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( QUI TUTTI I RIASSUNTI )  RIASSUNTO ANNI 1879-1881

MINISTERO CAIROLI 2 e 3 - LA FRANCIA, L'ITALIA E LA TUNISIA

IL SECONDO E IL TERZO MINISTERO CAIROLI - IL DISCORSO DELLA CORONA PER L'INAUGURAZIONE DELLA TERZA SESSIONE DELLA XIII LEGISLATURA - I RAPPORTI ITALO-AUSTRIACI - GLI OPUSCOLI "ITALICAE RES" DEL HAYMERLE E "PRO PATRIA" DEL BOVIO E DELL'IMBRIANI - MORTE DEL GENERALE AVEZZANA - DISCUSSIONE PARLAMENTARE SULLA POLITICA ESTERA - DIMISSIONI DEL MINISTERO RESPINTE DAL RE - SCIOGLIMENTO DELLA CAMERA - INAUGURAZIONE DELLA XIV LEGISLATURA - DIMISSIONI DI FRANCESCO CRISPI RESPINTE - PROVVEDIMENTI FNARZIARI - ABOLIZIONE DELLA TASSA SUL MACINATO - DIMISSIONI DI G. GARIBALDI RESPINTE - ABOLIZIONE DEL CORSO FORZOSO - VIAGGIO DEI REALI IN SICILIA - L' ITALIA E LA FRANCIA NEL MEDITERRANEO - LA QUESTIONE DI TUNISI - POLITICA SLEALE DELLA FRANCIA - LA LOTTA ITALO-FRANCESE DI PREPONDERANZA IN TUNISIA - APPELLO A UMBERTO DELLA COLONIA ITALIANA DI TUNISI - PROTESTE FRANCESI - LA SPEDIZIONE FRANCESE IN TUNISIA - LA QUESTIONE DI TUNISI AL PARLAMENTO ITALIANO - LA PROPOSTA DELLO ZANARDELLI DI RINVIARE LA DISCUSSIONE E LA RISPOSTA DEL CAIROLI - DIMISSIONE DEL MINISTERO - IL RE LASCIA IN CARICA CAIROLI - L'ORDINE DEL GIORNO MANCINI - IL TRATTATO DEL BARDO - RITIRO DEL CAIROLI
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IL SECONDO E IL TERZO MINISTERO CAIROLI - I RAPPORTI ITALO-AUSTRIACI - GLI OPUSCOLI "ITALICAE RES" E "PRO PATRIA"
DISCUSSIONE SULLA POLITICA ESTERA
DIMISSIONI DEL MINISTERO RESPINTE DAL RE
SCIOGLIMENTO DELLA CAMERA.

L'On. BACCARINI, (come abbiamo visto nella precedente puntata) il 3 luglio del 1879, presentó un ordine del giorno per la sfiducia verso il Governo, che la Camera approvò con 251 contro 159.
Il ministero Depretis logicamente presentò le proprie dimissioni.

Contro DEPRETIS si era formata una momentanea coalizione fra la destra, intenzionata a far cadere il governo, ma ad essere determinante per farlo cadere, fu una parte della stessa sinistra, ostile a Depretis, guidata da ZANARDELLI, BACCARINI e da CAIROLI.

E sarà proprio CAIROLI a formare il nuovo governo, in un periodo turbolento di politica interna e molto critica in quella estera; prima a Berlino dove si trama di far diventare il mare Adriatico in un mare austriaco, poi con la Francia, che sembra avere tutte le intenzioni di occupare la Tunisia, minacciando di far diventare il mare siciliano in un mare francese.

Con meraviglia di molti, l'incarico di formare il nuovo ministero fu affidato dal Re dunque a Cairoli. Sia Umberto che gli italiani, come uomo, avevano molta stima di lui, ciononostante era molto criticato. Al suo primo ministero a molti aveva dato l'impressione che non era l'uomo di Stato di cui abbisognava l'Italia in quel preciso momento. Ora i momenti non erano migliori: e i problemi -come se non bastassero quelli interni- nella politica estera erano semmai ancora più difficili da risolvere.

Tuttavia, BENEDETTO CAIROLI il 14 luglio 1879 costituì il suo governo, prendendo la presidenza del Consiglio, gli Esteri e l'interim dell'Agricoltura, e assegnò l'Interno a VILLA, le Finanze e l'interim del Tesoro al GRIMALDI, la Grazia e Giustizia al VARÈ, i Lavori Pubblici ad ALFREDO BACCARINI., l'Istruzione Pubblica a FRANCESCO PEREZ, la Guerra e l'interim della Marina a CESARE BONELLI.

Il primo problema che si presentava al nuovo gabinetto era costituito dal conflitto tra i due rami del Parlamento. GRIMALDI cercò di risolverlo presentando due disegni di legge: uno per l'abolizione della tassa ("del macinato") sui cereali inferiori, già approvato dal Senato, l'altro per l'abolizione graduale della tassa sui cereali superiori a datare dal 10 luglio 1880 fino al 1° gennaio 1884. Nello stesso tempo, per dare all'erario un compenso, chiese che fossero approvate le altre tasse del ministero precedente (I due disegni di legge, il 14 luglio del 1880, furono poi dalla Camera approvati).

Questo secondo Ministero Cairoli non aveva una sufficiente e solida maggioranza parlamentare; dei dissensi sorti tra i vari ministri minacciavano di rendere più debole il Gabinetto; fra gli altri, GRIMALDI, studiando meglio la situazione finanziaria, si era accorto che il pareggio non era stato raggiunto e che era necessario rimandare l'abolizione della "tassa sul macinato", trovando però seria opposizione nella maggior parte dei colleghi, che non volevano riconoscere il loro errore di fronte al parlamento e al paese.
Questi dissensi e il desiderio di dare al proprio Governo maggiore forza, indussero CAIROLI ad accordarsi con il DEPRETIS.

