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( QUI TUTTI I RIASSUNTI )  RIASSUNTO ANNO 1849-1856

LA QUESTIONE D'ORIENTE - CRIMEA - VERSO LA MONARCHIA SABAUDA
( Anno 1849 - 1856 )

LA QUESTIONE D'ORIENTE - LA SARDEGNA ACCEDE ALL'ALLEANZA FRANCO-INGLESE - APPROVAZIONE DEL PARLAMENTO - IL CORPO DI SPEDIZIONE IN CRIMEA - BATTAGLIA DELLA CERNAIA - VIAGGIO DI VITTORIO EMANUELE II A PARIGI E A LONDRA - NOTA SARDA AGLI AMBASCIATORI INGLESI E FRANCESI - LETTERA DEL CAVOUR AL WALEWSKI - II CONGRESSO DI PARIGI - L'OPERA DEL CAVOUR DENTRO E FUORI IL CONGRESSO - RELAZIONE DEL CAVOUR AL PARLAMENTO - RITORNO DELLE TRUPPE DALLA CRIMEA - RISVEGLIO DELLE COSCIENZA NAZIONALE ITALIANA E ORIENTAMENTO VERSO LA MONARCHIA SABAUDA
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LA QUESTIONE ORIENTALE

Nello stesso periodo delle controversie sulle cose ecclesiastiche -narrate nel precedente capitolo- il parlamento sardo era occupato in altri affari di grande importanza, come quello della "Questione d'Oriente", in altre parole la spartizione fra le grandi potenze del decrepito impero ottomano.

Due potenze cristiane pretendevano di avere la custodia (!) dei Luoghi Santi: la Francia e la Russia. Quest'ultima inoltre pretendeva il protettorato di tutte le popolazioni ortodosse soggette alla Turchia. Il sultano, sostenuto dalla Francia (paradossalmente cristiana!) e dall'Inghilterra, si rifiutò di accogliere le pretese dello zar NICOLA I, e poiché questi il 2 luglio del 1853, invase con le sue truppe i principati danubiani, nel settembre, essendo riusciti vani i tentativi di comporre pacificamente il conflitto, l'impero ottomano dichiarò guerra alla Russia.
Le forze turche, comandate dal pascià Omer, nelle operazioni terrestri riportarono alcuni successi sui Russi, ma per mare rimasero ben presto soccombenti; una squadra ottomana, il 30 novembre del 1853 fu distrutta nella rada di Sinope. Allora la (cristiana) Francia e l'Inghilterra, con un "ultimatum" del 29 febbraio 1854, intimarono allo zar di sgombrare prima del 30 aprile i principati danubiani, il 12 marzo strinsero alleanza con la Turchia e il 10 aprile stabilirono con un trattato di garantire l'integrità dell'impero ottomano e dichiararono che "avrebbero volentieri accolto quale alleata ogni altra potenza europea, che fosse stata disposta ad entrare nella coalizione per difendere l'equilibrio e la pace in Europa".
I francesi che già avevano capito molto poco quando (l'ex carbonaro, ex rivoluzionario che nel '31 voleva abbattere il Papato) Napoleone III si era fatto paladino dello Stato della Chiesa, quando lo videro difendere i Turchi non ci capirono più nulla.
Ma ancora più sconcertati furono i cattolici d'Italia; e non solo questi (fedeli di tradizioni)

Cominciate le ostilità, gli alleati spedirono una flotta nel Baltico e un'altra nel Mar Nero con un corpo di sbarco. L'Austria e la Prussia minacciarono di unirsi ai Franco-Inglesi se lo zar non sgombrava i principati; NICOLA I (perfino indignato per il comportamento di Francesco Giuseppe) fu costretto a cedere e l'Austria occupò la Valacchia e la Moldavia.
Francia e Inghilterra non volevano che la Russia diventasse troppo potente; ma anche la stessa Austria non gradiva certo una Russia sui Balcani. Quindi in teoria un blocco all'espansionismo russo era condiviso. Nella pratica, cioè in un intervento armato alla sua ex alleata nella Santa Alleanza per l'Austria era piuttosto imbarazzante. Ma non è che si fece molti scrupoli come vedremo più avanti.

La guerra, con le due potenze occidentali scese in campo, all'inizio dell'autunno del 1855, ebbe come teatro la penisola di Crimea, dov'erano concentrati quarantamila Francesi, ventimila Inglesi e settemila Turchi, e più tardi le operazioni si ridussero quasi tutte sul lungo e sanguinoso assedio di Sebastopoli.

Fin da quando era stato pubblicato il trattato del 10 aprile del 1854, il CAVOUR aveva pensato ai vantaggi che sarebbero derivati al regno di Sardegna se si fosse unito alle potenze occidentali nella guerra di Crimea. Avuta l'approvazione del re, vinta l'opposizione di alcuni colleghi e succeduto l' 8 gennaio 1855 al DABORMIDA nel ministero degli Esteri, il 10 gennaio del 1855, CAVOUR firmò un trattato d'alleanza con la Francia e l'Inghilterra e il 26 dello stesso mese, una convenzione militare con la quale lo Stato sardo si obbligava a fornire quindicimila combattenti e una convenzione finanziaria con l'Inghilterra che s'impegnava a prestare un milione di sterline in due rate al 3 % estinguibile con l'aggiunta dell'1 %.
Cavour spinse il Regno di Sardegna a entrare nella coalizione chiedendo però in cambio a Francia e Inghilterra garanzie di partecipazione paritaria del Piemonte a tutte le fasi diplomatiche e militari del conflitto e la possibilità di porre, una volta giunta al tavolo della pace, anche la questione italiana nei confronti dell'Austria (in pratica, il loro appoggio in un futuro conflitto).
(Dobbiamo dire in anticipo, che tutto questo non fu ottenuto per l'ambigua posizione dell'Austria, che si mantenne neutrale e vanificò il sogno dei liberali di una sconfitta militare della Santa Alleanza. Una neutralità che però indignò la Russia (la diplomazia, ma le lettere che si scambiarono poi Francesco Giuseppe e Nicola, sono quelle del primo ipocrite e quelle del secondo prima accorate, poi indignate, ed infine offensive con un bel chiaro e tondo "sei un traditore, un fratricida". (Le lettere, sono conservate al Castello di Walchen - alcune compaiono in "La Tragedia di tre imperi", Op cit.).

