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( QUI TUTTI I RIASSUNTI )  RIASSUNTO ANNI 1876-1878

GOVERNO A SINISTRA - DEPRETIS 1 e 2 - MORTE VITT. EM. II e PIO IX

IL PRIMO MINISTERO DEPRETIS - IL "LIBRO NERO", L'INCHIESTA AGRARIA, LA DISCUSSIONE DEI BILANCI - LE CONVENZIONI FERROVIARIE - SCIOGLIMENTO DELLA CAMERA - IL DISCORSO DEL DEPRETIS A STRADELLA - TRIONFO MINISTERIALE - ARBITRII DEL NICOTERA - LE ACCUSE DELLA "GAZZETTA D'ITALIA" - INAUGURAZIONE DELLA XIII LEGISLATURA- FRANCESCO CRISPI PRESIDENTE DELLA CAMERA - DISEGNO DI LEGGE CONTRO GLI ABUSI DEL CLERO - IL CAIROLI PROPONE UNA PENSIONE AI SUPERSTITI DI SAPRI- LE LEGGI SULLE INCOMPATIBILITÀ PARLAMENTARI E SULL'ISTRUZIONE OBBLIGATORIA - PROVVEDIMENTI FINANZIARI - LA QUESTIONE D'ORIENTE - L'ITALIA E LA QUESTIONE D'ORIENTE - TENSIONE DEI RAPPORTI TRA L' ITALIA E L'AUSTRIA E TRA I 'ITALIA E LA FRANCIA - MISSIONE DEL CRISPI A PARIGI, BERLINO, LONDRA, E VIENNA - L'ESTREMA SINISTRA - DIMISSIONI DELLO ZANARDELLI - LA "GAMBA DI WLADIMIRO" - DIMISSIONI DEI GABINETTO - SECONDO MINISTERO DEPRETIS - MALATTIA E MORTE DI VITTORIO EMANUELE II - ASSUNZIONE AL TRONO DI UMBERTO I - PROCLAMI AL PAESE E ALL'ESERCITO - II GIURAMENTO E AL DISCORSO DEL NUOVO RE - MORTE DI PIO IX - IL CONCLAVE - ELEZIONE DI LEONE XIII - DIMISSIONI DEL CRISPI - INAUGURAZIONE DELLA SECONDA SESSIONE DELLA XIII LEGISLATURA - DIMISSIONI DEL MINISTERO
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IL PRIMO MINISTERO DEPRETIS - CRISPI PRESIDENTE DELLA CAMERA
DISEGNI DI LEGGI CONTRO GLI ABUSI DEL CLERO,
SULLE INCOMPATIBILITA PARLAMENTARI
E SULL'ISTRUZIONE OBBLIGATORIA.


Caduta la Destra, con il governo Minghetti, il 18 marzo 1876, UMBERTO, re da soli due mesi, affidò la costituzione del nuovo ministero al capo della Sinistra, AGOSTINO DEPRETIS, il quale oltre ad avere la presidenza del Consiglio, tenne per sé il portafoglio delle Finanze e affidò gli Interni a GIOVANNI NICOTERA, gli Esteri a LUIGI MELEGARI, i Lavori Pubblici a GIUSEPPE ZANARDELLI, la Grazia e Giustizia a PASQUALE STANISLAO MANCINI, la Pubblica Istruzione a MICHELE COPPINO, la Guerra a LUIGI MEZZACAPO, la Marina a BENEDETTO BRIN e l'Agricoltura a SALVATORE MAJORANA-CALATABIANO.

Il 28 marzo del 1876, Depretis presentò alla Camera i ministri ed espose il suo programma politico in un discorso misurato, ripetendo più o meno quello che aveva enunciato un anno prima a Stradella (lo abbiamo letto nella precedente puntata) ed aggiungendo che intendeva governare con l'appoggio della Sinistra, ma nell'interesse di tutta la Nazione, pronto ad accettare la franca collaborazione degli uomini onesti e capaci di ogni partito, e concluse:
"Fedeltà inalterabile allo Statuto e allo spirito del Governo rappresentativo; provvedimenti per assicurare la sincerità delle istituzioni costituzionali e la santità della magistratura; libertà di coscienza, di associazione, di vita economica; emancipazione intellettuale delle classi che ora non possono usare dei loro diritti e che noi dobbiamo considerare come pupilli affidati alla loro religiosa tutela; diffusione della vita pubblica e dell'esercizio del dovere di cittadino in tutte le classi dei cittadini, in tutte le parti dello Stato; progressivo miglioramento delle condizioni economiche e finanziarie del paese; in questi concetti, o signori, si riassume il nostro programma".

Riapertosi il Parlamento il 26 aprile, dopo le vacanze pasquali, ci fu alla Camera un vivace dibattito per il cosiddetto "Libro Nero", costituito dall'insieme di molti rapporti di prefetti e questori sulla vita privata di parecchi deputati della Sinistra; si votarono i fondi per promuovere un'inchiesta agraria che esaminasse le condizioni reali dei coltivatori e suggerisse i mezzi per migliorarle; si discussero i bilanci e il CRISPI, relatore della Commissione generale, dichiarò solo apparente il pareggio annunziato dal Minghetti perché questi aveva tenuto conto di crediti inesigibili e di entrate temporanee e non aveva aggiunto le forti somme richieste dalle opere che erano state invece annunciate o quelle iniziate..

La discussione più importante fu quella intorno alle convenzioni ferroviarie. Una convenzione per il distacco amministrativo ed economico delle reti ferroviarie venete da quelle austriache l'aveva stipulata il SELLA a Basilea il 17 novembre del 1875 per incarico del MINGHETTI, e c'era pure un disegno di legge che era stato presentato, prima della loro caduta, dal Minghetti e dallo Spaventa.
DEPRETIS, il 17 giugno del 1876, dichiarò di ritirare per decreto reale il disegno Minghetti-Spaventa e ne presentò un altro formulato da lui e da Zanardelli per approvare le convenzioni di Basilea, il distacco della rete italiana dall'austriaca, il riscatto delle ferrovie dell'Alta Italia e l'"atto addizionale" della Convenzione di Basilea.

