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( QUI TUTTI I RIASSUNTI )  RIASSUNTO ANNI 1876

STORIA DEL GIORNALISMO
La sera del 5 marzo 1876 gli strilloni sciamano per Milano annunciando l'uscita del nuovo foglio
che sarà la corazzata della nostra stampa .....

"IIIIIL CORRIERE
DELLA SERAAAAA!"


"Eugenio Torelli Viollier" alla guida del giornale

(vedi anche 1900-1925 "IL CORRIERE E IL FASCISMO" )

( e STORIA DEL GIORNALE )

di IGOR PRINCIPE

Domenica, 5 marzo 1876. I milanesi impegnati nella passeggiata del dopocena sono attratti dalle urla degli "strilloni" - i ragazzini che vendono i giornali agli angoli delle strade - che annunciano l'uscita di un nuovo quotidiano. Lo acquistano, e vengono sferzati dalle prime battute dell'articolo di apertura (quello che oggi è chiamato "articolo di fondo"): "Pubblico, vogliamo parlarti chiaro!".

Di seguito, una chiara presa di posizione a favore di una politica da moderati e un altrettanto chiaro sberleffo a Il pungolo, altro giornale milanese, accusato di tacere la verità. Quel nuovo quotidiano, schierato e agguerrito con candida evidenza, è il Corriere della Sera, e infoltisce la già ben nutrita schiera di quotidiani - otto - che si pubblicano in città. Tra i quali, oltre al citato Pungolo, organo dei monarchici - spiccano Perseveranza (a favore della Destra), il Gazzettino Rosa (che non è l'antenato della Gazzetta dello Sport ma il foglio dei garibaldini), la Plebe (preferito dagli anarchici e dai socialisti) e Il secolo, diretto da Edoardo Sonzogno e primo in termini di vendite.

Alla guida del Corriere c'è un napoletano di 34 anni, compassato e discreto come un gentleman inglese: Eugenio Torelli Viollier. Il suo ufficio - con tutta la redazione, composta da tre redattori, un impiegato e un fattorino - si trova al numero 77 della Galleria Vittorio Emanuele,e cioè nel cuore della città. Che già può fregiarsi del titolo di capitale morale e culturale del Paese. A Milano, nel 1876, vivono circa trecentomila persone, gran parte delle quali partecipa con passione al fervido clima operoso che è patrimonio genetico della metropoli lombarda. Hoepli, Sonzogno, Ricordi sono i più noti tra le decine di editori che lavora in città. Il Caffè dell'Accademia e il Cova sono punti di riferimento obbligati per i letterati. Nei salotti è possibile incontrare personaggi quali Verdi, Boito, Hayez, Carlo Tenca.

Al fervore intellettuale di quegli anni se ne accompagna uno simile anche in politica. Dieci giorni dopo l'uscita del Corriere, infatti, un cambiamento destinato a segnare un'epoca scuote le stanze di Montecitorio. Il capo del governo, marco Minghetti, annuncia alla Camera che il debito pubblico, dopo quindici anni di severa politica fiscale, è saldato. Un risultato di quella portata avrebbe generato in qualsiasi primo ministro legittime aspettative di gratitudine e appoggio politico. Per tutta risposta, i deputati mettono in discussione il cardine su cui ha ruotato la politica economica della Destra: la tassa sul macinato.
Minghetti si oppone alla richiesta della Camera, gli onorevoli l'approvano a larga maggioranza e il governo rassegna le dimissioni. Il nuovo esecutivo è guidato da Agostino Depretis, che la storia ricorderà come la causa di quell'ineliminabile virus che tuttora infetta la politica italiana: il trasformismo.

Il Corriere della Sera, nel "fondo" di esordio, sembra intuire il corso degli eventi e con quella adamantina dichiarazione di indirizzo politico si colloca idealmente all'opposizione, in contrasto con l'opacità delle sfumature del
modus gubernandi di Depretis. Che sia stata una casualità o il frutto dell'intuito politico di Torelli Viollier, non è dato sapere. Ad ogni modo sin dal momento della nascita il Corriere dà prova di sapersi collocare al centro degli eventi e di specchiarvisi dentro. Piero Gobetti ha affermato: "Un buon giornale è l'autobiografia di una nazione".