Il 19 novembre 1879 il Gabinetto diede le dimissioni e il 25 dello stesso mese fu ricostituito dal medesimo CAIROLI, che prese per sé la presidenza del Consiglio e gli Esteri e diede al DEPRETIS l'Interno, a VILLA la Grazia e Giustizia, a MAGLIANI le Finanze, a DE SANCTIS la Pubblica Istruzione, a MICELI l'Agricoltura, a BONELLI la Guerra e la Marina all'ammiraglio FERDINANDO ACTON.

Presentando alla Carnera il nuovo ministero, CAIROLI dichiarò che la crisi era stata causata dalla disparità di opinioni sull'abolizione o meno della tassa del macinato. Chiesta la parola, GRIMALDI, sostenne che il tempo avrebbe reso conto del suo giudizio intorno alla situazione finanziaria e pronunziò una frase che diventò famosa
"Per me, tutte le opinioni sono rispettabili, ma, ministro o deputato, ritengo che l'aritmetica non sia un'opinione".
Con i milioni e milioni di poveracci che ogni giorno pagavano la "tassa sulla fame", questo "balzello" riusciva a portare nelle casse dello Stato, milioni e milione di lire. Come rimpiazzarli se si aboliva la tassa?
Inasprire, anche raddoppiando o triplicando le tasse ai pochi ricchi non si risolveva un bel nulla; mentre mantenere una tassa impopolare a milioni e milioni di poveri era una soluzione cinica ma sempre la migliore. Non metteva in "pericolo" la grande finanza, occupata nei grandi affari.

In quell'occasione Cairoli disse che bisognava sollecitamente sostenere in Senato le deliberazioni della Camera; ma intanto il conflitto fra i due rami del Parlamento non solo continuava, ma si faceva così aspro da provocare il seguente ordine del giorno che fu presentato e approvato dal Senato nella seduta del 24 gennaio del 1880: "Il Senato nell'attesa di provvedimenti efficaci, che permettano di abolire gradualmente la tassa di macinazione, "senza pericolo" della finanza, sospende le sue deliberazioni sul presente disegno di legge".
In seguito a quest'ordine del giorno, il 1° febbraio 1880, il ministero chiuse la seconda sessione parlamentare.

La terza sessione fu inaugurata il 17 febbraio del 1880 con un discorso in cui il re fece notare la necessità di allargare il diritto elettorale e di riformare il sistema tributario a favore delle classi povere. Accennando alla politica estera il re, fra le altre cose, "volandoci sopra", affermava che la conservazione della pace rispondeva "�non meno al vivo desiderio che all'alto interesse dell'Italia".

Questi accenni "sorvolanti" alla pace erano necessari per dissipare i sospetti dell'Austria e a tenere a freno gli irredentisti, le cui intemperanze avevano causato ai rapporti tra le due nazioni vicine non pochi danni. A render poi più aspri questi rapporti, era apparso un opuscolo dal titolo "Italicae Res", pubblicato a fine 1879 dal colonnello ALOIS VON HAYMERLE, in cui l'autore, fra l'altro, asseriva che gl'Italiani soggetti all'Austria non erano malcontenti, e sosteneva che l'Italia non aveva interesse di conquistare le terre irredente anche perché non correva pericolo di essere aggredita, e affermava che l'Austria non avrebbe mai rinunciato alla sovranità dei territori in questione e la Germania non avrebbe permesso all'Italia di impadronirsi di Trieste.

Risposero, fra gli altri, al colonnello Haymerle GIOVANNI BOVIO e MATTEO RENATO IMBRIANI con un libro intitolato "Pro Patria" portante come epigrafe il motto del Garibaldi "Senz'Alpi e senza Adriatico non evvi Italia" (�non vi è Italia)".
L'introduzione era del Bovio, che scriveva:
"L'Italia e l'Austria rappresentano l'antitesi della vita europea. L'Europa sa che attentare all'Italia è negare il fondamento di fatto di tutto il nuovo diritto pubblico, è rifare il papato temporale, è un diffondere dai monti Urali all'Atlantico l'oligarchia nera, un tirare la storia -verso il sillabo, e che progredire implica prima spostare, poi cancellare l'Austria. Sa infine che l'Austria, priva di ogni fondamento etnografico, di ogni determinazione geografica e di quell'organismo etico che fa gli Stati moderni, è semplicemente una successione di trattati, cioè un'espressione diplomatica".

L' IMBRIANI poi dimostrava che l'Italia aveva bisogno di completare la sua unità conquistando i suoi naturali confini. Inoltre l'Italia doveva avere l'Istria e con essa le chiavi dell'Adriatico, di cui invece, dopo l'occupazione della Bosnia e dell'Erzegovina e dei porti di Antivari e Spitza, era divenuta padrona l'Austria. Confini naturali e dominio sull'Adriatico erano questione di esistenza per l'Italia che si trovava in una tenaglia terribile, indifesa, scoperta, in balia dell'Austria. L'Imbriani concludeva (profetizzando) che " impedire di esser sopraffatti occorreva prepararsi":
"�Si spenda, si spenda pure per la difesa nazionale; si spenda per la marina, e non si lesini sulle spese. Si pensi al cumulo di rovine che ci attende, se veniamo sorpresi impreparati, ai ricatti che dovremo subire, e alla vergogna, peggiore di tutti i danni".

Verso la fine del dicembre del 1879, era cessato di vivere il generale GIUSEPPE AVEZZANA, presidente dell'"Italia irredenta". Gli furono fatte solenni esequie, alle quali partecipò in forma ufficiale il Governo e personalmente il CAIROLI; ma furono turbate da un conflitto tra gli irredentisti e la polizia, la quale strappò a quelli una bandiera.
L'episodio diede origine ad un opuscolo di MATTEO RENATO IMBRIANI, il quale, come per mostrare che il Governo faceva due politiche, aperta una, nascosta l'altra, rivelò che il DEPRETIS (che aveva proibito che si esponesse in quella cerimonia la bandiera dell'irredentismo) a lui e a MENOTTI GARIBALDI in palazzo Braschi aveva dichiarato che il Governo, nonostante le contrarie apparenze, desiderava l'annessione di Trento e Trieste.
Il governo cercò di smentire queste rivelazioni, ma l'Austria prestò poca fede alle smentite e inviò alle frontiere numerose truppe sotto il comando dell'Arciduca ALBERTO, il vincitore di Custoza.

