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( QUI TUTTI I RIASSUNTI )  RIASSUNTO ANNO 1856-1858

L'IDEA UNITARIA MONARCHICA - IL "PARTITO NAZIONALE"
INSURREZIONE DI GENOVA
( Anno 1856 - 1858 )

GIORGIO PALLAVICINO-TRIVULZIO E L' IDEA UNITARIA MONARCHICA - IL MURATTISMO - DANIELE MANIN SI DICHIARA PER LA MONARCHIA A PER LA CASA SAVOIA - ADESIONE DEL GARIBALDI, DEL LA FARINA E DI ALTRI AL PROGRAMMA MANINIANO: "UNITÀ ITALIANA CON VITTORIO EMANUELE RE D'ITALIA" - COSTITUZIONE DELLA "SOCIETÀ NAZIONALE ITALIANA"; DIFFUSIONE NELLA PENISOLA; SCIOGLIMENTO NEGLI STATI SARDI - GOVERNO DELL'ARCIDUCA MASSIMILIANO NEL LOMBARDO-VENETO - AVVERSIONE E OPPOSIZIONE DEI SUDDITI - CONDIZIONI DEGLI STATI ANTINAZIONALI D' ITALIA - FERMENTO RIVOLUZIONARIO IN ITALIA - TENTATIVI INSURREZIONALI DI FRANCESCO BENTIVEGNA, DI SALVATORE SPINUZZA E DI LUIGI PELLEGRINO - AGESILAO MILANO ATTENTA ALLA VITA DI FERDINANDO II - LA STAMPA LIBERALE CONTRO I BORBONI - LA SPEDIZIONE DI SAPRI E L'ECCIDIO DI CARLO PISACANE E DEI SUOI COMPAGNI - INSURREZIONE MAZZINIANA DI GENOVA E LIVORNO
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L' IDEA UNITARIA MONARCHICA

Si è detto - nei precedenti riassunti - che gli insuccessi di Mazzini avevano allontanato dal grande agitatore molti dei suoi stessi partigiani e che la monarchia sabauda, prima con Carlo Alberto, ma molto di più poi con Vittorio Emanuele II, si era guadagnata le simpatie della maggior parte dei liberali italiani, i quali oramai erano d'avviso che solo con il Piemonte si poteva conseguire l'indipendenza d' Italia. La partecipazione sarda alla guerra di Crimea e l'opera di Cavour al Congresso di Parigi avevano accresciuto le simpatie dei patrioti verso il Piemonte ed avevano fatto fare molti passi avanti all'idea unitaria monarchica.
Sostenitore caldo e convinto di quest'idea, che doveva esser tradotta in pratica costituendo il partito nazionale unitario monarchico, era GIORGIO PALLAVICINO-TRIVULZIO, il quale fin dal 1854 si dava da fare per dimostrare che l'unità d'Italia non poteva compiersi senza l'opera del Piemonte.
Il 14 novembre di quell'anno in un articolo sull'"Unione" aveva, infatti, scritto:

"Una guerra nazionale vuole esser combattuta con armi nazionali. Ora l'Italia possiede due forze vive: l'opinione italiana e l'esercito sardo. Ciascuna di queste due forze è impotente a fare da sé; ma, le due forze - esercito sardo e insurrezione popolare - si avvalorano a vicenda, appoggiandosi l'una sull'altra, e noi avremo quell'Italia armata, che deve precedere necessariamente l'Italia libera"; e il 27 di quello stesso mese, dalle colonne del medesimo giornale, si era rivolto ai repubblicani della "Giunta nazionale d'Azione" con le seguenti parole: "Voi volete, come noi, l'indipendenza nazionale, senza di cui non è possibile la libertà sotto qualsiasi forma. Per conquistare l'indipendenza voi vi preparate alla guerra. A tal scopo vi occorrono armi, cavalli e munizioni d'ogni tipo, poi "centomila soldati che avrete un giorno". La contribuzione nazionale, proposta dal signor MAZZINI, è un'ingenua confessione della nostra debolezza: voi non avete né oro, né ferro. D'altra parte VITTORIO EMANUELE può usare in pro d'Italia le ricchezze di florido stato; ha le munizioni, i cavalli, le armi, e i centomila soldati che voi non avete ancora: tutto ciò è forza. Ora parliamoci schietto: potete voi credere ragionevolmente che l'ardua missione del nostro riscatto l'abbia ricevuta Giuseppe Mazzini, anziché Vittorio Emanuele ? Non esagerate l'importanza vostra o repubblicani unitari, nella penisola nessun uomo di senno ha fiducia nei vostri mezzi, sapendovi animosi, ma poveri ed inermi. Voi mi obiettate che l'esercito sardo non basta. Voi dunque, volendo esser logici, dovreste raccogliere denaro ed uomini per aumentarlo. Bisogna pur convenirne una volta: l'Italia d'oggi non è né a Londra, né a Parigi, né a Ginevra, né a Lugano: l'Italia è qui a Torino, ma a Torino, voi lo sapete, la "bandiera tricolore" sventola su le torri di un palazzo reale" .... Casa Savoia vuole, come noi, l'"indipendenza" e l'"unità d'Italia" .... Repubblicani d'Italia, siate Italiani!
L'impresa della nostra politica di redenzione voi non potete assumerla coscienziosamente se non quando il Piemonte vi avrà rinunciato, abolendo lo Statuto e rinnegando la bandiera nazionale. Ma oggi giorno il Piemonte, nonostante i mille ostacoli che sorgono ad impedirgli il passo, procede sulla buona via: dovete dunque seguirlo. S'arresta? Dovete stimolarlo. Vacilla? Dovete sostenerlo affinché non cada. Guai a voi se il Piemonte cadesse! Caduto il Piemonte, voi non avreste la repubblica, siatene certi; ma dopo inutili conati per riuscire italiani, vi trovereste un bel giorno o "Tedeschi o Francesi". Avvertite le condizioni politiche della patria nostra. Noi abbiamo nemici palesi, nemici occulti, e freddi o falsi amici. Avversando il Piemonte, voi dunque, con intenzioni pie, attendete a colorire disegni parricidi: predicando la repubblica nazionale, voi vi adoperate in pro dello straniero. Il caso è serio; pensateci seriamente".