Il dibattito iniziò il 23 giugno. In favore dell'esercizio statale parlarono parecchi deputati della Destra, SILVIO SPAVENTA, MINGHETTI, SELLA, LUZZATTI; a favore dell'industria libera parlarono il CRISPI, ZANARDELLI e DEPRETIS, quindi la Camera approvò il disegno ministeriale con 344 voti favorevoli e 35 contrari.
Volendo il DEPRETIS conoscere se la Sinistra godeva le simpatie e la fiducia del paese, ma anche per l'impossibilità di far approvare dalla Camera l'insieme delle riforme progettate, il 3 ottobre fu sciolta la Camera dei deputati e furono convocati i comizi per il 5 novembre.

SCIOGLIMENTO DELLA CAMERA - TRIONFO MIISTERIALE NELLE ELEZIONI

L'8 ottobre DEPRETIS tenne ai suoi elettori di Stradella un discorso in cui esaltò Vittorio Emanuele e Casa Savoia e rivolse aspre critiche alla Destra e annunziò molte riforme.
SELLA come il più significativo rappresentante della Destra, tenne invece il suo discorso nel Biellese, a Cossato, sottolineando i grandi progressi economici e culturali compiuti dall'Italia sotto i governi della destra.

Da questa competizione elettorale mancano: la sinistra operaia che punta invece alla lotta, al suffragio universale, al cooperativismo (si è parlato di questo al loro Congresso di Genova il 24-26 settembre), o all'insurrezione armata (come invece hanno parlato gli internazionalisti riuniti a Firenze l'8 ottobre); e mancano i cattolici che seguendo un "programma" elaborato dal Papa già al Congresso Cattolico del 22-26 settembre dello scorso anno, non partecipano neppure loro alle elezioni politiche, ma sono solo presenti in quelle locali, provinciali e comunali.

Il 5 novembre si svolgono le elezioni. 605.007 votanti, votano 358.258 (il 59,2% degli aventi diritto. I candidati della sinistra raccolgono circa il 70% dei voti, e costituirono un grande trionfo per il ministero, che vide eletti 421 deputati della maggioranza contro un centinaio dell'opposizione.

Questa grande vittoria fu dovuta non solo alla convinzione del paese che la Sinistra avrebbe effettuato ampie ed utili riforme, ma anche all'opera del NICOTERA, il quale, deciso a far trionfare i ministeriali, commise numerosi e gravi arbitrii, mutò prefetti e sottoprefetti, promise, minacciò, punì, premió e lasciò che la stampa al suo servizio ingiuriasse a calunniasse abbondantemente gli avversari.
Neppure la stampa avversaria tenne un contegno migliore e la "Gazzetta d'Italia" di Firenze, organo dei moderati, nemico giurato del ministro degli Interni, pubblicò perfino un libello intitolato "L'eroe di Sapri", in cui si sosteneva che il Nicotera aveva ottenuto da Ferdinando II la commutazione della pena capitale in quella dell'ergastolo perché aveva rivelato i suoi complici alla Gran Corte Criminale di Salerno (di aver tradito Carlo Pisacane in occasione della spedizione di Sapri). Il Nicotera querelò per diffamazione la "Gazzetta" e in un processo, svoltosi a Firenze dal novembre del 1876 al gennaio successivo, fu provato che l'accusa lanciata contro il ministro altro non era che una vile calunnia, e il 26 gennaio assolverà dalle accuse infamanti il ministro degli interni.

La XIII Legislatura fu inaugurata il 20 novembre del 1876 con un discorso del re, il quale dichiarò di aver chiamato con piena ed aperta fiducia la Sinistra al potere, raccomandò di approvare sollecitamente alcune proposte intese a render semplice, spedita ed economica l'azione tutelare dello Stato, dichiarò che il pareggio era vicino e che, una volta raggiunto, si sarebbe pensato a togliere il corso forzoso, affermò che sarebbe scemata la durezza delle esazioni, ma che non potevano esser diminuite le spese per le opere pubbliche e per l'esercito e la flotta, promise che si sarebbe provveduto alla questione del decentramento, a quella dell'istruzione obbligatoria, alla riforma elettorale.

Nei riguardi della politica ecclesiastica, il sovrano dichiarò che non si sarebbe violata la legge delle Guarentigie, ma che le ampie libertà concesse alla Chiesa sarebbero state applicate in modo da non menomare i diritti della sovranità nazionale.
Il giorno dopo ci fu l'elezione del presidente della Camera. Risultò eletto con 232 voti favorevoli e 15 contrari FRANCESCO CRISPI. Alla vicepresidenza andarono DE SANCTIS, MAUROGONATO, PICCIONI, SPANTIGATI.

Finalmente CRISPI - che sarebbe entrato nel ministero se la gelosia del NICOTERA, ZANARDELLI e di altri non lo avesse impedito - poteva sedersi su quel seggio su cui invano tante volte la Sinistra aveva tentato di metterlo; e per il fatto che per il suo temperamento focoso i suoi avversari non lo credevano adatto a quel posto, lui, il 23 novembre, ritenne necessario fare la seguente dichiarazione:
"Se un dì l'amore travagliato, ma indomito per la libertà e l'unità della patria, mi ha spinto con passione alle supreme e audaci imprese per conquistare un tanto bene; se la mente convinta e l'animo ardente nelle lotte politiche mi concitarono spesso la parola, che irrompeva senza altro ritegno in fuori di quello della illimitata fiducia in tutto ciò che io reputavo vero e giusto; se il mio stesso temperamento meridionale e subitaneo sovente mi lanciava in una via piena di pericoli, sappiate, onorevoli colleghi, che questo complesso di elementi costitutivi della mia persona io li conosco, e qui, su questo seggio, io metterò tutte le mie forze per governarli .... Accanto all'ardore dell'animo, alla eccitabilità della fibra ho posto il dominio sicuro di una ferma volontà e questa adoprerò tutta per mantenere la più stretta imparzialità nel presiedere e regolare le vostre discussioni. Con tal proponimento dimenticherò il posto da cui venni, ricorderò quello in cui sono .... A destra, a sinistra, al centro e sui seggi ministeriali io non distinguo partiti, io non riconosco che uomini devoti al bene della patria comune".