Lo stesso 26 gennaio le due convenzioni (militare e finanziaria) furono presentate alla Camera dei Deputati dinnanzi ai quali il Cavour pronunciò un discorso che riportiamo fedelmente nella sua sintassi originale:

"La guerra d'Oriente - egli disse - chiamando a conflitto sul campo della politica nuovi interessi, ha reso altresì indispensabili nuove alleanze. Il corso delle antiche tradizioni diplomatiche fu ad un tratto interrotto; e nell'attenta considerazione di un presente gravissimo e di un futuro del quale una somma prudenza può solo antivenire i pericoli, fu chiaro ad ogni governo che a fronte di complicazioni cosi inaspettate sulla scena del mondo, era da cercarsi un sistema che procacciasse forza, appoggi e rimedi atti a provvedere alle mutate circostanze. L'Inghilterra e la Francia diedero prime al mondo il generoso esempio del più completo oblio di loro gare secolari, scendendo unite sul campo, ove si combatte la guerra della giustizia e del diritto comune delle nazioni.
Gli altri governi, intenti al rapido volo degli eventi, tutti si dispongono a prendervi quella parte che richiedono le necessità e la convenienza della loro politica. In così serie condizioni ed in mezzo a preparativi generali, il governo del re avrebbe gravemente fallito ai suoi doveri se non avesse attentamente considerato esso pure quale fosse il migliore partito da scegliersi per il bene del re e dello Stato, e se, fissata la scelta, non l'avesse risolutamente mandata ad affetto. I partiti erano due: o neutralità, vale a dire isolamento; o alleanza con le potenze occidentali. La neutralità, talvolta possibile alle potenze di primo ordine, lo è rare volte a quelle di secondo, ove non siano collocate in circostanze politiche o geografiche speciali. La storia però raramente ci mostra fortunata la neutralità, il cui meno tristo frutto è farsi in ultimo bersaglio ai sospetti ed agli sdegni di ambo le parti. Al Piemonte poi, cui l'alto cuore dei suoi re, impresse in ogni tempo una politica risoluta, giovarono assai più le alleanze. Il Piemonte è giunto a farsi tenere in conto dall'Europa più che non sembrerebbe chiederlo la sua limitata estensione, sì perché al giorno del comune pericolo seppe sempre affrontare la sorte comune, come perché nei tempi tranquilli fu nei principi di Savoia la sapienza di venire passo passo avanti informando le leggi politiche e civili ai nuovi desideri e ai nuovi bisogni, naturale conseguenza delle incessanti conquiste della civiltà. Poté è vero, a quando a quando venire per poco travolto dalla furia degli eventi; ma, se cadde, risorse; ma mai fu tenuto in dispregio e posto da parte, non mai fu spezzato il vincolo che lo lega ai suoi re, e trovò sempre la sua salute nella fiducia e nella stima che aveva saputo ispirare.
Nuovo attestato d'ambedue fu la proposta di un'alleanza venuta al governo di Sua Maestà per parte di quelli di Sua Maestà la Regina Vittoria e dell'imperatore dei Francesi. Gli esempi della storia, l'antiveggenza del futuro e le nobili tradizioni della casa di Savoia, tutto si univa a fare scostare il ministero da una politica timida e neghittosa, e condurlo invece per l'antica via seguita dai padri nostri, i quali conobbero la prudenza stare nell'onore d'essere partecipe ai sacrifici e ai pericoli incontrati per la giustizia, per essere poi a parte della cresciuta riputazione, ovvero del beneficio dopo la vittoria. D'ordine del re, che in quest'occasione come sempre si mostrò pari alla grandezza degli eventi ed alla virtù della sua casa, fu fatta formale accessione al trattato del 10 aprile 1854, ed insieme furono strette due convenzioni dirette a regolare il modo di concorso da prestarsi dalla Sardegna in dipendenza di quell'atto. Veniamo ora a sottoporle alla vostra approvazioni. Frutto di una pendenza che tende all'ardito e al generoso, confidiamo che questo trattato possa ottenere il vostro consenso, assai meglio che se invece fosse suggerito da prudenza timida, torta, calcolatrice. Voi, eletti di un popolo, che ebbe sempre un cuore solo con i suoi principi ove gli avesse a seguire sulla via del sacrificio e dell'onore, non potreste diversamente sentire. Alla croce di Savoia come a quella di Genova sono note le vie dell'Oriente. Ambedue si spiegarono vittoriose in quei campi che oggi rivedranno rifuse in una sola con i colori della nostra bandiera.
Posta ora tra i gloriosi stendardi d'Inghilterra e di Francia, saprà mostrarsi degna di così alta compagnia e la benedirà quel Dio che resse da otto secoli la fortezza e la fede della dinastia di Savoia".

La commissione, nominata agli uffici, riuscì favorevole ed elesse relatore GIOVANNI LANZA. Il 3 febbraio 1855 cominciò la discussione. Molti deputati parlarono contro, altri a favore. Fra i contro BROFFERIO, FARINA, MENABREA, REVEL, CABELLA, CASARETTO, TECCHIO, PARETO, PALLAVICINO, DE VIRY, SOLARO DELLA MARGHERITA; fra i favorevoli il FARINI, CORRENTI, MAMIANI, il generale GIACOMO DURANDO, il TORELLI, il generale QUAGLIA e ancora il CAVOUR.

