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CRONOLOGIA

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( QUI TUTTI I RIASSUNTI )  RIASSUNTO ANNO 1861-1862

GOVERNO RICASOLI - L'IDEA DELLE REGIONI - IL BRIGANTAGGIO

CONDIZIONI DEL REGNO D'ITALIA - II MINISTERO RICASOLI - PROVVEDIMENTI FINANZIARIA - IL BRIGANTAGGIO - PROVVEDIMENTI POLITICO-AMMINISTRATIVI - L'IDEA DELLE REGIONI AUTONOME -
DIMISSIONI DEL GABINETTO RICASOLI - RATTAZZI
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IL MINISTERO RICASOLI
PROVVEDIMENTI FINANZIARI E AMMINISTRATIVI

 

L'improvvisa morte di Cavour, colpì amici e nemici perché entrambi sapevano quante cose difficili rimanevano ancora da fare, e di personaggi con una caratura politica uguale al Conte in giro non c'erano. Questo lo avvertì anche il Re che intervenne con la sua parola per portare conforto e ad esortazione:
"La morte del conte di Cavour è un fatto grave e grandemente da me sentito, ma tale luttuoso evento non ci arresterà un istante sul cammino della nostra vita politica; vedo l'avvenire chiaro come in uno specchio e niente può sgomentarmi. Gravi prove ci sono ancora riservate, ma se Dio mi dà vita, le percorreremo impavidi ed incolumi".

La consegna era dunque andare avanti. Ma la successione fu il primo problema da risolvere. Con Cavour scomparivano anche i molti dissidi (politici e personali) dei due personaggi; alcuni anche poco segreti.
Per il Re era l'occasione per affidare il governo ad una persona amica in modo da imporre la sua energica volontà che il Conte più di una volta aveva appannato. Ma i problemi non erano solo quelli politici, insieme a questi c'erano tutti i singoli problemi dei territori annessi in un Regno che ora contava oltre venti milioni di abitanti. Ed era nato solo tre mesi prima della morte di Cavour.

Infatti, la situazione del nuovo regno d'Italia non era davvero invidiabile alla morte di Conte.
Il suo debito pubblico era di circa tre miliardi, il disavanzo tra le entrate e le uscite ordinarie di circa mezzo miliardo, molte e gravose le imposte per recuperare le spese e per pagare i debiti di guerra, impossibili le economie dovendosi provvedere alla difesa, a provvedere a indispensabili lavori pubblici e allo sviluppo del commercio, dell'agricoltura e dell'istruzione. Inoltre i principi spodestati facevano una lotta sorda e implacabile, favorendo ed alimentando il brigantaggio nell'ex-regno delle Due Sicilie. Le potenze europee non avevano ancora riconosciuto il nuovo Stato. La maggior parte dell'alto clero e buona parte del basso combattevano il nuovo ordine di cose. I partiti nazionali, il mazziniano, quello d'azione e il moderato, erano discordi tra loro, mentre i retrivi ponevano un'infinità di ostacoli davanti all'opera del giovanissimo governo e di una Camera composta di persone d'ogni regione e paese che avevano appena avuto il tempo di stringersi la mano. Ed ognuno di loro aveva le sue personali petizioni, le più o meno complesse situazioni della propria regione, ignorando quelle dei propri colleghi.
Le varie regioni avevano pesi, misure e monete diversi (otto sistemi metrici e monetari diversi) oltre che usi, tradizioni, costumi morali e mentalità, spesso contrastanti fra loro.

Un uomo fidato e "navigato" da mettere al posto di Cavour c'era: il RATTAZZI, che pur gradito al Re, nel conflitto tra Cavour e Garibaldi aveva creato malcontenti a destra come a sinistra.

Di formare il nuovo ministero fu incaricato il barone BETTINO RICASOLI, eminente luogotenente cavouriano, capo degli unitari di Toscana che il Conte chiamava "uomo forte" anche se aveva affermato che con lui non poteva andare d'accordo; perché non aveva nella politica doti di timoniere, la vivacità di iniziativa, l'abilità di reazione, la rapidità di intuire e nel ravvedere.
Inoltre il toscano aveva della monarchia concezioni rigide, la riteneva una magistratura altissima al di sopra delle attività politiche della nazione, aveva una visione ieratica del monarca, lo desiderava pomposo, di facciata, quindi non importante se era anche vuota.
Anche lui era un uomo forte, ma non era Cavour, e il dissenso tra il re e il Ricasoli apparve subito fin dal primo giorno.
Vittorio Emanuele era insofferente del Conte, ma si era abituato ad avere vicino un uomo intelligentissimo e capacissimo, in cui potersi fidare nelle questioni politiche, cui potersi abbandonare per ogni iniziativa, anche se il Conte con il suo carattere era brusco nell'esprimere le sue opinioni. Lo abbiamo visto comportarsi così più di una volta.

RICASOLI era un uomo abile e tenace, molto impegnato a gestire le sue cospicue proprietà fondiarie lasciategli dal padre a sette anni, poi aumentate sposando ventenne, la ricchissima Anna Bonaccorsi. Una gestione intelligente, con tante iniziative, pefino filantropiche, con spirito di "apostolato" missionario con un'accentuata connotazione morale e religiosa. Nelle sue numerose fattorie aveva istituito una religiosa "festa del lavoro" nel corso della quale erano premiati i contadini più operosi. Ambiente il suo dove si muoveva con un'orgogliosa consapevolezza di essere il "padrone"; e dirigeva in modo autoritario i propri dipendenti regolando minuziosamente non soltanto il loro lavoro ma anche la loro vita. Era insomma un Barone, con l'aggiunta che era soprannominato "Barone di ferro".