Due giorni dopo che CRISPI fece la suddetta dichiarazione, MANCINI presentò alla Camera un disegno di legge contro gli abusi del clero. La discussione ebbe inizio il 18 gennaio del 1877. Parlarono contro il disegno BARTOLUCCI, GIOVANNI BOVIO e FERDINANDO MARTINI che lo dichiarò insufficiente perché comminava pene contro il basso e non contro l'alto clero; parlarono a favore NOCITO, CORDOVA, ABIGUENTE, PETRUCCELLI della Gattina; la Camera il 24 gennaio lo approvò con 150 voti contro 100, ma in senato, il 7 maggio il disegno, difeso da AMARI, da BORGATTI, da MOLESCHOTT e da MANCINI e combattuto da PANTALEONI, AIRENTI, MAURI, BONCOMPAGNI, CARLO CADORNA e LAMPERTICO, fu poi respinto con 105 voti contro 52.

Il 30 gennaio BENEDETTO CAIROLI, con nobili parole, espose un suo ordine del giorno, firmato da GARIBALDI, BERTANI, FABRIZI, MICELI e da altri, proponendo di accordare una pensione ai superstiti della spedizione di Sapri, contro uno dei quali aveva lanciato calunnie la "Gazzetta d'Italia", condannata proprio in quei giorni per diffamazione:
"La spedizione di Sapri - disse Cairoli - fu l'alba di un giorno immortale, la scintilla che divampò più tardi ed incendio, il preludio delle decisive battaglie. I pericoli, gli ostacoli, anzi la quasi impossibilità di quel titanico ardimento, lo fanno più glorioso, perché attestano la serena premeditazione del martirio intenta a maturare il domani che non vedrà. Quei prodi andarono a morire per svegliare i dormienti. Era allora profondo il letargo sotto l'incubo del dolore; le forche austriache maestre di buon Governo ai minori tiranni; unico asilo delle profughe speranze nazionali: il Piemonte. In così lugubre silenzio di moltitudini attonite Pisacane ed i suoi compagni deliberarono il risveglio. Furono apostoli di fede nell'ora del disinganno, accesero il faro del loro martirio, che additava la via della libertà in quella notte d'oppressione. Partirono e caddero; eroi in uno scontro disuguale; vincitori nell'inevitabile conflitto. Essi vinsero per l'avvenire, con impavida morte sul campo, schiacciati dal numero delle orde assassine inferocite dallo spavento, con il disprezzo delle minacce davanti ai tribunali, strumenti di vendetta decretata in nome della Giustizia, con imperturbata agonia, ilari sul patibolo convertito in tribuna di esempio, con la rassegnazione nelle torture del carcere, ove le vittime non hanno mai dato ai tormentatori la soddisfazione di un lamento. La storia ha celebrato l'impresa di Pisacane; non vi è commento di scettica bile che possa mettere in dubbio l'epopea del sacrificio".

Ma QUINTINO SELLA invitò la Camera a respingere l'ordine del giorno Cairoli per non compiere un ingiustizia verso tutti gli altri eroi che avevano dato la libertà alla patria, e la proposta della pensione ai superstiti di Sapri non ebbe più un seguito.

Il 31 gennaio, FELICE CAVALLOTTI invitò il Parlamento a inviare una rappresentanza ai funerali che Milano preparava per i martiri del 6 febbraio del 1853. La Camera aderì, ma il Governo austriaco se n'adombrò chiedendo spiegazione al conte CARLO di ROBILANT, ambasciatore italiano a Vienna. Allora si stabilì di rimandare la commemorazione di Milano e si scelse proprio la data del martirio per la presentazione delle credenziali del barone KAYMERLE, nuovo ambasciatore austriaco.


LA LEGGE DEGLI INELEGGIBILI

Il 20 febbraio iniziò il dibattito sul disegno di legge presentato dal Nicotera il 7 dicembre sull'incompatibilità parlamentare, che il 3 marzo fu approvato con 170 voti contro 126. La nuova legge dichiarava ineleggibili i funzionari ed impiegati che avevano uno stipendio sul bilancio dello Stato o sui bilanci del fondo per il culto, degli Economati generali dei benefici vacanti, della lista civile, del Gran Magistero dell'Ordine Mauriziano e delle scuole superiori sovvenzionate dallo Stato, eccettuati i ministri segretari di Stato, i segretari generali dei ministeri, il ministro della Casa Reale, il primo segretario del Gran Magistero dell'Ordine Mauriziano, il presidente, i presidenti di sezione e i consiglieri del Consiglio di Stato, l'avvocato generale erariale, il primo presidente, i presidenti e i consiglieri delle Corti di Cassazione e di Appello, ineleggibili nel territorio della loro attuale giurisdizione o in quello in cui hanno esercitato l'ufficio sei mesi prima dell'elezione, gli ufficiali generali e superiori di terra e di mare, anch'essi ineleggibili quando sono nelle condizioni dei precedenti, i membri del Consiglio superiore della Pubblica Istruzione e dei Lavori Pubblici, del Consiglio di Sanità e del Consiglio delle Miniere, i professori delle regie università e degli altri istituti superiori e i ministri del Culto.

Il numero dei deputati eletti fra le suddette categorie di funzionari non poteva essere superiore ai quaranta; i magistrati e i professori universitari non potevano essere che dieci per ciascuna delle categorie. Inoltre erano dichiarati ineleggibili tutti coloro che erano stipendiati sui bilanci delle società ed imprese industriali e commerciali sussidiate dallo Stato, gli avvocati e procuratori legali al servizio delle società ed imprese suddette, coloro che erano vincolati con lo Stato per concessioni o per contratto di opere o somministrazioni, i diplomatici, i consoli, i viceconsoli e gli ufficiali addetti alle ambasciate, alle legazioni o ai consolati esteri.

SULL'ISTRUZIONE

Il 16 dicembre del 1876 il ministro MICHELE COPPINO aveva presentato un disegno di legge sull'obbligatorietà dell'istruzione elementare, laica e gratuita. Il 5 marzo '77 cominciò la discussione, alla quale presero parte fra gli altri PETRUCCELLI della Gattina, FERDINANDO MARTINI, GIOVANNI BOVIO, DOMENICO BERTI, ANTON GIULIO BARRILI, FAMBRI e TORRIGIANI.