A dare, con il suo nome autorevole, maggior forza alla causa santa per la quale combatteva Giorgio Pallavicino-Trivulzio, s'aggiungeva sullo scorcio dell'estate del 1855 DANIELE MANIN. Nel marzo del 1854, protestando sulla "Presse" contro le parole di lord RUSSEL, il quale aveva espresso l'opinione che gl'italiani, restando tranquilli, avrebbero ottenuto dall'Austria franchigie e un governo umano, il Manin aveva francamente detto:
"Noi non domandiamo già all'Austria d'essere umana e liberale in Italia, cosa che del resto le sarebbe impossibile, quand'anche n'avesse l'intenzione; ma domandiamo che se ne vada. Noi non sappiamo che farci della sua umanità e del suo liberalismo: noi vogliamo essere padroni in casa nostra. Lo scopo che noi ci proponiamo, che noi vogliamo, tutti, nessuno eccettuato, eccolo: Indipendenza completa dell'intero territorio italiano; unione di tutte le parti d'Italia, in un solo corpo politico".

Un anno e mezzo dopo, e precisamente il 15 settembre 1855, DANIELE MANIN, schierandosi contro LUCIANO MURAT, pretendente alla corona delle Due Sicilie, sostenuto fra gli altri da AURELIO SALICETI, il quale aveva pubblicato un opuscolo intitolato "La questione italiana, Murat e i Borboni", inviò al "Siècle" una dichiarazione di fede monarchica e sabauda:
"Fedele alla mia bandiera: "indipendenza e unificazione", respingo tutto ciò che se n'allontana. Se l'Italia rigenerata deve avere un re, deve essere uno solo, e non può essere che il re di Piemonte".

Questa dichiarazione fu di lì a poco seguita da un'altra dello stesso MANIN:
"Il partito repubblicano - scrisse lui sul Times - così acerbamente calunniato fa nuovo atto d'abnegazione e di sacrificio alla causa nazionale. Convinto che anzitutto bisogna fare l'Italia, che questa è la questione precedente e prevalente, egli dice alla casa di Savoia
"Fate l'Italia e sono con voi: Se no, no". E dice ai costituzionali: "Pensate a fare l'Italia e non ad ingrandire il Piemonte, siate italiani e non municipali e sono con voi: Se no, no". Mi pare sarebbe tempo di sopprimere l'antica denominazione dei partiti che accennano piuttosto discordanze e discrepanze sopra questioni secondarie e subalterne che non sopra la questione principale vitale. La distinzione è in due campi. Il campo dell'opinione nazionale unificatrice, ed il campo dell'opinione municipale separatista. Io repubblicano pianto il vessillo unificatore. Lo riannodi, lo circondi, e lo difenda chiunque vuole che l'Italia sia, e l'Italia sarà".

Così i due grandi patrioti, il PALLAVICINO e il MANIN, andavano preparando la costituzione del partito unitario monarchico, con il motto "indipendenza e unificazione" trovato dall'ex dittatore di Venezia, al di fuori del "partito puro piemontese" e del "partito puro mazziniano", che rappresentano "idee d'esclusione, di discussione e di discordia", mentre erano necessarie idee di conciliazione d'unione e di concordia.

A costituire il grande partito nazionale dovevano concorrere, secondo il MANIN, tutti i patrioti sinceri, tutti coloro cha amavano l'Italia sopra ogni cosa, ma occorreva che accogliessero l'idea monarchica impersonata dalla dinastia sabauda.

"Il Piemonte - scriveva il Manin nel gennaio del 1856 - è una grande forza nazionale. Molti se ne rallegrano come di un bene, altri lo deplorano come un male, nessuno può negare che sia un fatto. Ora i fatti non possono dall'uomo politico essere negletti: egli deve costatarli e cercare di trarne profitto. Rendersi ostile o ridurre inoperosa questa forza nazionale nella lotta per l'emancipazione italiana sarebbe follia. Ma è un fatto che il Piemonte è monarchico; è dunque necessario che all'idea monarchica sia fatta una concessione, la quale potrebbe avere per corrispettivo una convalidazione dell'idea unificatrice. A mio avviso il partito nazionale d'Italia dovrebbe dire: accetto la monarchia, purché sia unitaria; accetto la casa di Savoia, purché concorra lealmente ed efficacemente a fare l'Italia, cioè a renderla indipendente ed una. Se no, no; cioè se la monarchia piemontese manca alla sua missione, cercherò di fare l'Italia con altri mezzi, ed anche ricorrendo, se bisogna, ad idee, divergenti dal partito monarchico".

Le prime autorevoli adesioni giunsero al Pallavicino e al Manin da GARIBALDI e dal LA FARINA. Il primo, in data del 5 luglio 1856 scriveva al Pallavicino:
"Io devo dunque in due parole dirvi che sono con voi, con Manin e con qualunque dei buoni italiani che mi menzionate: vogliate dunque farmi l'onore di ammettermi nelle vostre file e dirmi quando dobbiamo fare qualche cosa".

Il secondo, in data del 24 agosto da Torino, scriveva allo stesso Pallavicino: "Manin ha ragione: bisogna dire quello che si vuole, e dirlo chiaramente. Per me accetto completamente il programma "Unità italiana con Vittorio Emanuele Re d'Italia", ed in questo senso ho scritto e scrivo sempre ai miei amici di Toscana, dei Ducati di Napoli e di Sicilia. Le posso anzi assicurare che questo programma in quelle province italiane è accettato direi quasi da tutti".

Altre adesioni importanti furono quelle di MEDICI, COSENZ, BIXIO, POMPEO CAMPELLO, PIETRO STERBINI, COSTANTINO RETA, NICCOLÒ TOMMASEO, CERONI, TECCHIO, SAN DONATO, FORESTI, MALENCHINI, ULLOA, PETRUCCELLI GATTINA, GHERARDI, GEMELLI, DRAGONETTI, INTERDONATO, MACCHI, GUERRIERI, FRAPOLLI, SALAZARO, PIRONTI, FRANCESCHI, CORRANO, TOFANO, BARTOLOMMEI e del DEGLI ANTONI.
Queste adesioni, ne produssero molte altre. Il PALLAVICINI era instancabile nel diffondere il programma del futuro partito, con lettere, opuscoli, fogli volanti articoli. Non meno efficace LA FARINA.
Inoltre l'opposizione vivissima degli unitari monarchici al partito murattiano, fecero sì che attorno alla nuova bandiera levata dal Pallavicino contro quella del Mazzini accorressero moltissimi liberali da ogni parte della penisola e molti consensi riceveva il programma del Manin.