BROFFERIO, fra l'altro, accusò Cavour di:
"non avere un preciso indirizzo politico e nemmeno di aver rispetto delle convenzioni e della moralità costituzionale".
"L'alleanza con Inghilterra e Francia per poi andare a difendere la Turchia offende il Piemonte e disonora l'Italia. Abbiamo sfidato ogni specie di privazioni, ci siamo sottoposti a odiosissime tasse, abbiamo affrontato la bancarotta dello Stato nella speranza di buttar "fuori lo straniero", abbiamo consumato i nostri milioni, impiegato i nostri soldati; e alla fine per far cosa? andare in Crimea per aiutare i Turchi!!! Se voi consentite questo trattato, la prostrazione del Piemonte e la rovina dell'Italia saranno un fatto compiuto".

Tuttavia il 10 febbraio il disegno di legge che autorizzava il governo a dare esecuzione alle convenzioni fu approvato con 101 voti favorevoli e 59 contrari a scrutinio palese; 95 contro 63 a scrutinio segreto.

Il 1° marzo 1854 cominciò la discussione al Senato, dove furono favorevoli al governo il relatore CESARE ALFIERI, COLLEGNO, LUDOVICO SAULI, ROBERTO D'AZEGLIO, DE FORNARI e più o meno contrari RICCI, SCLOPIS, COLLI, DORIA, DELLA TORRE, DI CASTAGNETTO, CATALDI, e il 3 marzo il disegno ebbe l'approvazione con 63 voti contro 27.
Ma poco mancò che il "capolavoro" politico di Cavour naufragasse, per due motivi:

PRIMO MOTIVO: A Torino nell'autunno del 1854, si continuava a discutere dell'intervento o no. Il Regno Sardo era ancora fuori dalle trattative politiche europee. E queste conclusero in realtà con la firma del 2 dicembre 1854 a Vienna un trattato di accessione da parte dell'Austria all'alleanza franco-inglese.
Questo fatto era già molto grave per il Cavour. Non era solo un bell'imbarazzo essere schierati con i "nemici", ma era vanificato il futuro progetto. Inoltre si sospettò pure che il trattato portasse degli articoli segreti. In realtà nelle voci di accordi segreti c'era del vero, non con le due potenze ma con una sola: l'Austria preoccupata dell'eventuale atteggiamento del Piemonte, aveva ottenuto da Napoleone III un accordo segreto, che fu firmato il 22 dicembre del 1854; Francia e Austria s'impegnavano reciprocamente ad usare tutti i loro mezzi di influenza, per prevenire i tentativi contro l'integrità territoriale degli Stati italiani mentre erano occupate a risolvere le questioni d'Oriente.
Insomma un vero condominio morale sull'Italia, davvero, nelle tradizioni del secolo XVIII.
Cioè l'Austria si assicurava contro il pericolo di un'aggressione piemontese.
E sia col primo che con il secondo trattato Cavour era tagliato fuori.

Era insomma una bella sfortuna per il Cavour. Ma la fortuna lavorava per lui in quelle stesse ore. Parigi e Londra non intendevano lasciare del tutto l'Austria padrona del campo in Italia. Per questo, Londra incaricò HUDSON di riprendere i contatti con Torino per il famoso corpo di spedizione in Crimea. L'iniziativa è del 29 novembre, tre giorni prima che fosse firmato il trattato di Vienna del 2 dicembre. E quasi contemporaneamente con iniziativa separata, Parigi offriva a Torino l'accessione al trattato del 10 aprile, anche se non faceva affidamento da parte dei piemontesi ad un invio di truppe in Crimea; ci contava invece l'Inghilterra per alleviare le sue truppe.
Era proprio un bel pasticcio non solo per il Cavour, ma per tutti gli altri, pur non sapendo ancora del trattato franco-austriaco del 22 dicembre.

SECONDO MOTIVO: Il...... 2 MARZO 1855....moriva lo zar NICOLA I. Gli succedeva il figlio Alessandro II (consorte della sorella del principe Alessandro Assia che così diventa cognato dell'Imperatrice). Ma ormai in Europa la guerra è decisa ed è stata già organizzata. Ma la complicazione più grossa per Cavour - che spegne tutti i sogni liberali- fu quella che l'Austria non si era schierata con la Russia - anzi l'infido Buol il 2 dicembre ha fatto un'alleanza con le Potenze occidentali e segretamente ne ha fatto uno con la Francia il 22 dicembre (che abbiamo già accennati sopra) che -ovviamente- ignora perfino l'Inghilterra.

Rimase poi neutrale, ma poco ci mancò che l'Austria si mettesse decisamente a fianco delle due potenze (ma o neutrale o offensiva venne poi il dispetto dello zar Alessandro II a non prestare aiuto a Francesco Giuseppe nel '59, quando a rimaner sola fu l'Austria). Il giovanissimo zar amareggiato da questo mancato appoggio in Crimea, anche se era più moderato nella politica espansionistica del padre, implorò inutilmente l'altrettanto giovanissimo Francesco Giuseppe: "ma come, mio padre ti amava come me, come un figlio, dovremmo essere fratelli e ora tu fai il fratricida?"(Ib.)

L'Austria non solo non si era schierata con la Russia, ma aveva tentato di mettersi insieme alle altre due potenze per aggredirla. La guerra non l'aveva dichiarata e restava neutrale solo perché si era accordata (segretamente) con la Francia il 22 dicembre del '54 (ricordato sopra), ma questo la Russia non lo sapeva ancora.

