZATTI, i Lavori Pubblici e l'interim delle Poste e Telegrafi ad ASCANIO BRANCA, la Grazia e Giustizia a LUIGI FERRARIS, la Pubblica Istruzione a PASQUALE VILLARI, la Guerra a LUIGI PELLOUX e l'Agricoltura a BRUNO CHIMIRRI.
Unici ministri della sinistra: Nicotera e Branca.

Il 14 febbraio1891, DI RUDINÌ espose al Parlamento il suo programma preannunciando un regime di economie e un mutamento d'indirizzo rispetto alla politica espansionistica coloniale. La sua sarebbe stata la politica del "raccoglimento e delle economie"; per la politica interna si sarebbero curati l'economia e il decentramento amministrativo e si sarebbe iniziata una legislazione sociale; per la politica finanziaria si sarebbero ritoccate alcune leggi fiscali e riformati gli istituti di emissione, che avrebbero avuto il servizio di tesoreria; inoltre si sarebbero toccati "con mano prudente, ma risoluta, tutti i bilanci, compresi quelli della Guerra e della Marina, per usare ovunque e per tutti, la massima parsimonia"; infine per la politica estera si sarebbe badato a, non abbassare la dignità nazionale, sarebbero state mantenute le alleanze e si sarebbe mostrato alle altre nazioni, specie alla francese, che l'Italia non aveva propositi aggressivi.
Riguardo all'Africa Di Rudinì affermò che avrebbe cercato di restringere le spese.

NEGOZIATI ITALO-INGLESI
PER LA DELIMITAZIONE DEI CONFINI TRA L'ERITREA E IL SUDAN

In Africa Di Rudinì trovava che l'Italia aveva due nemici dai quali doveva guardarsi: gli Abissini e i Dervisci; questi non erano meno pericolosi di quelli. Facendo i Dervisci frequenti incursioni nella colonia italiana ed essendo costrette le truppe di presidio ricacciarli ed inseguirli, Crispi aveva creduto necessario, nel febbraio del 1890 di entrare in trattative con l'Inghilterra per la delimitazione dei confini tra l'Eritrea e il Sudan; ma il 10 ottobre i negoziati erano stati interrotti, perché il governo italiano avrebbe voluto occupare definitivamente Cassala, mentre il Governo inglese pretendeva che l'occupazione di questa città durasse fino alla riconquista del Sudan da parte dell'Egitto.

DI RUDINÌ riprese le trattative che portarono alla firma di due protocolli (Roma, 24 marzo e 15 aprile del 1891) con cui si delimitavano le rispettive zone d'influenza dell'Italia e dell'Inghilterra. In quella italiana furono compresi l'Abissinia, il paese dei Galla e il Caffa. Inoltre all'Italia fu accordata la facoltà di occupare temporaneamente Cassala se era necessario per esigenze militari.

COMMISSIONE D'INCHIESTA PER I FATTI DI CAGNASSI E LIVRAGHI

Nel marzo l'on. COLAIANNI presentò un'interpellanza alla Camera sulle crudeltà commesse in colonia dal tenente dei carabinieri LIVRAGHI e dall'ufficiale di polizia CAGNASSI. Il 6 marzo DI RUDINÌ dichiarò che il Governo intendeva aprire un'inchiesta e il giorno 11 si svolse alla Camera la discussione sull'"affare Livraghi". Alcuni deputati volevano che si nominasse una Commissione parlamentare d'inchiesta, ma il presidente del Consiglio comunicò di aver provveduto alla nomina di una Commissione reale, composta dei senatori Borgini ed Arnò, del generale Driquet e dei deputati Cambray-Digny, San Giuliano, L. Ferrari e F. Martini.

Nella seduta del 29 aprile iniziò alla Camera la discussione dei tre seguenti disegni di legge;
1° -Autorizzazione di spesa per provvedere ad un'inchiesta disciplinare ed amministrativa nella Colonia Eritrea;
2° - Autorizzazione della spesa di tre milioni da iscriversi al capitolo 39 dell'assestamento del bilancio 1890-91 del Ministero della Guerra;
3° - Modifica all'assestamento della spesa del Ministero degli Affari Esteri per l'esercizio finanziario 1890-91.

DISCUSSIONE PARLAMENTARE SULLA POLITICA E GLI INTERESSI ITALIANI IN AFRICA
La discussione più che i tre suddetti argomenti dei disegni investì la politica e gli interessi dell'Italia in Africa. BOVIO chiamò responsabile il ministero Crispi di non aver saputo trarre profitto dalla morte del Negus Giovanni e di aver aiutato Menelick e propose che si ritirasse il corpo militare, che "rimanesse un manipolo di lavoratori a Massaua, un piccolo presidio che lo proteggesse e si dichiarasse trasformata la Colonia, senza sogni d'impero africano o di protettorato. Se poi la Colonia non si poteva trasformare civilmente in alcun modo, unica via di salute sarebbe stato il ritiro completo".