Nell'agosto del 1857 fu costituita la, "Società Nazionale italiana", che doveva raccogliere in una vasta associazione politica tutti gli aderenti al "partito nazionale italiano". In una "Dichiarazione", firmata dal La Farina, era detto:
"La nostra Società è stata fondata a fine di dare un legame d'unità, e quindi potenza operativa agli sforzi dei buoni, i quali si perdono ed isteriliscono nell'isolamento; e l'adesione di uomini autorevolissimi per virtù cittadine, per provato e operoso amore di libertà, per ingegno, reputazione ed aderenze, ci dà ragione di bene sperare che l'opera nostra sta per riuscire efficace a pro della patria comune, oppressa dalla tirannide nostra e forestiera. Come la famosa lega contro la legge sui cereali, prese il via con umili inizi ma partorì poi salutari effetti in Inghilterra, noi intendiamo, con le parole, con gli studi, con gli scritti, con le adunanze, con le personali aderenze e con tutti gli onesti mezzi dei quali possiamo disporre, di propagandare quei principi, nei quali, secondo noi, è riposta la salute della comune Patria Italiana".

Questa dichiarazione che quasi con le stesse parole era riportata in una circolare a grande diffusione, era completata da quella che si trovava in testa alla scheda d'associazione: "

"La Società Nazionale Italiana dichiara: che intende anteporre ad ogni predilezione di forma politica e d'interesse municipale e provinciale il gran principio della Indipendenza e Unificazione Italiana, che sarà per la Casa di Savoia, finché la Casa di Savoia sarà per l'Italia in tutta l'estensione del ragionevole e del possibile; che non predilige tale o tale altro ministero saldo, ma che sarà per tutti quei ministeri, che promuoveranno la causa italiana, e si terrà estranea ad ogni questione interna piemontese; che crede all'Indipendenza ed Unificazione dell'Italia sia necessaria l'azione popolare italiana, utile a questa il concorso governativo piemontese".

La "Società Nazionale Italiana" era diretta da un comitato centrale, che pose la sua sede a Torino; presidente DANIELE MANIN che, alla morte (Parigi 22 settembre 1857), fu sostituito da GIORGIO PALLAVICINO TRIVULZIO, vice-presidente GIUSEPPE GARIBALDI, segretario GIUSEPPE LA FARINA. Il comitato centrale fu composto di trenta membri, metà piemontesi, metà delle altre regioni d'Italia.
Nello Stato sardo la "Società Nazionale", consentita dalle leggi, aveva trentasei comitati provinciali e come organo ufficiale il "Piccolo Corriere d'Italia", che fu l'efficace mezzo di propaganda in tutta la penisola; nelle altre parti d'Italia l'organizzazione era segreta, fiorente nell'Emilia e nelle Marche, scarsa nel Lombardo-Veneto, nella Toscana e nel Regno delle Due Sicilie.

L'attività della Società Nazionale Italiana fu di notevole importanza.

"Per tre anni lavorò indefessamente per abbattere il mazzinianesimo ed orientare la coscienza nazionale verso la monarchia e la Casa Savoia; assertrice, strenua dell'unità e indipendenza italiana, essa si propose - e in parte vi riuscì - di riannodare in un organismo compatto tutti i liberali dispersi nella penisola; convinta che le parziali insurrezioni fossero più dannose che utili al riscatto nazionale, si prefisse di contenere gli eccessi degli esaltati e le intemperanze degli impulsivi e di organizzare la rivoluzione italiana con calma e con metodo, mantenendo nel medesimo tempo i necessari contatti con Cavour, il quale, lasciando credere che scopo della politica sarda era l'unità d'Italia, si serviva intanto della Società come di "longa manus" senza compromettersi e intendeva di approfittare del "lavorio di essa, in quanto creava una forza nazionale, su cui lo statista torinese potesse contare in Italia e all'estero: in Italia per compiere la rivoluzione, all'estero, per rappresentare le cose in modo da sembrare costretti a dirigere la rivoluzione nazionale, perché essa non trasmodasse (A. Savelli)".

Nel 1859, alla vigilia della guerra, il comitato centrale della Società Nazionale diramò ai comitati della penisola "consigli e istruzioni" che il 10 marzo furono oggetto di una circolare riservatissima:

1° - Incominciate le ostilità fra il Piemonte e l'Austria voi insorgerete al grido di viva l'Italia e Vittorio Emanuele ! Fuori gli austriaci !
2° - Se l'insurrezione sarà impossibile nella vostra città, i giovani atti alle armi usciranno e si recheranno nella città vicina, dove l'insurrezione sia già riuscita. Tra le varie città vicine, preferite quella che è più prossima al Piemonte, dove debbono far capo tutte le forze italiane.
3° Farete ogni sforzo per vincere o disordinare l'esercito austriaco, intercettando le comunicazioni, rompendo i ponti, abbattendo i telegrafi, ardendo i depositi di vestiari, vettovaglie, foraggi, tenendo in ostaggio cortese gli alti personaggi al servizio del nemico e le loro famiglie.
4° - Non sarete mai i primi a tirare contro i soldati italiani o ungheresi, anzi adoprerete con essi tutti i mezzi per condurli a seguire la nostra bandiera, ed accoglierete come fratelli coloro i quali cederanno alla vostra esortazione.
5° - Le truppe regolari, che abbracceranno la causa nazionale, saranno subito inviate in Piemonte.
6° - Dove l'insurrezione trionfi, la persona che gode la stima e la fiducia pubblica assumerà il comando militare e civile con il titolo di Commissario provvisorio per il Re Vittorio Emanuele, e lo terrà fintanto che non giunge un apposito commissario, spedito dal Governo piemontese.
7° - Il commissario provvisorio dichiarerà aboliti i dazi, che potrebbero esistere sul pane, sul frumento o sulla macinatura; i testatici, le tasse di famiglia ed in generale tutti gli aggravi, che non esistono negli Stati sardi. Trascriverà nella ragione di 10 per mille di popolazione i giovani dai 18 ai 25 anni, e riceverà come volontari quelli dai 26 a 35 che volessero brandire le armi in favore dell'indipendenza nazionale, ed i coscritti e i volontari manderà subito in Piemonte.
9° - Nominerà un consiglio di guerra permanente per giudicare e punire, dentro 24 ore, tutti gli attentati contro la causa nazionale e contro la vita e le proprietà dei pacifici cittadini. Non si userà alcun riguardo né del grado, né del ceto. Nessuno potrà essere condannato dal consiglio di guerra per fatti politici anteriori all'insurrezione.
10° - Non permetterà la fondazione di circoli o giornali politici, ma pubblicherà un bollettino ufficiale di fatti che importa recare alla conoscenza del pubblico.
11° - Toglierà d'ufficio tutti gl'impiegati e magistrati avversi al nuovo ordine di cose, procedendo però con molta oculatezza e prudenza, e sempre in via provvisoria.
12° - Manterrà la più severa ed inesorabile disciplina nelle milizie, applicando ad esse, qualunque sia la loro origine, le disposizioni delle leggi militari. Sarà inesorabile coi disertori, e darà ordini severi in proposito a tutti i suoi dipendenti.
13° - Manderà al Re Vittorio Emanuele uno stato preciso delle armi, munizioni, danari del pubblico, che si troveranno nelle città o province, ed attenderà i suoi ordini in proposito.
14° - Farà, occorrendo, requisizione di danari, cavalli, carri, barche, vino ecc., rilasciandone sempre corrispondente ricevuta, ma punirà con le pene le più severe chi si attentasse di fare simili requisizioni senza evidente necessità, o senza suo espresso mandato.
15° - Fino a che il caso previsto nel 1.0 articolo di queste istruzioni non si avvererà, voi userete tutti i mezzi che sono in poter vostro per manifestare l'avversione che sente l'Italia contro la dominazione austriaca ed i governi infeudati dall'Austria, il suo amore all'indipendenza, la fiducia che riponete nella Casa di Savoia e nel Governo piemontese; ma farete di tutto per evitare conflitti e moti intempestivi ed isolati".