Infatti quando gli anglo-francesi decisero di far iniziare la guerra da Kronstadt (puntando poi su Pietroburgo) la famiglia imperiale temette di vedersi piombare addosso da un momento all'altro la dichiarazione di guerra dell'Austria, ed era già in procinto a lasciare la residenza. "L'Imperatore d'Austria è pazzo" scrisse Maria al fratello Alessandro "Invece di fare il bene del suo paese, farà la sua rovina. Saperti al servizio di quest'Austria ingrata e perfida mi addolora" (ib, giorno 8 luglio 1854).
Dello stesso tono la lettera del marito al cognato: "Non parlo della gratitudine, alla quale avremmo pure diritto, ma sarei lieto di capire qual'è l'interesse dell'Austria a fare una politica che renderà una guerra contro di noi. Cos'è che ci guadagnerà? Prevedo tristi risultati per il suo avvenire. Vedere il giovane imperatore incamminarsi su una strada così sbagliata mi strazia il cuore. Dio possa perdonarlo per il male che fa a noi e al suo stesso Paese" . Il giorno stesso, per l'indignazione, fece togliere il quadro dell'imperatore austriaco da suo studio e lo regalò al suo stalliere (Ib. lett. 10 luglio 1854).
Poi l'Austria rimase a guardare e le potenze decisero di attaccare la Russia con maggior impegno in Crimea. Lontana dal cuore della Russia. Non essendoci ferrovie, nella loro offensiva si sottraevano ad eventuali rinforzi. Forse fu per questo motivo che a Pietroburgo non piombò la dichiarazione di guerra dell'Austria. Ma anche la sua neutralità fu considerata da Maria e da Alessandro II, un "tradimento". Altro che Santa Alleanza!
Il non schierarsi dell'Austria favorì invece il disegno di Cavour.

Il 4 marzo 1854, Cavour, dalla "Gazzetta Piemontese" lanciò al paese un manifesto in cui notificava che le forze sarde di terra e di mare si trovavano in stato di guerra con l'impero russo e spiegava i motivi che avevano spinto alcune potenze d'Europa a muover guerra alla Russia.
"Dalla risoluzione della questione d'Oriente pendono i destini, non immediati, ma prevedibili d'Europa e d'Asia, e più direttamente e prossimamente gli Stati vicini al mare Mediterraneo, i quali perciò non possono rimanere spettatori indifferenti di una lotta in cui si agitano i loro più vitali interessi, in cui si contende per sapere se rimarranno liberi e indipendenti, oppure vassalli, se non di nome almeno di fatto, del colossale impero russo".

Ma questa guerra in Italia non era "sentita". Ci furono molte reazioni discordanti. Tormenti di coscienze. Mazzini con comunicati clandestini non si risparmiò nel condannare la folle avventura.

Intanto Cavour entrato in vigore lo stato di guerra il 1 aprile, con gli anglo-francesi stabilisce che quello italiano non è un corpo ausiliario ma che è a pieno titolo alleato (fu infatti respinta che le truppe piemontesi fossero al soldo inglese come mercenari); e fervevano i preparativi per apprestare il corpo di spedizione, che risultò composto di diciottomila uomini di tutte le armi con quattromilacinquecento cavalli e trentasei cannoni. Il comando supremo fu affidato ad ALFONSO LA MARMORA; le due divisioni furono messe agli ordini dei generali GIOVANNI DURANDO e ALESSANDRO LA MARMORA, il fondatore dei bersaglieri; le cinque brigate furono comandate dal generale MANFREDO FANTI, dal generale ANSALDI, e dai colonnelli CIALDINI, MONTEVECCHIO e MOLLARD; l'artiglieria, il genio e i bersaglieri furono messi sotto il comando dei colonnelli LEOPOLDO VALFRÈ, DOMENICO STAGLIENO ed ALESSANDRO DI SAN PIETRO; la cavalleria sotto il colonnello GIUSTINIANI.

Il 13 aprile 1854 le truppe, salutate da una gran folla, partirono da Torino per Alessandria dove il giorno dopo si recò il re, accompagnato dal principe di Carignano e dagli ambasciatori di Francia e d'Inghilterra. Nel campo di Marte avvenne la benedizione delle bandiere, che da Vittorio Emanuele furono consegnate agli alfieri dei reggimenti dopo che il ministro della guerra aveva letto in nome del re il seguente proclama alle truppe:

"Ufficiali, sottufficiali e soldati! Una guerra fondata sulla giustizia, da cui dipendono la tranquillità dell'Europa e le sorti del nostro paese, vi chiama nell'Oriente. Vedrete lontane terre, dove la croce di Savoia non è ignota; vedrete popoli ed eserciti valorosi, la cui fama riempie il mondo: vi sia di stimolo il loro esempio, e mostrate a tutti come in voi non è venuto meno il valore dei nostri padri. Io vi condussi altre volte sul campo dell'onore, e lo rammento con orgoglio; divisi con voi pericoli e travagli; oggi dolente di separarmi da voi per qualche tempo, il mio pensiero vi seguirà dappertutto, e sarà un giorno felice per me quello in cui mi sarà dato di riunirmi a voi.
Soldati ! Eccovi le vostre bandiere, generosamente spiegate dal magnanimo Carlo Alberto; vi ricordino la patria lontana e otto secoli di nobili tradizioni. Sappiate difenderle; riportatele coronate di nuova gloria, ed i vostri sacrifici saranno benedetti dalle presenti e future generazioni".

Nei giorni seguenti le truppe cominciarono ad imbarcarsi nel porto di Genova e l'8 maggio le prime schiere con il generale ALFONSO LA MARMORA giungevano a Balaclava. Qui il corpo sardo dovette rimanere inattivo per circa tre mesi, stremato dal colera
che uccise molti soldati e i generali ANSALDI ed ALESSANDRO LAMARMORA.
(1300 soldati morti e altri 3000 colpiti dal morbo)

Finalmente il 16 agosto fu chiamato nella famosa battaglia della Cernaia dove i soldati, combattendo con grande bravura, prima sostennero l'urto di numerose forze nemiche, poi le respinsero sanguinosamente perdendo tra morti e feriti un paio di centinaia di uomini tra cui il prode MONTEVECCHIO, comandante la quarta brigata.
E' l'unica battaglia in cui furono coinvolti i piemontesi. La battaglia entrerà nella leggenda del Risorgimento, ma in effetti fu una modesto scontro. Le perdite furono di soli 16 morti e un centinaio di feriti. Ma era il risultato politico che doveva contare.

Tuttavia il valore delle truppe piemontesi destò l'ammirazione degli alleati. Il generalissimo francese PELLISSÍER stringendo la mano al LA MARMORA, gli disse: "Le vostre truppe sono state ammirevoli; hanno ben mantenuto la loro antica reputazione: io sono lietissimo di avervi come alleati: l'imperatore e la Francia sapranno l'ammirabile condotta, delle milizie piemontesi alla battaglia della Cernaia".