Solo a 38 anni si avvicinò alla politica attiva come Liberal-moderato ma era innanzitutto un conservatore. Tuttavia fu uno dei protagonisti nella cacciata dei Lorena, e fautore risoluto della fusione della Toscana con gli Stati sardi. Su questa base stava il grande prestigio che gli avevano conferito la dirittura morale e l'energia del carattere dimostrata negli avvenimenti in Toscana dal '48 al '59.
Ma giunto a Torino, nonostante tutte queste qualità, spigoloso e fiero com'era, non riuscì a crearsi molti amici, per la sua condotta personale: irritava ad esempio che non vestisse l'uniforme di ministro dicendo sprezzatamene ai suoi colleghi "I Ricasoli non indossano la livrea di nessuno"; snobbava lo stesso Re osservando che la sua casata fiorentina era più antica di quella savoiarda; e urtava perfino il suo disinteresse -essendo molto ricco- nel rifiutare lo stipendio di ministro ed a spendere i propri soldi nei viaggi e perfino nell'ammobiliare le stanze del suo ufficio.

Il 12 giugno RICASOLI compose il gabinetto assumendo la presidenza e il portafoglio degli Esteri dando al MINGHETTI quello dell'Interno, a BASTOGI quello delle Finanze, a PANIZZI quello dei Lavori Pubblici, a MIGLIETTI quello di Grazia e Giustizia, a DE SANCTIS quello dell'Istruzione, al generale DELLA ROVERE, dopo averlo tenuto a interim lui stesso quello della Guerra, a MENABREA quello della Marina, e a CORDOVA quello dell'Agricoltura.

Oltre il Ricasoli, anche il suo ministero era politicamente mediocre; salvo il Minghetti di scuola cavouriana, gli altri erano figure di secondo piano, abbisognavano di spinte ma che però non le accettavano.

Tre giorni dopo la formazione del nuovo ministero, Napoleone III per mezzo del THOUVENEL riconosceva il regno d'Italia con il quale entrava in relazioni diplomatiche, ma faceva notare che con quell'atto "non intendeva garantire o approvare una politica riguardo alla quale il governo francese si era riservata intera libertà d'azione, né scemare il valore della proteste formulate dalla Corte di Roma contro l'invasione di varie province degli Stati pontifici".
Più tardi, imitando la Francia, diedero il loro riconoscimento ufficiale al Regno d'Italia le altre potenze europee. L'Inghilterra lo aveva dato poco dopo Napoleone III.

Alcuni ministri del gabinetto Ricasoli avevano fatto parte del gabinetto Cavour, fra i quali il ministro delle Finanze PIETRO BASTOGI, che il 27 aprile aveva presentato tre disegni di legge, uno per costituire il gran libro del debito pubblico, il secondo per unificare il debito pubblico iscrivendovi la rendita del Regno Sardo, del regno delle Due Sicilie, del Granducato di Toscana, dei Ducati di Modena e Parma e di alcuni speciali titoli di governi provvisori, il terzo per ottenere la facoltà di contrarre un prestito di mezzo miliardo. La Camera approvò il primo disegno, il 10 luglio, il secondo il 4 agosto e il terzo il 17 luglio. Anche il Senato approvò i tre disegni, che furono sanzionati e promulgati. Nel novembre poi, alla ripresa dei lavori parlamentari la Camera approvò, accettando le proposte del Bastogi, l'estensione del decimo di guerra a tutte le province del regno, imposte sul registro, sul bollo, sui beni della manomorta, sulle Società industriali, sulle concessioni, tasse sulle ipoteche, sui viaggiatori delle ferrovie, e sulle merci e bagagli.

Mentre si provvedeva al problema finanziario non si trascuravano i problemi amministrativi e del completamento dell'unità e l'altro, più urgente, del Mezzogiorno. Qui il disordine era immenso. In Sicilia le passioni di parte e le rinascenti tendenze autonomistiche impedivano l'opera del nuovo governo; nel Napoletano, dove al Principe di Carignano era succeduto come luogotenente il CONTE PONZA di S. MARTINO, il governo era fortemente combattuto non solo dal partito borbonico, ma anche dal garibaldino. Inoltre le province erano abbandonate a se stesse e costituivano perciò un terreno molto propizio alle rivolte dette prime di "banditi", poi di "briganti" (e da qui "brigantaggio").

Ma la prima rivolta non venne dai "briganti" delle province, ma dalla stessa Napoli, il 20 febbraio quando a Castellammare di Stabia ci furono le proteste di lavoratori dei cantieri navali, che nella "piemontesizzazione" del territorio, i funzionari regi volevano chiudere. La polizia arrestò circa 250 lavoratori accusandoli di complottare contro la politica unitaria del nuovo sovrano, che volevano far degenerare la lotta sindacale in "lotte politiche contro il governo piemontese".

D'ora in avanti ogni lotta, di operai, contadini, di renitenti alla coscrizione, e ogni "partigiano" di Francesco II, sono date queste connotazioni.

Il banditismo non è che non esisteva già prima, era endemico e le sue cause erano antiche e profonde, provocate dalla miseria, da sparuti gruppi di braccianti senza terra; una protesta che poi si accavallò e si moltiplicò con la delusione creata dal passaggio garibaldino prima e dall'accentramento amministrativo poi. Contro il nuovo governo, con dentro i nuovi proprietari terrieri e i vecchi che "per tenere tutto come prima" avevano subito cambiato bandiera, pur rimasti ben saldi dentro le loro proprietà, con i nuovi inasprimenti fiscali si stavano rivelando ancora più avari e tirannici dei vecchi padroni spodestati. Spoliazioni che per alcuni fu una vera e propria "abbuffata".
In Calabria ad esempio si scoprì in seguito che un grande appezzamento regio era stato diviso fra 83 "usurpatori", e questi erano il sindaco, 2 fratelli del sindaco, 17 cugini del sindaco, 2 cognati del sindaco, 2 nipoti del sindaco, 1 fratello del sindaco, 1 fratello del consigliere comunale, 6 consiglieri comunali, 2 mogli dei consiglieri comunali, 3 assessori comunali, nipoti e parenti vari. Quindi l'influenza locale se era assoluta prima, lo fu anche dopo.