Quando poi - il 27 aprile 1859- scoppiò la guerra contro l'Austria, il marchese GIORGIO PALLAVICINO-TRIVULZIO radunò a Torino, in casa sua, già il giorno prima, il 26 aprile del 1859, i membri del comitato centrale e annunciò lo scioglimento della Società Nazíonale nel Piemonte e in tutti quei luoghi dove il suo programma diveniva un fatto governativo:
"Noi abbiamo voluto - egli disse - riunire le forze vive d'Italia, maritando l'insurrezione italiana all'esercito del Piemonte. Il connubio è consumato e la dittatura, da noi proposta, fu decretata dai rappresentanti della nazione. Ora il nostro compito è finito. Io quindi, in nome del comitato Centrale, dichiaro sciolta in questa provincia la Società Nazionale Italiana e in nome dello stesso Comitato affido le sorti d'Italia al governo del Re. Il momento è decisivo. Si taccia e si speri; ma si operi sapientemente, fortemente, costantemente. Uniamoci tutti, Re e popolo. Uniti, saremo forti, saremo liberi, saremo finalmente italiani. Viva Vittorio Emanuele ! Viva l'Italia !".
Lo stesso giorno il "Piccolo Corriere d'Italia" cessava 1e pubblicazioni.

GLI STATI ITALIANI ANTINAZIONALI

Mentre il marchese PALLAVICINO e il LA FARINA gettavano le basi del "partito nazionale", l'Austria pensava di mutare i sistemi di governo nel Lombardo-Veneto e di guadagnarsi l'affetto delle popolazioni di quelle province. Il 15 luglio del 1855 erano state richiamate in vita le Congregazioni centrali di Milano e Venezia e il 23 luglio erano stati tolti i sequestri sui beni degli emigrati; tra il novembre del 1856 e il gennaio del 1857, viaggiando in Italia con la consorte ELISABETTA di Baviera (SISSI), l'imperatore FRANCESCO GIUSEPPE condonava alla città di Venezia oltre tredici milioni di debito verso lo Stato e un milione e ottantamila lire austriache ai comuni del Bresciano, perdonava ai profughi implicati nel processo di Mantova, rimetteva in libertà tutti i Lombardi e i Veneti condannati per alto tradimento, lesa maestà e sollevazione, scioglieva le corti speciali, sopprimeva i processi politici in corso e erogava cospicue somme per opere d'arte e di pubblica utilità.
Nel febbraio del 1857 il vecchio maresciallo Radetzky si ritirava a vita privata e l'imperatore nominava governatore generale l'Arciduca MASSIMILIANO suo fratello per dare ai suoi sudditi:
"una prova singolare della continua sua sollecitudine, fornendolo di ampie facoltà a degnamente esercitare l'ufficio e facendogli obbligo specialissimo di riscontrare le necessità dei popoli, di svolgere il progresso intellettuale e di adoprarsi, costante, per la gloria del principe e per l'utile maggiore di quel paese, che tanto gli stava a cuore".

L'Arciduca, che era colto, mite e liberale, fece di tutto per conciliare all'Austria gli animi dei sudditi; ma non vi riuscì. "Attorno a lui - scrive il Lavelli - il partito nazionale fece il vuoto, quantunque non mancassero gli illusi, sognanti nella conciliazione con l'Austria il soddisfacimento lombardo-veneto in una larga autonomia interna, poiché vano appariva sperare in una vittoria d'armi liberatrici; ma tutta la gioventù più ardente della nobiltà e della borghesia attizzava l'attrito, e lo ravvivava di continuo, con i rappresentanti dell'odiato dominio straniero. A ciò tutto serviva; frequenti provocazioni agli ufficiali, duelli, sgarbi senza cagione apparente, e così via, boicottaggio rigoroso attuato contro quanto sapeva di austriaco, dimostrazioni, difficilmente reprimibili o punibili da parte della polizia, a Vittorio Emanuele, a Cavour, e manifestazioni d'odio e di disprezzo contro l'Austria. A seminare avversione al Governo straniero anche fra il ceto meno accessibile alle idee e ai sentimenti nazionali, e più incolto; cioè i contadini, giovarono due provvedimenti voluti dalla burocrazia e dall'elemento militare (le due onnipotenze della monarchia danubiana) il deprezzamento della moneta corrente per parificarla a quella del rimanente dell'Impero, e l'estensione dell'obbligo della coscrizione, con il divieto fino a ventitre anni del matrimonio dei giovani soggetti alla leva.
Così la Lombardia e la Venezia finivano con l'appuntare sempre più la loro speranza nel Regno sardo, e uscivano rafforzate nella loro fede patriottica da un biennio di prova ardua quanto mai, perché si trattava di resistere ai tentativi di conciliazione e di attrazione, compiuti da un principe, naturalmente affascinante e ostentatore di buone intenzioni, e di sfuggire ai suggerimenti di un pessimismo, che pareva fondato sulla cruda realtà dei generosi conati infranti nel cozzo austro-italiano del 1848. Ma con tutti gli ostacoli la causa patriottica trionfava". (Lavelli)