L'11 marzo del 1880 (ministero Cairoli) iniziò alla Camera la discussione sulla politica estera. MORSELLI sostenne che all'Italia conveniva essere in buoni rapporti con l'Austria;
il VISCONTI VENOSTA accusò il Governo di non avere saputo impedire le manifestazioni irredentiste che turbavano le relazioni italo-austriache;
BONGHI definì la politica della Sinistra "un'enorme impotenza intellettuale, a cui corrispondeva una pari impotenza morale"; CAVALLOTTI fece risalire le difficoltà della situazione odierna dell'Italia alla politica delle "mani nette" adottata dai nostri plenipotenziari a Berlino.
CRISPI criticò tanto la politica della Destra che quella della Sinistra, e sostenne che l'Italia doveva essere amica dell'Austria e della Russia perché, secondo i trattati, non uscissero dai loro confini e dimostrò che l'Italia doveva insieme con gli altri popoli godere la libertà del Mediterraneo e dell'Adriatico, dove i nostri porti trovavano la via per giungere a tutti i paesi del mondo. Per conseguire tal fine era necessaria una larga preparazione militare.
Ed infatti, concludeva:

"Per essere rispettati all'estero bisogna esser forti, e non si può esser forti senza un potente esercito, senza avere la coscienza della propria forza. Ora non si ha la coscienza della propria forza quando si è troppo prosaici, cioè a dire quando, come l'usuraio, andiamo dietro il centesimo invece di occuparci dei grandi interessi, dallo sviluppo dei quali la nazione può trarre inesauribili tesori. La destra ebbe il vizio dell'avaro, il quale per guadagnare oggi il soldo si lascia sfuggire la lira sterlina, che sicuramente potrebbe ottenere domani".

Il CAIROLI, rispondendo al Visconti-Venosta e Bonghi attaccò in pieno la politica della destra e in particolar modo il ministero LANZA, affermò che le relazioni dell'Italia con tutte le potenze erano ottime, dichiarò che il Governo era deciso a punire severamente tutti gli atti tendenti ad intorbidire i rapporti italiani con l'estero e concluse assicurando che l'Italia desiderava la pace e che perciò si asteneva da "compromettenti alleanze".
Molto abilmente il LANZA difese la politica del suo ministero, e tirò fuori come prova di politica abile e forte la feconda opposizione del Governo italiano al congresso europeo proposto, dopo Mentana, da Napoleone III. "...Allora, oltre essere riusciti a mandare a monte il Congresso, si ottenne pure una piena soddisfazione dal Governo francese per parole, pronunziate nel Corpo legislativo che si potevano interpretare come poco convenienti per la persona del Re; e l'onorevole nostro ministro degli affari esteri di allora insisté tanto vivamente, finché ottenne una nota di giustificazione, cioè a dire d'interpretazione di quelle parole e di dispiacere che esse fossero sfuggite all'illustre oratore francese, ministro di Stato. Dunque ben vede l'onorevole Cairoli che non si compievano, quando occorreva, quando si trattava della dignità del paese, atti di sottomissione e di vassallaggio, come si va dicendo, e come l'onorevole presidente del Consiglio ha oggi ripetuto".

MINGHETTI propose lo scioglimento dell'"Italico irredenta"; MANCINI rimproverò a BONGHI, l'olimpico orgoglio con il quale aveva giudicato la politica del Governo e con questa frase provocò un tumulto tale da indurre il presidente della Camera FARINI a dimettersi. Il 20 marzo MANCINI presentò un ordine del giorno favorevole alla politica estera del Gabinetto e la Camera l'approvò con 220 voti contro 93.

Nonostante il voto di fiducia, dato specialmente in odio alla Destra da tutta la Sinistra compatta, il ministero non era ben visto dalla stessa Sinistra che tornava a frazionarsi; i malumori contro il Governo crescevano; alla Camera la Commissione del bilancio, presieduta da CRISPI, venuta in urto con il Ministero, chiedeva che prima dell'abolizione della tassa sul macinato si discutessero i redditi della Finanza; il ministero chiedeva la proroga dell'esercizio provvisorio; BERTANI si lamentava che il Gabinetto fosse privo di "quella tempra d'acciaio che sa insinuarsi senza piegarsi, che resiste e non si spezza se non posta a cimento di una viltà", e mancasse di "quel tanto di elettrico e di fosforo che crea la, vita"; BOVIO criticava pure lui la politica del Governo; BACCELLI invece invitava i colleghi a non fare il gioco della Destra favorendo così le frequenti crisi e il 29 aprile presentava un ordine del giorno di fiducia al Ministero, che non ottenne con 177 voti contro 154.

Il 29 aprile 1880, il gabinetto diede le dimissioni, ma il re non volle accettarle e con decreto del 2 maggio sciolse la Camera convocando i comizi elettorali per le elezioni politiche il 16 dello stesso mese.

INAUGURAZIONE DELLA XIV LEGISLATURA
MISSIONI DEL CRISPI RESPINTE
ABOLIZIONE DELLA TASSA SUL MACINATO - DIMISSIONI DEL GARIBALDI RESPINTE ABOLIZIONE DEL CORSO FORZOSO
VIAGGIO DEI REALI IN SICILIA

Il 16 aprile si svolgono le elezioni politiche generali. Su 621.896 iscritti alle liste elettorali (2,2 della popolazione) si recano alle urne 358.258 votanti.
I risultati assegnano la vittoria ai deputati ministeriali che scendono comunque a 210, i dissidenti di sinistra salgono a circa 80 e a 20 i radicali dell'estrema sinistra. La destra è in recupero rispetto alla grave sconfitta del 1876 e passa da 110 a 170 seggi.
La lotta, quantunque breve, fu accanita; la sinistra perse forza e la Destra ne uscì guadagnando una sessantina di seggi.
Da notare che negli ambienti cattolici - pur come al solito non partecipando al voto- quelli più intransigenti e sostenitori della totale astensione dalla vita politica, stanno perdendo terreno, e prendono posizione contro i moderati che hanno in progetto di fondare un partito cattolico riformatore.