IMBRIANI notò che la Colonia era diventata strettamente militare, che il Governo civile non aveva mai funzionato e così si erano avute le vergogne del Livraghi e altro; e volendo dimostrare essere l'Africa divenuta scuola di corruzione comunicò che era stato catturato un "sambuco" carico di 35 giovinette schiave che erano poi state distribuite fra ufficiali. Quest'affermazione fece nascere vive proteste e la seduta fu tolta.
La discussione fu ripresa il 30 aprile. L'IMBRIANI parlò del Trattato d'Uccialli e sostenne essere necessario andare via dall'Africa; l'on. DANIELI disse "�essere folli volere imporre con le armi il protettorato in Abissinia" e propose che si riducessero notevolmente le spese per la colonia; l'on. PERRONE di San Martino sostenne la bontà della posizione commerciale di Massaua, che in Abissinia si doveva acquistare un imperio morale con benefici non con conquiste materiali; l'on. DEL BALZO fu d'avviso essere più utile non stipulare alcun trattato con popoli barbari e doversi restringere la nostra occupazione al triangolo Massaua-Asmara-Cheren; l'on. MENOTTI GARIBALDI affermò che nel triangolo suddetto, da lui visitato, non aveva riscontrato possibilità di colonizzazione ma che, nonostante ciò, non si doveva abbandonare la colonia; l'on. FRANCHETTI disse che qualunque atto di debolezza verso Menelick sarebbe stato pericolosissimo ed avrebbe distrutto ogni nostro prestigio; infine l'on. SOLA, ultimo oratore della seduta, parlò della marcia su Adua e dell'opera dei missionari francesi.
Nella tornata del 1° maggio parlarono l'on. Prinetti. che sostenne la necessità del riordinamento della Colonia, e l'on. TURBIGLIO, che prevedeva una grossa guerra con l'Abissinia e proponeva al Governo o di ritirarsi completamente dall'Africa o di rimanervi piantandosi solidamente sul ciglione di Gundet di fronte alla valle del Mareb.
Nella seduta del 5 maggio l'on. BONGHI affermò che il meglio che da noi si poteva fare in Africa era di rinunziare all'art. 17 del trattato di Uccialli, di ripristinare le buone relazioni con Menelick e di restringere quanto più fosse possibile la nostra occupazione; l'on. ANTONELLI fece una breve relazione dell'azione italiana in Africa e dell'opera propria presso Menelick; il presidente del Consiglio DI RUDINÌ dichiarò che la politica del Governo in Africa non sarebbe stata che politica di pace, di lavoro e di giustizia, che l'occupazione militare doveva considerarsi come un fatto transitorio, che non credeva opportuno né di avanzare né di retrocedere, ma credeva che la Colonia dovesse gradatamente trasformarsi in Colonia civile e commerciale, che infine era suo pensiero mantenere militarmente il triangolo Massaua-Cheren-Asmara, finanziandola con una spesa annua di 8 milioni.

Il 6 maggio, chiusa la discussione, si passò allo svolgimento degli ordini del giorno AMBROSOLI, che invitava il Governo alla riduzione dell'occupazione militare; CAVALLETTO che proponeva di mantenere le posizioni acquistate; SONNINO che confidava nell'azione del Governo per la tutela degli interessi economici e militari della Colonia; DANIELI per il passaggio alla discussione degli articoli dei 3 disegni di legge, e BOVIO che invitava il Governo al ritiro dall'Africa.
La Camera votò sull'ordine del giorno Danieli che fu approvato con 196 voti contro 38 e 3 astenuti. Nella stessa seduta, i tre disegni di legge furono approvati senza discussione e nella seduta del 7 votati a scrutinio segreto con i risultati seguenti: 1° disegno: voti favorevoli 160, contrari 48; 2° disegno: favorevoli 168, contrari 39; 3° disegno: favorevoli 170, contrari 38.

Nella seduta del 15 giugno anche il Senato approvò i tre disegni di legge.
La Commissione reale d'inchiesta, partita il 9 aprile, fu di ritorno il 28 giugno. La relazione, distesa da Di SAN GIULIANO, non solo si occupava dell'affare Cagnassi e Livraghi, ma delle condizioni della Colonia. Si sosteneva che l'Eritrea, con il tempo, poteva servire come un parziale sfogo all'emigrazione italiana e bastare finanziariamente a se stessa, ma che non bisognava limitare l'occupazione militare al triangolo Massua-Cheren-Asmara, bensì estenderla fino al Mareb e rafforzarla stringendo amichevoli relazioni con le popolazioni vicine.

LA POLITICA TIGRINA - IL CONVEGNO DEL MAREB

Conseguenza dell'inchiesta fu che il Governo, abbandonando la politica scioana dell'Antonelli, inaugurò una politica tigrina, suggerita anche dal contegno del Negus, il quale, comunicando alle potenze i confini del suo impero indipendente, vi aveva compresa, parte dei territori italiani e della costa dancala.
Scopo della nuova politica era quello di creare imbarazzi a Menelick e d'interporre tra lui e la colonia uno stato indipendente sotto lo scettro di ras MANGASCIA. Questa politica tigrina iniziò il 6 dicembre del 1891 sulle rive del Mareb, con un solenne convegno tra il generale GANDOLFI e ras MANGASCIA, presenti molti capi tra cui ras ALULA, nel quale convegno le due parti stipularono un patto d'amicizia e di pace e presero accordi per un'azione comune contro i Dervisci; e MANGASCIÀ riconobbe all'Italia il confine Mareb-Belesa-Muna.

IL GENERALE GANDOLFI SOSTITUITO DAL COL. BARATIERI


Nel marzo del 1892 il governatore GANDOLFI fu sostituito dal colonnello BARATIERI; comandante militare fu nominato il colonnello ARIMONDI.

UCCISIONE DEL CAPITANO BETTINI

In quello stesso mese il capitano LIONELLO BETTINI, mentre da Molasenai, dove era andato a disporre una banda a servizio di pubblica sicurezza, ritornava con tre soldati ad Az-Johannes, veniva aggredito da un'ottantina di predoni e dopo una fiera resistenza, ucciso.

Il 23 marzo 1892, DI RUDINI, rispondendo ad un'interrogazioni dell'on. DI SAN GIULIANO e dell'on. L. FERRARI sull'uccisione del capitano Bettini e sulle condizioni politiche e di pubblica sicurezza in Eritrea, dichiarava che le condizioni della colonia non erano mutate, né erano mutati i criteri che guidavano la politica del Governo italiano.
Contro questa politica svolsero interpellanze nella seduta del 10 di aprile gli onorevoli LUCIFERO ed ANTONELLI, che criticarono aspramente il convegno del Mareb. Prese anche la parola FERDINANDO MARTINI il quale fece notare che:
"tutte le volte che si parla di Africa, il presidente del Consiglio non riesce a celare un sentimento di noia prodotto da indifferenza. Da tale indifferenza del Governo riguardo all'Africa nasce poi l'indifferenza del paese".
Quello che diceva Martini era una grande verità che lo stesso Di Rudinì riconosceva. Se non noia, sentiva amarezza quando si parlava dell'Africa.
"Il tempo e l'esperienza, se mi persuadono che non si può e non si deve indietreggiare, non giunsero sinora a convincermi che si fece bene ad avanzare. Certo fa pena il pensare che noi dobbiamo fare molti sforzi per tenere questa posizione che occupiamo senza prossime prospettive di benefici. Noi siamo come una sentinella che sta al suo posto; ci stiamo e ci staremo. Ma mi lasci pur dire che io, per conto mio, non ci sto con letizia".