Per la politica di conciliazione seguita dal governo austriaco nel Lombardo-Veneto, nei tre anni che precedettero la guerra, queste province furono quelle che con la Toscana
nella penisola soffrirono meno l'assolutismo reazionario dei principi;
meno delle popolazioni del ducato di Modena, dove Francesco V, ligio sempre all'Austria, avversò più che poté il liberalismo e mantenne a lungo Carrara sotto lo stato d'assedio;
meno degli abitanti del ducato di Parma, funestato prima da delitti politici, assoggettato quindi ai rigori dello stato d'assedio sotto il comando del generale austriaco De Crenneville atterrito infine dalle carcerazioni, dalle deportazioni e dai processi diretti dal famigerato capitano austriaco Krauss, fino a che la duchessa Maria Luisa, seguendo i consigli di sudditi onesti, fra cui il Molossi, ottenne il ritiro delle truppe imperiali, tolse lo stato d'assedio e distrusse la Lega Doganale con l'Austria;
meno dei popoli dello Stato Pontificio, dove spadroneggiavano gli Austriaci, i Francesi e l'Antonelli;
e meno finalmente dei sudditi di FERDINANDO Il di Borbone.

Questi viveva in un completo isolamento politico; non voleva che altri s'ingerissero negli affari del suo Stato e, mentre cercava di farlo rifiorire economicamente con bonifiche in terra di Lavoro, nel Salernitano e nelle Puglie, con costruzione di linee telegrafiche, con provvedimenti favorevoli ad alcune industrie e con un sistema doganale liberista, badava a consolidare la monarchia assoluta dando mano libera alla polizia, portando l'esercito a centomila uomini, dedicando molte cure alla marina e fortificando le coste.

Geloso della sua indipendenza, nella primavera del 1856 Ferdinando II rifiutò, consigli che i Governi di Francia e d' Inghilterra gli avevano dato di esser mite; con il suo contegno sprezzante fece sì che Parigi e Londra rompessero con lui i rapporti diplomatici e mandassero alcune navi nelle acque napoletane per una dimostrazione alla quale il Regno di Sardegna, invitato, non volle partecipare.

TENTATIVI INSURREZIONALI IN SICILIA

I rigori continuarono; continuarono i processi politici, fra cui fece rumore quello contro l'avvocato MIGNOGNA, accusato di cospirazione con due preti, una monaca e altre persone; e continuarono naturalmente i tentativi d'insurrezione e le congiure, specie in Sicilia, sempre fieramente avversa alla dominazione borbonica, sempre propensa all'autonomia, in cui però avevano fatto breccia il LA FARINA da un canto e il CRISPI e il FABRIZI dall'altro suscitando il sentimento unitario monarchico il primo, repubblicano gli ultimi due.

Comitati insurrezionali esistevano in tutti i centri dell'isola, che si tenevano in rapporto con gli esuli residenti a Malta, a Genova e a Torino; armi si raccoglievano a Messina, e si aspettava che da Palermo partisse il segnale della rivolta. Poiché il comitato palermitano esitava, prese il barone FRANCESCO BENTIVEGNA l'iniziativa del moto.
Da Corleone, dove si trovava confinato, si recò segretamente nella capitale, prese accordi con il comitato, raccolse intorno a sé aderenti e stabilì l'insurrezione per il 12 gennaio 1857, anniversario della rivoluzione del 1848.
Essendo la congiura stata scoperta con molto anticipo, il Bentivegna decise di operare prima del giorno stabilito. Il 22 novembre del 1856 occupò con pochi compagni Mezzoiuso, liberò i carcerati con i quali aumentò la sua schiera, fece insorgere Villafrate, disarmò le guardie urbane e, messi insieme circa duecento armati, decise di muovere su Palermo; ma non avendo la capitale aderito al movimento e avvicinandosi a Villafrate un forte contingente di soldati borbonici, il Bentivegna sciolse il 24 novembre la sua banda e andò a rifugiarsi nel territorio di Corleone.

Quando parve finito, il moto ebbe un'improvvisa ripresa con l'insurrezione di Cefalù, dove i cospiratori il 25 novembre liberarono dal carcere SALVATORE SPINUZZA, giovane ed audace patriota, che, presa la direzione del movimento, si preparò ad estenderlo nei paesi vicini. Ma era troppo tardi; Mezzoiuso era già caduto nelle mani delle truppe regie e una nave borbonica si avvicinava a Cefalù. Voler sostenere un'insurrezione per la quale non si erano fatti preparativi era pura pazzia. Lo Spinuzza lo comprese e con i suoi compagni prese la via dei monti.

Cominciò allora da parte delle autorità la reazione; il principe di Castelcicala, luogotenente dell'isola fece occupare dalle truppe i paesi insorti e il MANISCALCO, direttore della polizia, ordinò che si ricercassero i capi della rivolta. Uno dei primi a cader nelle mani borboniche fu il BENTIVEGNA, arrestato mentre stava per imbarcarsi. Sottoposto, col fratello STEFANO ed altri complici ad un tribunale di guerra in Palermo, il 19 dicembre fu condannato a morte e il giorno dopo fucilato a Mezzoiuso; i suoi compagni furono condannati a diciotto anni di carcere da scontarsi nell'isola di Favignana.
Altri processi seguirono a quello del Bentivegna e il tribunale di guerra di Palermo pronunziò in un anno e mezzo 28 sentenze di morte, le quali furono commutate in altre pene per tutti, salvo per SALVATORE SPINUZZA, il quale fu fucilato a Cefalù il 24 marzo del 1857.
Nonostante le severe condanne, nell'isola ci furono altre cospirazioni; degna di nota quella del messinese LUIGI PELLEGRINO, che il 18 dicembre sbarcava presso Catania, reduce da Malta, per prendere gli ultimi accordi con i cospiratori catanesi ma il 23 fu arrestato dalla polizia che vigilava attentamente. Il processo contro di lui si chiuse il 25 giugno del 1859 con una sentenza che lo condannava a 28 anni ai ferri.

