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( QUI TUTTI I RIASSUNTI )  RIASSUNTO ANNI 1890-1891

L'ASMARA-NEGUS - TRATTATO DI UCCIALLI - CRISPI IN CRISI

BALDISSERA GOVERNATORE A MASSAUA - COMBATTIMENTO DI SAGANEITÌ - IL CONTE ANTONELLI E LA POLITICA SCIOANA - MORTE DEL NEGUS GIOVANNI - IL TRATTATO DI UCCIALLI - RAS MAKONNEN IN ITALIA - LA CONVENZIONE ADDIZIONALE AL TRATTATO DI UTCCIALLI - L'AZIONE DI BALDISSERA - OCCUPAZIONE DI CHEREN E DI ASMARA - IL GENERALE ORERO SOSTITUISCE BALDISSERA - LA "COLONIA ERITREA" - LA MARCIA SU ADUA - L'ART. 17 DEL TRATTATO DI UCCIALLI - RICHIAMO DEL GENERALE ORERO - LA MISSIONE ANTONELLI PRESSO MENELICK - AZIONE DI CRISPI PER IMPEDIRE L'ANNESSIONE DELLA TUNISIA ALLA FRANCIA E LA FORTIFICAZIONE DI BISERTA - L'INCONTRO TRA I CRISPI E IL CANCELLIERE TEDESCO CAPRIVI - DIMISSIONI DEL GIOLITTI - L'INAUGURAZIONE DELLA XVII LEGISLATIURA - DIMISSIONI DEL MINISTERO CRISPI
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BALDISSERA GOVERNATORE A MASSAUA

 

Dopo il ritiro da Sabarguma del negus Giovanni - come si è detto nel precedente capitolo - la maggior parte del corpo di spedizione italiano guidato da SAN MARZANO rimpatriò, e a Massaua, in qualità di governatore e di comandante superiore delle truppe rimase il maggior generale ANTONIO BALDISSERA.
Questi si diede subito a riordinare le truppe, i servizi militari e civili e cominciò ad allacciare relazioni d'amicizia con le tribù vicine per estendere l'influenza italiana e prepararsi per l'occupazione dell'altipiano.

Primo obbiettivo fu Cheren, che il 26 luglio 1889, fu occupata dalle bande alleate all'Italia del "barambaras" KAFIL. Intanto un altro gruppo indigeno a servizio dell'Italia, guidato da un certo DEBEB; avventuriero tigrino, che aveva disertato quando il Negus e il San Marzano stavano uno di fronte all'altro, rifugiatosi nell'Accheli Guzai, organizzava incursioni contro le tribù già sottomesse agli italiani. Il generale BALDISSERA pensò di farlo sorprendere a Saganeiti, dove il Tigrino risiedeva, e incaricò dell'impresa il capitano CORNACCHIA il quale, con 400 "bascibuzuch", quattro ufficiali (i tenenti BRERO, POLI, VIGANÒ E VIRGINI) e la banda di ADAM agà (300 uomini), mosse il 4 agosto del 1889 da Uaà per la via di Italia-Hevo.

COMBATTIMENTO DI SAGANEITI

Il piccolo corpo all'alba dell'8 agosto 1889, occupò d'assalto il villaggio di Saganeiti, ma non vi trovò DEBEB, il quale, avvertito, si era posto con i suoi sulle alture vicine. La colonna CORNACCHIA, circondata ed assalita da forze di molto più numerose subì gravissime perdite.
Morti il comandante e i quattro ufficiali con 200 uomini di truppa, rimasti feriti 76, i superstiti si ritirarono e raggiunsero alla spicciolata Massaua. Questo doloroso episodio diede luogo ad aspre critiche contro il Baldissera, il quale chiese il richiamo, ma il Governo, costatato che il generale non era responsabile dell'insuccesso, gli confermò la fiducia.
Non solo con le armi BALDASSERA cercava di estendere l'influenza italiana in Africa, ma anche con la politica. Nel campo politico però egli non era solo: aveva un concorrente autorevole e fortunato nel conte PIETRO ANTONELLI, l'ardito viaggiatore, che si era accattivata l'amicizia di MENELICK, che nel 1883 aveva, come abbiamo già visto, stipulato un trattato segreto con lui, ed ora, accarezzandone le ambizioni, si proponeva di servirsene a vantaggio dell'Italia contro il Negus e di farlo salire sul trono con il suo aiuto.

IL CONTE ANTONELLI E LA POLITICA SCIOANA

Gli eventi pareva che favorissero la politica antonelliana. Il re del Goggiam, TECLA ANNANOT, si era ribellato al Negus GIOVANNI e questi, nonostante avanzò con tanta sicurezza verso Saati, si era dovuto ritirare. Un'azione combinata tra le truppe italiane e le truppe scioane avrebbe avuto facilmente ragione del Negus il quale per giunta aveva contro di sé un altro nemico potente, i Dervisci che, penetrati in Etiopia, avevano incendiato Gondar.

MENELICK sapeva che Giovanni sospettava di lui, avendolo ras ALULA e DEBEB accusato presso il Negus di avere istigato l'Italia alla spedizione di Massaua e di essere d'accordo con il re del Goggiam. Minacciato da GIOVANNI e temendo di essere spodestato, il re dello Scioa si diede da fare per prepararsi ad una guerra quasi certa e chiese armi all'Italia, promettendo di vendicare gli Italiani caduti in Africa.

Nell'estate del 1888, latore di lettere di MENELICK, il conte ANTONELLI giunse in Italia per indurre il Governo ad accettare le proposte del re dello Scioa. CRISPI inviò alcune migliaia di fucili e si mostrò disposto ad accettare quello che MENELICK proponeva, ma disse di volere garanzie di territori e di ostaggi e rimandò l'Antonelli in Africa incaricandolo di dire a MENELICK di attaccare il Negus, contro il quale poi sarebbero andate le truppe italiane.