Questi, purtroppo, erano i sentimenti che albergavano nell'animo del presidente italiano del Consiglio, quando l'Italia aveva bisogno di un capo che avesse coscienza coloniale, la infondesse al paese e seguisse nei riguardi dell'Abissinia una politica illuminata e/o vigorosa.

Ma oltre poca decisione in Africa, nel corso del '91 erano accaduti altri fatti importanti in politica estera: con gli imperi centrali (rinnovo della "Triplice"); con la Francia i rapporti all'inizio sembravano distensivi (si sperava di ottenere un grosso prestito a Parigi dai Rotschild) poi erano diventati nuovamente tesi; e il trattato Franco-Russo
Inoltre furono notevoli pure i fatti di politica interna: dimostrazioni di protesta contro la disoccupazione; repressione per la manifestazione del 1° Maggio; TURATI e la KULISCIOFF preparano a Milano la nascita del Partito dei Lavoratori; il movimento sindacale di da strutture organizzative più solide con la creazione delle Federazioni di mestiere e di Camere del lavoro; i cattolici "transigenti" vogliono scendere in campo per partecipare alla vita politica formando un partito conservatore composto da elementi della destra e del cattolicesimo; ed infine proprio dentro il cattolicesimo, Papa Leone XIII pubblica una delle più importanti encicliche del secolo: la "Rerum novarum" "sulla condizione degli operai"; obiettivo: accrescere l'influenza della Chiesa fra i lavoratori, formulando un vasto programma d'intervento nelle questioni economiche e sociali, come l'"associazionismo di soli operai", l'"associazionismo sindacale cattolico". Tutto questo mentre sono in fermento sulle stesse problematiche, gli anarchici, le leghe socialiste, gli operaisti, i repubblicani, i radicali.
Sono gli anni dello sviluppo del movimento operaio e la diffusione tra le masse del socialismo. Sono le conseguenze dello sviluppo in senso capitalistico dell'industria e dell'agricoltura, il peggioramento delle condizioni di esistenza dei lavoratori, che stimolano le proteste del proletariato italiano e lo spingono a cercare nuove forme associative.
Ma tutti questi sforzi sono anche accompagnati dall'incremento della conflittualità sociale, e in parallelo nuove leggi di pubblica sicurezza consentiva ampi margini di discrezionalità alla polizia e poneva ostacoli, attuando la repressione - e in certi casi con la spietatezza- alle libertà di riunioni, in "nome della salvaguardia dell'ordine pubblico".
Tutti questi fatti li passiamo in rassegna uno ad uno, ora e nei prossimi capitoli

RINNOVO TRIPLICE ALLEANZA - TESTO
IL TRATTATO INTESA FRANCO-RUSSA

Nell'esporre il programma del Governo appena salito al potere, DI RUDINÌ aveva assicurato il Parlamento che si sarebbero mantenute le alleanze; nei primi giorni del marzo del 1891, rispondendo ad alcune interpellanze sulla politica estera, dichiarò che intendeva tenere fede alla Triplice, la quale non solo non rappresentava una minaccia alla Francia, ma costituiva una garanzia per la pace europea.
La Francia, spalleggiata dai radicali e repubblicani italiani, fece di tutto per distaccare l'Italia dagl'imperi centrali, ma non vi riuscì; conseguì anzi l'effetto opposto. Infatti, DI RUDINÌ non solo rimase nella convinzione che, uscendo dalla Triplice, l'Italia sarebbe entrata in un isolamento molto pericoloso, ma si affrettò a rinnovare l'alleanza.
Questa scadeva nel 1892. Fu rinnovata il 6 maggio del 1891. Quel giorno, a Berlino, fu stipulato il terzo Trattato della Triplice Alleanza; valido 6+6 anni, unificando in un solo testo quelli stipulati nel '82 e '87 (fra Austria e Italia, e Italia e Germania) stabilendone l'interdipendenza e aggiunto un articolo che prevede la cooperazione italo-tedesca nel caso sia reputato impossibile mantenere lo "status quo" in Africa. Assicurandosi in tal modo l'Italia la possibilità di occupare Tripoli in Libia anche indipendentemente da manovre espansionistiche da parte della Francia.

Il nuovo "Trattato" conteneva precisamente i seguenti articoli:
(testo originario riprodotto fedelmente)

Berlino, 6 maggio 1891.

Rappresentanti: per l'Austria conte Emerico SZÉCHÉNY
per la Germania generale LEONE von CAPRIVI
per l'Italia conte EDOARDO DE LAUNAY