PETRUCCELLI e BOVIO sostennero la laicità dell'insegnamento, MARTINI, poiché la laicità trovava non pochi oppositori, propose che l'insegnamento religioso s'impartisse soltanto a quelli alunni i cui padri lo avessero richiesto. Questo concetto informò un ordine del giorno del Cairoli che fu accettato e il 10 marzo con 208 voti contro 20 fu approvato il disegno sull'istruzione elementare obbligatoria, che divenne legge il 15 luglio. Prevede l'obbligo della frequenza scolastica, gratuita, per tutti i fanciulli dai sei a nove anni e l'eliminazione del catechismo dalle materie obbligatorie.

Il 27 marzo il DEPRETIS, fece l'esposizione finanziaria e propose modifiche all'imposta di ricchezza mobile, la revisione dell'imposta sui fabbricati e l'aumento di tassa di 16 milioni sulla fabbricazione degli zuccheri. Su quest'ultimo disegno riferì il MEZZANOTTE. Il 21 maggio iniziò il dibattito: parlarono contro MINGHETTI, SELLA, BOVIO, TAFANI, LA PORTA ed altri, a favore, fra gli altri, LUZZATTI BONGHI, CAIROLI.
Il Depretis pose la questione di fiducia: la Camera l'accordò con 275 voti contro 120 e il 27 maggio il disegno di legge fu approvato con 232 voti contro 109.

GUERRA RUSSO-TURCA - L'ITALIA E LA QUESTIONE D'ORIENTE
TENSIONE DEI RAPPORTI ITALIANI CON L'AUSTRIA E LA FRANCIA
MISSIONE DEL CRISPI A PARIGI A BERLINO, A LONDRA E A VIENNA
L 'ESTREMA SINISTRA - LA "GAMBA DI WLADIMIRO"
DIMISSIONI DEL GABINETTO - SECONDO MINISTERO DEPRETIS

Teniamo bene in mente questi fatti, che saranno poi in seguito, le cause che scateneranno nel 1914 la 1° Guerra Mondiale.
Nel luglio del 1875, istigata dalla Russia, l'Erzegovina era insorta cacciando i funzionari turchi e con l'aiuto dei Serbi e dei Montenegrini aveva sconfitto le truppe che la Porta le aveva mandato contro per ridurla all'obbedienza. Un mese dopo, l'insurrezione si era estesa alla Bosnia e nell'aprile del 1876 si era sollevata anche la Bulgaria costituitasi in Governo nazionale. Nel giugno di quello stesso anno, i principi NICOLA di Montenegro e MILANO di Serbia, alleatisi, avevano mosso guerra alla Turchia, ma questa aveva ricacciato i Montenegrini nelle loro montagne, aveva battuto i Serbi nella battaglia di Aleksinac (1 settembre).
I Serbi fanno appello alle grandi potenze. La Russia si prepara ad intervenire nel conflitto, e ottiene con un ultimatum alla Turchia (su pressioni anche del governo britannico) un armistizio di sei settimane per la Serbia uscita sconfitta.

Preoccupate della sconfitta della Serbia, le grandi potenze europee erano intervenute diplomaticamente per ottenere dal Sultano ampie riforme per i cristiani (!?) della Bosnia e dell'Erzegovina e fare cessare la guerra; ma le proposte di riforme, presentate alla Porta dopo la conferenza di Costantinopoli avvenuta nel dicembre del 1876, erano state respinte da un Divano straordinario e dal Parlamento turco.
Stavano così le cose quando, il 24 aprile del 1877, la Russia, che proteggeva gli slavi dei Balcani e che non aveva mai rinunziato al proposito di conquistare Costantinopoli, dichiarò guerra alla Turchia, e messasi d'accordo con il principe CAROL di Romania, su questa fece passare i suoi eserciti verso la frontiera ottomana.
I Russi al comando del generale GURKO il 7 luglio occuparono Tirnovo, ma il 30 di quello stesso mese furono sconfitti a Plewna da OSMAN-PASCIÀ, che si sostenne valorosamente fino al 10 dicembre quando i russo-romeni tornarono all'offensiva.
Occupata Plewna, gli eserciti alleati avanzarono vittoriosamente fino a Adrianopoli e qui, poi il 30 gennaio del 1878 furono firmati i preliminari di pace sulla base dell'indipendenza della Romania e della Serbia, dell'accrescimento del Montenegro, dell'autonomia della Bulgaria e dell'amministrazione autonoma della Bosnia e dell'Erzegovina.
Dobbiamo però ricordare che il 15 gennaio del 1877, la Russia, per assicurarsi la neutralità degli Austriaci nella guerra contro la Turchia, aveva concluso un accordo a Raichstadt ("Convenzione di Budapest") con il quale -in cambio della loro neutralità- concedeva agli Austriaci il diritto di occupare la Bosnia e l'Erzegovina.

Appreso questo, il Governo italiano pensò essere giunto il momento di chiedere all'Austria, in compenso del suo ingrandimento nei Balcani, una rettifica di confini a favore dell'Italia e lasciò che i giornali ufficiosi annunziando le pratiche parlassero di sicura riuscita, mentre in tutte le città alcuni gruppi inscenavano strepitose dimostrazioni, cui facevano eco agitazioni di studenti universitari.

Pur ribadendo la sua neutralità, in Italia in alcuni ambienti, non si vedeva l'ora che l'Austria intervenisse nella crisi balcanica, in modo da rivendicare qualche compenso territoriale nel Trentino e nel Friuli.
E' appunto del maggio 1877, la fondazione di una "Associazione per l'Italia Irredenta", guidata dal repubblicano MATTEO RENATO IMBRIANI, per rivendicare l'italianità di Trento e Trieste e promuovere agitazioni antiaustriache. Questo termine dell'"irredentismo" entra così da questo momento nella terminologia politica italiana.

La stampa austriaca smentì categoricamente le informazioni di quella italiana e accusò il nostro Governo di favorire l'irredentismo. I rapporti tra le due potenze divennero tesi e il conte di ROBILANT, ambasciatore italiano a Vienna, accusato di spionaggio, dovette lasciare la capitale austriaca. Intanto le truppe imperiali si ammassavano nel Trentino e sull'Isonzo, dimostrazioni antitaliane avvenivano a Vienna e si ostentava la cordialità di rapporti tra l'Austria e la Santa Sede, mandando un'ambasceria straordinaria imperiale in Vaticano.