A quest'esercito di disperati, si aggiunse un esercito che fedele ai Borboni era da mesi allo sbando. Erano questi i motivi più recenti di questo fenomeno diventato improvvisamente gigantesco. Ogni giorno al comando militare di Napoli giungevano circa un centinaio di rapporti di rivolte e saccheggi di bande condotte da ex ufficiali e soldati borbonici o da individui che non volendo rispondere all'imposizione della leva (Francesco II non vi era mai riuscito ad applicarla) preferirono prendere la via dei monti organizzando bande.
Volendo fare un paragone più recente, era come quando nel Nord Italia, per sfuggire alla coscrizione imposta dalla Repubblica di Salò, i cittadini chiamati, renitenti, presero la via dei monti, chiamati "banditi" dai tedeschi, e per i sostenitori dei disertori "partigiani". Fenomeno che prese poi il nome di "resistenza".
"Resistenza" ricordiamoci è un termine che designa la lotta di un popolo sottomesso a dominazione straniera, e chi fa questa "resistenza" nel proprio suolo è chiamato "partigiano". Nella visione dei borbonici, era considerata una "sottomissione", quella di Garibaldi prima e dei piemontesi poi; invasione fatta senza una vera e propria dichiarazione di guerra ad uno Stato sovrano riconosciuto tale da tutta Europa. I Borboni speravano che qualcuno si muovesse, ma tutti nicchiarono.

Il paradosso fu che mentre l'ambasciatore americano Chandler qualificava Garibaldi "capo dei partigiani" (garibaldini e masse contadine unite contro i latifondisti e i gabellieri borbonici), dopo, i "partigiani" (con il nome di "briganti"), erano gli stessi che facevano "resistenza" contro i "liberatori" piemontesi e, perché delusi, contro gli stessi garibaldini, i latifondisti e i gabellieri non più borbonici ma sabaudi, per di più non locali ma di Torino. La promessa, della tanto agognata riforma agraria, che doveva destinare la terra ai contadini non era stata fatta da Francesco II perché sempre ostacolati dai latifondisti, e l'iniziativa garibaldina di tipo rivoluzionario aveva solo alimentato nelle masse, concrete speranze di un radicale rinnovamento; mentre invece il nuovo governo che prese le redini del potere era nuovamente una espressione della forte aristocrazia conservatrice, per di più considerata straniera.

A queste reazioni poi bisogna aggiungere l'equivoco che lo Stato italiano "laico e liberale", fosse in realtà uno stato ateo, cioè uno stato "Senza-Dio", pronto (questo diceva nei suoi accorati appelli il Papa) a distruggere le chiese e ad eliminare i preti offendendo la profonda religiosità delle masse contadine meridionali. La protezione concessa da ecclesiastici alle bande né è la prova.
Ed è in questo contesto che si formò il primo nucleo della vera "Questione meridionale" e l'esteso fenomeno del brigantaggio ne fu solo una drammatica conseguenza.

Si calcola che le bande di briganti siano state oltre 350, di cui almeno 33 con oltre 100 uomini e le più corpose con un organico che sfiorava le 400 unità, che schierarono in campo decine di migliaia di ribelli "prelevati" con la persuasione o con la forza dall'immenso serbatoio delle masse contadine. Le "formazioni" erano comandate da capi dal nome leggendario come il "CROCCO", CIPRIANO LA GALA, PASQUALE ROMANO, MICHELE CARUSO, LUIGI ALONZI (CHIAVONE), GAETANO MANZO, GAETANO TRANCHELLA.

Il Brigantaggio incominciato in Basilicata e nell'Abruzzo, era stato da prima represso dal generale PINELLI, ma poi favorito da Francesco II e dal governo pontificio, che dava asilo nel suo territorio ai ribelli, aveva ripreso vigore, si era esteso nella Calabria, Irpinia, Molise Puglia, Capitanata (il Foggiano), giungendo perfino alle porte di Napoli. I ribelli erano di un'audacia straordinaria, avevano imparato da Garibaldi la "guerriglia"; e alcuni di queste bande (ci fu anche questo - cioè veri banditi) si spacciavano per generali borbonici e in nome di Francesco saccheggiavano le proprietà dei latifondisti nelle città e nei villaggi. Ma c'erano anche ex soldati borbonici, il più famoso, il già citato CROCCO.

CROCCO, al secolo CARMINE DONATELLI, era originario di Rionero e dominava la zona della Basilicata e del Melfese. Arruolatosi nell'esercito borbonico, aveva ucciso un commilitone nel 1850 e aveva disertato per evitare la forca. Dieci anni dopo si aggregò a un gruppo di patrioti lucani insorti per iniziativa di alcuni borghesi di Rionero. Di nuovo ricercato, si diede alla macchia nei boschi del Vulture seguito da un manipolo di compagni di sventura e divenne un temuto fuorilegge. Le sue file ben presto s'ingrossarono e Crocco si mise a disposizione dei reazionari borbonici da cui ricevette assistenza e sovvenzioni. La sua banda nutrita e compatta impegnò in durissimi scontri le truppe regolari piemontesi, ma alla fine di luglio del 1864 Crocco prese la decisione di ritirarsi dalla guerriglia e si trasferì nel territorio dello Stato Pontificio convinto di farla franca. Benché il clero appoggiasse ufficiosamente gli insorti, il capobanda lucano fu arrestato dal governo papale e incarcerato per le sue nefandezze. Nel 1872 fu processato dalle autorità italiane a Potenza e condannato all'ergastolo. Morì dopo oltre 30 anni di reclusione nel penitenziario di Santo Stefano a Ventotene.

MICHELE CARUSO di Torremaggiore agiva nel Molise, nel Beneventano. Le sue azioni di vera e propria guerriglia organizzata diedero molto filo da torcere alle forze dell'esercito del Regno d'Italia dal 1862 al 1863. Catturato in seguito alla soffiata di un delatore il 10 dicembre 1863 nei pressi di Molinova, fu trasferito a Benevento e fucilato il giorno successivo dopo un processo sommario. Con la sua morte in breve tempo si disperse anche la sua banda..

