Economia Italia 1861

ECONOMIA
Le linee generali.
del decennio 1861-1870:

 

La rapida conquista dell’unit� nazionale e la volont� di consolidarla a ogni costo costituiscono il grande evento del decennio e il problema che ossessiona i gruppi dirigenti. Le componenti liberalmoderate della nuova classe politica italiana dedicano le loro energie soprattutto all’unificazione e allo sviluppo del mercato nazionale. In vista di questo obiettivo si procede all’immediato abbattimento delle tariffe doganali interne (1861) e all’estensione all’intero paese della tariffa liberistica in vigore in Piemonte. L’unificazione amministrativa viene imposta analogamente attraverso l’estensione e la generalizzazione della legislazione del Regno di Sardegna, che peraltro non � sempre la pi� avanzata, n� la pi� adatta a regioni molto diverse dal punto di vista dell’economia, dell’assetto sociale, delle consuetudini.

Per quel che riguarda l’andamento dell’economia nel decennio, si nota una crescita del prodotto interno abbastanza soddisfacente fino al 1866 e dovuta soprattutto ad annate agricole favorevoli.

La guerra del 1866 con l’Austria si rivela per� disastrosa per le finanze del giovane regno, gi� fortemente indebitato in seguito all’assunzione dei debiti degli Stati assorbiti al momento dell’unit�. Il 1867 � quindi un anno di grave crisi economica. Si ha una ripresa nel triennio successivo: in particolare mostra un maggior dinamismo il settore industriale, che anche in seguito all’introduzione del corso forzoso (cio� la fine della convertibilit� della moneta in oro) � avvantaggiato nelle esportazioni. Il processo inflazionistico e di svalutazione favorisce i settori economici interessati alle esportazioni e porta a un miglioramento della bilancia commerciale.

L’aumento dei prezzi, che non � seguito da corrispondenti aumenti dei salari, produce una diminuzione della domanda dei beni di consumo. La drastica cura imposta dalla destra storica al bilancio statale, riducendo l’indebitamento, rende meno necessario il ricorso al credito e alla raccolta del risparmio privato da parte dello stato. Una massa di capitali precedentemente investiti in titoli di stato � cos� resa disponibile per impieghi produttivi. Contemporaneamente, per�, il prelievo fiscale, assai elevato nei confronti dei consumi popolari, frena lo sviluppo del mercato interno.

La politica doganale fortemente orientata in senso liberistico, gi� in vigore da dieci anni nel Regno di Sardegna, accresce gli scambi commerciali con l’Europa, ma crea notevoli difficolt� in ampi settori della produzione manifatturiera nazionale. Ne risultano in particolare danneggiati gli impianti di minori dimensioni, tecnologicamente pi� arretrati, e le industrie meridionali, che dopo decenni di protezionismo vengono improvvisamente esposte a un’agguerrita concorrenza internazionale. Nell’insieme la politica delle "porte aperte" si rivela poco efficace, in quanto i danni che produce in alcuni comparti del sistema produttivo non trovano un contrappeso adeguato nella modernizzazione di altri settori.

La politica economica dell’et� della destra finisce col favorire soprattutto gli interessi dei proprietari terrieri. Infatti la politica doganale serve a incentivare in particolar modo le esportazioni di prodotti agricoli, e quella fiscale � assai blanda nei confronti della grande propriet� fondiaria, mentre si rivela invece severa verso i redditi industriali, commerciali e professionali e decisamente punitiva verso i consumi popolari, dato il massiccio ricorso all’imposizione indiretta che tocca l’apice nel 1868 con l’introduzione dell’imposta sul macinato.

Costituito formalmente il 17 marzo 1861 il Regno d’Italia, la classe dirigente del nuovo stato si trov� ad affrontare una serie di gravi problemi legati ai settori economico e finanziario. La situazione ereditata dal periodo precedente era abbastanza complessa: ai sette stati preunitari corrispondevano infatti ben nove amministrazioni finanziarie (la Sicilia e l’Emilia godevano infatti di una statuto autonomo), con differenti sistemi monetari e criteri di riscossione delle imposte.

Il ministro delle finanze del nuovo regno, Pietro Bastogi, dovette fare i conti con un debito pubblico gi� piuttosto alto: 111.500.000 lire, di cui il 57% di origine sabauda. Per tentare di contenere il deficit, aggravato dall’abolizione di una gran parte dei dazi doganali che vigevano tra gli stati preunitari, vennero estese a tutto il regno tasse e gabelle proprie del Regno di Sardegna. Non essendo stati ottenuti con questa politica risultati ragguardevoli, nel marzo del 1862 il nuovo ministro delle finanze Quintino Sella propose un nuovo piano di risanamento del bilancio dello stato, comprendente la concessione a privati della costruzione e gestione di ferrovie e canali e la vendita di una grossa fetta di beni demaniali di origine ecclesiastica.

Anche in questo caso tuttavia si tratt� di soluzioni non risolutive: le difficolt� del Regno d’Italia si acuirono infatti in maniera preoccupante nel corso dei primi cinque anni di vita. Nel 1866, allo scoppio della III guerra d’indipendenza, i problemi finanziari parvero addirittura insormontabili. Le entrate effettive coprivano appena i tre quarti delle uscite (in forte e continuo aumento) e al grave disavanzo si provvedeva quasi esclusivamente oramai con l’emissione di prestiti, due quinti dei quali allocati all’estero, proprio nel momento in cui una crisi gravissima veniva a sconvolgere i mercati borsistici europei.
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