Meno tesi, ma non di certo buoni erano i rapporti dell'Italia con la Francia, il cui malanimo (dopo il 1870) era accresciuto dal sospetto che l'Italia mirasse ad occupare la Tunisia (quello che aveva profetizzato Mazzini: "se non ci andiamo prima noi, ci andranno loro") dalla continua richiesta di denari del ministro della Guerra Mezzacapo e dalle proteste dei cattolici suscitate dall'allocuzione papale del 12 marzo 1877 pronunziata in seguito all'approvazione della legge sugli abusi del clero.

II ministero francese SIMON che aveva mostrato di voler mantenere buone relazioni con l'Italia, era stato, a metà del maggio 1877, sostituito da MAC-MAHON, presidente della Repubblica, con il ministero DE BROGLIE e quel mutamento aveva gettato l'allarme nei circoli politici italiani e provocato un'interrogazione dell'on. SAVINI ed un fiero discorso alla Camera di FELICE CAVALLOTTI.
Pareva proprio di essere alla vigilia di una guerra (sarà rimandata al 1914) e di guerra parlava VITTORIO EMANUELE II con alcuni generali a Torino dove era andato ad inaugurare, nel giugno, il monumento al fratello Duca di Genova. Propositi pacifici dimostrava invece il ministero DEPRETIS, tuttavia voleva evitare che gli interessi italiani fossero menomati dalli ingrandimento austriaco in Oriente cui ora s'aggiungeva il pericolo che in Francia, scioltasi la Camera, le elezioni riportassero alla vittoria i clericali, che erano impazienti di pareggiare i conti con l'Italia del 1870.
Per parare la minaccia che poteva venire dall'Austria e dalla Francia, il re e il presidente del Consiglio stabilirono di incaricare qualcuno di visitare le principali capitali europee per esplorare le intenzioni dei vari governi e patrocinare un adeguato compenso all'Italia nel caso di annessione all'Austria della Bosnia è dell'Erzegovina e nello stesso tempo di tentare un'alleanza con Berlino e un accordo con Vienna.

Questa missione fu affidata a FRANCESCO CRISPI, che il 27 agosto partì per Parigi. Il 1° settembre, il deputato siciliano si incontrò con il ministro francese degli Esteri DECAZES, il quale gli assicurò che la Francia nutriva sentimenti pacifici ed amichevoli nei riguardi dell'Italia, ma non nascose la sua preoccupazione per gli armamenti italiani e l'opera del partito prussiano che spingeva (anche questa volta) il Governo di Roma alla guerra contro la Francia.
Il CRISPI inoltre vide il GAMBETTA, GARNIER PAGÈS, EMILIO DE GIRARDIN ed altri uomini politici e partecipò ai funerali di ADOLFO THIERS morto in quei giorni.
Scrivendo le sue impressioni, il Crispi diceva: "In tutto le classi del paese si è fatta radicare l'opinione pubblica che l'Italia vuole fare la guerra alla Francia. L'ho combattuta questa opinione in quanti me l'hanno manifestata, ma ho dovuto riflettere che coloro che sono stati i primi a divulgarla hanno avuto in animo di prepararsi il motivo presso questo popolo per legittimare la guerra nel caso che un giorno essi ci attaccassero. Il certo però è questo, che i francesi continuano i loro armamenti, e che tutti gli stabilimenti privati fabbricano armi d'ogni genere per questo ministero della guerra. Pensiamo dunque ai casi nostri e teniamoci pronti a tutte le eventualità".

Lasciata Parigi, Crispi andò a Berlino e qui, il 17 settembre, fu a Wildbad, nella valle di Gasteim, dove si trovava il Bismarck. Con il cancelliere germanico ebbe un lungo colloquio nel quale espose le preoccupazioni dell'Italia per l'eventualità che nelle prossime elezioni francesi riuscisse vittorioso il partito clericale e il proposito del governo di Roma di rettificare i confini orientali nel caso che l'Austria acquistasse nuovi territori nei Balcani turbando l'equilibrio dell'Adriatico.
CRISPI chiese a BIMARCK se era disposto a stipulare con l'Italia un eventuale trattato d'alleanza nel caso di una guerra italiana contro la Francia o l'Austria e offrì di mettersi d'accordo con la Germania per la soluzione della questione orientale.
Il cancelliere rispose (ribadendo ciò che aveva detto l'imperatore nella sua visita in Italia) che la Germania non avrebbe mai permesso alla Francia di attaccare l'Italia e che per tal fine era pronto a stipulare un trattato d'alleanza. Rispetto all'Austria dichiarò che non poteva fare altrettanto, interessandogli di tenersela amica. Se l'Italia credeva di avere diritto a compensi per gli ingrandimenti austriaci, che se li procurasse altrove, occupando l'Albania o qualche altra terra turca dell'Adriatico.
Quanto alla Germania, essa non aveva interessi in Oriente ed era quindi inutile cercare un'intesa su questo punto. "Io spero - concluse Bismarck - che le relazioni del vostro governo con quello di Vienna diverranno amichevoli e con il tempo, anche cordiali. Tuttavia, se v'impegnaste contro l'Austria me ne dorrebbe, ma non faremmo la guerra per questo".

Lasciata Berlino, FRANCESCO CRISPI si recò a Londra e il 5 ottobre ebbe un colloquio con lord DERBY, il quale riconobbe giuste le pretese dell'Italia di aver compensi ma, come il cancelliere tedesco, consigliò di prenderli altrove, come in Albania. Il 12 ottobre il presidente della Camera italiana giungeva a Vienna e il 20 s'incontrava a Post con l' ANDRASSY, al quale disse che l'Italia amava l'Ungheria e faceva una politica di pace: "Vogliamo stare bene con i vicini, stabilire accordi sulla base degli interessi e rispettare i trattati. Non attaccheremo; ma ci difenderemo se fossimo attaccati. Fummo rivoluzionari per fare l'Italia; siamo conservatori per mantenerla". L' ANDRASSSY disse, fra l'altro, che non conveniva turbare l'accordo con esigenze praticamente ineluttabili. E concluse con questa singolare tesi:

"Non sempre il principio di nazionalità è applicabile in tutti i luoghi, né è norma la lingua a stabilire la nazionalità; non si fa la politica con la grammatica. La nazionalità è stabilita da vari elementi: precede innanzi tutto la topografia e seguono le condizioni economiche che vengono ad alimentare la vita delle popolazioni. Prendetevi Trieste, ma anche se noi ve la cedessimo, voi non potreste starvi un giorno: sareste maledetti".