I. - Le Alte Parti contraenti si promettono scambievolmente pace ed amicizia e non entreranno in alcuna alleanza o impegno diretto contro uno dei loro Stati. Esse s'impegnano a procedere ad uno scambio d'idee sulle questioni politiche ed economiche di natura generale che potessero presentarsi e si promettono inoltre il loro mutuo appoggio nei limiti dei loro propri interessi.
II. - Nel caso in cui l'Italia, senza provocazione diretta da parte sua, fosse attaccata dalla Francia per qualunque siasi motivo, le due altre Parti contraenti saranno obbligate a prestare alla parte attaccata, aiuto e assistenza con tutte le loro forze. Questo stesso obbligo incomberà all'Italia nel caso di un'aggressione non direttamente provocata dalla Francia contro la Germania.
III. - Se una o due delle Alte Parti contraenti, senza provocazione diretta da parte loro, venisse ad essere attaccata e a trovarsi impegnata in una guerra con due o più grandi Potenze non firmatarie del presente trattato, il 2casus foederis" si presenterà simultaneamente per tutte le Alte Parti contraenti.
IV. - Nel caso che una grande potenza non firmataria, del presente trattato minacciasse la sicurezza degli Stati di una delle altre Parti contraenti, e la parte minacciata si vedesse perciò costretta a farle la guerra, le due altre parti si obbligano ad osservare verso la loro alleata una neutralità benevola. Ciascuna di esse si riserva, in questo caso, la facoltà di prendere parte alla guerra, se lo giudica opportuno, per fare causa comune con il suo alleato.
V. - Se la pace di una delle alte Parti contraenti venisse ad essere minacciata nelle circostanze previste dagli articoli precedenti, le alte Parti contraenti si concerteranno in tempo utile sulle misure da prendere in vista di un'eventuale cooperazione. Esse s'impegnano fin d'ora, in ogni caso di partecipazione comune ad una guerra, a non concludere né armistizio, né pace, né trattati che di comune accordo.
VI. - La Germania e l'Italia, non avendo in vista altro che il mantenimento, per quanto possibile, dello "status quo" territoriale in Oriente, s'impegnano di usare della loro influenza per prevenire sulle coste e isole ottomane nel mare Adriatico e nel mare Egeo ogni modificazione territoriale che portasse danno all'una o all'altra delle potenze firmatarie del presente trattato. Esse si comunicheranno, a questo effetto, tutte le informazioni tali da illuminarle scambievolmente sulle loro disposizioni, come su quelle delle altre Potenze.
VII. - L'Austria-Ungheria e l'Italia, non avendo di mira che il mantenimento, per quanto è possibile, dello "status quo" territoriale in Oriente, s'impegnano a usare della loro influenza per prevenire ogni modificazione territoriale che recasse danno all'una o all'altra delle Potenze firmatarie del presente trattato. A questo effetto esse si comunicheranno tutte le informazioni tali da illuminarle mutualmente sulle loro proprie disposizioni come su quelle delle altre Potenze. Tuttavia nel caso che, in seguito ad avvenimenti, il mantenimento dello "status quo" nella regione dei Balcani o delle coste o isole ottomane nell'Adriatico e nel Mar Egeo divenisse impossibile, e che sia in conseguenza dell'azione di una terza Potenza, sia altrimenti, l'Austria-Ungheria o l'Italia si vedessero nella necessità di modificarlo con un'occupazione temporanea o permanente da parte loro, questa occupazione non avrà luogo se non dopo un accordo preventivo fra le due sopradette Potenze, accordo basato sul principio di un compenso reciproco per ogni vantaggio territoriale in più dello "status quo" attuale e tale da dare soddisfazione agli interessi e alle pretese ben fondate delle due Parti.
VIII. - Le stipulazioni degli articoli VI e VII non si applicheranno in alcun modo alla questione egiziana circa la quale le alte Potenze contraenti conservano rispettivamente la loro libertà d'azione, avendo sempre riguardo ai principi su cui riposa il presente trattato.
IX. - La Germania e l'Italia s'impegnano a dar opera per il mantenimento dello "status quo" territoriale nelle regioni nord-africane sul Mediterraneo vale a dire la Cirenaica, la Tripolitania e la Tunisia. I rappresentanti delle due Potenze in queste regioni avranno istruzione di tenersi nella più stretta intimità di comunicazioni e mutua assistenza. Se disgraziatamente, in seguito ad un maturo esame della situazione, la Germania e l'Italia riconoscendo l'una e l'altra che il mantenimento dello "status quo" diviene impossibile, la Germania, s'impegna, dopo un accordo formale e preventivo, ad appoggiare l'Italia in ogni azione che, sotto forma di occupazione o di altra presa di garanzia, quest'ultima dovesse intraprendere per un interesse di equilibrio e di legittimo compenso. È inteso che per simile eventualità le due Potenze cercherebbero di mettersi d'accordo con l'Inghilterra. - Se avvenisse che la Francia facesse atto di estendere la sua occupazione o il suo protettorato o la sua sovranità, sotto qualunque forma, sui territori nord-africani, e che in conseguenza di tal fatto l'Italia, per salvaguardare la sua posizione nel Mediterraneo, credesse dover essa stessa intraprendere un'azione sui detti territori nord-africani, oppure ricorrere, sul territorio francese Europa, ai mezzi estremi, lo stato di guerra che ne seguirebbe tra l'Italia e la Francia costituirebbe "ipso facto", su domanda dell'Italia e a carico comune dei due alleati, il "casus foederis" con tutti gli effetti previsti dagli articoli II e V del presente trattato, come se simile eventualità vi fosse contemplata espressamente.
XI. - Se le sorti di qualunque guerra intrapresa in comune contro
la Francia portasse l'Italia, a cercare delle garanzie territoriali verso la Francia, per la sicurezza delle frontiere del Regno e della sua posizione marittima, come anche in vista della stabilità della pace, la Germania non vi porrà alcun ostacolo, e al bisogno, e in una misura compatibile con le circostanze, si applicherà a facilitare i mezzi di raggiungere un simile scopo.
XII. - Le alte Parti contraenti si promettono mutualmente il segreto sul contenuto del presente trattato.
XIII. - Le potenze firmatarie si riservano di introdurvi ulteriormente, e sotto forma di protocollo e di comune accordo le modifiche, la cui utilità fosse dimostrata dalle circostanze.
XIV. - Il presente trattato resterà in vigore per sei anni a partire dal giorno delle ratifiche; ma, se non andrà denunziato un anno avanti dall'una o dall'altra della alte Parti contraenti, esso resterà in vigore per la durata di altri sei anni.
XV.- Le ratifiche del presente trattato saranno scambiate a Berlino in un lasso di quindici giorni, o più presto se far si può".
Berlino, 6 maggio 1891.

Quello stesso giorno furono sottoscritte le seguenti dichiarazioni relative all'Inghilterra:


1°. - Salvo riserva d'approvazione parlamentare per le stipulazioni effettive che derivassero dalla presente dichiarazione di principio, le alte Parti contraenti si promettono, da questo momento, in materia economica (finanze, dogane, ferrovie) oltre al trattamento della nazione più favorita, tutte le facilitazioni e tutti i particolari vantaggi che saranno compatibili con le esigenze di ciascuno dei tre Stati e coi loro rispettivi impegni con terze potenze.
2° - L'accessione dell'Inghilterra essendo di già acquisita, in principio, alle stipulazioni del trattato che concernono l'Oriente propriamente detto, cioè i territori dell'Impero ottomano, le alte Parti contraenti s'impegneranno, al momento opportuno, e per quel tanto che le circostanze lo comporteranno a provocare una accessione analoga riguardo i territori nord-africani della parte centrale e occidentale del Mediterraneo, Marocco compreso. Questa accessione potrebbe realizzarsi per mezzo dell'accettazione da parte dell'Inghilterra, del programma stabilito negli articoli IX e X del trattato di questo giorno".