La storia che - per sommi capi - ci apprestiamo a raccontare lo dimostra. Torelli Viollier dirige il quotidiano, a fasi alterne, fino al 1898. Dopo due anni di parentesi di Domenico Oliva, il timone passa nelle mani di Luigi Albertini. Con lui, il Corriere diventa un'istituzione. Albertini, lo dirige per ventuno anni, dall'estate del 1900 all'autunno del '21. L'Italia, come tutta l'Europa, vive quell'epoca spensierata che la storia ricorda con il nome di Belle Epoque.
Motore dell'economia del Paese è la borghesia, in particolare quella lombarda. Il direttore ne è espressione ed è per lui naturale fare del Corriere l'organo di quel ceto sociale, impegnato in aspre battaglie perché la politica proceda sulla strada della tradizione conservatrice. Albertini avversa infatti la politica di Giovanni Giolitti, propenso a stringere alleanze con le forze emergenti cattoliche e socialiste. L'ispirazione da conservatore, però, non impedisce al direttore di comprendere l'evoluzione della vita sociale italiana. La spensieratezza della Belle Epoque si traduce, per alcuni ceti sociali, in desiderio di novità, che il Corriere sa interpretare.

Nel 1901 il giornale patrocina il primo "Giro d'Italia in automobile". Due anni prima, fortemente voluta da un Albertini che s'appresta a diventare direttore, nasce la Domenica del Corriere (in seguito divenuta familiare con il nome di Corrierona), che ha il suo punto di forza nelle copertine realizzate da Achille Beltrame. Questi è un giovane disegnatore, cui viene affidato il compito di rappresentare il fatto della settimana con una grande illustrazione da copertina.
Da allora, non c'è evento significativo che non passi sotto la sua matita: le vicende - spesso pettegole - di casa Savoia; le vittorie sportive; i fatti militari. La Domenica, appena nata, scavalca in poco tempo altri due periodici cui il pubblico è saldamente affezionato, Illustrazione Italiana e La Tribuna Illustrata. Altra novità di cui Albertini sa cogliere la portata è quella della fotografia. Comprende, infatti, che l'ausilio dell'immagine rende più piacevole e meno faticosa la lettura delle pagine, consuetamente dominate dal solo testo. Appena insediatosi, quindi, favorisce la pubblicazione di fotografie: dapprima timidamente; poi, a partire dal 1905, con frequenza - ovviamente - quotidiana.
In ventuno anni di direzione, insomma, Albertini fa del Corriere il quotidiano più venduto in Italia, dimostrando doti notevoli da imprenditore editoriale. Sul versante politico, commette pochi errori di valutazione. Gli stessi, tuttavia, che commette l'opinione pubblica italiana. Come la maggior parte del Paese, è a favore dell'intervento nel primo conflitto mondiale (dopo un breve periodo in cui propende per la neutralità).
In questo senso lo spingono due fattori: la già citata avversione per Giolitti, che di guerra non vuole sentir parlare; l'eccessivo ottimismo nelle capacità belliche e militari dell'Italia.

La disfatta di Caporetto ne ridimensiona l'entusiasmo. Ma soprattutto adombra sul Corriere lo spettro della censura. Da un lato, i vertici militari non esitano nel rendere impossibile il lavoro dei corrispondenti dal fronte, allontanati e costretti a "seguire" i fatti dai distaccamenti di Udine. Dall'altro, la direzione detta le regole cui i giornalisti devono attenersi nello scrivere le esigue corrispondenze: non indulgere alla retorica e al disfattismo. Fredde cronache, quindi, che mettono la sordina all'entusiasmo di un tempo e, al contempo, a possibile forme di autocritica da parte della direzione.

Il fatale errore politico di Albertini è però quello sul fascismo. Come molti, lo considera dapprincipio un fenomeno passeggero e facilmente imbrigliabile.
Una medicina necessaria per riportare, in un'Italia percorsa dalla quotidiana violenza sia rossa che nera, l'ordine e la disciplina che caratterizzava lo Stato liberale. Ma la marcia su Roma gli fa cambiare idea: in quell'occasione, infatti, al Corriere è vietato di andare in edicola, dove torna il 31 ottobre (tre giorni dopo l'evento), dando notizia del neonato governo Mussolini e interrogandosi, in un articolo di fondo, sul futuro della libertà di informazione in Italia. Libertà che il Corriere stesso, comunque censura durante i primi anni di governo fascista pubblicando, sulle notizie delle violenze squadriste, versioni che non si discostano da quelle dei comunicati ufficiali del governo.
La vicenda Matteotti, però segna il limite oltre il quale il Corriere del fratelli Albertini (Alberto, infatti, prende il posto di Luigi e lo conserva sino al 1925) non è più disposto a tollerare Mussolini.