Il 26 maggio 1880, il Re inaugurò la prima sessione della XIV Legislatura, esprimendo la fiducia che il Parlamento provvederebbe, senza turbamento della finanza, all'abolizione totale della tassa sul macinato, alla perequazione dell'imposta fondiaria, all'abolizione del corso forzoso, al miglioramento delle condizioni economiche dei Comuni e all'attuazione della riforma elettorale.
Ma il ministero si trovava nelle medesime condizioni in cui era prima delle elezioni, e non godeva le simpatie della maggioranza. La prima prova l'ebbe quando si procedette all'elezione del presidente della Camera: il candidato ministeriale MICHELE COPPINO uscì sconfitto nello scontro con DOMENICO FARINI che fu invece eletto, con i voti della Destra e� grazie ai voti dei dissidenti della Sinistra.

Uno dei nemici più accaniti del Gabinetto Cairoli-Depretis era FRANCESCO CRISPI. Durante le elezioni nella propaganda si era battuto disperatamente. A Napoli, in un grande comizio di deputati della Sinistra dissidente (6 maggio) era stato spietato verso il Governo:
"Da due anni l'Italia ha avuto un Governo di Destra mascherata. Sono penetrati nei Consigli della Corona uomini che, simulando di preparare le riforme, urgentemente richieste dal paese, hanno soltanto dato sfogo alle loro ambizioni personali .... Da due anni il Governo non si è curato di far regolarmente votare i bilanci dello Stato .... Umiliati a Berlino come l'ultimo popolo dell'Europa, tornammo a casa con le beffe e con lo scorno .... Noi vogliamo un Governo liberale e leale, e non un Governo che vive di ipocrisie, che, camuffandosi da democratico, agisce con la menzogna .... ".

Il suo linguaggio era stato così violento da incutere terrore agli avversari e preoccupazione agli stessi amici. Il 6 giugno il CORRENTI gli scriveva:
"Io non so a cosa tu miri in questo momento della nostra vita pubblica .... Ma la politica, tu sai, non è un problema di logica; è una specie di forza cosmica. Scatena la tempesta e se sai, guidala. Tu non puoi parlar d'intenzioni; guarda gli effetti .... Io sono costretto a dirti che gli effetti della tua attuale condotta politica sono esiziali alla patria. Bada. Tu giochi un gioco disperato; e il tuo nome che risplende fra i nomi gloriosi del rinascimento nazionale .... sta per diventare un nome esecrato ed esecrabile".

Ma FRANCESCO CRISPI gli rispondeva:
"Posso cancellarmi, posso sparire dalla vita politica; ma tacere mai! Con il silenzio io mi renderei complice di coloro i quali sono causa del disfacimento della Nazione".
CRISPI aveva presentato un'interpellanza, a nome di tutta l'opposizione, sulla condotta del Ministero durante le elezioni, poi chiese il rinvio e il 14 giugno presentò al presidente della Camera le dimissioni da deputato.
Ma nella seduta del 17 NICOTERA propose di respingere le dimissioni e alla proposta si associarono TAJANI, DI RUDINÌ, ZANARDELLI, CAVALLOTTI, MANCINI. Quest'ultimo dichiarò che Crispi aveva dato al Padre della Patria il primo battesimo ufficiale di Re d' Italia, quando a Salemi, nel 1860, aveva indotto il Garibaldi ad assumere la dittatura in nome di Vittorio Emanuele II.
CAVALLOTTI affermò: "Il nome di Crispi fa troppo bella parte della storia della Nazione perché se ne possa comprendere l'assenza nell'aula dei suoi rappresentanti", e la camera non poteva "rinunziare al consiglio di una delle tempre più gagliarde della nazione italiana". Disse proprio queste parole, l'uomo che diventerà il nemico più accanito dello statista siciliano.

Di fronte a tutte queste attestazioni di stima CRISPI ritirò le dimissioni, ma si ritirò anche, per tutto l'intero anno 1880, dalla lotta.
Il 29 maggio, il ministero aveva presentato alla Camera alcuni provvedimenti finanziari, fra cui il disegno di legge sul macinato, che stabiliva la riduzione della tassa dal 1° settembre. Il 30 giugno cominciò il dibattito e, nonostante la viva opposizione di MINGHETTI, I BONGHI e GRIMALDI, dopo la difesa fatta dallo stesso MAGLIANI, il 14 luglio la Camera con 178 voti contro 78 approvò quel disegno di legge e tutti gli altri provvedimenti finanziari.

L'abolizione dell'odiosa tassa sul macinato fu l'azione migliore compiuta dal ministero Cairoli, che poteva vantarsi di aver mantenuta la promessa. Da questa legge il Gabinetto sperava una maggiore solidità parlamentare; invece l'opposizione non era diminuita. Anche GIUSEPPE GARIBALDI; sdegnato per l'arresto di STEFANO CANZIO dovuto alla parte violenta durante la commemorazione mazziniana, nauseato dalla politica del governo, fiacca all'estero e feroce all'interno contro gl'irredentisti, spazientito dal ritardo della riforma elettorale, verso la fine del settembre del 1880, imitando il Crispi, annuncia le dimissioni da deputato, dirigendo ai suoi elettori di Roma, una lettera -pubblicata sul giornale romano "La Capitale", in cui con amarezza affermava:
"Oggi non posso più contare fra i legislatori in un paese ove la libertà è calpestata, e la legge non serve nella sua applicazione che a garantire la libertà dei gesuiti e ai nemici dell'unità d' Italia .... Tutt'altra Italia io sognavo nella mia, vita, non questa Italia, miserabile all'interno e umiliata all'estero".

La Camera respinse le dimissioni. Il 3 novembre Garibaldi, nonostante le sue non buone condizioni di salute, andò a Milano per l'inaugurazione del monumento ai Caduti di Mentana ricevendo accoglienze straordinarie. In quell'occasione discorsi rivoluzionari furono tenuti da MASSI, repubblicano, dal francese RICHEFORT e da STEFANO CANZIO. Altre manifestazioni, in quello stesso mese e dopo, avvennero in altre città d'Italia, che il Governo non volle o non seppe impedire e che, riapertasi la Camera, furono causa di parecchie interpellanze sulla politica interna del ministero. Tuttavia, per scongiurare il pericolo di una nuova crisi ministeriale quando il paese reclamava l'attuazione di riforme importanti, approvando un ordine del giorno del Mancini, la Camera diede la propria fiducia al Gabinetto con 221 voti contro 188.