CRISPI cercò di stipulare qualche accordo sulla questione orientale, ma l'Andrassy rispose che non sapendosi ancora l'esito della guerra russo-turca, bisognava rimandare questa discussione, Tuttavia Andrassy aveva proposto all'Italia di cercare magari a Tunisi o altrove compensi per un'eventuale occupazione austriaca della Bosnia e dell'Erzegovina (ricordiamo di questa proposta)..

Terminata la sua missione, FRANCESCO CRISPI fece ritorno in Italia e consigliò il DEPRETIS di compiere gli armamenti per essere pronti a scendere in guerra ove la questione orientale lo richiedesse.
Ma già il pericolo di un conflitto, specie con la Francia, si era allontanato. Qui le elezioni erano avvenute il 14 ottobre e la vittoria schiacciante riportata dal partito repubblicano, aveva rischiarato il cielo delle Alpi occidentali.

Ma se si rischiarava il cielo della politica internazionale si oscurava quello della politica parlamentare italiana. La Sinistra, fino allora compatta, iniziò a mostrare qui e là delle crepe. Già l'Estrema Sinistra cominciava un'aperta opposizione al ministero. Essa era formata di due gruppi: uno faceva capo al BERTANI e non faceva mistero delle sue idee repubblicane, l'altro riconosceva per capo CAIROLI e rappresentava la tradizione del garibaldinismo parlamentare.
Il CAIROLI favoriva apertamente l'irredentismo e lamentava la condotta irresoluta del Governo nei riguardi dell'Austria. Inoltre il Cairoli non poteva perdonare al Governo la proibizione dei comizi da lui indetti in favore dell'immediata riforma elettorale.
Il BERTANI invece, accusava il Depretis di acquiescenza verso i clericali, non voleva che fosse chiamata "sacro obbligo", come il Depretis aveva fatto, la sistemazione della lista civile fissata in 12 milioni e 250 mila lire e nell'aprile del 1877 con BOVIO e con CAVALLOTTI, interrogava il ministro dell'Interno sullo scioglimento delle associazioni internazionali e repubblicane.

Nel novembre i gruppi della Sinistra, scontenti del ministero, si radunarono a Milano e pronunziarono un aspro rimprovero all'indirizzo del Gabinetto, poi ancora il 12 dicembre -sempre guidati da Bertani- esprimendo la loro sfiducia al ministero Depretis. La destra gongolava, non doveva nemmeno impegnarsi per combattere la sinistra; si faceva a pezzi da sola.
Il 14 di quel mese di novembre, il ministro dei lavori pubblici GIUSEPPE ZANARDELLI, non volendo firmare le convenzioni ferroviarie con alcune società industriali e dissentendo dai metodi di rigore usati dai suoi colleghi, in special modo dal Nicotera, si dimetteva e l'interim del ministero fu assunto dal presidente del Consiglio.
Lo Zanardelli passava così nelle file dei seguaci del Cairoli.

Chi, dei componenti il Ministero, era più di ogni altro contrastato, era il NICOTERA, che quelli di Destra chiamavano "rivoluzionario" e quelli di Sinistra "reazionario"; e tutti lo accusavano di essere irruente e aggressivo e che favoriva sfacciatamente gli amici, ma Nicotra aveva anche il merito di avere in un periodo agitatissimo saputo mantenere l'ordine, di avere combattuta la mafia e la camorra, e di aver promosso inchieste "sull'amministrazione comunale e provinciale, sulle Opere Pie, sulle spese di culto, sull'igiene, la prostituzione, i coltivatori, l'amministrazione carceraria (Gori)".

La caduta di NICOTERA fu determinata da un episodio proprio ridicolo. Si accusava, fra l'altro, il ministro dell'Interno di favorire con mezzi non leciti la stampa amica e specialmente il "Bersagliere", suo organo personale, al quale lui comunicava non solo notizie ufficiali, ma anche telegrammi privati. Avvenne un giorno che dai luoghi della guerra russo-turca, fu spedito al conte LEONE BOBRINSKY, residente a Roma, un telegramma così concepito: "Wladimiro è stato ferito alla gamba ad Orkanie; corro a vederlo con Alessio. Firmato: Alessandro". Il Nicotera, dopo aver intercettato il fono, credendo che si trattasse del principe russo Wladimiro, dell'imperatore Alessandro e del granduca Alessio, fece il 4 dicembre del 1877, pubblicare il telegramma dal "Bersagliere", da "La Nazione" di Firenze e da qualche altro giornale amico; ma il giornale umoristico il "Fanfulla", appresa la verità, spiegò come stavano le cose in un articolo che copriva di ridicolo il ministero dell'Interno e fece ridere mezza Italia.

Il 14 dicembre 1877, discutendosi il bilancio dell'Interno, l'on. PARENZO lamentò che non fosse rispettato il segreto telegrafico. Alla lagnanza si associarono Cairoli e Zanardelli, i quale si misero a parlare della famosa "gamba di Wladimiro". Il Nicotera si difese con molta vivacità, ma con poca abilità, e ritenendo coinvolto nella questione il decoro del Governo provocò un voto. Un ordine del giorno, presentato dal SALARIS di fiducia al Governo fu approvato con 184 voti contro 162; ma il Nicotera non fu contento e rassegnò le dimissioni, cui seguirono quelle dell'intero ministero. E la causa principale fu proprio la defezione di una parte della maggioranza parlamentare.