L'ATTENTATO DI AGESILAO MILANO

Anche nel continente, sebbene in minor misura che in Sicilia, gli animi erano agitati. L' 8 dicembre del 1856, a Napoli, al Campo di Marte, AGESILAO MILANO di S. Benedetto Ullano nel Cosentino, soldato del 30° battaglione Cacciatori, mentre FERDINANDO II passava in rivista le truppe, usciva dalle file e vibrava un colpo di baionetta al sovrano ferendolo leggermente.
Il Milano, fervente seguace delle dottrine mazziniane, non aveva complici, ma la polizia volle vedere nell'attentato il frutto di una cospirazione e procedette a numerosi arresti, specie in Calabria: qui furono arrestati e tradotti a Napoli quasi tutti gli studenti della provincia di Cosenza che erano stati alunni del Collegio di S. Demetrio Corone, dove aveva studiato l'attentatore Milano, e tutti sospetti di complicità, fra cui notiamo il dottor LELIO GATTI, i fratelli GENTILE DI PAOLA, i fratelli del Milano, TEMISTOCLE ed EUGENIO CONFORTI, CARLO DE ANGELIS e DOMENICO MARCHESE.

Furono espulsi dal corpo dei Cacciatori cinquantasette tra soldati e sottufficiali, quasi tutti calabresi; due soldati, GIUSEPPE MENDICINI e VITO ANGELO TANGOR furono costretti, torturandoli, a fare delle rivelazioni false, in base alle quali furono arrestati tre preti, don LORENZO ZACCARO, don STANISLAO MARCHIANI e don ANTONIO GRADILONE, ed altre persone, GIUSEPPE MARCHIANÒ, DOMENICO FRANCALANZA, ORAZIO RINALDI, DOMENICO DE STEFANO, IGINO MIRARCHI, i quali - eccettuati i sacerdoti, presto rilasciati, languirono in carcere fino al 1860.

AGESILAO MILANO condannato a morte, fu impiccato la mattina del 13 dicembre del 1856 e morì gridando Viva Italia e libertà ! Cinque giorni dopo scoppiava la polveriera posta sul molo militare, uccidendo diciassette persone, distruggendo la batteria e mandando in frantumi i vetri della reggia; il 4 gennaio del 1857 saltava in aria la fregata Carlo III, carica di soldati e munizioni, in partenza per la Sicilia.
Questi due disastri, dovuti (pare) il primo a combustione spontanea di razzi incendiari, il secondo, (pare) ad un tentativo di furto di polvere, furono creduti opera di cospiratori e fornirono l'occasione alla polizia per inferocirsi. Dal canto suo FERDINANDO II ne fu talmente spaventato che gli si guastò il sangue, invecchiò prima del tempo e si ammalò di quel male che presto doveva condurlo alla tomba prima ancora di compiere cinquant'anni.

Intanto il governo delle Due Sicilie e il sovrano borbonico erano presi di mira dalla stampa liberale del Piemonte, della Francia e dell'Inghilterra (in quest'ultima una vera e propria campagna diffamatoria.
ANTONIO SCIALOIA, esule napoletano, in uno scritto intitolata "Note e confronti dei bilanci del Regno di Napoli e degli Stati sardi (Torino, 1857)", metteva in evidenza la superiorità dell'amministrazione sarda su quella napoletana e metteva in confronto le meschine situazioni politiche-morali del regno di Ferdinando con quella elevatissima del regno di Vittorio Emanuele; e invano cercavano di controbatterlo con i loro scritti AGOSTINO MAGNANI, monsignor SALZANO, FEDERICO DEL RE, CIRO SCOTTI, GIROLAMO SALAMANDRI, ALFONSO MARIA DE NIGUESA e CARUSO PASQUALE.

In Inghilterra il "Morning Post" iniziava la pubblicazione di alcune lettere in cui GIOVANNI RAFFAELE descriveva, esagerando, gli strumenti di tortura usati in Sicilia contro i prigionieri di Stato, destando una profonda impressione nei lettori.
Descrizioni simili erano stampate nei giornali francesi, con le quali era illuminata l'opinione pubblica oltremontana sul conto del governo di un sovrano che, ormai era definito con lo slogan coniato da GLADSTONE, "un regno che era la negazione di Dio". (di queste accuse le abbiamo già accennate nelle precedenti pagine, comprese le motivazioni, che in sintesi erano di riuscire a staccare dall'Unione (o dalla Regno napoletano) la Sicilia, contribuire a farla indipendente, per poi guidarla per i propri interessi. Come aveva fatto il "sergentaccio" BENTINCK "mandato sull'isola non a fare riverenze ma a dettare leggi" (Maria Carolina) nel periodo napoleonico (vedi il periodo 1806-1814); fino al punto essendo lei l'"uomo" e non il marito - Ferdinando IV- fu mandata in esilio lontano dal consorte e dalla corte siciliana.

Oltre che dalla stampa liberale, il Regno delle Due Sicilie fu preso di mira dal MAZZINI. Questi vagheggiava il disegno di un'insurrezione che (diventò una gara a chi arrivava primo) iniziata nell'Italia meridionale, si estendesse nella centrale e nella settentrionale; costituiva così un Comitato centrale nazionale e da Genova prendeva accordi con i comitati d'azione della penisola, specie con quelli della Toscana e del Mezzogiorno, spediva armi ed emissari e preparava una spedizione di pochi audaci nella Calabria (Garibaldi la imitò) che doveva esser capitanata dal COSENZ e che all'ultimo momento fu affidata a CARLO PISACANE, emigrato napoletano, già ufficiale dell'esercito borbonico, poi capitano in una legione di volontari nel 1849 e attivo ufficiale superiore nel 1849 alla difesa di Roma.