Il 28 giugno 1891, in seguito a un'interpellanza di BENEDETTO BRIN sulla politica estera, che provocò un tumulto clamoroso, DI RUDINÌ dichiarò che l'Italia, se voleva il mantenimento della pace in Europa, doveva rimanere unita agli imperi centrali, e due giorni dopo annunziò al Senato il rinnovo della Triplice Alleanza.

La notizia del rinnovo anticipato ovviamente allarmò ed irritò la Francia, dove si sperava di potere indurre il Di Rudinì a dare un indirizzo francofilo alla politica estera italiana. Credendo necessario di opporre al blocco delle potenze centrali un altro blocco, il governo francese iniziò trattative per un'alleanza con la Russia, non contenta della Germania, che tendeva ad avvicinarsi all'Inghilterra. I negoziati non furono lunghi e furono in breve coronati da buon successo. Il 22 luglio la flotta francese fu entusiasticamente accolta a Kronstadt; il 27 agosto, a Parigi, vi fu tra i due Governi uno scambio di note in cui si dichiarava che le due nazioni si impegnavano ad accordarsi su tutte le questioni che miravano al mantenimento della pace e dell'equilibrio in Europa; l'8 ottobre il ministro degli Esteri RIBOT, in un discorso a Bepeaume, accennò chiaramente all'amicizia cordiale tra la Francia e la Russia.

Quattro giorni prima, a Nizza, si era inaugurato il monumento a Giuseppe Garibaldi e il Governo francese aveva voluto dare alla cerimonia un carattere di affermazione di possesso sulla regione. Alle celebrazioni intervennero dall'Italia numerosi radicali francofili come a voler protestare contro l'Italia per il rinnovo della Triplice. Fra questi, CAVALLOTTI il quale dichiarò che il "plebiscito aveva fatto francese Nizza", provocando le alte e patriottiche proteste di CRISPI.

PROVOCAZIONE DI PELLEGRINI FRANCESI A ROMA

L'irritazione francese per il rinnovo della Triplice Alleanza non produsse soltanto il trattato con la Russia e la cerimonia di Nizza. Le tariffe differenziali contro le merci italiane furono mantenute e furono intensificati i pellegrinaggi francesi al Vaticano con evidente carattere di ostilità alla nazione italiana.
Il 2 ottobre, anniversario del plebiscito romano, molti di questi "pellegrini francesi", durante una loro visita al Panteon, scrissero nel registro dei visitatori della tomba di Vittorio Emanuele I, "Viva il papa-re!":
Gli insolenti pellegrini furono arrestati e la notizia dell'oltraggio, diffusasi in Italia, causò non poche dimostrazioni antifrancesi ad anticlericali, fra cui una massonica, capitanata da ADRIANO LEMMI, che chiese l'abolizione delle Guarentigie.
L'episodio del 2 ottobre e le successive dimostrazioni causarono un'eco al Parlamento austriaco, dove il deputato dì Bolzano ZALLINGER sollevò la "questione romana", dicendo che essa non era una questione interna d'Italia, ma una "questione internazionale", e dichiarando che i cattolici reclamavano la libertà e l'indipendenza della Santa Sede e la sovranità fondata sopra un proprio territorio. Il cancelliere KALNOKY, pur affermando di voler desiderare una piena indipendenza al Pontefice, fece notare che l'Italia era alleata dell'Austria e che questa doveva cercare di non offenderla e di rappacificarla con il Papa.

DISCUSSIONE PARLAMENTARE SULLA POLITICA ECCLESIASTICA

Il 9 novembre 1891, Di Rudinì, pronunziando un discorso alla Scala di Milano, parlò delle relazioni con la Francia, accennò alla politica ecclesiastica e chiamò statutaria e perciò intangibile la legge delle Guarentigie. Alcuni giorni dopo, il 15 novembre, inaugurandosi a Palermo l'Esposizione nazionale, intervennero il Re, la Regina, e il Principe di Napoli, ma non si recarono al Duomo, dove stava ad aspettarli il Capitolo metropolitano, perché alla testa del capitolo stesso non si era voluto mettere il cardinale arcivescovo, il quale fece risalire la causa della sua astensione alle dimostrazioni antireligiose per l'episodio del Panteon e alla qualifica di "concubinato" che era stata dalla legge data al matrimonio religioso degli ufficiali.

Le dichiarazioni fatte nel Parlamento austriaco furono oggetto di una interpellanza del CAVALLOTTI, svolta il 3 dicembre del 1891 insieme con un'altra dello stesso deputato sulla portata della legge delle Guarentigie di fronte al diritto pubblico Italiano:
"Io mi aspetto - disse fra l'altro il Cavallotti - in risposta, dalla cortesia del ministro presidente del Consiglio, una parola, la quale dica chiaro ciò che pensi l'Italia di qualsiasi pretesa estera d'ingerenza nei nostri rapporti con il Papato; una parola, la quale, anche di fronte all'offerta, sia pur fatta in forma cortese, di amichevoli uffici di Governi esteri per risolvere le cose tra il Papa e noi, rispecchi il linguaggio di quella splendida circolare del ministro Mancini, del luglio 1881, agli agenti diplomatici nostri all'estero. Nella quale ingiungeva di astenersi verso i Governi, presso cui erano accreditati, "da qualsiasi discussione ufficiale od ufficiosa sulla questione romana, essendo una questione interna, in cui non era ammessa l'ingerenza straniera".

Alla discussione partecipò BOVIO, che volle precisare:

".... Io .... non abolirei immediatamente la legge delle Guarentigie, pensando che da questa soppressione immediata e quasi violenta il Papa ne tragga vantaggio assai più che prima. Non l'avrei fatta, non è statutaria, non l'avrei neppure votata; ma trovandola e sopprimendola sentirei di fare cosa meno profittevole allo Stato che alla Chiesa. Io, invece, avvierei lo Stato verso quel termine fisso che è la laicità sua, sottraendo di continuo ora un istituto, ora un altro al dominio di una religione ufficiale o prevalente; in modo che io lascerei l'articolo primo in capo allo Statuto come un gufo morto appeso sul frontone di un vecchio castello ....".