LUIGI ALONZI, soprannominato "Chiavone", originario di una famiglia di agiati contadini e guardaboschi di Sora, capeggiava una banda di oltre 400 briganti e combatté contro le truppe regolari del Regio Esercito tra il 1861 e il 1862 nelle zone confinanti del Sorano, del Casertano e dello Stato Pontificio. Fu fucilato nell'estate del 1862 per ragioni rimaste oscure, forse per rivalità, dall'ufficiale spagnolo Raffaele Tristany, inviato sul luogo su preciso ordine borbonico per organizzare azioni di guerriglia contro l'esercito italiano. Il Tristany assunse successivamente il comando di tutte le bande di briganti che operavano ai confini dello Stato Pontificio.

GAETANO MANZO di Acerno, un centro del Salernitano, comandava una banda di medie proporzioni ed era noto con il nomignolo di "Mansi". Il suo campo d'azione era ristretto ai territori situati intorno a San Cipriano Picentino e Giffoni Valle Piana, nell'entroterra del Salernitano. La sua banda si arrese alle truppe regolari solamente nel 1866.

GAETANO TRANCHELLA, a capo di una banda di media consistenza formatasi nel 1861, infieriva pure lui nel Salernitano e precisamente nelle zone fra Eboli, Battipaglia e Persano. Fu ucciso nel 1864 dalle truppe regolari e la sua banda fu decimata.

I briganti, ovviamente, godevano dell'incondizionata simpatia delle masse rurali che li identificavano alla stregua di veri e propri eroi, una specie di ottocenteschi Robin Hood paladini di una Dea Giustizia che brandiva la spada contro i soprusi dei ricchi e il pericolo costituito dalle autoritarie imposizioni del nuovo padrone, il Regno d'Italia. Forti degli appoggi tangibili, forniti dalla corrente reazionaria borbonica e a volte addirittura da quegli stessi "vecchi" proprietari terrieri che essi depredavano, ma che avevano accolto con sospetto l'arrivo della dominazione sabauda, i fuorilegge potevano contare anche sull'aiuto della Chiesa, che non aveva digerito la mozione del primo Parlamento italiano nella seduta del 27 marzo 1861 tenutasi nel salone di Palazzo Carignano a Torino in cui fu presa la decisione di dichiarare Roma futura capitale del Regno, mentre la città era ancora saldamente nelle mani di Papa PIO IX fermamente intenzionato a non rinunciare al potere temporale sui territori dello Stato Pontificio. In virtù di quella ufficiosa connivenza i briganti potevano trovare riparo nei conventi e sfuggire alla cattura nel caso in cui la loro sortita contro le truppe regolari si fosse risolta in un frettoloso ripiegamento.

A contenere l'inizio di questo fenomeno, a maggio il governo inviò grossi contingenti di militari agli ordini di GUSTAVO PONZA di S. MARTINO, che tenta una politica di mediazione con i legittimisti borbonici senza dover ricorrere ad una feroce repressione armata.
Ma il fenomeno invece di diminuire in giugno era aumentato; fu allora esonerato il debole S. Martino e a luglio fu nominato il vincitore di Ancona e Gaeta, il generale ENRICO CIALDINI, con pieni poteri civili e militari e intervenendo in una forma puramente repressiva.

Cialdini con i suoi metodi l'avrebbe completamente debellato i brigantaggio, se nel settembre, non fosse stato richiamato. La sua repressione fu impressionante e preoccupo il governo di Torino.
Il richiamo del Cialdini segnò la fine della luogotenenza e una lieve recrudescenza del brigantaggio, favorita dal legittimismo, che all'estero e nel territorio pontificio aveva costituito comitati e organizzate spedizioni nel Mezzogiorno e nella Sicilia. Uno dei capi di queste spedizioni, il TRAZEIGNIES, di Namour, in S. Giovanni Incarico fu catturato e fucilato dalle truppe italiane; un altro, lo spagnolo BORJÈS, mentre stava per raggiungere il confine romano, presso Tagliacozzo fu pure lui catturato e fucilato dai bersaglieri.

Divenuto di dimensioni dilaganti il fenomeno costrinse i piemontesi a portare il numero dei soldati impiegati nel Sud dagli iniziali 15.000 a 22.000, nel dicembre del 1861 il contingente era di 50.000 aumentati a 105.000 unità l'anno successivo fino a raggiungere il numero di 120.000 nel 1863, e tali rimasero fino al 1865.

Un articolo del francese Oscar de Poli, pubblicato sul giornale "De Naples a Palerme" 1863 - 1864" : "...secondo il ministro della guerra di Torino, 10.000 napoletani sono stati fucilati o sono caduti nelle file del brigantaggio; più di 80.000 gemono nelle segrete dei liberatori; 17.000 sono emigrati a Roma, 30.000 nel resto d'Europa... la quasi totalità dei soldati hanno rifiutato d'arruolarsi.. .ecco 250.000 voci che protestano dalla prigione, dall'esilio, dalla tomba... Cosa rispondono gli organi del Piemontesismo a queste cifre? Essi non rispondono affatto."
Secondo la dichiarazione che il Generale La Marmora fece alla Commissione d'Inchiesta sul brigantaggio, invece. "Dal mese di maggio 1861 al mese di febbraio 1863 noi abbiamo ucciso o fucilato 7.151 briganti. Non so niente altro e non posso dire niente altro."
Possiamo notare come le due definizioni sono diverse.Per il giornalista francese erano soldati caduti sul campo di battaglia per difendere la propria libertà e le proprie idee, per La Marmora, briganti che era il tipico linguaggio adottato dai sabaudi.

"A Napoli noi abbiamo cacciato il sovrano per ristabilire un governo fondato sul consenso universale. Ma ci vogliono, e sembra ciò non basti, sessanta battaglioni...Abbiamo il suffragio universale? Io nulla so nulla di suffragio; ma so che al di qua del Tronto non sono necessari battaglioni, e che al di là sono necessari. Ci dev'essere per forza qualche errore.... Bisogna cangiare atti o principi..."
Così amaramente commentava Massimo D'Azeglio.