LA SPEDIZIONE DI SAPRI

La sera del 25 giugno del 1857 CARLO PISACANE s'imbarcò sul piroscafo genovese "Cagliari", che faceva servizio regolare tra Genova, Cagliari e Tunisi, con GIOVANNI NICOTERA, G. B. FALCONE, LUIGI BARBIERI, CESARE FARIDONI, GAETANO e FELICE POGGI, DOMENICO PORRO, FRANCESCO MADUSCO, LORENZO GIANNONI, GIOVANNI GAGLIANI, AMILCARE BONOMI, DOMENICO ROLLA, GIOVANNI SALA, GIOVANNI CAMILLUCCI, CESARE CORI, CLEMENTE CONTI, GIUSEPPE FAELLI, FEDERICO FOSCHINI, GIUSEPPE MERCURIO, conte LODOVICO NEGRONI, DOMENICO MAZZONI, ACHILLE PERUCCI, PIETRO RUSCONI e GIUSEPPE SANT'ANDREA.
In alto mare, i membri della spedizione, che si erano imbarcati come viaggiatori, s'impadronirono del piroscafo e mutarono rotta, dirigendo la prora verso le acque napoletane; quindi firmarono la seguente dichiarazione:
"Noi sottoscritti dichiariamo altamente che, avendo tutti congiurato, sprezzando le calunnie del volgo, forti della giustizia della causa e della gagliardia del nostro animo, ci dichiariamo gli iniziatori della rivoluzione italiana. Se il paese non corrisponderà al nostro appello, sapremo morire da forti, seguendo la nobile falange dei martiri italiani. Trovi altra nazione al mondo uomini che come noi s'immolino alla sua libertà, ed allora soltanto potrà paragonarsi all'Italia, benché fino ad ora ancora schiava".

A bordo del piroscafo i cospiratori trovarono centocinquanta fucili e se ne impadronirono; il 27 giugno il "Cagliari" toccò l'isola di Ponza; il PISACANE e i suoi compagni, sbarcati, ebbero ragione del presidio; fu ucciso dal Nicotera il tenente CESARE BALSAMO che tentava di resistere, quindi furono liberati sull'isola trecentoventitre galeotti politici e comuni, con i quali furono formate tre compagnie poste agli ordini di NICOLA GIORDANO, NICOLA VALLETTA E FEDERICO PRIORI.

Il 28 giugno 1857, i cospiratori approdarono a Sapri e al grido di "Viva l'Italia ! Viva la Repubblica !" tentarono di sollevare la popolazione, che invece li accolse con molta freddezza e diffidenza. La mattina del 3 luglio 1857, il Pisacane si recò a Torreco, e qui pubblicava un proclama rivoluzionario, poi la sera andò a Padula, dove sperava di trovare un gruppo d'armati secondo le promesse del comitato di Napoli. Vi trovò invece solo alcuni emissari del comitato stesso, giunti ad avvertirlo che "nulla si era potuto né si poteva fare per la spedizione".

A quel punto la situazione del piccolo corpo cominciò a farsi critica: la guardie urbane dei paesi vicini -avvertiti dello sbarco- si andavano riunendo, battaglioni di cacciatori erano in marcia e le popolazioni, o sobillate dalle autorità borboniche o credendo che si trattasse di murattiani, si mostravano ostili alla brigata del Pisacane, che attraversando Padula fu presa a sassate dagli abitanti.
Il giorno dopo, 10 luglio, sulle colline di San Canione, gli insorti furono attaccati dalle milizie di Sala e si difesero in tutti i modi per circa due ore, ma, presi alle spalle dal 7° Cacciatori, furono sopraffatti; 56 nel combattimento trovarono la morte e altrettanti furono feriti, 203 furono fatti prigionieri, 35 furono fucilati subito dai terrazzani.

Il PISACANE, il NICOTERA e il FALCONE con una cinquantina di compagni riuscirono per le colline di Buonabitacolo a fuggire verso il Cilento, ma il 2 luglio nelle vicinanze di Sanza, furono assaliti dalle guardie urbane del DE PETRINIS e da una turba di terrazzani inferociti. Nella breve mischia furono trucidati il PISACANE e il FALCONE, ferito il NICOTERA e fatto prigioniero con altri vent'otto. Ventisette furono i morti.

Il processo contro i superstiti catturati che avevano partecipato all'impresa di Carlo Pisacane o l'avevano favorito si tenne a Salerno e durò dal 19 gennaio al 29 luglio del 1858, presidente della corte DOMENICO DALIA, procuratore generale il PACIFICO, difensori gli avvocati DIEGO TAJANI, FRANCESCO la FRANCESCA, RAFFAELE CARELLI, EDOARDO PETRELLI. Fermo fu il contegno degli accusati, e quei pochi che durante l'istruttoria avevano fatto rivelazioni le ritrattarono all'udienza. Il NICOTERA, che era il principale accusato, si rifiutò di fare il delatore, si dichiarò nemico del governo borbonico e per avere comune la sorte con i compagni non volle accettare un mezzo di fuga che gli era stato offerto.
Con sentenza del 19 luglio 1858 furono condannati a morte Giovanni Nicotera, Giovanni Gagliani, Nicola Giordano, Nicola Valletta, Luigi La Sala, Francesco De Martino e Giuseppe Sant'Andrea; nove all'ergastolo, nove a trent'anni di ferri, cinquantadue a venticinque, uno, Amilcare Bonomi, a nove, centoquarantuno a pene minori; cinquantasei furono lasciati in libertà provvisoria. Ai condannati a morte fu commutata la pena in quella dell'ergastolo da scontarsi alla Favignana.

La spedizione di Sapri produsse un conflitto diplomatico tra i Governi di Sardegna e Inghilterra da una parte e quello Borbonico dall'altra. Il conflitto ebbe origine dal sequestro della nave "Cagliari" per opera del Governo di Napoli, avvenuto fuori delle acque napoletane, e vi prese parte l'indignata Inghilterra perché due macchinisti inglesi che prestavano servizio sul piroscafo erano stati arrestati. Il conflitto finì con la sconfitta del Borbone che dovette pagare duemila sterline ai macchinisti e restituire la nave.

La spedizione del Pisacane, nel disegno del Mazzini, non doveva rimanere isolata; contemporaneamente dovevano avvenire insurrezioni a Genova e Livorno.