Ma MENELICK faceva la politica del temporeggiatore e intendeva trarre profitto dall'azione di altri. Aveva promesso aiuti a TECLA AIMANOT, ma quando il Goggiam fu invaso e messo a ferro e a fuoco dal Negus non impegnò neppure un solo uomo; aveva promesso al governo italiano di operare insieme contro GIOVANNI, ma quando questi andò a Sabarguma, lui non si era mosso. Ora, invece di attaccare il Negus, impaurito dalle sue minacce, faceva da un canto atto di sottomissione e dall'altro sollecitava gli italiani a salire sull'altipiano.

MORTE DEL NEGUS GIOVANNI

Erano a questo punto le cose quando il Negus GIOVANNI re d'Abissinia, con un esercito di settantamila uomini marciò contro i Dervisci, ma presso Metemma, nelle sanguinose giornate del 10 ed 11 marzo del 1889 le sue orde furono sconfitte e lui stesso fu colpito mortalmente.
Il 25 marzo 1889, ANTONELLI telegrafava a Roma informando CRISPI della morte di Giovanni: "L'esercito del Tigrè è completamente distrutto. Sono morti, oltre il Negus, ras Area, zio del Negus, ras Ailh Mariam e diversi altri capi: Ras Alula e ras Michel si sono salvati con poche forze. Re Menelick si trova presso Uollo Galla diretto a Gondar, ove si incoronerà re dei re. In questa qualità firmerà il trattato .... Sarebbe necessario che Vostra Eccellenza ordini di occupare e fortificare Asmara".

Il giorno dopo MENELICK in una lettera a Re UMBERTO confermava quanto aveva scritto l'Antonelli e pregava che gli Italiani occupassero con decisione Asmara, aggiungendo:
"Pregherei V. M. di dare ordine ai generali di Massaua di non ascoltare le parole dei ribelli che si trovassero dalla parte del Tigrè e d'impedire il passaggio delle armi".
I ribelli erano ras ALULA e ras MANGASCIÀ, figlio di Giovanni. Quest'ultimo aspirava lui alla corona imperiale e rappresentava quindi l'unico ostacolo alle ambizioni di MENELICK, come abbiamo visto già salito sul trono.
Alcuni giorni dopo, e precisamente il 5 aprile, il senatore PARENZO svolgeva un'interpellanza sulle intenzioni del Governo dopo la morte del Negus. Rispondeva CRISPI che "per l'Italia poteva essere grande la tentazione e non minore la seduzione, ma che il Governo non si sarebbe lasciato né sedurre né tentare. Ma poiché il Parlamento si era sempre rifiutato di ritirare le truppe da Massaua, qualche profitto conveniva trarre dalla posizione acquistata con tanti sacrifici".

Il 7 e l'8 maggio furono svolte alla Camera alcune interpellanze sulla situazione in Africa. L'on. SONNINO interrogò il Governo intorno alle ragioni che lo avevano indotto, mentre si trovavano in stato di guerra con l'Abissinia, a non approfittare degli ultimi rivolgimenti là avvenuti, per assicurare il confine che strategicamente era necessario alla sicurezza dei nostri possedimenti ed al benessere dei nostri presidi. Necessaria ora, secondo l'oratore, era l'occupazione di Asmara, Zazega e Cheren, che ci avrebbe dato il comando della via per Sabarguma e Massaua, della valle del Mareb e della valle dell'Anseba.
Altre interpellanze svolsero gli onorevoli DI BREGANZE, che riteneva dannoso mantenere a Roma la direzione del servizio d'Africa; ROUX e COSTA si dichiararono contrari ad ogni ulteriore avanzata in Africa; SPROVIERI, spronava il Governo ad andare avanti; RICCIO che voleva che ci si fermasse a Massaua; DELLA VALLE consigliava di lasciare al Governo libertà d'azione; BONGHI sostenne che non avevamo il diritto di occupare e colonizzare parte dell'Abissinia.

CRISPI rispose che non poteva dire che cosa il Governo avrebbe fatto, che bisognava lasciargli la facoltà di giudicare ciò che conveniva fare e in quale occasione, e che si sarebbe ispirato sempre al concetto di tutelare il nome, la dignità e gli interessi d'Italia. Quanto a Menelick affermava che si era proclamato imperatore e che era intenzionato ad impadronirsi del supremo potere.

IL TRATTATO DI UCCIALLI

ANTONELLI intanto era riuscito a indurre MENELICK a stipulare, il 2 maggio del 1889, un trattato di amicizia e di commercio con l'Italia, che fu detto di Uccialli dalla località in cui fu concluso. E gli riconobbe la legittimità del potere in Abissinia. Mentre lui accetta le conquiste dell'Italia in Etiopia. Così recitava il trattato:

"Sua Maestà Umberto I, Re d'Italia, e Sua Maestà Menelick II, Re dei re d'Etiopia, allo scopo di render proficua e durevole la pace fra i due Regni d'Italia e d'Etiopia, hanno stabilito di concludere un trattato d'amicizia e di commercio. E S. M. il Re d'Italia, avendo delegato come suo rappresentante il Conte Pietro Antonelli, Commendatore della Corona d'Italia, Cavaliere dei SS. Maurizio e Lazzaro, i cui pieni poteri furono riconosciuti in buona e debita forma, e S. M. il Re Menelick, stipulando in proprio nome quale Re dei Re d'Etiopia, hanno concordato e concludono i seguenti articoli:

I. - Vi sarà pace perpetua ed amicizia costante fra S. M. il Re d'Italia e S. M. Il Re d'Etiopia e fra i loro rispettivi eredi, successori, sudditi e popolazioni protette.
II. - Ciascuna delle parti contraenti potrà essere rappresentata da un agente diplomatico presso l'altra e potrà nominare consoli, agenti ed agenti consolari negli Stati dell'altra.
III. - A rimuovere ogni equivoco circa i limiti dei territori sopra i quali le due parti contraenti esercitano i diritti di sovranità, una Commissione speciale, composta di due delegati italiani e due etiopici, traccerà sul terreno, con appositi segnali permanenti, una linea di confine, i cui capisaldi siano stabiliti come appresso:
a) la linea dell'altipiano segnerà il confine etiopico-italiano;
b) partendo da Arafali, Halai, Saganeiti ed Asmara saranno villaggi nel confine italiano;
c) Adi Nefas e Adi Johannes saranno dalla parte dei Bogos nel confine italiano; d) da Adi Johannes una linea retta prolungata da est ad ovest segnerà il confine italo-etiopico.
IV. - Il convento di Debra Bizen con tutti i suoi possedimenti resterà proprietà del Governo etiopico, che però non potrà mai servirsene per scopi militari.
V. - Le carovane da o per Massaua pagheranno sul territorio etiopico un solo diritto dì dogana di entrata dell'8 per cento sul valore della merce.
VI. - Il commercio delle armi e munizioni da o per l'Etiopia attraverso Massaua sarà libero per il solo Re dei Re d'Etiopia. Ogni qualvolta questi vorrà ottenere il passaggio di tali generi dovrà farne regolare domanda alle autorità italiane, munita del sigillo reale. Le carovane con carico di armi e munizioni viaggeranno sotto la protezione e con la scorta di soldati italiani fino al confine etiopico.
VII. - I sudditi di ciascuna delle due parti contraenti potranno liberamente entrare, viaggiare, uscire coi loro effetti e mercanzie nei paesi dell'altra e godranno della maggiore protezione del Governo e dei suoi dipendenti. E' però severamente proibito a gente armata di ambo le parti contraenti di riunirsi in molti o in pochi e passare i rispettivi confini con lo scopo di imporsi alle popolazioni e tentare con la forza di procurarsi viveri e bestiame.
VIII. - Gli Italiani in Etiopia e gli Etiopi in Italia o nei possedimenti italiani potranno comprare o vendere, prendere e dare in affitto e disporre in qualunque altra maniera delle loro proprietà non altrimenti che gli indigeni.
IX. - È pienamente garantita in entrambi gli Stati la facoltà per i sudditi di praticare la propria religione.
X. - Le contestazioni o liti fra Italiani in Etiopia saranno definite dall'Autorità italiana a Massaua o da un suo delegato e da un delegato dell'autorità etiope. Morendo un Italiano in Etiopia o un Etiope in territorio italiano, le autorità del luogo custodiranno diligentemente tutte le sue proprietà e le terranno a disposizione dell'autorità governativa a cui apparteneva il defunto.
XII. - In ogni caso per qualsiasi circostanza gli Italiani imputati di un reato saranno giudicati dall'Autorità Italiana. Per questo l'Autorità etiopica dovrà immediatamente consegnare all'Autorità italiana in Massaua gli Italiani imputati di aver commesso un reato. Egualmente gli Etiopi imputati di reato commesso in territorio italiano saranno giudicati dall'Autorità etiopica.
XIII. - S. M. il Re d'Italia e S. M. il Re dei Re d' Etiopia si obbligano a consegnarsi reciprocamente i delinquenti che possano essersi rifugiati, per sottrarsi alla pena, dai domini dell'uno nei domini dell'altro.
XIV. - La tratta degli schiavi essendo contraria ai principi della religione cristiana, S. M. il Re dei Re d' Etiopia s'impegna d'impedirla con tutto il suo potere in modo che nessuna carovana di schiavi possa attraversare i suoi Stati.
XV. - Il presente trattato è valido in tutto l'impero etiopico.
XVI. - Se nel presente trattato, dopo cinque anni dalla data della firma, una delle due alte parti contraenti volesse fare o introdurre qualche modifica, potrà farlo; ma dovrà prevenirne l'altra un anno prima rimanendo ferma ogni e singola concessione in materia di territorio.
XVII. - S. Maestà i1 Re dei Re di Etiopia "consente" di servirsi del governo di S. Maestà il Re D'Italia per tutte le trattazioni di affari che ha con altre potenze o Governi. (attenzione a questo "consente" che fu maltradotto in amarico in "poteva" - vedi più avanti. Ndr.)
XVIII. - Qualora S. M. il Re dei Re d'Etiopia intendesse accordare privilegi speciali a cittadini di un terzo Stato per stabilire commerci ed industrie in Etiopia, sarà sempre data, a parità di condizioni, la preferenza agl'italiani.
XIX. - Il presente trattato, essendo redatto in lingua italiana ed amarica e le due versioni concordando perfettamente fra loro, entrambi i testi si riterranno ufficiali e faranno sotto ogni rapporto pari fede.
XX .- Il presente trattato sarà ratificato, e le ratifiche saranno scambiate a Roma il più presto possibile. In fede di che il conte Pietro Antonelli, in nome di S. M. il Re d'Italia, e S. M. Menelick, Re dei Re d'Etiopia in nome proprio hanno firmato ed apposto il loro sigillo al presente trattato".

RAS MAKONNEN IN ITALIA - LA CONVENZIONE ADDIZIONALE

Dopo la firma di questo trattato, MENELICK inviò in Italia un' ambasceria diretta dal cugino ras MAKONNEN e guidata dall' ANTONELLI. Sbarcò a Napoli il 21 agosto; il 28 fu ricevuta con grande solennità al Quirinale. Il 29 settembre 1889 fu ratificato i1 trattato di Uccialli e il 1° ottobre, a Napoli, da FRANCESCO CRISPI e da ras MAKONNEN in nome dei loro sovrani, fu firmata la seguente convenzione addizionale:

"I. - Il Re d' Italia riconosce Re Menelick imperatore di Etiopia.
II. - Re Menelick riconosce la sovranità del Re d'Italia nelle colonie che vanno sotto il nome di possedimenti italiani nel Mar Rosso.
III. - In virtù dei precedenti articoli sarà fatta una rettifica dei due territori, prendendo a base il possesso di fatto attuale, per mezzo dei delegati che, a tenore dell'articolo 3° del Trattato dal 2 maggio 1889, saranno nominati dal Re d'Italia e dall'Imperatore di Etiopia.
IV. - L'Imperatore di Etiopia potrà far coniare poi suoi Stati una moneta speciale di un peso e di un valore da stabilirsi di comune accordo. Essa sarà coniata nelle zecche del Re d'Italia ed avrà corso legale anche nei territori africani posseduti dall'Italia. Se il Re d' Italia conierà una moneta per i suoi possedimenti africani, essa avrà corso legale in tutti i Regni dell'Imperatore d'Etiopia.
V. - Un prestito di quattro milioni di lire italiane dovendo essere contratto dall'imperatore d'Etiopia con una banca italiana, grazie alla garanzia del Governo d' Italia, resta stabilito che l'imperatore di Etiopia dà da sua parte al Governo italiano, come garanzia per il pagamento degli interessi e per l'estinzione della somma capitale, gli introiti delle dogane di Harras.
VI. - L'imperatore di Etiopia, mancando alla regolarità del pagamento delle annualità da convenirsi con la banca che farà il prestito, dà e concede al Governo italiano il diritto di assumere l'amministrazione delle dogane suddette.
II. - Metà della somma, ossia due milioni di lire italiane, sarà consegnata in monete di argento; l'altra metà, rimarrà depositata nelle Casse dello Stato italiano per servire agli acquisti che l'imperatore di Etiopia intende di fare in Italia.
VIII. - Resta inteso che i diritti fissi di dogana dell'articolo 5 del sopraccitato trattato tra l'Italia e l'Etiopia si applicheranno non solo alle carovane da o per Massana, ma a tutte quelle che scenderanno o saliranno per qualunque strada dove regna l'imperatore d'Etiopia.
IX. - Così pure resta stabilito che il terzo comma dell'articolo 12° del sopraccitato Trattato è abrogato e sostituito dal seguente: "Gli Etiopi che commetteranno un reato in territorio italiano saranno giudicati sempre dalle Autorità italiane".
X. - La presente convenzione è obbligatoria non solo per l'attuale imperatore di Etiopia, ma anche per i suoi eredi e successori nella sovranità di tutto o di parte del territorio sul quale Re Menelick ha dominio.
XI. - La presente convenzione sarà ratificata e le ratifiche saranno scambiate il più presto possibile".

L'11ottobre 1889, CRISPI, applicando l'articolo 34 dell'atto generale della Conferenza di Berlino del 26 febbraio 1885 notificò alle potenze l'articolo 17 del Trattato d' Uccialli secondo il quale l'imperatore d'Etiopia "consentiva" di servirsi del Governo italiano per tutte le trattazioni d'affari internazionali. Il 4 dicembre la missione abissina s'imbarcava a Napoli per Gerusalemme e Ras Makonnen telegrafava ad Umberto I ringraziandolo calorosamente dell'ospitalità ricevuta. La politica dell'Antonelli trionfava.

Diversa da quella, dell 'ANTONELLI era stata la politica del generale BALDISSERA. "Questo impareggiabile tipo di soldato - scrive Gualtiero Castellini - diffidava istintivamente della politica dell'Antonelli come di quella che favorendo capi di troppa importanza, quali Menelick, giocava un grosso rischio. Anche Baldissera tentava talora la politica di seduzione, ma, valendosi di capi minori e non giocando quindi mai le carte più arrischiate. Né aveva quella petulante baldanza proprio del soldato avventuriero che vede la salvezza soltanto nell'opera delle armi .... ma confidenza nell'opera graduale di penetrazione che andava compiendo e sopra tutto nella trasformazione della colonia che era in grado di compiere con le truppe nere, dalle quali era adorato.
Poche volte l'Italia ebbe di fronte al nemico un uomo di così lucido intuito e di
piena capacità e di così perfetto equilibrio. Troppo poco se ne valse".

Quando era giunta a Roma la notizia della morte del Negus, CRISPI avrebbe voluto l'occupazione di Cheren e di Asmara, ma BALDISSERA consigliava di aspettare il momento opportuno e lasciare frattanto che i capi abissini rivali si dilaniassero fra di loro. Le premure del governo, che aveva cieca fiducia nella politica dell'Antonelli, e il contegno insidioso di Ras Alula e Barambaras Kafil, che tramava contro l'Italia con il primo, indussero il generale all'occupazione di Cheren, effettuata il 2 giugno 1889 dalle colonne Escard e Di Majo, partite da Canfer e da Asus il 27 e il 28 maggio.

OCCUPAZIONE DI CHEREN E DI ASMARA

Si facevano i preparativi per marciare sull'Asmara, quando giungeva notizia che DEBEB, recatosi a Makallè presso ras MANGAGCIÀ, era stato imprigionato a tradimento e che ras Alula si preparare a ritornare nell'Hamasien. Allora il Baldissera affrettò l'operazione.

La notte del 3 agosto del 1899 una colonna italiana, protetta sulla destra da truppe comandate dal maggiore di Majo risalenti la valle del Dorfa, mosse da Ghinda e il mattino occupò Asmara. Il 16 agosto, essendosi saputo che ras ALULA marciava da Godofelassi su Gara, fu mandata, contro di lui una colonna, che l'obbligò a ritirarsi precipitosamente verso Adua.

Aveva luogo intanto la missione etiopica del Makonnen in Italia; ma BALDISSERA continuava a diffidare dì Menelick e a seguire la propria politica, tentando di accordarsi con ras Mangascià e con ras Alula. Però CRISPI disapprovava, telegrafandogli: "Ella vuole la pace con Alula, mentre io vorrei che fosse punito per le stragi di Dogali".

IL GENERALE OBERO

Allora il generale Baldissera, adducendo motivi di salute, chiese di essere richiamato in Italia ottobre) e nei primi del novembre del 1889 fu sostituito dal generale OBERO.

LA "COLONIA EULTREA" - LA MARCIA SU ADUA - RICHIAMO DELL'OBERO - LA MISSIONE ANTONELLI

Con decreto reale del 1° gennaio 1890, tutti i possedimenti italiani del Mar Rosso furono riuniti sotto una sola amministrazione con il nome di Colonia Eritrea. Il generale Orero, che aveva il supremo potere civile e militare, da Massaua trasferì all'Asmara il suo quartiere generale, donde, seguendo le direttive del Governo, poteva essere più utile a Menelick, che intanto avanzava verso la città santa di Axum per cingervi la corona imperiale; e il 2 gennaio scrisse a Crispi di volere occupare Adua, capitale del Tigrè, per consegnarla, poi direttamente a Menelick. L'Antonelli e il Menelick, che, di ritorno dall'Italia, erano giunti in Massaua, sapute le intenzioni del governatore, scrissero a Crispi sconsigliando l'avanzata su Adua, che avrebbe potuto allarmare l'imperatore; il Presidente del Consiglio telegrafò all' Orero di rinunziare all'occupazione della capitale del Tigrè; ma i telegrammi da Roma non giunsero in tempo a fermare il generale, che il 26 gennaio entrò in Adua, commemorandovi il 3° anniversario di Dogali.