Al Senato di Torino, il ministro della guerra Della Rovere, dichiarò che 80.000 uomini dell'ex armata napoletana, imprigionati in varie località della penisola, avevano rifiutato di servire sotto le bandiere piemontesi. Vi erano stati migliaia di profughi, centinaia i paesi saccheggiati, decine quelli distrutti. Dovunque erano diffuse la paura, l'odio e la sete di vendetta. L'economia agricola impoverita, quasi tutte le fabbriche erano state chiuse e il commercio si era inaridito in intere province. La fame e la miseria erano diventate un fatto comune tra la maggior parte della popolazione.

La lotta armata fra briganti meridionali e truppe dell'esercito regolare in cinque anni fece un'ecatombe di vittime assumendo le proporzioni di una guerra civile tra il 1861 e il 1863, poi la speciale "Legge Pica" del 15 agosto 1863, sottopose alla giurisdizione militare le zone di maggiore attività dei "briganti".
Fu proclamato lo stato d'assedio, con rastrellamenti di renitenti alla leva, di sospetti, di evasi e pregiudicati. La giustizia fu amministrata da un tribunale militare che puniva con al fucilazione chi si opponeva con la resistenza armata. Le rappresaglie furono atroci e sanguinose da entrambe le parti e spesso le masse furono coinvolte loro malgrado negli scontri pagando con la distruzione di interi villaggi e le fucilazioni senza processo di centinaia di contadini ritenuti a torto fiancheggiatori dei briganti; che, come abbiamo già letto, non erano solo contadini, ma anche operai come quelli delle industrie metallurgiche a Napoli, che si sollevarono dieci giorni prima dell'entrata in vigore della "legge Pica".

Nel gennaio 1862 furono abolite le tariffe protezionistiche per effetto delle pressioni della borghesia agraria del Piemonte e della Lombardia. Queste disposizioni dettero il colpo di grazia alle industrie dell'ex Reame provocando il definitivo fallimento degli opifici tessili di Sora, di Napoli, di Otranto, di Taranto, di Gallipoli e del famosissimo complesso di S. Leucio, i cui telai furono portati qualche anno dopo a Valdagno, dove fu creata la prima fabbrica tessile nel Veneto. Furono smantellate, tra le altre attività minori, le cartiere di Sulmona e le ferriere di Mongiana, i cui macchinari furono trasferiti in Lombardia. Furono costrette a chiudere anche le fabbriche per la produzione del lino e della canapa di Catania. La disoccupazione diventò un fenomeno di massa e incominciarono le prime emigrazioni verso l'estero, l'inizio di una vera e propria diaspora. Con gli emigranti incominciarono a scomparire dalle già devastate Terre Napoletane e Siciliane le forze umane più intraprendenti.

A questo grave disastro, si aggiunse l'affidamento degli appalti per i lavori pubblici da effettuare nel Napoletano ed in Sicilia ad imprese lombardo-piemontesi che furono pagate con il drenaggio fiscale operato dai piemontesi. La solida moneta aurea ed argentea borbonica (il 12 luglio 1862, provvedimento di Q.Sella) fu sostituita dalla carta moneta piemontese, provocando una vera e propria devastazione economica. Subito seguita il 9 agosto 1862, dalla legge dell'unificazione tributaria, aboliti i porti franchi e introdotta l'imposta sulla ricchezza mobile. Nel Regno delle due Sicilie questa era addirittura quasi assente, e molte forme di reddito (come dell'industria e del commercio) erano tassati in misura lievissima. Cosicché all'atto dell'unificazione, dei 14 milioni che entravano, 9 erano solo Piemonte.
A causa del disavanzo del bilancio, fu alienata una parte dei beni demaniali ed ecclesiastici.
Al Sud fu applicato un aumento di oltre il 32 per cento delle imposte, mentre gli fu attribuito il meno 24 per cento della ricchezza "italiana".

L'abbattimento delle precedenti dogane sconvolse quasi subito le economie delle province italiane. Alcune furono avvantaggiate ma molte altre, quelle annesse, gravemente penalizzate.
Sta insomma decollando ed estendendosi la politica economica liberista, con l'abolizione dei dazi interni e la generalizzazione delle tariffe già in vigore nel Regno di Sardegna. Il nord del resto era politicamente dominante e quindi aveva il potere decisionale su questioni quali la tassazione, le tariffe doganali e il commercio. Il sud non poteva competere né sul piano nazionale, né su quello internazionale (questa stessa penalizzazione toccò più tardi al Veneto conquistato, il mercato e la produzione si spostò tutto a ovest).

Il Sud ad esempio, che aveva in precedenza un ristretto mercato, perché di tipo protezionistico, si vide abbattere alcuni costi delle merci anche dell'80 per cento, quando a sostituirsi nella produzione locale, nella cantieristica, nelle manifatturiera, subentrarono i privilegiati produttori del nord.
E accadde che le tasse prelevate sull'agricoltura del sud (fino allora redditizia per i grandi proprietari terrieri) furono usate per costruire le "infrastrutture", l'industria pesante, la cantieristica, e le ferrovie del Nord.
Ma dobbiamo anche dire che lo sviluppo industriale al Nord non fu solo "spremuto" nel Sud, ma che gli stessi proprietari terrieri del Sud, con il surplus che a loro proveniva dall'agricoltura, incanalarono i loro investimenti nelle industrie del nord, molto più redditizie a breve termine, e non nel più lento e costoso sviluppo dell'agricoltura meridionale ancora arcaica rispetto al resto dell'Europa occidentale e centrale o delle pianure piemontesi-lombarde già sulla via del riammodernamento.