BONGHI (era stato lui il relatore nel 1871) fu del parere che la legge delle Guarentige non si doveva toccare. Essa "non è, diciamolo pure, internazionale, è, sì, legge nostra interna, ma a un patto che tutte le nazioni, le quali hanno interesse nella durata e nella libertà del Pontefice, abbiano ragione di essere fermamente persuase che essa è e resterà la legge nostra .... La legge delle Guarentigie voleva dirimere un conflitto: non vi è riuscita .... in questi venti anni .... Ora pretenderete che una forma di religione, così vecchia come il Cattolicesimo, si sarebbe potuta in venti anni divezzare da abitudini contratte da secoli? Sarebbe stata una vana speranza. Il Papato credo protesti ancora per le ghinea che il Regno di Napoli, che non esiste più, e non gli manda più".

Parlarono anche l'on. EMANUALE GRANTURCO e l'on. CRISPI. Questi dichiarò che se fosse rimasto ancora un po' al potere avrebbe modificata la legge, a molti articoli della quale, quando si era discussa, era stato contrario:
"Dire che quella legge sia statutaria è un errore, che sia immutabile, peggio. E se pure avessi commesso l'errore di dirla statutaria, ciò non avrebbe influito sulla sua essenza, dato che tutti sanno avere io sempre sostenuto che lo Statuto è mutabile, modificabile anch'esso".

A tutti rispose DI RUDINÌ, il quale si mostrò addolorato perché proprio nel Parlamento italiano si era sollevata le "questione romana". Dopo aver affermato che per prima l'Austria aveva proclamato il carattere interno delle guarentigie, dichiarò che lui aveva, nel discorso di Milano, definita statutaria ed immutabile la legge solo perché anche i suoi predecessori l'avevano giudicata tale, ma che non aveva inteso dare a quelle parole un senso letterale tanto più che spesso aveva mostrato di appartenere, in materia di legge, alla scuola evoluzionista. "Io sono convinto che i poteri, i quali hanno fatto una legge, hanno anche la piena facoltà di disfarla".

Chiusa la discussione, la Camera con 248 voti contro 92 approvò l'indirizzo della politica interna ed ecclesiastica del Governo. Ma in verità la politica interna del Ministero di Rudinì non lasciava per nulla contento il paese, provato dalle audacie degli anarchici e dei socialisti; il 23 aprile del 1891 (degno di nota per l'abolizione dello scrutinio di lista e per il ritorno al collegio uninominale ante 1882) era scoppiata a Roma la polveriera di Monteverde producendo milioni di danni, uccidendo molte persone e ferendone duecentocinquanta, e, sebbene l'inchiesta avesse concluso trattarsi di un caso incidentale, moltissimi erano rimasti persuasi che lo scoppio fosse stato causato dagli anarchici.

ABOLIZIONE DELLO SCRUTINIO DI LISTA
I TUMULTI DEL 1° MAGGIO

La settimana dopo, il 1° Maggio, tumulti e conflitti erano avvenuti in più parti d'Italia; ma i più gravi furono proprio quelli di Roma: qui, in Piazza Santa Croce, dopo un comizio dei partiti estremi, avevano avuto luogo scontri sanguinosi tra dimostranti e truppe e si erano avuti due morti e trentasei feriti, tra cui l'on. SALVATORE BARZILAI. Attaccato alla Camera da IMBRIANI e da altri, NICOTERA, ministro dell'Interno, aveva esposto la teoria della "necessità di reprimere e prevenire"; ma ben presto sentì il bisogno di modificare la legge di pubblica sicurezza dando facoltà ai prefetti e ai questori di sciogliere quei comizi e quelle riunioni che avrebbero turbato l'ordine pubblico o mostrati propositi ostili alle istituzioni e alle autorità.

LA LETTERA DI F. CRISPI AL RE PER LA FORTIFICAZIONE DI BISERTA

DI RUDINÌ - affermano alcuni storici- ebbe il gran merito, in politica estera, di comprendere l'importanza della Triplice Alleanza e di averla rinnovata. Altro suo merito, fu quello di aver firmato i trattati commerciali con gli imperi centrali. Di fronte a questi meriti, una gravissima colpa: quella di aver lasciato che la Francia fortificasse Biserta.
Sebbene non più né premier né ministro, avendo saputo che a Biserta si erano ripresi i lavori di fortificazione, il 14 febbraio del 1892 FRANCESCO CRISPI fa sentire la sua voce, scrivendo al re questa lettera:
"Sire ! Qual'è la miglior politica, lasciar fortificare Biserta o impedire che sia fortificata? Delle due vie l'Italia, sotto il mio ministero, scelse la seconda. La questione fu trattata a Londra e a Berlino. Lord Salisbury, in conseguenza dei nostri reclami, interpellò due volte Waddington su questo argomento; e l'ambasciatore francese assicurò Sua Signoria in modo positivo che il suo governo non mirava a fare di Biserta un porto militare. Ciò risulta da un telegramma giuntoci da Berlino il 28 gennaio 1891. Da due dispacci del 5 e del 13 agosto 1890 fummo informati che, circa la questione tunisina, Von Caprivi aveva detto al nostro incaricato d'affari che "la Germania non trascurerebbe gli interessi italiani e saprebbe all'occasione fare onore agli impegni contratti verso di noi". A sua volta il conte di Kalnoky il 5 agosto 1890 faceva al conte Nigra, sullo stesso argomento, la seguente dichiarazione: "Il governo Austro-Ungarico è disposto associarsi a qualunque azione diplomatica, insieme alle altre potenze amiche, in favore dell'Italia".