CRISPI cercò di trarre profitto dell'occupazione di Adua fatta suo malgrado, ordinò all'Orero di rimanervi ed aspettarvi l'Antonelli e Makoxmen; ma il generale, avendo saputo che Menelick non veniva e aveva dato a ras Mangascià il comando ciel Tigrè, decise di ripassare il Mareb e ritornare all'Asmara. II Crispi, conosciuta l'intenzione del governatore, gli telegrafò:
"Lei è troppo suscettibile, e negli affari di Stato non bisogna prendere risoluzioni immediatamente dopo impressioni ricevute per notizie più o meno attendibili. Lei è precipitoso e non mi lascia neanche un momento a riflettere. In questo modo non si governa; e temo che, continuando così, il nostro accordo non potrà durare. Intempestivamente lei andò in Adua ed intempestivamente la vuole abbandonare .... Stia al suo posto ed attenda altro mio telegramma".

Ma era troppo tardi: l' ORERO era già tornato all'Asmara.
Ma intanto qualcosa di più grave che non fosse la condotta del generale Orero succedeva in Etiopia. Uno svizzero, l'ingegnere ILG, che poi divenne il consigliere ascoltatissimo del Negus, ed agenti francesi, russi, armeni e greci erano riusciti, intrigando e calunniando l'Italia, a cambiare completamente gli atteggiamenti di MENELIK. Gli si era, fra le altre cose, fatto notare che l'articolo 17 del Trattato d'Uccialli metteva l'Abissinia sotto il protettorato dell'Italia, essendo in esso detto che il Negus "consentiva" di servirsi del governo italiano per tutte le trattazioni di affari internazionali.
Fortuna per lui che nelle traduzione amarica (che come la redazione italiana, aveva valore ufficiale) del trattato si trovava una parola che alterava il significato dell'articolo 17: infatti, il traduttore aveva scritto che il Negus "poteva" servirsi, nelle relazioni con le altre potenze europee del governo italiano. In quello italiano il termine fu invece tradotto con un "consente".
Allora Menelick, protestandosi indipendente, aveva comunicato alle potenze europee la sua incoronazione ad imperatore d'Abissinia. E allegando la copia del suo trattato, con quel "poteva", faceva intendere chiaramente che lui disponeva della facoltà di rivolgersi non solo all'Italia ma anche servirsi delle relazioni delle altre potenze europee.

Il 23 febbraio 1890, Antonelli s'incontrò con MENELICK a Makallè; poco dopo il Negus ratificò la convenzione addizionale firmata a Napoli, ma fece le sue riserve circa la linea dei confini; verso la fine di marzo, nominato ras MANGASCIÀ governatore di Adua, l'imperatore se ne tornò verso lo Scioa.
Quel mese stesso, in Italia nelle sedute del 5 e del 6 marzo, ci furono alla Camera lo svolgimento delle interpellanze sull'Africa.
Parlarono l'on. PLEBANO, che consigliò il governo a diffidare di Menelick, violatore del trattato di Uccialli; l'on. GIULIANI che, fra l'altro, criticò la marcia su Adua; l'on. LUIGI FERRARI che svolse la seguente mozione: "La Camera, ritenendo che l'organizzazione coloniale debba essere autorizzata dal potere legislativo; che i trattati internazionali i quali implicano una modificazione del territorio dello Stato ad un onere finanziario non possono avere effetto senza l'approvazione del Parlamento, invita il Governo a sottoporre all'approvazione del Parlamento il regio decreto del 1° gennaio sulla Colonia Eritrea, ed a conformare la sua condotta in Africa alla corretta interpretazione dell'art. 5 dello Statuto"; l'on. GATTI-CASAZZA, che, fece notare che "nel disagio economico in cui versa il paese, ritengo inopportuna la politica coloniale del ministero"; poi parlarono BACCARINI, FRANCHETTI, DE ZERBI, TOSCANELLI, PANDOLCI e FERDINANDO MARTINI, a proposito del Trattato di Uccialli, e l'ultimo pose delle domande legittime, inquietanti, ma anche realisticamente profetiche: "Supponete che al vantato art. 17, il quale consacra il nostro protettorato sull'Etiopia, Menelick manchi, che lui lo violi: noi che cosa faremo? Andremo a punirlo nello Scioa? E faremo la guerra a chi si metterà in diretta comunicazione con lui? O ci rassegneremo a tollerare l'umiliazione?". Al Martini si associarono pure Bonfadini e Tittoni; parlarono inoltre gli onorevoli Filopanti, Odescalchi, Sonnino e Cavalletto.
Risposero il ministro della Guerra e il Presidente Crispi, difendendosi dall'accusa di aver violato lo Statuto e dichiararono che scopo del governo nella politica africana era di creare uno sbocco all'emigrazione e ai commerci italiani.
Dopo un ampio discorso di IMBRIANI, e repliche di FERRARI e di BACCARINI, fu respinta la mozione Ferrari ed approvato con 193 voti contro 55 e 5 astenuti un ordine del giorno di MENOTTI GARIBALDI favorevole al "prudente indirizzo della politica africana del Governo".

Nell'aprile del 1890 il generale ORERO chiese di essere richiamato in Italia e nel giugno successivo, fu sostituito dal generale ANTONIO GANDOLFI, che ebbe il titolo di Governatore civile e, a fianco, come vicegovernatore comandante delle truppe, il colonnello Oreste Baratieri, trentino, ex-garibaldino dei Mille, che era stato già in Africa con la spedizione San Marzano nel 1887-88.