Inoltre i problemi diventarono ancora più gravi, quando gli imprenditori stranieri che avevano inaugurato da anni diverse industrie nel sud, furono ritenuti (!?) collaborazionisti dei Borboni e, tutte le loro attività messe sotto controllo per non dire ostacolate e spesso chiuse e requisite. Ad esempio solo nel Salernitano si contavano 287 svizzeri, austriaci, tedeschi proprietari di industrie di 25 diversi settori produttivi (cotonerie, della seta, ceramica, carta, pasta ecc.)
(la cronologia, la tipologia, i nomi e la sorte di alcune di queste
fabbriche nel salernitano le riportiamo qui)

Che la scelta del protezionismo nel regno borbonico fosse sbagliata (in quel preciso periodo storico molto particolare) è difficile dirlo; questo perché gli stessi errori (in ben altro periodo storico) furono fatti dagli strateghi di politica economica dello nuovo Stato sabaudo, che dopo venti anni di esperimenti falliti non riuscirono a inserirsi nel circuito del libero commercio, e nel 1880 cominciarono a premere con i tanto criticati provvedimenti protezionistici fino ad arrivare a quelli del 1887 con effetti rovinosi quando coincise con la depressione europea. Preclusi gli scambi con l'estero, spesi i soldi in costosissime acciaierie e tutta una serie di altre industrie, non avendo creato all'interno le piccole industrie, né compiuto miglioramenti nell'agricoltura, quindi assente una massa di lavoratori-consumatori, tutta la manovra si rivelò fallimentare, iniziando a perdere terreno rispetto alle altre nazioni.

L'errore grave iniziò già con l'imposta sui consumi locali (il DAZIO). La materia fu regolata con la legge n. 1827 del 30 luglio 1864: i comuni potevano sopratassare i generi colpiti da dazio di consumo in misura non superiore al 40% del dazio governativo; inoltre il dazio proprio del comune non poteva oltrepassare il decimo del valore del genere tassato, desunto dal valore medio dell'ultimo quinquennio.

La legge ebbe effetti per lo più negativi:
* il gettito fu decisamente inferiore alle attese (dei 43 milioni preventivati ne entrarono 11)
* i comuni, potendo colpire la materia prima, potevano favorire o sfavorire le industrie
*risultato: diminuirono i consumi, in quantità e qualità, dei ceti meno abbienti.

Altro errore grave, commesso sempre in questo primo anno (l'argomento lo affrontiamo subito dopo queste righe) è quello che prima ancora di "fare gli italiani" come diceva Massimo D'Azeglio, bisognava fare le regioni. Sarebbe stato necessario, come aveva teorizzato Carlo Cattaneo, dar vita a una forma statale su base regionale le cui funzioni di fondo fossero cioè lasciate alle regioni stesse: esse sole avrebbero potuto essere a conoscenza delle riforme necessarie nelle singole zone e nei limiti entro le quali andavano realizzate.
A concepire questo futuristico progetto, che è ancora oggi nell'anno 2000 valido, fu un geniale toscano. Quante cose sarebbero cambiate!!!

L'OPERA DEL MINGHETTI: LE REGIONI AUTONOME

A risolvere il problema amministrativo del nuovo regno si era dedicato prima ancora dell'inaugurazione del primo governo, il bolognese MARCO MINGHETTI, il quale, presentò un disegno di legge che creava le regioni.
Un'opzione politica per il decentramento di funzioni dello Stato su base regionale, che a differenza del federalismo, non implicava tuttavia sovranità territoriale, costante prerogativa dello stato nazionale.
Lo scopo dell'autonomia regionale era di consentire l'adeguamento di norme e regolamenti alle condizioni specifiche di un'area e favorirne lo sviluppo.

Era un progetto di decentramento dell'ordinamento amministrativo con quattro disegni di legge che eliminavano il sistema centralizzato piemontese ed affidava ampi poteri agli enti locali:
REGIONI, PROVINCE e COMUNI.
Un ordinamento regionale su base elettiva che consentiva di conservare le tradizioni e i costumi delle diverse parti d'Italia.
Alla REGIONE spettava in particolare il potere legislativo e l'autonomia finanziaria in merito ai lavori pubblici, all'istruzione superiore, alla sanità, alle opere pie, all'agricoltura.
PROVINCE e COMUNI dovevano ampliare le loro competenze e la loro base elettorale, estendendo il diritto di voto amministrativo a tutti i cittadini iscritti almeno da sei mesi nei ruoli delle imposte, indipendentemente dall'ammontare dell'imposta e senza escludere gli analfabeti.
I SINDACI diventare elettivi all'interno del consiglio comunale.
Allo STATO spettavano soltanto, la politica estera, i grandi servizi di utilità nazionale (la difesa, le ferrovie, le poste, i telegrafi, i porti) e un'azione di vigilanza e di contributo sull'operato degli enti locali.
In tale direzione avevano già premuto il Cavour, i liberali moderati e in maniera consistente i mazziniani. Cavour alla guida del governo non avrebbe insomma avuto alcun ostacolo. Ma la morte del Conte a pochi giorni della presentazione del progetto i conservatori che si mostravano decisamente contrari al progetto, bloccarono ogni cosa. E fra i conservatori più accaniti c'era il Ricasoli, subentrato a Cavour alla guida del governo.
Discusso per quasi un anno non essendo stato il disegno amministrativo approvato, il Minghetti si dimise e il portafoglio dell'Interno passò proprio al Ricasoli.

Di questa legge nell'Italia unita non se ne parlerà più, fino alla costituzione repubblicana del 1948, e fu poi applicata - fra l'altro non completa - solo nel 1970.
Sia lo stato liberale che il fascismo furono sempre ostili al regionalismo.
Ed ancora nell'anno 2000, alcune competenze non sono ancora state definite; e sono ancora quelle presentate nei progetti di legge del Minghetti che abbiamo appena letto.

Minghetti insomma aveva preparato qualcosa di futuristico; proviamo a pensare quante cose sarebbero cambiate in Italia se la sue proposte fossero state accettate. Invece�.