Io devo credere che nulla fu fatto negli ultimi dodici mesi che il mio successore ha tenuto il ministero degli affari Esteri. Dovrò anche supporre che sia rimasto senza risposta un dispaccio giunto da Londra alla Consulta dopo il 31 gennaio 1891. Intanto è accertato che a Biserta sono cominciate le opere di fortificazione ! Con Biserta e Tolone i Francesi diverrebbero gli assoluti padroni del Mediterraneo. A Lord Salisbury io scrissi un giorno che ciò avverandosi, l'Inghilterra non sarebbe più sicura a Malta e che potrebbe essere cacciata dall'Egitto. Sarebbero ancora maggiori i pericoli per noi, si renderebbe necessario munire potentemente la Sicilia e la Sardegna, le quali in caso di guerra sarebbero le prime ad essere minacciate. Né basta: dovremmo tenere dei forti eserciti nelle due grandi isole del Regno e sempre occupata la nostra flotta nelle acque africane. Per munire potentemente la Sardegna e la Sicilia occorre un'enorme spesa, e al Tesoro italiano mancano i mezzi. Comunque, in un momento in cui il governo di V. M. è obbligato a fare dolorose economie, è strano che per una falsa politica il governo medesimo debba essere causa di una nuova spesa. Quello che causerebbe una Biserta fortificata fu fatto palese a Berlino; e fu aggiunto che qualora scoppiasse la guerra, e la Germania fosse attaccata, noi non potremmo disporre di tutte le nostre forze; dato che saremmo costretti a collocare la maggior parte delle truppe nel sud per prevenire gli attacchi che sicuramente ci verrebbero dal mare, ed in conseguenza per difenderci.
Quando la Francia occupò Tunisi promise che non n'avrebbe fatto una piazza di guerra. Oggi fortificando Biserta, il governo della Repubblica non solamente manca alla promessa, ma muta lo "status quo" nel Mediterraneo.
Con gli accordi del 12 febbraio e del 24 marzo 1887, la Gran Bretagna, l'Italia e l'Austria-Ungheria si impegnarono a non permettere che questo mutamento avvenisse e, in ogni caso, si obbligarono a procedere d'accordo. Io non porto la questione alla Camera, perché una pubblica discussione su un così grave argomento nuocerebbe gli interessi nazionali. Io poi personalmente, raccoglierei nuovi odi dai Francesi senz'alcun beneficio per il nostro paese: e mi taccio. Il silenzio del Parlamento e l'inerzia dei Ministri, mi permetta, Sire, di dirlo schiettamente e lealmente, non salvano il Re dalla sua responsabilità verso la Patria comune. Costituzionalmente V. M. non è responsabile di quello che avviene, ma lo è moralmente dinanzi alla Nazione; V.M. ne è il Capo e il tutore. Ora l'avvenire della Nazione può essere compromesso dalla politica attuale".

Ma della lettera del grande statista non fu tenuto conto. CRISPI non aveva invece tutti i torti ed era stato anche profetico. Infatti, non molto tempo dopo un ministro francese, GABRIELE HANOTAUX, si poteva permettere di dire "Biserta prende il Mediterraneo per la gola".

LA POLITICA FINANZIARIA DEL MINISTRO DI RUDINl
DIMISSIONI DEL MINISTRO RESPINTE
IL NUOVO PROGRAMMA FINANZIARIO


Il 2 marzo del 1891, dopo il varo del governo Rudinì., LUIGI LUZZATTI, ministro del Tesoro, dichiarando alla Camera che il programma del Governo si basava sull'economia, annunciava che era sua intenzione di coprire il disavanzo di 48 milioni con 45 milioni di economie e con 3 milioni che si sarebbero ottenuti dalla riforma degli istituti di emissione.
Economie, in verità, se ne fecero, ma non furono tali né tante da rimettere in sesto la finanza, e di non nuocere contemporaneamente agli interessi dello Stato. Fra le economie sbagliate ci fu quella che danneggiò le scuole italiane all'estero le cui spese furono ridotte a 100 mila lire con grande sdegno di Crispi, il quale scrisse a BRIN, che si era opposto a tale riduzione, la lettera seguente:
"Centotrentatre mila lire non potevano far fallire l'Italia. Cancellate, segnano la barbarie di coloro che tolgono alla nuova Italia la gloria di spandere la civiltà nei paesi nei quali le nostre piccole repubbliche portarono i germi del progresso. Tutto ciò a danno della nostra influenza all'estero ed a beneficio dell'influenza dei preti e della Francia".

Nel discorso tenuto nel novembre alla Scala di Milano, DI RUDINÌ enunciò le cause del dissesto: "Nell'ebbrezza dei tempi felici si concepirono i più vasti disegni; si costruì una rete ferroviaria nella quale furono spesi ed impegnati oltre 4 miliardi di lire; si iniziarono e portarono a termine lavori fluviali, porti, fari, bonifiche, strade rotabili, nelle quali si impegnò in un sol decennio oltre mezzo miliardo; si è dato un rapido svolgimento ai servizi dell'agricoltura, dell'istruzione, delle arti belle e dell'archeologia; si provvide alla marina mercantile con premi e sovvenzioni; si è voluto riordinare con larghi concetti i servizi carcerari e sanitari, e fu proclamato il principio della carità legale.
Si è voluto, nel tempo stesso, un'armata possente e si costruirono grandiosi arsenali, dai quali uscirono le più poderose navi che abbiano mai solcato le onde del mare. Con tenacità di propositi si è costituito un forte e numeroso esercito; e così il bilancio della guerra, che nel 1881 toccava appena i 215 milioni di lire, si elevò nel 1888-89 alla superba altezza di 410 milioni; quello della marina, che nel 1878 si era limitato all'umile cifra di 46 milioni, salì in 10 anni a 162 milioni.

"Correvamo, purtroppo, a tutto vapore verso uno scoglio nascosto dalla fitta nebbia delle nostre illusioni e delle nostre speranze,ma quando il pericolo fu vicino, si levò un grido di dolore e di minaccia, che costrinse i nostri predecessori a rallentare la corsa. E noi? Noi ci siamo risolutamente fermati, e ora intendiamo che si indietreggi".

DI RUDINÌ, insomma dichiarò che il tempo della finanza allegra era finito e che bisognava restaurare la finanza e il credito, chiamò il ministero la "compagnia della lesina", accennò ad un vasto decentramento che si doveva raggiungere raggruppando più province in regioni, annunciò nuove tasse e accertò che si sarebbe tra breve ottenuto il pareggio.