Intanto alla Corte del Negus gli Italiani perdevano di giorno in giorno terreno e la prova fu la fredda accoglienza che il 9 luglio del 1890 ebbe ad Entotto, presso MENELICK il nuovo residente generale CONTE SALIMBENI. Questi cercò di risolvere le questioni pendenti con l'imperatore, ma Menelick non volle saperne di riconoscere il contenuto dell'articolo 17 del Trattato d' Uccialli nel testo italiano, né di concedere il confine del Mareb. In tal senso inoltre scrisse due lettere ad UMBERTO I nel settembre del 1890.

Il 14 ottobre CRISPI telegrafava a SALIMBENI:
"Assicuri Menelick che circa i confini, noi insistemmo per mantenere la linea del Mareb allo scopo di garantire all'imperatore la sua sovranità nel Tigrè, minacciata da molte pretese di altri pretendenti al suo trono di Re dei Re. In quanto all'articolo 17, fu tradotto da Josef, interprete dell'imperatore, e non da noi. Prima di notificarlo alle potenze avemmo il consenso di ras Makonnen; fu stampato su tutti i giornali che Makonnen si faceva sempre tradurre dai suoi interpreti, e non sollevò mai alcuna opposizione .... Per la questione dei confini può assicurare l'imperatore che il Governo italiano è disposto ad accontentarlo se egli ci garantisce la sicurezza delle nostre frontiere .... Ella deve fare in modo che la nostra condiscendenza nei confini sia compensata dall'accettazione da parte di Menelick dell'art. 17 come è nel testo italiano".

Ma a Salimbeni non gli riusciva a migliorare la posizione italiana presso l'imperatore. Il 20 novembre scrisse un rapporto dettagliato su tale situazione al ministero degli Esteri, quindi inviò in Italia, per dare maggiore informazioni al Governo, il dottor LEOPOLDO TRAVERSI, direttore della stazione geografica di Let-Marefià, il quale il 17 dicembre giunse ad Assab e il 10 gennaio 1891, per ordine superiore, dovette ritornare allo Scioa, dove nel frattempo era stato mandato in missione il conte ANTONELLI.
Questi aveva però perso l'ascendente che aveva su Menelick, il quale, del resto, oramai non aveva più bisogno dell'Italia, neppure per il rifornimento di armi, dato che (tempestivamente si era fatta avanti) la Francia e gli aveva offerto quarantamila fucili e dieci cannoni a tiro rapido.

Dopo lunghe discussioni, il 2 febbraio del 1891 MENELICK dichiarò all' ANTONELLI che si sarebbe servito sempre dell'Italia per la trattazione degli affari internazionali e che si accontentava che l'articolo 17 rimanesse com'era nei due testi fino alla scadenza del trattato. Inoltre l'imperatore assicurò che avrebbe confermato questa sua decisione con una lettera a Re Umberto.

II 6 febbraio Menelick consegnò all'Antonelli la lettera e lo invitò a firmare una dichiarazione in cui era detto, fra l'altro: "L'art. 17 resta quale è nei due testi". L'Antonelli firmò, ma più tardi si accorse di aver firmato un documento in cui invece era scritto che si stabiliva di "cancellare l'art. 17". Allora, sdegnato, reclamò la restituzione del documento, che lacerò in presenza del Negus, e decise di lasciare l'Abissinia con il conte SALIMBENI e il dott. TRAVERSI. Nella visita di congedo (11 febbraio) l'Antonelli protestò per aver l'imperatore mancato alla parola data, ma il Negus si scusò dicendo che quando aveva proposto di lasciare immutato l'Art.. 17 "gli girava la testa".

AZIONE DI CRISPI PER IMPEDIRE L'ANNESSIONE DELLA TUNISIA ALLA FRANCIA E LA FORTIFICAZIONE DI BISERTA

Mentre in Abissinia vi erano queste difficoltà, la Francia ne approfittava e non tralasciava con il suo contegno di creare per l'Italia altre altre gravi preoccupazioni nel Mediterraneo.
Nel luglio del 1890 (la sgradita visita di SALIMBENI A Menelick era avvenuta il 9 luglio !) il console italiano a Tunisi informava il suo governo che il 9 di quel mese tra il Bey e la Francia era stato stipulato un accordo per la cessazione della sovranità beylicale alla morte del Bey.

Appena ricevuta questa notizia, CRISPI scrisse all'ambasciatore Italiano a Berlino:
"Se la Germania lascerà eseguire il suddetto trattato del 9 luglio, a noi non solamente sarà sottratta nel Mediterraneo la libertà alla quale abbiamo diritto, ma il nostro territorio sarà sotto una continua minaccia...
L'occupazione francese di Tunisi nel 1881 produsse la caduta del Ministero. Il paese se ne addolorò, ma allora l'Italia era isolata. Oggi esiste la Triplice Alleanza, ed il mutamento della sovranità in Tunisi produrrebbe in Italia due conseguenze: il ritiro del Ministero attuale, e la persuasione nel popolo che a nulla giovi la Triplice Alleanza. Questa seconda conseguenza sarebbe fatale, e bisogna che il Gabinetto di Berlino ci pensi. Io sono convinto che se la Germania farà comprendere a Parigi che l'esecuzione del trattato del 9 corrente potrebbe produrre la guerra, il Governo della Repubblica cederà ad un accomodamento con l'Italia .... Bisogna quindi: o trovar modo d'impedire la dominazione assoluta francese in Tunisia, o premunirsi perché la Tripolitania sia data a noi come sola possibile garanzia di fronte all'aumento della potenza militare e marittima della Francia .... Noi vogliamo procedere d'accordo con i Gabinetti amici, ma siamo risoluti ad usare tutti i mezzi perché l'Italia non sia colpita da un fatto che sarebbe un disastro".

Il Governo francese smentì la voce della convenzione del 9 luglio; tuttavia CRISPI volle scrivere personalmente al conte inglese SALISBURY:
"Se questo mutamento di dominazione in Tunisia avvenisse senza contrasto e a nostra insaputa, la Tripolitania non tarderebbe ad avere la stessa sorte. Il governo della repubblica tende ad occupare questa regione, come stanno ad attestarlo le usurpazioni continue sulla frontiera. Si avrebbe allora che dal Marocco all'Egitto una sola potenza dominerebbe l'Africa del Nord, e che da questa potenza dipenderebbe la libertà del Mediterraneo. L'Italia dal canto suo, sarebbe sotto la minaccia incessante della Francia; Malta e l'Egitto non sarebbero per l'Inghilterra una garanzia sufficiente .... Se noi avessimo la Tripolitana, Biserta non sarebbe più una minaccia per l'Italia né per la Gran Bretagna. Noi siamo vostri alleati necessari, e la nostra unione vi garantirebbe la dominazione di Malta e dell'Egitto".