In quello stesso novembre il ministro MAGLIANI presentò al Parlamento un disegno di legge, che proponeva che si sciogliesse il consorzio degli istituti di emissione, che con il 31 dicembre del 1883 fossero completamente tolti dalla circolazione i biglietti a corso legale dei suddetti istituti e che infine fosse abolito il corso forzoso, i cui biglietti ammontavano a 940 milioni.
Il ministro propose che i biglietti fossero sostituiti soltanto da moneta metallica per l'ammontare di 644 milioni, di cui 444 d'oro e 200 d'argento che dovevano procurarsi con operazioni di credito. Per i rimanenti 296 milioni lo Stato avrebbe emesso biglietti a circolazione obbligatoria, ma commutabili a vista in moneta.
(vedi nei dettagli il CORSO FORZOSO DELLA LIRA )

L'anno 1880 si chiuse con le dimissioni dI De. Sanctis da ministro dell'Istruzione Pubblica. Il portafoglio fu dato a GUIDO BACCELLI.

Il 1881 si aprì con la visita del re e della regina alla Sicilia, che accolse i sovrani con molto calore.
Il 23 febbraio la Camera approvò con 266 voti contro 27 l'abolizione del corso forzoso, che, approvata anche dal Senato, divenne legge il 7 aprile. Proprio quel giorno il Gabinetto cadeva per la questione di Tunisi.
Cioè di non aver saputo impedire l'occupazione francese della Tunisia.

LA QUESTIONE DI TUNISI - POLITICA SLEALE DELLA FRANCIA
LOTTA ITALOFRANCESE DI PREPONDERANZA IN TUNISIA
SPEDIZIONE FRANCESE A TUNISI
LA QUESTIONE DI TUNISI AL PARLAMENTO ITALIANO
IL TRATTATO DEL BARDO - RITIRO DI CAIROLI

Ancora dal 1868, in un memorandum segretamente inviato a MAZZINI, in cancelliere BISMARK affermava che la natura aveva gettato fra l'Italia e la Francia un pomo di discordia: il Mediterraneo e, ammoniva:
"L'impero del Mediterraneo appartiene incontestabilmente all'Italia .... L'impero del Mediterraneo deve essere il pensiero costante dell'Italia, la mèta dei ministri italiani".
Nei riguardi del Mediterraneo che cosa ne pensasse il Mazzini lo sappiamo. Particolarmente della Tunisia affermava spettare in modo evidente all'Italia. E, infatti, la Tunisia, non soltanto era una continuazione dell'Italia dall'aspetto geografico e con l'Italia aveva avuto continui rapporti fin dal tempo di Roma; ma era lo sbocco più vicino dell'emigrazione nostra, era in attivissima relazione commerciale con i nostri porti ed era stata in gran parte colonizzata da italiani, che vi avevano fondato scuole, banche, industrie e vi si trovavano come in casa propria.
BISMARK, scrivendo nel modo che abbiamo appena letto, aveva di mira, in previsione della guerra contro la Francia cui spingeva la Prussia, di allontanare l'Italia dalla vicina repubblica ed avvicinarla alla Germania; ma dopo il 1870 il cancelliere tedesco cambiò gioco. Infatti, nel 1875 offrì Tunisi alla Francia e durante il congresso di Berlino indusse lord SALISBURY a fare la medesima offerta a WADDINGTON, ministro degli Esteri francese. Certo per distrarre la Francia, che forser pensava ad una rivincita dopo Sedan, e forse per indirizzare l'Italia verso altre mète distogliendola dal proposito di prendersi le terre irredente, cercava di inimicare le due nazioni latine; e prova di ciò è il fatto che BISMARK, mentre offriva la Tunisia alla Francia, faceva dal BULOW dire al conte CORTI: "Perché non vi prendete Tunisi?".

Il governo italiano sapeva delle mire francesi sulla Tunisia, dove se gli emigranti francesi erano pochi i capitali investiti erano molti, e aveva avuto sentore anche di quanto era stato detto a Berlino. Per non farsi improvvisamente cogliere da possibili avvenimenti CAIROLI inviò a Tunisi, in missione speciale, l'on. GIOVANNI MUSSI e avvisò il generale CIALDINI, allora ambasciatore a Parigi, di tenere ben aperti gli occhi.
MUSSI, nel luglio del 1878, inviando una memoria al ministro degli Esteri, concludeva: "Le condizioni attuali della nostra politica generale ci impongono di evitare tutto ciò che possa creare urti o diffidenze con la Francia", e aggiungeva che bisognava "preparare nel tempo stesso in Tunisia gli elementi necessari per un migliore avvenire, mettendoci in grado di esser pronti ad ogni soluzione".
Sempre CIALDINI, il 19 agosto dei 1878, comunicava al Cairoli le seguenti dichiarazioni fattegli dal WADDINGTON (ministro degli Esteri francese): "Se in seguito alla posizione fatta alle potenze mediterranee dal Congresso di Berlino e sopratutto dal trattato anglo-turco sorgesse la necessità e la convenienza di prendere qualche misura di precauzione nel bacino del Mediterraneo a tutela degli interessi francesi, non si farebbe nulla, assolutamente nulla, senza previo e completo accordo con l'Italia .... Vi do la mia parola d'onore che, fino a quando io farò parte del Governo francese, nulla di simile sarà tentato, nessuna occupazione avrà luogo a Tunisi o in altro punto, senza andare di concerto con voi, senza prima riconoscere il diritto che avrebbe l'Italia di occupare un altro punto d'importanza relativa e proporzionata".