Con legge sanzionata il 9 ottobre, politicamente e amministrativamente il regno fu diviso in 59 province, 193 circondari e 1601 mandamenti. A capo di ogni provincia fu messo un prefetto di nomina regia, con un consiglio di prefettura, a capo d'ogni circondario un sottoprefetto. La pubblica sicurezza fu affidata al prefetto, il quale la esercitava per mezzo dei questori e delegati centrali, circondariali e mandamentali. Lo stesso 9 ottobre furono soppressi la luogotenenza di Napoli e il governo della Toscana. A Napoli fu mandato il LA MARMORA, comandante del 60 corpo d'esercito, a Firenze un prefetto.
Erano nato insomma lo stato centralizzato. Con le redini in mano ai Piemontesi.
La centralizzazione significò insomma che il governo, tramite il ministro dell'Interno o dei Lavori pubblici, aveva l'ultima parola in ogni minima questione locale. Una strada, un ponte o una scuola (figuriamoci una ferrovia!) non potevano essere costruite senza il suo consenso. E il consenso partiva solo da Torino.
Diventarono in pratica non solo gli arbitri della vita locale ma influenzarono le elezioni appoggiando - specialmente nel sud - i candidati favorevoli al governo; e che non potevano che essere i conservatori, gli ex principi, conti, marchesi (la composizione del Parlamento l'abbiamo vista nel '61).

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Torniamo all'insediamento di Ricasoli. Riguardo al completamento dell'unità nazionale, RICASOLI era d'avviso -e lo disse inaugurando la sua attività di ministro con un discorso dedicato a Roma e Venezia- che:
"l'opportunità che si prepara e sorge nel tempo aprirà la via a Venezia" invece per Roma affermò la "volontà ferma di andarvi, non con moti insurrezionali, intempestivi, temerari, folli che potessero mettere a rischio gli acquisti fatti e compromettere l'opera nazionale, ma di concerto con la Francia. Andare a Roma non per distruggere ma per edificare, per dare alla Chiesa il mezzo di riformare se stessa, dandole quella libertà e quella indipendenza che le siano di mezzo e stimolo di rigenerarsi nella purezza del sentimento religioso, nella semplicità dei costumi, nella severità della disciplina, che con tutto onore e decoro del Pontificato fecero gloriosi e venerati i primitivi suoi tempi; e con il franco e leale abbandono di quel potere affatto contrario al grande concetto, tutto spirituale, della sua costituzione".

A Vittorio Emanuele non piacque questo discorso, perché pensava (Cavour aveva lasciato il segno!) che la questione di Venezia dovesse risolversi prima di quella di Roma. E non piacque nemmeno che il Ricasoli non gli avesse detto nulla prima di fare questo discorso così delicato.

Su questa questione il dissenso apparve ben presto. Il Conte aveva negli ultimi mesi della sua vita svolto importante attività per avere Roma, seguendo due vie: le trattative dirette con la Santa Sede e le trattative con Napoleone III.
Con il papato le cose si presentarono molto più difficili dopo la rottura delle relazioni avvenute già nel 1860, seguite poi dalla indiretta scomunica del Re.
la lettera-enciclica che condanna le usurpazioni piemontesi la riportiamo a parte, QUI

Il re rispose a PIO IX con una lettera autografa del 6 febbraio 1860, stesa da Cavour, e il Papa a sua volta rispose alla stessa il 14 deplorando la lettera e facendogli vedere le censure ecclesiastiche quando "l'atto sacrilego" fosse stato attuato.
Poi il 26 marzo 1860 con un breve (infisso il 27 aprile alle porte delle basiliche vaticane) pubblicava la "scomunica contro gli autori e fautori di atti e fatti violanti i diritti della Santa Sede".
Anche se nominativamente non indicava i nomi né del re né dei suoi ministri, temendo di provocare reazioni e ritorsioni pericolose.

Guardando le date, tutto questo avvenne prima dell'occupazione delle Marche e dell'Umbria, che al Cavour (e abbiamo visto il re "montare a cavallo") parve il sistema più convincente per piegare il papa o almeno a riprendere le trattative su nuove basi, per quanto riguardava la sovranità e l'indipendenza territoriale e spirituale, con la famosa formula "libera chiesa in libero stato". Facendo suo il concetto del programma mazziniano.
Le vicende le abbiamo già viste, con l'intromissione di Napoleone III sull'intera questione al Sud come a Roma (con l'occupazione francesi per difendere il Papa, e i Borboni a Gaeta con la flotta). Ma troppe forze si opposero per andare oltre e l'Imperatore all'inizio del 1861, prima ritirò da Gaeta la flotta, e per Roma riprese le trattative con Cavour. Fino al punto che Napoleone III, si pronunciò al Senato francese con un discorso a favore del passaggio di Roma allo stato italiano. Cavour quel discorso lo riprese integralmente, lo tradusse e lo diffuse in Italia in ogni cantone.
Poi in Parlamento declamò i famosi discorsi per la proclamazione di Roma capitale, con affermazioni che ammonivano il Papato e che l'Italia era decisa a procedere sul suo cammino".
Non proprio un cammino di guerra ma diplomatico, o, se fosse stato di guerra, non proprio subito, prima c'era da risolvere il problema Venezia con l'Austria.

All'inaugurazione della prima Camera, risulta che anche il Re era ben deciso a compiere l'unità d'Italia con Roma, ma solo dopo aver risolto il problema di Venezia.
Tuttavia la scomunica aveva impressionato il Re -si asteneva dai sacramenti- e cercava in ogni modo di toglierla di dosso, anche se da Londra gli dicevano di insistere, e che non era un disonore averla addosso; gli ricordavano Enrico VIII.
In aprile grazie alle trattative di Cavour, apparve la possibilità di un accordo con Napoleone III per il ritiro del presidio francese da Roma, trattative che a fine maggio parevano vicine al porto.
Ma arrivata all'improvviso la morte di Cavour, Napoleone parve deciso a rinviare la questione a tempi migliori. Cioè le trattative improvvisamente cessarono (Chissà quali accordi segreti c'erano stati con il Cavour! E che con la sua morte, non essendoci uomini audaci come lui, l'Imperatore quegli accordi ritenne opportuno non mantenere).
Dunque, la "questione Roma" alla morte del Conte, dal Re fu abbandonata sia sul piano diplomatico, sia (nemmeno pensarlo) sul piano militare. Entrambe le due cose non erano di facile soluzione.