La direzione passa quindi a Pietro Croci, oscuro redattore cui viene affidato il compito di "conformizzare" il giornale ai tempi che corrono. "Gli albertini erano qualcosa di più che "la direzione" nel Corriere della Sera - hanno scritto Indro Montanelli e Mario Cervi -: non solo perché possedevano una quota di proprietà, ma soprattutto perché avevano legato il loro nome, e il loro prestigio, a una politica coerente e intransigente, da grandi borghesi illuminati".
Il "Corriere fascista" si identifica in un solo nome: quello di Aldo Borelli. Direttore dal 1929 al 1943, si dimostra il perfetto interprete di ciò che il fascismo è realmente: "un tubo vuoto - sono parole di Luigi Pirandello - che chiunque può riempire con ciò che vuole". Un episodio tra tutti, rivela non solo la grandissima umanità di Borelli, ma anche quanto egli avesse capito come muoversi tra le pieghe della dittatura. Dell'episodio è protagonista Indro Montanelli, inviso al regime per aver scritto su Il Messaggero che l'assedio fascista alla città di Santander, durante la guerra di Spagna, non è stata una cavalcata trionfale ma una marcetta verso una città già stremata dalla mancanza di rifornimenti.

Il Minculpop (Ministero per la Cultura Popolare) lo radia dall'albo dei giornalisti. Passa un anno, e i vertici fascisti si dimenticano di Montanelli, nel frattempo "piazzato" dal gerarca Bottai in una cattedra di italiano all'Università di Tallin, in Estonia. Su suggerimento di un ex direttore del Corriere e grande letterato - Ugo Ojetti, consapevole del talento giornalistico del giovane Montanelli - Borelli lo chiama a collaborare al giornale, lasciandogli la libertà di scrivere anche per altre riviste. La vicenda, oltre a rivelare quanto flebile sia l'autoritarismo fascista, dimostra inotre quanto il direttore tenga in considerazione i suoi "purosangue". In un'occasione, infatti, gli capita di dover salvare dalla condanna a morte il grande Luigi Barzini jr, accusato dal regime di aver rivelato un segreto militare.

La ricetta di Borelli per arginare l'ingerenza del regime nelle vicende interne al giornale è semplice: abbandonare la politica. Lascia infatti che a occuparsene sia la redazione romana, incaricata semplicemente di riscrivere le cosiddette "veline", cioè i dispacci informativi che provengono dagli uffici del governo. Sotto la sua direzione assume invece un ruolo decisivo la pagina culturale, alla quale il direttore chiama a collaborare intellettuali in gran parte antifascisti.

Sono Corrado Alvaro, Benedetto Croce, Massimo Bontempelli, il "frondista" Pirandello: scrittori e pensatori che perpetuano la tradizione, fortemente radicata in via Solferino, di regalare al pubblico la prosa di coloro che scriveranno il Novecento letterario italiano, da Gabriele d'Annunzio a Pier Paolo Pasolini, passando per Moravia, Malaparte, Buzzati, Parise. Ciononostante, Borelli viene identificato con il regime e il 31 luglio 1943, sei giorni dopo la destituzione di Mussolini da parte degli stessi gerarchi, è costretto a passare il testimone.

Nell'ottobre dello stesso anno - preceduto dalle brevissime direzioni di Ettore Janni e Filippo Sacchi - lo raccoglie Ermanno Amicucci, che farà del Corriere l'ufficio stampa della Repubblica di Salò. Difficile, anzi impossibile immaginare che nell'Italia del Nord occupata dai nazisti un'istituzione tutt'altro che clandestina possa fare da megafono per la Resistenza. Cosa che dapprincipio i partigiani, prossimi al loro trionfale ingresso in Milano, sembrano comprendere, manifestando l'intenzione di consentire comunque l'uscita del quotidiano malgrado la sua parentesi repubblichina. "Pur concordi nel far uscire, alla liberazione, unicamente i fogli dei partiti che combattono i nazifascisti, e un quotidiano del Cln nei capoluoghi minori del Nord, c'è la preoccupazione di non privare l'opinione pubblica di un grande giornale d'informazione", ha scritto Paolo Murialdi, storico del giornalismo.
"E' una preoccupazione - prosegue - condivisa anche dalle sinistre, che pure chiedono la soppressione del Corriere". Preoccupazione che, tuttavia, verrà disattesa. La notte del 25 aprile, un manipolo di giornalisti guidati da Mario Borsa e Gaetano Afeltra realizza, nei locali della redazione storica, un foglio la cui testata recita: Il Nuovo Corriere. Due pagine, stessi caratteri del Corriere di sempre, ma un titolo che è una virata rispetto alla gestione di Amicucci: "E' giunta la grande giornata - Milano insorge contro i nazifascisti".