La Marmora, il giorno dopo la battaglia leggeva gli encomi ricevute dai generali stranieri alle proprie schiere e aggiungeva:
"Soldati ! Ieri per la prima volta v' incontraste con il nemico che siamo venuti a combattere in queste lontane regioni; il vostro contegno fu quale io speravo, tale da meritare l'approvazione dei nostri valorosi alleati. Il telegrafo annunziò all'Europa che voi avete contribuito alla vittoria della Cernaia. Il re ne sarà soddisfatto e la nazione piena di gloria. Vi ringrazio per la vostra bella condotta in questa gloriosa giornata"
Largo di elogi fa il ministro inglese della guerra che, scrivendo al La Marmora, gli augurava nuovi allori per sé e onori più grandi per la sua patria.

Nella espugnazione della torre di Malakoff, che decise la caduta di Sebastopoli, ci fu anche la partecipazione di alcuni Piemontesi. Il PELLISSIER nella relazione che fece di quella impresa così scriveva:
"La brigata sarda del generale CIALDINI, che il generale LA MARMORA ha cortesemente messo a mia disposizione per rinforzare il primo corpo, ha sopportato il terribile fuoco, che s'incrociava nei nostri trinceramenti. I Piemontesi ardevano del desiderio di venire alle mani, ma l'attacco sul bastione dell'Albero non avvenne e non fu possibile di soddisfare l'ardore di queste valorose truppe".

Dopo la presa di Sebastopoli, essendo rigidissimo l'inverno, le operazioni di guerra furono sospese e i capi alleati si riunirono a consiglio a Parigi, dove il La Marmora ebbe ottime accoglienze dall'imperatore, l'assicurazione del suo interessamento per la causa italiana e la promessa che al congresso per risolvere la questione orientale, il Piemonte si sarebbe trovato pari agli altri Stati.
II 12 novembre del 1855 Vittorio Emanuele inaugurò la quinta, legislatura con un discorso, in cui, fra l'altro, era detto:
"Noi continueremo il nobile esempio di un re e di una nazione legati da vincoli indissolubili di amore e di fede, nella gioia come nel dolore, e sempre concordi nel mantenere illese le due grandi basi della felicità pubblica: ordine e libertà".

Quello stesso mese, accogliendo l'invito di NAPOLEONE III e della regina VITTORIA, VITTORIO EMANUELE, partì per un viaggio a Parigi e a Londra, accompagnato dal D'AZEGLIO e dal CAVOUR. Lasciata il 20 novembre Torino, si recò a Genova, salpò sul "Carlo Alberto" alla volta di Marsiglia, giungendovi la mattina del 22, accolto con vive acclamazioni. Accoglienza entusiastica quel giorno stesso a Lione; poco calorosa la mattina del 23 a Parigi, dove rimase una settimana, ospite di Napoleone III, che gli rivolse la famosa domanda: "Che cosa si può fare per l'Italia?".
Per la pace definitiva e le varie spartizioni il tutto fu rimandato ad un congresso da tenersi all'inizio del prossimo anno nella capitale francese.

La sera del 29 il re di Sardegna partì da Parigi, dopo una settimana di soggiorno, e la mattina del 30 approdò a Douvres. Quel giorno stesso giunse a Londra, accolto da dimostrazioni entusiastiche che si ripeterono il 4 dicembre quando il re visitò ufficialmente la City e al Guildhall pronunziò un applaudito discorso e quando il 6 lasciò l'ospitale metropoli della nazione diventata "amica".

A Compiègne Vittorio Emanuele II fu nuovamente ospite dell'imperatore; il 7 rivide Parigi dove Napoleone III disse a Cavour ciò che aveva detto la settimana prima al re sabaudo:
"Scrivete confidenzialmente al mio ministro Walewski ciò che credete che io posso fare per il Piemonte e per l'Italia"; il 9 il Re lasciò la capitale francese e, per la Savoia, giunse a Torino il giorno 11, salutato con entusiasmo dalla popolazione e da un proclama del sindaco NOTTA, con le stesse parole usate dalla stampa inglese:

"Salutiamo con viva gioia il ritorno del prode ed amato nostro sovrano, che forte nei propositi, costante nelle avversità, prudente nei consigli, ed animoso nelle risoluzioni, seppe collocare il Piemonte in così splendido seggio. Quando la vita di un Re è interamente dedicata al bene dello stato, spontanea sorge nel cuore di tutti quella riconoscenza, che è nobile ricompensa ai principi e preziosa virtù dei popoli".

Di ritorno a Torino, nello stesso mese di dicembre, CAVOUR indirizzò agli ambasciatori inglese e francese una nota in cui scriveva:
"Abbiamo ragione di credere che la Sardegna, dopo aver partecipato ai pericoli e alla gloria della guerra di Crimea, sarà tanto fortunata nelle prossime conferenze che potrà vedere l'attenzione dei grandi potentati soffermarsi sulle condizioni dell'Italia, sulla impossibilità di mantenere un ordine di cose che ripugna, in alcun luogo, alle più semplici nozioni della giustizia e dell'equità; sulla necessità di migliorarne la condizione e di alleggerirne i patimenti, se alcun desiderio è in loro di togliere i germi di perturbazione che minacciano l'Europa e di assicurare dovunque e per lungo tempo i benefizi della pace. Secondo il disegno di assestamento comunicato, l'Austria che non ha preso alcuna parte alla guerra verrebbe ad acquistare una grande preponderanza in Oriente sostituendo, se non di diritto, almeno di fatto, la sua all'influenza sulla Russia. A suo profitto più particolarmente avverrebbe la congiunzione di metà della Bessarabia e delle bocche del Danubio ai principati danubiani. Per la qual cosa pare giunto il tempo, anche ispirandosi se non ad altro che agli atti del congresso di Vienna, di regolare la posizione di questa potenza in Italia se si vuole mantenere l'equilibrio europeo per il quale si è combattuto".