Il 31 luglio, CATALANI, incaricato d'affari a Londra, scriveva a CRISPI che SALISBURY l'aveva incaricato di telegrafare al presidente del Consiglio che egli "�è convinto che il giorno in cui lo "status quo" nel Mediterraneo, fosse alterato sarebbe necessario che l'Italia debba occupare la Tripolitania: Tale occupazione è richiesta dall'interesse europeo per impedire che il Mediterraneo diventi un lago francese. La sola questione da esaminare è l'opportunità del momento presente all'impresa. L'ostacolo principale ad un'occupazione immediata di Tripoli si troverebbe nella resistenza del Sultano, che dichiarerà guerra all'Italia.
Le condizioni della Turchia sono diverse da quelle dell'epoca della cessione di Cipro. La Turchia da sé sola non è da temersi, ma sarà appoggiata dalla Russia, che coglierà l'occasione di rendersi vassallo il Sultano, difendendone il territorio".
Catalani concludeva: "La chiave di Tripoli è in questo momento a Berlino. Una parola risoluta di Berlino conferirebbe a SALIMBURY l'ardire che gli manca".

Naturalmente CRISPI, mentre interessava della questione i Gabinetti di Londra e di Berlino, non trascurava di far sentire la sua voce a Parigi:
"Bisognerà persuadere codesti signori - scriveva all'ambasciatore in Francia MENABREA - che noi non potremo permettere alcun mutamento politico nella Tunisia, e che qualora il Governo della Repubblica assumesse la piena autorità della Reggenza, avremo con noi i nostri alleati. Il protettorato fu tollerato perché l'Italia era isolata, ma oggi non siamo più al 1881. La Tripolitania appartiene all'impero ottomano, e noi per averla non vorremo provocare una guerra europea. La Francia qualora si mostrasse disposta a facilitarcene il pacifico acquisto come compenso della Tunisia, dovrebbe adoperarsi con tutti i suoi mezzi a Costantinopoli ed a Pietroburgo, da dove ovviamente verranno le opposizioni. E' bene che questo sia messo in chiaro, perché a noi non basta il solo consenso della Francia per occupare il suddetto territorio".

Contemporaneamente CRISPI faceva passi in Tripolitania, presso i capi di quel villayet, per una probabile azione militare, come risulta da una comunicazione segreta del console GRANDE di Tripoli, in data del 7 agosto 1890, in cui si diceva che "HASSUNA CARAMANLI era disposto a coadiuvare la nostra occupazione, assicurava il concorso di gran parte della popolazione e dichiarava che l'elemento arabo non avrebbe aiutato la Turchia".
Mentre CRISPI si sforzava d'impedire alla Francia di farsi padrona assoluta di Tunisi, lo statista siciliano sorvegliava gli armamenti francesi a Biserta, contrari agli impegni assunti da Parigi nel 1881, e li denunciava alla Germania e all'Inghilterra. Quest'ultima fece rimostranze al Governo francese; ma il ministro degli esteri GOBLET dichiarò che i lavori del porto di Biserta erano stati intrapresi per scopi puramente commerciali.
Anche Ribot, più tardi fece le stesse dichiarazioni; ma il Crispi non fu per nulla persuaso e inviò al Salisbury un memorandum in cui mostrava quanto fosse pericolosa per l'Italia e per l'Inghilterra la fortificazione di Biserta.

L'INCONTRO DI CRISPI CON IL CANCELLIERE TEDESCO CAPRIVI

L'8 novembre nel colloquio avvenuto a Milano con il generale GEORG LEO von CAPRIVI, successo a Bismarck, CRISPI prospettò anche al nuovo cancelliere tedesco i pericoli che minacciavano l'Italia e di conseguenza la Triplice per gli armamenti di Biserta. Il Caprivi mostrò di capire l'importanza della cosa, ma disse che "...prima di reclamare era necessario che si completasse la trasformazione dei fucili in Germania potendo il reclamo suscitare una guerra".

ELEZIONI POLITICHE

Quindici giorni dopo il colloquio Crispi-Caprivi , il 23 novembre 1890, ci furono le elezioni politiche, precedute da un discorso, tenuto a Torino da Crispi, in cui, fra l'altro, il presidente del Consiglio fece rilevare quanto era stato fatto in pro dei meno abbienti e specialmente della classe operaia e promise una legge per gl'infortuni nel lavoro, la cassa nazionale delle pensioni per la vecchiaia e l'istituto dei probiviri. Poi Crispi aggiunse:
"�dei nuovi diritti non dovevano abusare gli operai", che ammoniva di "�guardarsi dagli errori dell'internazionalismo. La ragione della Patria dove vivere nel loro spirito e far sentire che, fratelli agli uomini di tutto il mondo, essi sono, come tutti noi, italiani anzitutto".

Le elezioni videro una scarsa affluenza alle urne. Su 2.752.173 aventi diritto, votarono soltanto 1.477.173, ossia poco più della metà.
Dalle votazioni Crispi uscì rafforzato con circa 402 deputati ministeriali, una sessantina di parlamentari dell'estrema sinistra, e una cinquantina della destra indipendente.
Il clima elettorale non fu per nulla sereno, per le misure e le pressioni prefettizie, per la violenta campagna di Crispi contro i radicali, oltre l'intransigenza dei soliti cattolici (nonostante l'Opera dei Congressi), e degli anarchici.

DIMISSIONI DI GIOLITTI

Nonostante l'enorme maggioranza che dovevano rendere formidabile il Gabinetto Crispi, questo, due giorni prima dell'apertura del parlamento, s'indebolì per le improvvise dimissioni di GIOLITTI (Finanze e Tesoro), causate da un dissenso con FINALI, (lavori Pubblici), che insisteva per ottenere un aumento di 12 milioni nel suo bilancio.
A sostituire Giolitti fu chiamato GRIMALDI, e prese lui il portafoglio delle Finanze e l'interim del Tesoro.