Il sovrano conferì l'incarico di costituire il nuovo ministero allo stesso DEPRETIS, che il 26 dicembre lo mise insieme assumendo la presidenza e gli Esteri, lasciando al loro posto MANCINI, MEZZACAPO, BRIN, COPPINO e affidando l'interno a FRANCESCO CRISPI, le Finanze ad AGOSTINO MAGLIANI, a FRANCESCO PEREZ i Lavori Pubblici.
Il Ministero dell'Agricoltura, Industria e Commercio (criticato dai liberisti di essere un organo d'intervento dello Stato nell'economia) fu soppresso e fu istituito quello del Tesoro che fu dato ad ANGELO BARGONI, con il compito di esercitare un più stretto controllo sul bilancio dello Stato

MALATTIA E MORTE DI VITTORIO EMANUELE II - SUL TRONO UMBERTO I
I PROCLAMI, IL GIURAMENTO E IL DISCORSO DEL NUOVO RE
MORTE DI PIO IX - IL CONCLAVE - ELEZIONE DI LEONE XIII
DIMISSIONI DI CRISPI
INAUGURAZIONE DELLA SECONDA SESSIONE PARLAMENTARE
DIMISSIONI DEL MINISTERO

Il 29 dicembre del 1877, Vittorio Emanuele tornava da Torino a Roma. Pur essendo indisposto, il 31 dava udienza ai rappresentanti esteri che erano giunti a porgergli gli auguri del nuovo anno e il 1° gennaio del 1878 riceveva le rappresentanze della Camera e del Senato e i grandi capi dello Stato.
Il 4 gennaio l'indisposizione del sovrano si accentuò; il 5 fu profondamente addolorato dalla notizia della morte di La Marmora e la sera, colto da febbre violenta dovette mettersi a letto. I dottori Bruno e Guido Baccelli, chiamati, costatarono che si trattava di pleuro-polmonite acutissima.
Inutili riuscirono tutti gli sforzi della scienza: nella notte dal 7 all'8 Vittorio Emanuele fu in pericolo di vita; la mattina del 9 ricevette i conforti della Religione dal canonico Anzino e alle 14.30 cessò di vivere.

L'annuncio della morte del 1° Re d'Italia, diffusasi rapidamente, fece scendere nel lutto l'intera nazione. Il 16 gennaio fu convocato il Parlamento e, commemorando il re, AGOSTINO DEPRETIS disse: "Se nel corso di tutte le storie c' è uomo che abbia meritato il titolo di Padre della Patria, l'eroe che l'Italia piange è quel desso ! (lui, è proprio lui! Ndr)".
Il 17 avvennero i solenni funerali, cui presero parte non solo rappresentanze di ogni parte d'Italia, ma di quasi tutto il mondo. Per voto espresso dal Municipio di Roma, la salma, anziché nella Basilica di Superga, fu tumulata nel Panteon, che fu dichiarato sepolcreto dei Reali d'Italia.

Il giorno stesso della morte di Vittorio Emanuele, il principe UMBERTO veniva dal consiglio dei ministri proclamato re; accettava, rompendo la tradizione sabauda che il padre aveva rispettato, di intitolarsi I, anziché I; lasciava in carica il ministero e lanciava alla Nazione un proclama in cui, fra l'altro, diceva: "Il vostro primo re è morto; il suo successore vi proverà che le istituzioni non muoiono".
In un altro manifesto, indirizzato all'esercito, il nuovo sovrano affermava:
"Già compagno dei vostri pericoli, testimonio del vostro valore, so di poter contare su di voi: forti delle vostre virtù, ricorderete che dove è la vostra bandiera, lì è il mio cuore di re e di soldato".
La cerimonia del giuramento avvenne il 19 gennaio 1878, nell'aula di Montecitorio, presenti i deputati e i senatori. Umberto I pronunciò con voce ferma la formula
"In presenza di Dio ed innanzi alla Nazione giuro di osservare lo Statuto, di esercitare l'autorità reale in virtù delle leggi e conformemente alle medesime, di far rendere giustizia a ciascuno secondo il suo diritto e di regolarmi in ogni atto del mio regno col solo scopo dell'interesse, della prosperità e dell'amore della patria", quindi, dopo il giuramento dei Senatori e dei Deputati, lesse un breve discorso: "Noi non siamo nuovi alle difficoltà della cosa pubblica. Pieni di utili insegnamenti sono gli ultimi trent'anni della storia nazionale, nei quali, per alterne prove d'immeritate sventure e di preparate fortune si compendia la storia di molti secoli. Questo è il pensiero che mi affido nell'assumere gli alti doveri che mi s'impongono. L'Italia, che ha saputo comprendere Vittorio Emanuele mi prova oggi quello che il mio gran Genitore non ha mai cessato d'insegnarmi, che la religiosa osservanza delle libere istituzioni è la più sicura salvaguardia contro tutti i pericoli. Questa è la fede della mia Casa: questa sarà la mia forza .... Sincerità di pensieri, concordia di amor di patria mi accompagneranno, ne sono certo, nell'ardua via che prendiamo a percorrere, in fine della quale io non ambisco che meritare questa lode: Egli fu degno della Patria".

PIO IX, l'ottuagenario papa, appena seppe la morte di Vittorio Emanuele, esclamò: "E' morto come un Cristiano, come un Sovrano e come un Galantuomo", parole, queste, che non possono sorprendere quando si pensi che personalmente negli ultimi tempi c'erano buoni rapporti tra il Re e il Pontefice; ma una settimana dopo, e precisamente il 17 gennaio, non mancò di rinnovare le proteste contro le usurpazioni del 1860 e del 1870. I due (il primo dal '46, il secondo dal '49) avevano interamente percorso insieme le travagliate vicende italiane per circa trent'anni.

Furono le sue ultime proteste: quattro settimane dopo, il 7 febbraio del 1878, alle 17,40 Pio IX moriva in età di 86 anni e dopo 32 di pontificato, l'ultimo dei papi che oltre la tiara aveva cinto la corona di sovrano di uno stato.

La morte del Pontefice metteva il Governo italiano in una situazione delicatissima, dovendo esso mostrare a tutto il mondo, durante il conclave, di sapere rispettare e fare rispettare l'indipendenza dell'autorità spirituale e dovendo nel medesimo tempo fornire prova di non violare le libertà statutarie.
Il Governo dichiarò subito che avrebbe pienamente garantito la libertà dell'elezione del nuovo Pontefice e per abbondare in cautele prorogò l'apertura del Parlamento, ma, quando seppe che molti cardinali avevano manifestato il proposito di tenere il conclave fuori d'Italia, allora fece sapere loro, tramite CRISPI, che, se avessero mandato ad effetto la loro intenzione, avrebbe occupato militarmente il Vaticano.