Se non ci avevano pensato da soli o insieme i due alleati ai pericoli di "un'Austria preponderante in Oriente", lo ricordava insomma il Cavour.

Il 21 gennaio, seguendo il consiglio dell'imperatore francese, CAVOUR inviava al WALEWSKI una lettera, in cui, dopo avere rappresentato con evidenza i mali d' Italia, scriveva:
"l'imperatore può rendere immensi servizi all'Italia, principalmente conducendo l'Austria a fare giustizia al Piemonte e a mantenere gli impegni presi; secondariamente ottenendo da essa un addolcimento al regime che pesa sulla Lombardia e sulla Venezia; in terzo luogo forzando il re di Napoli a non più scandalizzare l'Europa con un contegno contrario a tutti i principi di giustizia e di equità; in quarto luogo ristabilendo l'equilibrio in Italia, così come era stato stabilito dai trattati di Vienna, cioè vale a dire sia rendendo possibile lo sgombro degli Austriaci dalle Legazioni e dalla Romagna, sia ponendo queste province sotto un principe secolare, sia procurando loro i benefizi di un'amministrazione laica indipendente".

Proponeva quindi al Papa che: a) conservasse pure l'alta sovranità sulle Legazioni ma con le amministrazioni affidate a un vicario il quale doveva ristabilirvi il regime che godevano quando erano unite al Regno Italico; b) i Francesi lasciavano Roma ma avrebbero occupato Bologna, fino a quando non si inaugurava il nuovo ordine di cose.

IL CONGRESSO DI PARIGI

Si stabiliva intanto la partecipazione al congresso di Parigi. Ciascuna potenza doveva essere rappresentata dal proprio ambasciatore nella capitale francese e da un altro inviato straordinario. Ambasciatore sardo a Parigi era il cav. VILLAMARINA; e fu deciso di affiancargli come collega MASSIMO D'AZEGLIO, il quale accettò, ma quando seppe che il Piemonte non avrebbe partecipato al Congresso al pari delle altre potenze e sarebbe stato soltanto chiamato ad intervenire in quelle conferenze nelle quali solo i propri interessi erano direttamente impegnati, rifiutò e fu sostituito dal CAVOUR, il quale giunto a Parigi lui ottenne che i plenipotenziari sardi fossero ammessi al congresso con parità di diritti.

Il congresso si apri il 27 febbraio 1856. Erano presenti i plenipotenziari dell'Austria, della Francia, dell'Inghilterra, della Russia, della Sardegna e della Turchia, ai quali il 10 marzo si aggiunsero quelli della Prussia. Il 30 marzo fu sottoscritto il trattato di pace.
Nelle sedute il Cavour fu molto riservato e cercò di guadagnarsi sempre di più le simpatie della Francia e dell'Inghilterra assecondando la loro politica. Riuscì anche a conciliarsi la benevolenza della Russia, quando, nella discussione sull'assetto dei principati danubiani, sostenne calorosamente la loro unione in uno Stato indipendente; ma non riuscì ad ottenere che questi principati fossero dati al duca di Modena o alla duchessa di Parma e che la Sardegna fosse ingrandita con uno di questi ducati. Fuori del Congresso si mostrò attivissimo, servendosi di ogni mezzo, non esclusi gli intrighi e le donne, pur di giovare alla sua causa.
(VALLAMARINA che aveva con se, ricordiamo era il marito della dama di compagnia della giovanissima 13enne principessa Clotilde, figlia del Re. E che ebbe successivamente molto importanza al Convegno di Plombieres del '59. Fu "sacrificata" a "Plon Plon").

Conclusa la pace, i plenipotenziari non si sciolsero, ma rimasero uniti in conferenze in cui si sarebbero trattati argomenti che interessavano il mantenimento della pace. In queste conferenze promisero i plenipotenziari francesi e inglesi al Cavour che sarebbe stata finalmente trattata la questione italiana.

Nella seduta dell'8 aprile il WALEWSKI presidente del congresso, propose uno scambio di idee su vari argomenti e, dopo avere accennato alla situazione della Grecia, parlando dell'Italia espresse il desiderio che cessasse l'occupazione austro-francese dello Stato pontificio ma propose pure che fosse inviato un monito al re delle Due Sicilie per il malgoverno del suo stato; che "Era un serio pericolo per la pace in Europa" e gli inviò pure una nota diplomatica il 21 maggio. A questa rispose il re di Napoli il 30 giugno invitando Napoleone III a non ingerirsi nelle sue questioni interne, ma semmai a proteggere la sua stessa Francia, dalle inopportune protezione che offriva a tanti rivoluzionari"

Dopo il Waleswki parlò lord CLARENDON, plenipotenziario inglese. Disse che "le occupazioni straniere in Italia avevano creato una condizione anormale che occorreva far cessare; affermò che il malcontento doveva esser tolto di mezzo non con la forza armata, ma eliminando i motivi che l'avevano originato; sostenne che l'amministrazione dello Stato Pontificio presentava inconvenienti molto pericolosi, che, se trascurati, approfitterebbero i rivoluzionari; disse che era necessario raccomandare al Pontefice la secolarizzazione del governo e un ordinamento amministrativo conforme allo spirito del secolo, cosa che se poteva riuscir difficile in Roma era invece facile nelle legazioni e nelle Romagne; ricordò che in Bologna vigeva da otto anni lo stato d'assedio e che nonostante questo le campagne erano afflitte dal brigantaggio; si doveva quindi sperare che costituendo dei governi laici e separati e organizzando una forza armata nazionale si restaurerebbero la fiducia e la sicurezza"
Venendo poi a parlare del Regno delle Due Sicilie, disse che, seguendo l'esempio del Walewski, "avrebbe voluto tacere di atti che avevano sollevato tanto rumore; disse di esser dell'avviso che nessuno ha diritto di intromettersi negli affari interni di uno stato, ma che vi sono dei casi in cui l'eccezione a questa regola è un diritto e un dovere. E' questo diritto e dovere d'interessarsi della condotta del governo napoletano lo aveva il Congresso; infatti i governi rappresentati, volendo difendere il principio monarchico ed allontanare la rivoluzione dovevano alzar la voce contro un regime che, invece di calmare, alimentava il fermento rivoluzionario e Noi non vogliamo che la pace sia turbata; e non vi è pace senza giustizia; perciò noi dobbiamo far giungere al re di Napoli il voto del Congresso, voto che non rimarrebbe senza effetto, che egli migliori i suoi modi di governo, e chiedergli un'amnistia per coloro che per colpe di Stato o sono stati condannati o sono ancora in carcere senza giudizio".