INAUGURAZIONE DELLA XVII LEGISLATURA

Il 10 dicembre del 1890 fu inaugurata la XVII Legislatura con un discorso della Corona. Il Re enumerò i disegni di legge che sarebbero stati discussi nella prima sessione.
Pochi giorni dopo l'on. IMBRIANI svolse un'interpellanza sull'esonero del SEISMIT-DODA e sulle dimissioni di GIOLITTI, accusando il governo d'incostituzionalità: "Noi non abbiamo altro che un governo personale: un ministro il quale cerca di seguire non le tradizioni rette della costituzionalità, ma invece di imitare le tradizioni delle cancellerie degli imperi feudali, e stabilire quindi, invece di un governo parlamentare e di Gabinetto, un Governo di Cancelleria, un governo tutto suo, dove le responsabilità dei ministri spariscono e non rimane che la responsabilità del Presidente del Consiglio".
Ma la mozione dell'IMBRIANI non ebbe fortuna e le dichiarazioni con cui rispose CRISPI furono approvate dalla Camera con 271 voti contro 10. Cioè un consenso al suo operato di "accentratore", decisamente schiacciante; ma era solo virtuale.
Abbiamo visto che alle elezioni l'asse della maggioranza (402 eletti) era risultato tutto spostato verso destra e molti dei parlamentari governativi erano dei conservatori o di centrodestra.
Ma se già prima era palese un'opposizione non trascurabile, da qualche tempo si andava organizzando contro il "dittatore" un forte dissenso, dalla sinistra (virtuale, che era più a destra che a sinistra) e dalla destra.

DIMISSIONI DEL MINISTERO CRISPI

Nel gennaio del 1891, CRISPI presentò un disegno di legge sul riordinamento delle prefetture e delle sottoprefetture, proponendone la soppressione di alcune. Il disegno passò in prima lettura. Il 28 GRIMALDI (che aveva sostituito Giolitti alle finanze e al tesoro) fece l'esposizione finanziaria, da cui risultò che il disavanzo pubblico del 1890-91 era di 45 milioni, e per far fronte al pareggio presentò una serie di proposte d'inasprimenti fiscali; un aumento di diritto di confine e della tassa di fabbricazione degli spiriti (da 120 a 160 lire l'ettolitro) e altri.
Discutendosi il 30 il disegno di legge sulle nuove tasse, RUGGERO BONGHI (1826-1895) (il fondatore de "La Stampa" di Torino, già ministro dell'istruzione; nel 1871 relatore della legge sulle Guarentigie) criticò aspramente la politica della Sinistra, e specie CRISPI, che in pochi anni aveva dissipato il pareggio, che con tanti sforzi era stato raggiunto dalla Destra.

CRISPI rispose il giorno dopo calmo, poi, irritato dalle frequenti interruzioni, si fece violento:
"Io non voglio - disse - dare alla discussione un carattere che possa menomamente dispiacere a certi oratori che hanno parlato. L'on. Bonghi ieri discusse lungamente e, accennando alla mia politica, disse parole abbastanza amare. L'on. Bonghi fu al potere dall'ottobre '74 al marzo '76. Il rispetto delle tombe m'impone di non esaminare l'amministrazione di quell'epoca. Potrei rispondere in modo da provare alla Camera come l'amministrazione di oggi, come la finanza di oggi, sono in condizioni abbastanza migliori di quelle di allora. Potrei dire qualche cosa di più: che allora non avevate né esercito e flotta, e che si devono a voi i danni di "una politica servile verso lo straniero"..

Successe un putiferio. Dai banchi della Destra, che si riteneva offesa dalle parole del presidente, si alzarono grida; il ministro FINALI indignato si allontanò dal bancone dei ministri fra gli applausi della Destra e dei Centri; il DI RUDINÌ, molto agitato, urlò al Crispi: "Vergognatevi ! Noi non abbiamo che servito la politica del nostro paese e del re".
Forse era giunto il momento che molti aspettavano per buttar fuori il "dittatore".
Da più parti si gridò: "Ai voti ! ai voti !" Crispi, dominando con la sua voce squillante i rumori dell'assemblea, disse:
"Ma date chiaro il vostro voto: io non voglio né voti sottintesi, né riserve future; voglio un voto sicuro, quale si deve ad un uomo onesto che sta qui come uno che adempia ad una missione .... Questo voto all'estero dirà se l'Italia vuole un governo forte o se vuole ritornare a quei governi, che con le esitazioni e colle incertezze produssero il discredito del nostro paese".

La votazione fu fatta su un ordine del giorno di fiducia al governo presentato dall'on. VILLA, che fu respinto con 186 voti contro 123.
Il giorno stesso il ministero presentò le dimissioni.

La formazione di un nuovo ministero non fu facile. I tentativi di dare vita ad un gabinetto di coalizione (con Giolitti o Zanardelli) furono fallimentari.

Dato il motivo scatenante, il nuovo ministero (di sinistra) non poteva non avere colore di destra.
E a comporlo fu chiamato il (considerato) capo della destra; siciliano anche lui, ma nemico giurato di Crispi: il marchese ANTONIO STARABBA DI RUDINÌ

� andiamo appunto a questo periodo dal 1891 al 1892 > > >


in pagine a parte, segnaliamo una importante enciclica, quella di LEONE XIII
La "RERUM NOVARUM"

Fonti, citazioni, e testi
Prof. PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - (i 5 vol.) Nerbini 1930
COMANDINI - L'Italia nei cento anni - Milano 1907
MACK SMITH, Storia del Mondo Moderno - Storia Cambridge X vol.
MONDADORI . Le grandi famiglie d'Europa - I Savoia. 1972
PATRUCCO C. Documenti su Garibaldi e la massoneria - Forni 1914
O' CLERY - The making of Italy - Kegan&Trubner, Londra 1892
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
CRONOLOGIA UNIVERSALE - Utet 
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
STORIA D'ITALIA Cronologica 1815-1890 -De Agostini
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