L'energico atteggiamento del Governo indusse i cardinali a tenere a Roma il conclave, che si svolse senza alcun incidente e nella più piena libertà. "I cardinali - scrive il PETRUCCELLI DELLA GATTINA - non furono turbati da interessi politici o da gare personali e mondane; né l'intromissione degli Stati cattolici, aventi il diritto di veto, li distolse dallo scegliere il Papa che essi credevano più adatto al governo della Chiesa. Nessuno di questi Stati esercitò il suo diritto direttamente né indirettamente, grazie a istruzioni ai propri cardinali: liberalissima l'elezione, quale non vi fu mai, forse".

Al conclave, parteciparono 61 cardinali; iniziò il 18 febbraio e terminò il 20 con l'elezione del cardinale GIOACCHINO PECCI, il quale ebbe 44 voti. Era nato a Carpineto il 2 marzo del 1810, aveva studiato a Roma presso i Gesuiti; legato a Benevento e nunzio a Bruxelles, nel 1846 era stato nominato arcivescovo di Perugia, nel 1853 cardinale e nel 1877 camerlengo. Era prudente, abile, equanime, di grande ingegno e di vasta cultura, ma ritenuto gretto e, dal lato ideale, inferiore al suo predecessore. In memoria di Leone XII suo benefattore, volle chiamarsi LEONE XIII. Suo segretario di Stato fu il cardinale FRANCHI, poi cinque mesi dopo gli successe il cardinale MINA.

Molti si aspettavano dal nuovo Capo della Chiesa una politica conciliante, ma ben presto rimasero delusi. Leone XIII, infatti, tanto nel Concistoro del 28 marzo quanto nell'enciclica del 21 aprile, la prima del suo pontificato, mostrò che non intendeva scostarsi dalla politica del suo predecessore dichiarando che gli era necessario il potere temporale per esercitare liberamente la potestà che gli era stata conferita da Gesù Cristo.

Nei due grandi avvenimenti dei primi due mesi del 1878, la successione al trono e l'elezione pontificale, il timone dello Stato era stato retto con polso fermo da FRANCESCO CRISPI, il quale si era rivelato un uomo di governo di primissimo ordine. Ma questa abilità, naturalmente, non poteva far piacere ai suoi antichi e nuovi amici, i quali aspettavano l'occasione propizia, una qualsiasi, per abbatterlo. E l'occasione non tardò a venire.

CRISPI, per incompatibilità di carattere fino dal 1875, si era separato da Rosalia Montmasson, con la quale era legato da un vincolo contratto a Malta il 27 dicembre del 1854 davanti a un sacerdote. Innamoratosi poi di Lina Barbagallo, l'aveva sposata religiosamente, e avutane una bambina, il 27 gennaio del 1878 l'aveva sposata anche civilmente a Napoli.
Poco tempo dopo, ispirato dal NICOTERA e da altri uomini politici, sul "Piccolo di Napoli" ROCCO DE ZERBI iniziava una violentissima campagna contro il Crispi, che accusava di bigamia, ottenendo che a carico del ministro si istruisse un procedimento penale; ovviamente suscitando una grande indignazione contro l'uomo di Stato. Il re Umberto (strano a dirsi, proprio lui che aveva la "Titti") ne fu scosso e convocò un consiglio di membri della Famiglia Reale al Quirinale; alcuni ministri dichiararono che si sarebbero ritirati se il collega accusato non fosse stato allontanato dal Governo.
Allora Crispi si dimise il 6 marzo, dalla carica di ministro degli interni e da deputato. (Il 25 maggio però il tribunale di Napoli, ritenendo non valido il matrimonio di Malta, chiuse il processo con un "non luogo" e il Crispi tornò al suo posto di deputato).

II giorno dopo delle dimissioni di Francesco Crispi, UMBERTO I inaugurò la seconda sessione della XIII Legislatura con un discorso in cui accennò a varie riforme, dichiarò che l'Italia avrebbe partecipato ad un convegno di potenze per risolvere la questione d'Oriente conforme alle leggi della giustizia e ai diritti dei popoli e costatando con compiacimento che l'elezione del nuovo Pontefice si era compiuta senza che l'indipendenza spirituale e la pace delle coscienze fossero turbate. "Mantenendo disse il sovrano - le nostre istituzioni e conciliando ognora il rispetto alle credenze religiose con l'inviolabile difesa dei diritti dello Stato e dei grandi principi di civiltà, abbiamo mostrato e continueremo a mostrare al mondo quanto sia feconda la libertà".

Così s' iniziava la seconda sessione parlamentare. Il discorso della Corona, sebbene prolisso e di scarsa importanza, fu caldamente applaudito. Era un omaggio della Camera al nuovo Re, omaggio concorde pur nella discordia degli animi. Infatti, continuava l'assemblea ad esser divisa in varie frazioni e le più battagliere erano quelle dell'Estrema Sinistra; i suoi sostenitori diventavano dei veri esponenti dei gruppi d'opposizione, contro i quali poca resistenza avrebbe potuto opporre il Gabinetto, indebolito dalla mancanza di Crispi e dalla poca concordia che regnava fra i suoi membri. Durò infatti 48ore!
Due giorni dopo, l'8 marzo, l'opposizione di Sinistra portò come candidato alla presidenza della Camera BENEDETTO CAIROLI, che riuscì eletto con 227 voti contro 123 riportati da BIANCHERI. Era, questa, una vittoria non della sinistra ma degli oppositori più l'aiuto dell'Estrema Sinistra, e il Ministero, sentendosi mancare la fiducia della Camera, si dimetteva.

Il Re giudicò inopportuno il tentativo di costituire un terzo ministero Depretis, e affidò proprio al nuovo presidente, BENEDETTO CAIROLI, l'incarico di formare un nuovo governo.
Anche perché Cairoli era nella stima del nuovo Sovrano.

Passiamo quindi a questo spazio di tempo non proprio tranquillo che è �

�il periodo che va dall'anno 1878 al 1879 > > >

 

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