Ciò non basta, però, a catturare le simpatie dei partigiani: il Cln e Riccardo Lombardi - nuovo prefetto di Milano, membro del Partito d'Azione - ne bloccano la pubblicazione. L'unico destino del neonato foglio è quello di diventare un oggetto di culto per i collezionisti del genere. Per tornare a leggere un quotidiano confezionato dalla redazione di via Solferino non bisogna attendere molto: il 22 maggio, infatti, compare nelle edicole il Corriere d'Informazione, diretto definitivamente da Mario Borsa. Di chiaro indirizzo antifascista, il giornale è a tutti gli effetti un prestanome del vecchio Corriere della Sera, che in edicola torna il 7 maggio 1946.

Artefice del rientro è la famiglia Crespi, proprietaria del quotidiano e protagonista di una lunga trattativa con il governo di De Gasperi. Questi riesce a sopire gli ultimi rancori che i ministri di sinistra nutrono verso il passato del Corriere, imponendo però che la nuova testata rechi in alto al centro la dicitura Il nuovo. Le rotative di via Solferino, quindi, cominciano a stampare due quotidiani: Il Nuovo Corriere della Sera, in edicola al mattino e il Corriere di Informazione, in edizione pomeridiana. Quest'ultimo proseguirà le pubblicazioni fino al 15 maggio 1981, diventando il vivaio in cui si formeranno le nuove leve di giornalisti in attesa di fare il salto di qualità e passare al Corriere. Del quale Borsa riassume la direzione, stupendo però i lettori con una scelta che contraddice la storica impostazione liberale del quotidiano. Sulla scelta del 2 giugno '46 tra monarchia e repubblica scrive un articolo in cui domanda - e si domanda -: "Paura di che?". E' un esplicito invito a sostenere la forma di Stato repubblicana. Ed è anche un elemento che conferma l'attitudine del quotidiano a saper interpretare le istanze della società e a scriverne, s'è detto, l'autobiografia. Il suggerimento di Borsa, invece, non fa temere uno spostamento del Corriere dalle consuete posizioni liberali e borghesi.
Anche perché ci pensa Guglielmo Emanuel, direttore dall'agosto del 1946, a ribadire la tradizione. Subito dopo essere stato nominato direttore, Borsa gli chiede quale indirizzo intenda dare al giornale. "L'opposto del tuo", è la secca risposta del nuovo direttore. Con il quale il Corriere torna a vivere i fasti del passato, valendosi di una squadra eccezionale. Guido Piovene, Dino Buzzati, l'immancabile Montanelli, Orio Vergani, Max David, Egisto Corradi sono solo alcuni tra gli inviati che, con i loro articoli, raccontano quel che accade nel mondo e fanno del reportage un vero genere letterario. Sono anni floridi, per l'Italia e per il Corriere, che sembrano crescere di pari passo sotto l'effetto del boom economico. Mario Missiroli, Alfio Russo e Giovanni Spadolini garantiscono alla famiglia Crespi una crescita, in termini di diffusione di copie, che passa - di media - dalle 405mila del 1950 (direttore Emanuel) alle 610mila del 1972, anno in cui Spadolini lascia la direzione a Piero Ottone. E anno in cui la parabola del Corriere prende a correre verso il basso. Ancora una volta, il doppio filo che lega via Solferino alle vicende della storia d'Italia determina le sorti di chi tiene il timone del più importante quotidiano italiano.

Giovanni Spadolini, divenuto direttore nel 1968, è giudicato incapace dai proprietari - in particolare da Giulia Maria Crespi - di comprendere la portata della contestazione, studentesca e operaia, che da quell'anno mette a soqquadro il Paese. Al posto suo, s'è detto, Piero Ottone. Il quale non esita a strizzare l'occhio ai contestatori confezionando un giornale che, tradendo la sua storia, ne appoggia - seppur sottovoce rispetto a certa stampa dell'epoca - le rivendicazioni e, quel che è più grave, le azioni violente.