Ma le economie non erano -sufficienti a restaurare il bilancio, e il 1° dicembre 1891, LUZZATTI, facendo l'esposizione finanziaria, dichiarò che, essendo necessario 30 milioni annui per le costruzioni ferroviarie e prevedendosi non superiore ai 7 milioni l'avanzo nel bilancio del 1892-93, avrebbe chiesto al Parlamento 23 milioni di nuove entrate.

Riguardo al tesoro, LUZZATTI anziché il consolidamento del debito, sostenne di preferire l'istituzione di buoni con la scadenza media di sette anni e mezzo. Il Parlamento, dopo vivace discussione, approvò il decreto catenaccio del 22 novembre 1891, che doveva fruttare circa 14 milioni, e un disegno di legge che inaspriva le tasse giudiziarie.
Era purtroppo il fallimento del programma ministeriale. Invece che con le economie si tentava di restaurare il bilancio aumentando le entrate con nuove imposte. Ciononostante il 17 marzo (su proposta di GIOLITTI) fu votata la fiducia al governo che ottenne 261 voti a favore 157 contrari.

CADUTA DEL GABINETTO DI RUDINÌ

Ma ben presto un dissidio sorse tra il ministro delle finanze GIUSEPPE COLOMBO il quale era ostile agli inasprimenti fiscali prospettati dagli altri ministri per colmare il disavanzo e voleva invece i tagli di spese, e fra questi le spese militari proponendo che i corpi dell'Esercito fossero ridotti di numero. Ovviamente il più infuriato di tutti fu il ministro della guerra LUIGI PELLOUX. A quel punto RUDINÌ presentò le dimissioni e il 13 aprile del 1892 tutto il Gabinetto si dimise.

Il re respinse le dimissioni, ma solo dal ministro delle finanze Colombo, e riaffida l'incarico a Rudinì; ma nessuno volle accettare il portafoglio delle Finanze; dove ci si poteva "bruciare", perché una cosa era certa, ed era chiara sui banchi del Parlamento, che anche al successore non era possibile fare ricorso a nuove imposte o aumentare quelli esistenti a causa di una forte depressione economica che attraversava tutto il regno.

L'interim del ministero fu infine affidato a LUZZATTI. Il 4 maggio il Gabinetto si ripresentò alla Camera. Luzzatti sciorinò altre cifre sul disavanzo del bilancio 1892-93, che sarebbe stato di 33 milioni, e propose anche lui due aumenti di tasse: di successione in linea indiretta e il monopolio dei fiammiferi; poi chiese pieni poteri per due anni per le riforme amministrative.
Ne seguì una discussione molto vivace. Il solito IMBRIANI tuonò contro la Triplice Alleanza e la politica coloniale, "�la causa della rovina della finanza italiana"; BOVIO si disse contrario, in politica, alla via di mezzo: "O politica di grandi Potenze e tesoro delle grandi Potenze; o politica italiana, secondo la finanza italiana"; poi GIOLITTI cercò di dimostrare che i provvedimenti finanziari proposti non erano sufficienti, perché le due imposte avrebbero dato un gettito di soli 10 milioni, e piuttosto realista disse:
"Ora io chiedo alla Camera se, di fronte alla gravità delle condizioni finanziarie
che abbiamo davanti, di fronte alla gravità delle questioni relative all'ordinamento del credito, di fronte alle gravi condizioni della circolazione monetaria, di fronte alla crisi economica del paese, noi possiamo considerare come rimedio sufficiente ed efficace due piccole imposte e dei pieni poteri per cambiare i ruoli degli impiegati".

Di fronte agli attacchi generali, RUDINÌ dichiarò che l'impotenza del Governo era prodotta dallo stesso Parlamento. "Non è il ministero che può essere accusato di non sapere quello che esso si voglia e quello che possa essere utile al paese. L'incertezza, o signori, è in voi, che combattete le entrate; è in voi, che combattete le riforme organiche; in voi, che rispondete a tutto: no, no, no!"

L'on. GRIMALDI presentò un ordine del giorno di fiducia nel Ministero, che fu negata da 193 voti contro 185 ed 8 astenuti; al Gabinetto Di Rudinì non gli rimase altro da fare che dare le dimissioni.

Ma nella critica situazione non era facile cercare un sostituto, come capo di governo e come ministro delle finanze. Il Re affidò l'incarico al presidente del Senato FARINI, che però rifiutò. Crispi pure, dicendo che era ormai vecchio, ma dandogli alcuni suggerimenti.
Alla fine il sovrano il 15 maggio 1992, non affidò l'incarico, ma nominò Presidente del Consiglio GIOVANNI GIOLITTI, adottando una procedura che il Farini giudicò al limite della legalità, in quanto la nomina precedeva la formazione del governo.

L'accoglienza che riservarono a GIOLITTI in Parlamento, fu quanto mai brusca ed umiliante.
Imbriani, riferì la frase di Cesare Balbo "In tempi minori, a principi minori, ministri minori"; poi lo stesso Imbriani aggiunse "Sarà questa la spiegazione del minor valore progressivo, o meglio del continuo degradamento dei Ministeri; va bene che l'Italia ha la forma di uno stivale, ma non per questo deve essere continuamente trattata da ciabattini".

Il 25 Maggio 1892, entra in carica il "ciabattino".

GIOLITTI�inizia il suo primo periodo dal 1892 al 1893 > > >

Fonti, citazioni, e testi
Prof. PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - (i 5 vol.) Nerbini 1930
COMANDINI - L'Italia nei cento anni - Milano 1907
MACK SMITH, Storia del Mondo Moderno - Storia Cambridge X vol.
MONDADORI . Le grandi famiglie d'Europa - I Savoia. 1972
PATRUCCO C. Documenti su Garibaldi e la massoneria - Forni 1914
O' CLERY - The making of Italy - Kegan&Trubner, Londra 1892
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
CRONOLOGIA UNIVERSALE - Utet 
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
STORIA D'ITALIA Cronologica 1815-1890 -De Agostini
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