Oltre alle dichiarazioni del Waddington, Cialdini aggiungeva quelle fattegli dal GAMBETTA: "�mi rinnovò con maggiore calore ed espansione le assicurazioni già datimi tempo addietro, che il governo francese attualmente al potere ed il partito repubblicano che lo sostiene non avevano pensato mai all'occupazione di Tunisi: cosa che non entrava punto nelle loro viste. E se mai arrivasse il giorno in cui fossero indotti ad occuparsi di un simile progetto, si porrebbero anzitutto d'accordo con l'Italia, non potendo convenire alla Francia di farsene una nemica inconciliabile; mi pregò di dire al governo del re che, a parere suo, fra i vari risultati del Congresso di Berlino spicca la necessità di unirsi sempre più, necessita massime poi sulle questioni orientale e mediterranea".

Intanto si animava a Tunisi la lotta di influenza tra il console francese ROUSTAN e il console italiano MACCIÒ, lotta che divenne più acuta verso la fine del 1879. Nel 1880 si verificò un episodio che allarmò moltissimo la Francia. Una compagnia inglese mise all'incanto il tronco ferroviario Tunisi-Goletta , che aveva costruito; e fu aggiudicato alla compagnia francese Bona-Guelma per la somma di 2 milioni e 600 mila franchi; ma la compagnia concorrente RUBATTINO, accordatasi con CAIROLI, riuscì a fare annullare l'aggiudicazione per difetto di forma, e, promettendo la garanzia del Governo italiano, comprò la linea ferroviaria al prezzo di 4.126,000 lire.
La Francia, vedendo dietro Rubattino i1 Governo italiano, approfittò del monopolio che essa aveva delle comunicazioni telegrafiche della Reggenza per rifiutarsi di acconsentire alla concessione da parte del Bey della posa di un cavo sottomarino fra Tunisi e la Sicilia.

Era allora, ministro degli Esteri francese il FREYCINET. Questi prima si dichiarò disposto a confermare le dichiarazioni del Waddington, suo predecessore, "senza però prendere impegni per un lontano avvenire", poi si tolse la maschera e il 26 luglio disse a Cialdini: "Ma perché vi ostinate a pensare a Tunisi, dove la vostra concorrenza può turbare un giorno o l'altro i nostri rapporti, perché non volgereste piuttosto gli occhi su Tripoli, dove in quel luogo non dovreste lottare né con noi né con altri ?" e aggiunse
"L'avvenire è nelle mani di Dio e potrebbe darsi che un giorno, senza dubbio lontano, la Francia fosse condotta dalla forza delle cose ad occupare e ad annettersi la reggenza di Tunisi. Noi non vorremmo che ciò avvenisse, se pur deve avvenire, a prezzo dell'amicizia che ci lega all'Italia e che desideriamo sinceramente di conservare .... La Francia non pensa minimamente all'occupazione di Tunisi; ma siccome l'avvenire è nelle mani di Dio e potendo accadere, in tempo più o meno remoto, che la Francia fosse proprio spinta dalla necessità di una situazione qualsiasi ad occupare la Tunisia io vi dichiarerò in pari tempo che, se un caso simile si presentasse, l'Italia ne sarebbe avvertita con ogni possibile anticipazione ed aiutata dalla nostra influenza cordiale ad ottenere nel bacino del Mediterraneo un compenso proporzionato e sufficiente, al fine di conservare l'equilibrio della rispettiva preponderanza".

Ma CIALDINI non credeva alla sincerità del Freycinet e il 26 agosto del 1880, in un incontro a Belgirate con il Cairoli, gli ripeté il "consiglio" che l'altra volta gli aveva dato, di "stipulare un'alleanza con gl'imperi centrali".
Nel settembre del 1880, in Francia salì al potere FERRY, acceso fautore dell'espansione francese in Africa, e subito la stampa francese si diede a preparar l'opinione pubblica sostenendo la necessità di una politica forte e decisiva in Tunisia ed incitando il Governo a proteggere gl'interessi francesi della reggenza e a frenare la concorrenza invadente dell'Italia. FERRY e il suo ministro degli Esteri, BARTHELEMY di Saint-Hilaire, erano decisi ad agire energicamente, ma aspettavano solo l'occasione. Questa fu offerta dagli stessi Italiani con delle imprudenti manifestazioni.
Nel gennaio del 1881, come si è detto, i Reali d'Italia visitarono la Sicilia. Nella colonia italiana di Tunisi, in una riunione presieduta dal console generale MACCIÒ, votò un ordine del giorno in cui si affermava che gl'Italiani di Tunisi erano "gelosi del primato nazionale che da secoli" mantenevano e che speravano "riuscire ad accrescere in quelle ospitali contrade".
Una deputazione di Italiani, guidata dal MACCIÒ e accompagnata da un fratello del Bey e dal primo ministro MUSTAFÀ-BEN-ISMAIL, si recò a Palermo e il 10 gennaio il console italiano tunisino, lesse al re un messaggio in cui erano ricordate le "gloriose memorie" delle contrade tunisine, un tempo "province di Roma", e vi era detto che gli Italiani di Tunisi attendevano "con fiducia il giorno, in cui il prestigio, lo splendore della nazione all'estero fosse pari alle sue gloriose tradizioni, e agli atti suoi destini".

Il BARTHÉLÉMY di Saint-Hilaire interpretò la dimostrazione di Palermo come una minaccia alla Francia e scrivendo al marchese di NOAILLES, ambasciatore a Roma, affermò che la Francia "non avrebbe mai accettato che una nazione europea andasse a deporre sul fianco stesso dell'Algeria il germe di una potenza politica differente dalla sua". Il NOAILLES non mancò di protestare presso il Governo Italiano e intanto il Governo francese si preparava ad agire per occupare la Tunisia prima che questa fosse occupata dall'Italia.