E' la prima volta che il Corriere, pur aumentando le vendite, non riesce a leggere nitidamente tra le pieghe della società. Che, impersonata dalla cosiddetta "maggioranza silenziosa", si aspetta da via Solferino chiari segnali di condanna e di rifiuto del diffuso conformismo a sinistra. I quali, però, non arrivano.

Il 1973 è un anno a doppia faccia, per il Corriere. Da un lato c'è il record delle vendite, con una media di quasi settecentomila copie. Dall'altro, invece, c'è il divorzio con una delle sue penne storiche, quella di Indro Montanelli. Conservatore da sempre, il giornalista abbandona il Corriere in polemica con l'"apertura a sinistra" voluta da Ottone, e va a fondare, l'anno successivo, Il Giornale Nuovo portando con sé una trentina di redattori tra i quali Piovene, Corradi, Enzo Bettiza, Mario Cervi, Gianfranco Piazzesi.

Franco Di Bella, che seguirà ad Ottone sulla poltrona del direttore, dirà che "Indro s'è portato via l'argenteria di famiglia". Ma il peggio deve ancora venire. Il 12 luglio del '74 Giulia Maria Crespi cede ad Andrea Rizzoli - figlio del grande editore Angelo e guida dell'omonimo gruppo editoriale - la sua quota di azioni del Corriere della Sera. Lo stesso fanno altri due azionisti di prestigio, Angelo Moratti e Gianni Agnelli. L'operazione, valutata intorno ai cinquanta miliardi, consente a Rizzoli - che mette il figlio Angelo jr alla guida amministrativa del quotidiano - di trovarsi a capo di un impero mediatico potentissimo, esteso soprattutto sul cinema e sull'informazione. Nel 1977 vi lavorano 10mila dipendenti, e chiunque si guadagni da vivere nel mondo dell'informazione desidera farvi parte. Si tratta, però di un gigante dai piedi d'argilla. Le spese " di mantenimento" diventano insostenibili, malgrado Rizzoli riceva dalla Montedison ogni anno più di 7 miliardi di lire. Angelo jr decide quindi che è giunto il momento di una ricapitalizzazione che rilanci il gruppo in grande stile.

E' un'operazione da circa 20 miliardi, di provenienza ignota. In seguito si saprà che i manovratori rispondono al nome di Paul Marcinkus, responsabile dello Ior (la banca del Vaticano) e di Licio Gelli, detto "il venerabile", capo della loggia massonica Propaganda 2 o più semplicemente P2.
Il Corriere, questa volta per il verso negativo, torna a quel ruolo di specchio delle vicende italiane che è tutt'uno con la sua storia. Addirittura anticipa i tempi, e nel pieno degli "anni di piombo" diventa protagonista di una storia da "anni di fango".
Sotto la regia di Rizzoli jr e di Bruno Tassan Din (direttore generale del gruppo), nascono progetti grandiosi il cui acme è in due nuove iniziative che coinvolgono un celebre giornalista, Maurizio Costanzo. La prima è quella di un telegiornale da diffondere in tutta Italia mediante cassetta: Contatto. Si tratta di una breve parentesi chiusa da una sentenza della Corte Costituzionale, che ribadisce il monopolio dell'informazione a favore dei soli telegiornali Rai. La seconda è il lancio di un quotidiano formato tabloid, sul modello del Daily mirror inglese: L'Occhio. Si prevedono seicentomila copie di tiratura, che sulle prime vengono esaurite. In seguito, però, le vendite calano bruscamente e l'avventura finisce. In rosso finiscono anche i bilanci della Rizzoli. Per sanarli, si pensa addirittura a un emendamento "salvadebiti" nella legge per l'editoria che il Parlamento s'avvia ad approvare.

Ma il tentativo di scaricare sul contribuente, addossandoli allo Stato, i debiti delle aziende in crisi fallisce anche per la campagna organizzata dalla stampa concorrente del Corriere, capeggiata dal neonato quotidiano La Repubblica e dal suo direttore Eugenio Scalfari. Niente emendamento, quindi; e l'amministrazione Rizzoli è costretta a ricorrere ancora alle casse di Licio Gelli tramite il banchiere Roberto Calvi, presidente del Banco Ambrosiano. Che Gelli sia coinvolto direttamente nelle sorti del Corriere lo si evince da un'intervista rimasta nella storia del giornalismo. Esce sullo stesso quotidiano il 5 ottobre del 1980 e la fa Maurizio Costanzo proprio al "venerabile". Il quale, dopo aver vagheggiato, per traghettare l'Italia fuori dalle acque degli "anni di piombo", un piano di marca smaccatamente dittatoriale, teso al controllo di tutta la stampa italiana, televisiva e cartacea, termina il colloquio con il giornalista esprimendo il desiderio di essere ricordato come un "burattinaio". Il resto è cosa nota. La pubblicazione della lista degli affiliati alla P2 genera un vero terremoto politico e mediatico. Tra gli iscritti, infatti, c'è più della metà del gruppo Rizzoli, oltre ad alti dirigenti dello Stato, imprenditori, giornalisti.
E tra questi, figura anche il direttore del Corriere, Franco Di Bella.