Il conte ORLOFF, plenipotenziario russo, dichiarò che le sue istruzioni non gli davano facoltà di partecipare ad una discussione estranea al trattato di pace. Il Conte BUOL, plenipotenziario austriaco, affermò che non poteva parlare della situazione interna di Stati indipendenti non rappresentati al Congresso e che i plenipotenziari avevano ricevuto incarico di occuparsi soltanto delle cose d'Oriente, e quindi si asteneva dall'entrare nell'ordine d'idee espresse dall'ambasciatore inglese e nel dare spiegazioni sulla durata dell'occupazione austriaca nello Stato Pontificio.
Il plenipotenziario prussiano, barone di MONTEUFFEL, espresse il desiderio che gli Stati romani fossero messi in condizioni tali da non aver più bisogno delle armi straniere; quanto al Regno delle Due Sicilie, disse che i passi da farsi alla corte di Napoli, quantunque mossi da plausibili ragioni potevano produrre l'effetto contrario destando nel paese spirito di opposizione e moti rivoluzionari.

Presa la parola il CAVOUR, disse di riconoscere ai plenipotenziari il diritto di non partecipare alla discussione di una questione non prevista dalle loro istruzioni, ma sostenne che era della massima importanza che l'opinione manifestata dai rappresentanti di alcune potenze fosse registrata nel protocollo del Congresso. Dimostrò che l'occupazione dello Stato Pontificio da parte delle truppe austriache, assumeva carattere sempre più permanente e che le condizioni del paese occupato non erano per nulla migliorate, come lo stato d'assedio che l'Austria manteneva ancora a Bologna provava.
Fece osservare che la presenza di truppe austriache nelle Legazioni e nel ducato di Parma, distruggeva l'equilibrio politico d'Italia e costituiva un grave pericolo per lo Stato Sardo; per la qual cosa sentiva il dovere di fermare l'attenzione generale sopra uno stato di cose così evidentemente anormale.
Sul regno delle Due Sicilie, disse inoltre di associarsi a quanto avevano detto il Wadewsky e il Clarendon.
Il barone HUBNER, altro plenipotenziario austriaco, osservò che oltre all'occupazione austriaca in Italia vi era un'occupazione francese di Roma e una sarda a Mentone e a Roccabruna, nel principato di Monaco. Il CAVOUR rispose che desiderava che cessasse l'occupazione francese al pari di quella austriaca, ma che considerava la prima poco pericolosa, perché un piccolo esercito molto lontano dalla Francia non era per nulla minaccioso, mentre causa di forte inquietudine era l'Austria, che appoggiata a Piacenza e a Ferrara si estendeva lungo l'Adriatico fino ad Ancona. Quanto all'occupazione di Mentone e Roccabruna, dichiarò che il governo era pronto a ritirare i cinquanta soldati che presidiavano quelle terre se il principe di Monaco credeva di potervi ritornare senza alcun rischio.

Queste notizie, qui riportate sulla discussione intorno alla questione italiana sono registrate nei protocolli del Congresso, ma in quegli atti ve ne sono molte altre di cui si tace.
Secondo queste ultime i plenipotenziari inglesi CLARENDON e COWLEY appoggiarono calorosamente il Cavour, insistendo sulla necessità di rimediare ai mali da lui lamentati. Il Clarendon anzi interrogò intensamente il conte Buol sulle intenzioni del governo viennese rispetto all'Italia, al che il Buol rispose in modo così risentito da togliere ogni speranza che l'Austria si mettesse sulla via indicata.
Allora la discussione prese un aspetto più grave, perché il Clarendon disse con molta vivacità al Buol: "Se la vostra precisa intenzione è di non fare alcuna promessa e di non prendere alcun impegno relativamente all' Italia, è come gettare un guanto di sfida all'Europa liberale che potrebbe raccoglierlo; e allora questa questione potrebbe essere decisa con i modi più energici e vigorosi: è un grande errore il credere che le nostre forze siano finite".

Accennando poi alle condizioni dello Stato romano, affermò che il governo pontificio era "una vergogna per l'Europa". A tale linguaggio il Buol rispose con eguale vivacità, né il Walewsky riuscì a calmare gli animi andati oltre i limiti della diplomazia.
Tutte le intemperanze (nessuna esclusa) di questa tempestosa seduta, per volere degli stessi plenipotenziari (le avevano avute tutti) non furono consacrate nel protocollo; si stabilì invece di dichiarare:
1° -Che i plenipotenziari dell'Austria avevano consentito al voto manifestato da quelli di Francia che gli Stati pontifici fossero sgombrati dalle milizie francesi e austriache appena si potesse senza danno per la tranquillità del paese e per l'autorità della Santa Sede;
2° Che i più dei plenipotenziari non avevano contestato l'efficacia che provvedimenti ispirati alla clemenza, come avrebbero avuto se fossero stati presi in modo opportuno dai governi della penisola italiana e sopratutto da quello delle Due Sicilie.

CAVOUR non poteva naturalmente esser lieto dello scarso successo ottenuto dalla diplomazia al congresso di Parigi. Pur con le intemperanze si erano fatti alla fine solo chiacchiere e comunicati, ma nulla di concreto. Ed era anche preoccupato della difficile posizione in cui ora si era messo il Piemonte rispetto all'Austria. Convinto che questa potenza attendesse un'occasione per invadere e disfare il Piemonte, era convinto che bisognava prevenirla. Poiché la diplomazia non era riuscita a far nulla, era necessario ricorrere alle armi; ma era altresì necessario l'aiuto della Francia e dell'Inghilterra.