Ma occorreva un pretesto e ne fu escogitato uno abbastanza puerile dal BARTHÉLÉMY di Sainte-Bilaire e dal console ROUSTAN. Questi, inventando, informò il Bey che la Turchia stava per mandare nella reggenza un amministratore straordinario e lo consigliò di chiedere al Governo francese una squadra per una dimostrazione; ma il Bey, che aveva capito le intenzioni della Francia, si rifiutò e informò tutte le potenze europee.
Delle intenzioni del Governo francese CIALDINI informò a più riprese CAIROLI, ma purtroppo questi non tenne in alcun conto le informazioni del suo ambasciatore e lasciò che fossero attuati i propositi della Francia. Questa non aspettava per agire che l'occasione e, siccome questa non si presentava, il governo della Repubblica creò il pretesto facendo spargere la voce che alla fine di marzo la tribù tunisina dei Krumiri aveva fatto delle incursioni sul territorio algerino, che la linea ferroviaria Bona-Guelma era minacciata e, infine, che esisteva la possibilità dell'esplosione del fanatismo religioso in Algeria.
Che insomma in nome di Dio, qualcosa, prima o poi bisognava fare.

II 5 aprile 1881, BARTHÉLEMY dichiarava a CIALDINI che non potendo le truppe francesi della provincia di Costantina, incaricate di punire i Krumiri, sguarnire l'Algeria, veniva inviato in tutta fretta da Tolone un corpo di spedizione; e che "per il momento tutto" si sarebbe limitato alla "repressione delle tribù insorte e alla protezione della linea ferroviaria Bona-Tunisi che sembrava anche questa minacciata". Il Governo in seguito avrebbe preso consiglio dagli avvenimenti.

CIALDINI, comunicando a CAIROLI queste dichiarazioni, telegrafava: "La repressione potrebbe essere benissimo l'inizio di una occupazione militare, la quale sarebbe seguita dal protettorato, che si cerca d'imporre da qualche tempo. L'Inghilterra sola potrebbe fermare la Francia nella via in cui si è messa, ma è lecito credere che l'Inghilterra lascerà fare".

Il 6 aprile 1881, Cialdini dava altre informazioni al presidente del Consiglio: "Il signor BARTHÉLÉMY mi ripete che l'invio, di un considerevole corpo di truppe francesi .... non ha altro scopo che di poter punire le tribù della frontiera tunisina senza sguarnire l'Algeria. Egli mi ha dichiarato nuovamente che il Governo francese non pensa affatto ad un'occupazione militare permanente e meno ancora all'annessione della Tunisia".
E poiché CAIROLI ordinava a CIALDINI con grande ingenuità di chiedere al Governo francese "una ben franca e ben netta dichiarazione", il 7 aprile l'ambasciatore rispondeva con il seguente telegramma: "Per la terza, volta il signor BARTHÉLÉMY mi ripete le stesse dichiarazioni; cioè che il Governo francese si propone unicamente di punire le tribù alla frontiera tunisina della loro ultima aggressione in territorio algerino, senza il proposito di un'occupazione militare né di un'annessione della Reggenza. Ma ha avuto cura di aggiungere che una volta ingaggiata la lotta non è possibile prevedere ciò che potrebbe esser necessario fare. Egli ritorna sulla frase con cui chiudevo il mio telegramma del 5 e cioè che il Governo francese si regolerà secondo gli avvenimenti".

La notizia dell'invasione francese di Tunisi provocò grande indignazione in Italia. Il 6-7 aprile 1881, alla Camera furono svolte molte interpellanze al riguardo e l'on. ABELE DAMIANI, seguace del Crispi, dopo avere affermato che la questione di Tunisi era "uno dei più importanti problemi che interessavano la grandezza d'Italia", chiese al Governo che cosa intendeva fare per tutelare l'indipendenza e l'integrità della Reggenza; MASSARI disse che l'Italia "doveva tutelare la sua dignità, far rispettare la sua bandiera, garantire la sicurezza e la prosperità dei suoi commerci"; RUDINÌ dichiarò che l'occupazione francese della Tunisia era "una minaccia contro l'Italia e altererebbe indubbiamente l'equilibrio delle potenze mediterranee".

CAIROLI rispose a tutti, dichiarando che l'Inghilterra non si era accordata con la Francia nel 1878, che l'occupazione della Tunisia era per il Governo inglese un avvenimento improvviso ed imprevisto, che il Governo francese aveva assicurato trattarsi soltanto della repressione delle tribù insorte e della protezione della ferrovia Bona-Guelma e infine che l'Italia non era isolata ma aveva "con l'Inghilterra identità d'idee" sulla questione di Tunisi.
Tutto quanto asseriva il presidente del Consiglio non rispondeva però a verità, infatti, come altrove abbiamo già detto, durante il Congresso di Berlino tra lord SALISBURY e il WADDINGTON si era parlato di Tunisi; l'occupazione della Tunisia non era un avvenimento imprevisto perché il Cialdini non aveva fatto finora che avvertire ed ammonire il Cairoli; delle dichiarazioni francesi si taceva la frase, la quale diceva che si sarebbe regolato secondo gli avvenimenti; ed infine "nessuna identità d'idee" esisteva tra l'Italia e l'Inghilterra, come da varie fonti risultava.

Non soddisfatto della risposta del presidente del Consiglio, l'on. DAMIANI presentò una mozione per disapprovare la politica del Governo. Il giorno dopo, GIUSEPPE ZANARDELLI propose di rinviare quella discussione fino all'approvazione delle varie riforme; tra cui importantissima, era quella elettorale.
CAIROLI accettò la proposta ZANARDELLI, ma Crispi si oppose energicamente, dichiarando che il rinvio poteva sembrar paura, da parte della Camera, di affrontare una seria questione cui era legata la salvezza della Patria e che non poteva lasciarsi in sospeso la questione se il Parlamento avesse o no fiducia nel Governo; e aggiunse: "Il ministero ha bisogno di tutta l'autorità per trattare con la Francia e per far rispettare i diritti internazionali e quelli del nostro paese. Ora un ministero il quale non sa se è o non è da voi sostenuto, un ministero che rimane sotto questa spada di Damocle è un ministero cui sarà impossibile governare".
Allora la Camera respinse con 192 voti contro 172 la proposta Zanardelli e CAIROLI il 7 aprile 1881, diede le dimissioni.