INSURREZIONI MAZZINIANE di GENOVA E LIVORNO

Quella di GENOVA aveva come obiettivo la cattura della fregata "Carlo Alberto", che doveva con armi e munizioni essere poi mandata a Napoli, dietro il Pisacane. L'insurrezione di Genova era stata fissata per la notte dal 29 al 30 giugno 1857.
"Tutto era stato stabilito - narra Jessie W. Mario- Il conte PASI doveva impadronirsi del palazzo ducale; ANTONIO MOSTO della Darsena; MARIO dello Spirito Santo, dove c'era il corpo d'artiglieria; altri del forte Diamante, altri del forte Sperone: questi unicamente per impedire alle autorità e al presidio di agire, fin tanto che armi e munizioni e la batteria da campagna, che si trovavano a Spirito Santo, potesse esser tutta imbarcata sul "Carlo Alberto", ancorata nel porto, e poi con i marinai sarebbe partita per le spiagge napoletane.
Non si dubitava dell'esito. La città era in festa: tutti i capi, sicuri che i loro uomini avrebbero risposto all'appello, che il governo non aveva nessun sospetto fino alle otto, ci si sentiva certi già di poter correre in aiuto dell'eroico drappello. Ma un'ora prima di mezzanotte il governo ebbe la delazione, ossia il generale DURANDO l'ebbe da un suo amico, uno dei capi fra i cospiratori, il quale allo stesso tempo avvertì Mazzini che il governo era all'erta, che la sorpresa sarebbe stata impossibile. Mazzini diede sull'istante il contrordine, non volendo un aperto conflitto tra cittadini e militari; e tutto sarebbe stato rimesso a tempo migliore se Pisacane fosse riuscito, o come non avvenuto in caso contrario.
Ma sventuratamente il contrordine non giungeva a tempo a quelli del lontano Forte del Diamante; i quali, ingraziatisi la guarnigione giocando da varie settimane a palla o suonando l'organetto, quella notte entravano nel forte invitati ad una festa già programmata, scattò il piano e impadronitisi della guarnigione occuparono il forte e approntarono le artiglierie. Cadde fulminato il sergente PASTRONE ucciso da un giovinetto, uno dei cospiratori, che tirò forse per paura e senza alcuna necessità".
Giunta la mattina però, non essendosi la città sollevata, quelli del forte Diamante si sbandarono.

"L'indignazione a Genova e in tutto il Piemonte fu molto forte. Il MAZZINI rimase nascosto quasi tutto il mese di luglio a Genova e nella Riviera poi riuscì a fuggire a Londra. La polizia operò molti arresti; non pochi furono espulsi, fra cui ALBERTO MARIO, ACERBI, CURZIO, DONGHI e il MONTEMAYOR, altri riuscirono ad allontanarsi prima di essere arrestati: fra questi ROSOLINO PILO, che si recò a Malta, poi anche lui l'anno dopo si rifugiò a Londra.

Quella di LIVORNO scoppiò nello stessa notte del 29-30 giugno, ma non durò che qualche ora. Alcuni soldati furono uccisi dai trecento insorti per le vie, ma quando dalla Fortezza Vecchia uscirono grossi contingenti di truppe granducali, queste ripresero il controllo della città senza alcuna difficoltà, disperdendo i ribelli e fucilandone alcuni. MAURIZIO QUADRIO, capo dell'insurrezione, riuscì con il CIVININI a mettersi in salvo. Arresti, espulsioni, relegazioni, rigorose misure di polizia fu il pessimo risultato dell'insurrezione. Inoltre parecchie centinaia di persone furono giudicate dal consiglio di Prefettura e dalla Corte di Lucca. Quest'ultima il 30 marzo del 1858 condannò undici persone da dodici a cinque anni ai lavori forzati, e nove alla pena capitale che poi fu commutata in venti anni di lavori forzati.
Il processo per i fatti di Genova si svolse dinanzi la Corte d'appello di questa città; 63 furono gl'imputati, i quali ebbero come difensori gli avvocati A. G. BOZZO, P. BOZZO, BOLDRINI, BRUSCO, CAVAGNARO, CARCASSI, CASTAGNOLA, CELESIO, CHIODO, GRANELLI CASTIGLIONE, MERIALDI, MOLFINO, OLIVA, PAGANINI, ROMAGNOLI, RONCO, SEVERONI, TOFANO e ZAPPETTA.
Otto mesi durò l'istruttoria, tre mesi e mezzo il pubblico dibattimento. Energiche e plateali arringhe furono pronunciate, fra le quali degna di nota quella del CARCASSI, difensore del Mazzini.
Ma anche lui, l'esule, da Londra si fece sentire e aveva ammonito:

"Badate che a giudici italiani, i quali nel 1858 pronunziassero che gli italiani, che volevano morire o vivere con Pisacane per la libertà della Patria, meritano il patibolo e la galera, né Dio, né gli uomini perdoneranno".
Ma i giudici di Genova non ascoltarono l'ammonimento e il 20 maggio del 1858 pronunciarono severissime condanne.
GIUSEPPE MAZZINI, ANGELO MANGINI, ANTONIO MOSTO, GIOVAN BATTISTA CASARETO, MICHELE LASTISCO E IGNAZIO PITTALUGA, tutti per fortuna contumaci, furono condannati a morte;
CARLO BANCHERO, FRANCESCO CANEPA, FERDINANDO DEOBERTI, GEROLAMO FIGARI, FRANCESCO MORO, ANTONIO PITTALUGA, TOMMASO REBISSO, TEOBALDO RICCHIARDI E ANDREA SANGUINETTI ai lavori forzati per venti anni; AGOSTINO MARCHESE ai lavori forzati per tredici anni; G. B. ARMELLINI, TOMMASO BATTIFORA, GIUSEPPE CANALE, AGOSTINO CASTELLO, BERNARDO OLIVA, LUIGI STALLAGGI ed ENRICO TOSCHINI ai lavori forzati per dodici anni; DOMENICO e STEFANO CASTELLO, FRANCESCO DE MARTINI, GIUSEPPE DEVELASCO, G. B. PEDEMONTE, GIACOMO PROFUMO, LUIGI ROGGERO, BARTOLOMEO FRANCESCO SAVI, LUIGI STALLO e MICHELE TASSARA ai lavori forzati per dieci anni e all'interdizione dei pubblici uffici e alla vigilanza per sette anni.

L'anno seguente però tutti i condannati furono amnistiati, perché il Regno di Sardegna, paradossalmente, mica poteva, alla vigilia dell'indipendenza dell'Unità d'Italia, trattenere ai ceppi in galera o ai lavori forzati coloro che per ottenerla avevano cospirato!
Più che paradossale sarebbe stato ridicolo, Vittorio Emanuele nel 1859, diventava sovrano d'Italia per merito di quelli che la sua giustizia aveva condannati.

Ma prima di arrivare a questo fatidica conclusione, dobbiamo rimanere in Piemonte, dopo questo tentativo insurrezionale che andò a scuotere la solidità del ministero, e Cavour stesso con i sospetti d'essere connivente con i rivoluzionari.
Si scioglie il Ministero, e nel novembre '57 si svolgono le elezioni,
e ottengono un notevole successo i conservatori e i clericali.
Dalla nuova legislatura, all'attentato di Orsini fino all'Ultimatum

E' il prossimo capitolo anni 1858 - 1859 > > >

 

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