Poi giunse il RICASOLI che all'inaugurazione del suo ministero, declamò quel discorso che abbiamo letto sopra. Credeva di poter riprendere lui i colloqui con Napoleone, ed era convinto -cattolico di fervida fede com'era- che dal suo scranno lui poteva essere il provvidenziale uomo per il bene dell'Italia.
Ed, infatti, non si fermò a quel discorso, ma iniziò a muoversi come un elefante in una cristalleria combinando però - usando poco tatto- dei grossi guai,
Il primo, con una lettera al ministro dell'imperatore THOUVENEL per avvertirlo che l'amicizia italo-francese correva serio pericolo, dato l'atteggiamento di chiusura assunto dalla Francia dopo la morte di Cavour. Sembrò una minaccia.
Peggiore fu il secondo guaio combinato, quando, con una nota circolare ai rappresentanti italiani all'estero accusò i francesi di Roma di essere i responsabili o i conniventi del brigantaggio.

Infine con una terza lettera ufficiale al Papa, offriva lui con un po' di presunzione, la libertà alla Chiesa e proponeva una convenzione molto simile a quella cavouriana.

Il Re correndo ai ripari, prima ancora di pensare di liberarsi di lui, in ottobre, mandò in missione segreta il RATTAZZI a Parigi, per riprendere le trattative con Napoleone III; una visita che oltre che scrutare le intenzioni dell'imperatore dovevano anche chiarire le vere intenzioni dello stesso Re nei suoi confronti.
Insomma comportandosi così, il Re saltava il Governo e il RICASOLI, il quale con tanta ingenuità comunicava al Parlamento che le sue missioni a Roma erano fallite, attirandosi rimproveri e critiche, perché i suoi passi non erano stati comunicati in precedenza.

A questo punto, intorno al Ricasoli si formarono numerosi nemici venuti da varie parti. Il partito d'azione, memore della condotta che come deputato aveva tenuto nella questione dei volontari, già lo gradiva poco fin dal principio, e presto lo attaccò per la sua politica rispetto a Roma, mentre lo biasimavano i conservatori per le idee di politica interna ed ecclesiastica, giacché Ricasoli non faceva mistero del suo desiderio di amnistiare Mazzini e di concedere grandi libertà alla Chiesa.
Inoltre c'era la sua condotta personale che abbiamo già accennato di "padrone", che accresceva i nemici.
Anche il Re lo gradiva poco, rimproverandogli soprattutto il fiero e altero contegno che usava pure con lui, e ovviamente lo paragonava con le forme ben diverse usate da Cavour e soprattutto dal RATTAZZI, il quale eletto presidente della Camera sostenne il RICASOLI ufficialmente, finché non fu sicuro di esserne il successore con l'appoggio del Sovrano, di parte della Destra e con la benevolenza di molti amici di Garibaldi.

GARIBALDI anche lui nell'autunno del 1861 mostrava apertamente la sua disapprovazione alla politica del governo, e per la poca energia di questo; temendo di esser ridotto all'apatia, pensò di recarsi in America, dove pare lo attendeva un alto comando nell'esercito degli Stati Uniti.
Molti amici invece speravano di trattenerlo preparando, fra altro, accordi con Mazzini e con il Re per agire al più presto. Garibaldi restò in Italia e contribuì non già a fare per il momento quanto i suoi amici più impazienti speravano riguardo alla soluzione delle questioni di Roma e di Venezia, ma piuttosto ad accrescere la concordia e la forza dei suoi seguaci, riunendo a Genova un Congresso fra i "Comitati di provvedimento" per Roma e Venezia, le "Associazioni unitarie" e i deputati di opposizione (Rosi) ".

La questione dell'armamento nazionale, patrocinato dal Congresso di Genova, diede occasione alla caduta del Ricasoli. Il 25 febbraio del 1862, il presidente del Consiglio, richiesto dall'on. Boggio di sciogliere i comitati di provvedimento, rispose
"All'uso della forza il Governo libero non ricorre mai, ma deve limitarsi alla vigilanza".

La discussione finì con un ordine del Giorno dell'on. LANZA, che prendeva atto delle dichiarazioni del ministero e dalla camera fu approvato all'unanimità. Era, questa, una vittoria del Ricasoli, ma più apparente che reale. In tre giorni o la "bufera" o il suo orgoglio lo travolse.
Anche se stimato per la sua rettitudine aveva fatto poco per crearsi delle amicizie e la fiducia, a Torino come a Parigi. Proprio dalla capitale francese VIMERCATE scriveva al Re "E' ora che comprenda Ricasoli la necessità di occuparsi seriamente degli affari, altrimenti le cose andranno al diavolo". E il MARTINI sempre da Parigi scriveva "Ricasoli non capisce niente della politica estera; mena pugni e graffi da orbo, rompe senza avvedersene le fila ordite da Cavour. Io spero che il Re saprà moderare, correggere ed all'uomo sostituire altri uomini".
Vittorio Emanuele, cercò di avvicinarlo con amabilità perché il "Barone di ferro" era piuttosto spigoloso, proponendogli l'appoggio del RATTAZZI (allora presidente della Camera), dopo avergli affidato il ministero degli Interni. Ricasoli rifiutò sdegnosamente l'invito del Re. Anzi, quando Minghetti si dimise da questo dicastero, lo assunse lui ad interim.

Ma quando Ricasoli seppe delle trattative condotte da Rattazzi a Parigi, in un colloquio pieno di risentimento, ma ormai persuaso di non godere più la fiducia del re e di non essere appoggiato con entusiasmo dalla Camera, il colloquio lo terminò con il suo solito fiero orgoglio dicendo "io non sono uso a fare da sgabello o da copertura ad alcuno" e presentò le dimissioni che furono accettate il 10 marzo 1862.
Il 3 marzo il Sovrano affidava proprio al RATTAZZI l'incarico di comporre il nuovo ministero.


Ed è il prossimo capitolo, dal ministero Rattazzi, alla convenzione di settembre
la questione della Capitale d'Italia fino al III ministero di La Marmora


il periodo dal 1862 al 1865 > > >

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