S'è scritto molto sulla questione P2, insistendo sulla buona fede di molto degli affiliati, che cadono letteralmente dalle nuvole al momento in cui i giornali - tra i quali il quotidiano di via Solferino - pubblicano i nomi dei "massoni". Dopotutto, la complessità delle trame ordite da Gelli - una ragnatela che si intesse tra il fallimento del Banco Ambrosiano, il suicidio di Roberto Calvi, l'omicidio dell'avvocato Giorgio Ambrosoli (curatore del suddetto fallimento), l'arresto del finanziere Michele Sindona con l'accusa di esserne il mandante, e la morte in carcere dello stesso Sindona, avvelenato da un caffè - induce a giustificare, per alcuni di coloro che figurano nella lista P2, la totale buona fede. Lo specchiato passato di Franco Di Bella, direttore con l'animo del cronista più che dell'amministratore, depone in tal senso. Rimane però il fatto che, durante la sua direzione, il Corriere vive il momento più buio della sua storia. E il più drammatico, con la violenza terroristica che entra in redazione.

Ne fa le spese Walter Tobagi, cronista di trentatré anni, intelligente analista del fenomeno del terrorismo, ucciso il 28 maggio 1980 da un commando affiliato alle Brigate Rosse. Il consueto, delirante volantino che gli assassini recapitano al giornale dopo l'omicidio induce a ritenere - per stile di scrittura e conoscenza della vita di redazione - che i mandanti siano tra i colleghi dello stesso Tobagi.

Rimarrà una semplice ipotesi, tuttavia sintomatica del clima malato di quel periodo della storia d'Italia. A Di Bella succede Alberto Cavallari, che fa un po' rinascere il Corriere.
Ma a renderlo nuovamente grande ci pensa, dal 1992 al 1997, PAOLO MIELI. Con lui, il giornale torna a essere il più venduto in Italia, toccando medie da quasi un milione di copie. E con lui nasce un fenomeno non a caso chiamato "mielismo". Si tratta della presunta tendenza a fare informazione in modo poco graffiante, a mettere in secondo piano la profondità delle analisi politiche, l'incisività delle inchieste e dei reportage per privilegiare un modello tarato sullo stampo della televisione. Un modello, insomma, che punti più sull'immagine che sul contenuto. Ne sarebbero espressione le numerose iniziative collaterali - magazine, inserti, periodici femminili - che accompagnano ogni giorno l'uscita in edicola del quotidiano (meglio, di quasi tutti i quotidiani).

Non sta a noi dare un giudizio a riguardo, bensì sottolineare come il Corriere della Sera - che per primo ha spesso adottato le suddette iniziative - abbia saputo ancora una volta guardare al mutamento della società italiana. Nel bene e nel male.

IGOR PRINCIPE

Bibliografia
Storia del Corriere della Sera, di Glauco Licata - Ed. Rizzoli, Milano, 1976
Storia di cento anni di vita italiana visti attraverso il Corriere della Sera, di Denis Mack Smith - Ed. Rizzoli, Milano, 1978
La stampa italiana dalla liberazione alla crisi di fine secolo, di Paolo Murialdi - Ed. Laterza, Bari, 1995
Corriere primo amore, di Gaetano Afeltra - Ed. Bompiani, Milano, 1984
Da Ottone alla P2, di Gianluigi Da Rold - Ed. SugarCo, Milano, 1982
L'Italia del Novecento, di Indro Montanelli e Mario Cervi - Ed. Rizzoli, Milano, 1998

Questa pagina
(e solo per apparire su Cronologia)
è stata offerta da Franco Gianola
direttore di http://www.storiain.net

(vedi anche 1900-1925 "IL CORRIERE E IL FASCISMO" )

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( e STORIA DEL GIORNALE )
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