La crisi fu molto travagliata e poco mancò che non venisse fuori un gabinetto Sella-Crispi. Infine il sovrano, fino alla costituzione di un nuovo governo, lasciò in carica CAIROLI, il quale momentaneamente ritirate le dimissioni, il 28 aprile, presentandosi alla Camera comunicò le decisioni del re (Intanto in Tunisia la situazione peggiorava).
Subito l'on. ZEPPA presentò una interpellanza, dichiarando che la soluzione della crisi non era stata conforme alle norme costituzionali; BONGHI fece le medesime dichiarazioni, criticò aspramente la politica paurosa del ministero e ammonì che:
"...non con le illusioni della fratellanza internazionale doveva trattarsi la politica estera, ma con l'esperienza dei fatti e con il retto giudizio delle passioni che li armano, delle mète cui aspirano, dei desideri che ciascuno di essi ha di acquistare influenza e potenza".

BOVIO e CAVALLOTTI parlarono di passioni e nobiltà d'animo. Il primo disse che occorreva ricordare ai francesi che al di sopra dei partiti, gli Italiani veneravano prima di tutto la dignità della patria. "C' è un caso, uno solo, in Italia, in cui ogni differenza di parte cessa, e cessa anch'essa l'estrema sinistra; è davanti a qualunque Governo straniero, che, sotto una o un'altra forma, voglia recare diminuzione immeritata alla grande amica delle genti, all'Italia. Allora Alpi e vulcani si fondono; non più distinzioni di regioni; si levano concordi il pensatore e l'operaio; tornano alla prima bandiera moderati e sinistra Estrema. Verso i confini non ci sono partiti, ci sono Italiani".

Il secondo svolse un ordine del giorno con cui invitava il Governo a tutelare energicamente e dignitosamente gl'interessi nazionali all'estero; rimproverò l'ingenuità del Cairoli; e affermò essere necessario che il Ministero cambiasse politica e mostrasse di sentire tutta la dignità degli interessi nazionali minacciati; e concluse:
"Tanto varrebbe che l'Italia stracciasse la sua carta geografica, rinunziasse per sempre al posto che le hanno assegnato la geografia e la natura, calpestasse tutte quarte le tradizioni marittime del suo passato, che le schiudono le vie del suo avvenire, se l'Italia potesse con indifferenza, nel mentre l'Austria si avvia per la Bosnia e l'Erzegovina a Salonicco e dopo aver visto l'Adriatico nostro diventare mare austriaco, vedere ora il mare nostro di Sicilia diventare mare francese".

MANCINI propose un ordine del giorno favorevole al ministero e la Camera l'approvò con 262 voti contro 146.
Il 3 maggio le truppe francesi occuparono Biserta e il 7 maggio Di RUDINÌ chiese spiegazione al Governo su quell'occupazione. CAIROLI ripeté le dichiarazioni del Barthélémy a Cialdini, che cioè i francesi si sarebbero limitati a punire le tribù ribelli, e aggiunse che a protezione dei nostri connazionali era stata mandata nelle acque tunisine la corazzata Maria Pia.

Il 12 maggio, a Kars-Said il generale BRÉART induceva il Bey a firmare quello che fu chiamato "Trattato del Bardo", con il quale si stabiliva che il Bey si poneva sotto il protettorato della Francia; che questa assumeva la garanzia dei trattati tunisini e la rappresentanza diplomatica e consolare della reggenza all'estero; che il Bey non avrebbe stipulato altre convenzioni con potenze estere senza il beneplacito del Governo francese; che l'occupazione del litorale e della frontiera avrebbe potuto protrarsi indefinitamente; che l'assetto finanziario della Tunisia sarebbe stato ricostituito sopra nuove basi; ed infine che si sarebbe regolato il pagamento di un'indennità di guerra con un'ulteriore convenzione.
Oltre essere occupata, e aver persa l'indipendenza, la Tunisia fu insomma anche costretta a pagare l'occupazione.

Quel giorno stesso GIUSEPPE GARIBALDI da Caprera scriveva al Fazzari:
"Io sono amico della Francia e credo si debba fare il possibile per conservare la di lei amicizia. Però, siccome innanzi tutto sono italiano, darò certamente questo resto di vita, affinché l'Italia non sia oltraggiata da chicchessia. E se si permettesse alla Francia d'impadronirsi della Tunisia, l'Italia sarebbe non solamente oltraggiata, ma minacciata nei suoi interessi e nella sua sicurezza. Io spero che la Francia si accontenti della punizione di alcuni assassini dei suoi cittadini e che poi si ritiri senza toccare l'indipendenza della Tunisia né con annessione, né con protettorato. In ogni modo il posto della nostra flotta deve essere oggi nel golfo di Tunisi, per la protezione della numerosa colonia italiana e cinquantamila uomini con relativi accessori devono essere preparati sulle coste meridionali delle due grandi nostre isole per lo stesso motivo".

Cinque giorni dopo il generale, scrivendo alla direzione della Riforma, diceva "�nell'antica Cartagine gli Italiani hanno tanto diritto quanto la Francia, e che devono pretendere alla completa indipendenza della Tunisia".

Quando si conobbe il testo del "Trattato del Bardo" scoppiò impetuoso lo sdegno in tutta Italia. La permanenza di CAIROLI al Governo (anche se momentanea) si rendeva oramai impossibile, e lui, nella seduta del 14 maggio, poiché "gli alti interessi politici e le interne riforme reclamavano tutta l'autorità del Governo e la più salda concordia della maggioranza", decise di ritirarsi.

Così cadde BENEDETTO CAIROLI, uomo degno di tutta la stima per la sua onestà e per il suo patriottismo, ma funesto all'Italia per la sua incapacità politica, alla quale sono da imputarsi due dei più dolorosi scacchi subiti dall'Italia, uno al Congresso di Berlino, l'altro con la perdita della Tunisia.

Purtroppo - in seguito- entrambi i due fallimenti, fecero risentire all'Italia altre ben dolorose conseguenze. Africa e Balcani, rimasero come due micce accese, sempre pronte a far scoppiare una sanguinosa guerra (già in molti avevano visto in anticipo il 1914-1915)

Né servirono le ipocrite alleanze ( La Triplice Alleanza )
E proprio di queste alleanze nel prossimo capitolo parleremo�

� il periodo dal 1881 al 1882 > > > )

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