Allora, cominciò a tastare il terreno presso gli uomini di stato inglesi e francesi. Il CLARENDON, l'11 aprile gli disse queste parole che lo riempirono di gioia:
"Se voi siete nell'imbarazzo, potete contar su di noi, e voi vedrete con quale energia verremo in vostro aiuto".
Il giorno dopo il Cavour scrisse al Rattazzi:

"Ella giudicherà quale sia l'importanza delle parole dette da un ministro, che ha fama di essere riservatissimo e prudente. L'Inghilterra, dolente della pace, vedrebbe, ne sono certo, con piacere sorgere l'opportunità di una nuova guerra, e di una guerra così tanto popolare quanto sarebbe quella che avesse per scopo la liberazione d' Italia.
Perché dunque non approfittare di queste predisposizioni e tentare uno sforzo supremo per compiere i destini di Casa Savoia e del nostro paese? Ma dato che si tratta di questione di vita o di morte, è necessario camminare molto cauti: è per questo che credo opportuno di andare a Londra a parlare con PALMERSTON e gli altri capi del governo. Se questi dividono il modo di vedere di CLARENDON, bisogna prepararci con calma, fare il prestito di 30.000.000 ed al ritorno di LAMARMORA dare all'Austria un "ultimatum", tale da indurli a cominciare la guerra. L'Imperatore (Napoleone III) non può esser contrario a questa guerra; la desidera nell'intimo del cuore. Inoltre ci aiuterà di certo, se vede l'Inghilterra decisa ad entrare in lizza".

Il 15 aprile Cavour prima di andare a Londra volle informare Napoleone III, che gli disse:
"Andate a Londra; intendetevi bene con PALMERSTON e al vostro ritorno tornate a vedermi".
Il Cavour accettò il consiglio. Prima di partire però inviò una nota ai plenipotenziari francesi e inglesi, nella quale, dolendosi che l'opposizione dell'Austria non avesse permesso al congresso di trattar come si doveva la questione italiana, faceva rilevare che
"lo spirito rivoluzionario italiano sarebbe esploso appena conosciuti i risultati del congresso, da cui si sperava alleviamento ai mali d' Italia; e che il Piemonte o sarebbe stato travolto dalla rivoluzione o sarebbe stato costretto ad una politica disperata le cui conseguenze per l'Europa sarebbero state incalcolabili"
"La Sardegna è il solo Stato d'Italia che abbia potuto innalzare una barriera insormontabile contro i sentimenti rivoluzionari e rimanere nello stesso tempo indipendente dall'Austria: è l'unico contrappeso alla sua influenza invadente. La Sardegna, sfinita di forze e abbandonata dai suoi alleati, se fosse costretta pure essa a subire la dominazione austriaca e dovesse soccombere, allora la conquista dell'Italia per l'Austria sarebbe compiuta. E, dopo aver ottenuto senza il minimo sacrificio l'immenso beneficio della navigazione del Danubio e della neutralizzazione del Mar Nero, si vedrebbe a capo di un'influenza così preponderante in occidente, che la Francia e l'Inghilterra non potrebbero mai consentire".

Chiedeva perciò che i due governi considerassero molto grave la situazione italiana e in accordo con la Sardegna studiassero i modi di provvedere.
Il 20 aprile il CAVOUR partì per Londra, parlò con il PALMERSTON e gli uomini politici più autorevoli, ma nessuno lo incoraggiò ad una politica audace contro l'Austria. Insomma CLARENDON aveva promesso, ma poi a Londra erano stati vaghi.

Cavour tornato a Parigi, rivide Napoleone III, e gli disse:
"Io ho il presentimento che la pace presente non durerà a lungo", quindi partì per Torino, dove giunse il 29 aprile.

Il 5 maggio il CAVOUR assunse il portafoglio degli esteri, tenuto fino allora dal Librario e il giorno dopo, in risposta all'interpellanza dell'on. BUFFA, espose alla Camera quanto era stato fatto al congresso di Parigi. Ricordò la posizione tenuta dal Piemonte e le difficoltà prima incontrate; enumerò i vantaggi che il trattato di pace garantiva all'Europa in generale e al Piemonte in particolare, fra i quali quelli che al commercio offrivano la navigazione del Danubio, la neutralizzazione del Mar Nero e il nuovo diritto marittimo che assicurava i neutri in tempo di guerra contro le prepotenze delle nazioni più forti.
"Ma più che ai vantaggi materiali, stimo che dobbiamo badare a quelli morali che dalle conferenze e dal trattato abbiamo ricavato. Io ritengo che non sia poca cosa per noi l'essere stati chiamati a partecipare a negoziazioni, a prender parte alla soluzione dei problemi, i quali interessano non tanto questa o quell'altra potenza, ma sono questioni e problemi di un ordine europeo. È la prima volta dopo molti e molti anni, dopo forse il trattato di Utrecht, che una potenza di second'ordine sia stata chiamata a concorrere con quelle di prim'ordine alla soluzione delle questioni europee; così viene meno la massima stabilita dal congresso di Vienna a danno delle potenze minori. Questo fatto è di natura tale da giovare non solo al Piemonte, ma a tutte le nazioni che si trovano nelle identiche condizioni. Certamente ha di molto innalzato il nostro paese nella stima degli altri popoli, e gli ha procacciato una riputazione, che il senno del governo e la virtù del popolo, non, dubito, saprà mantenere".

Venne quindi a, parlare di ciò che aveva fatto per portare nelle discussioni del congresso la questione italiana, e della parte che nella discussione avevano avuto i plenipotenziari francesi e inglesi:

"Nessun risultato positivo si può dire essersi ottenuto, tuttavia io ritengo essere stato un gran fatto la proclamazione fatta da parte della Francia e dell'Inghilterra della necessità di far cessare l'occupazione dell'Italia centrale, e dell'intendimento per parte della Francia di prendere tutti i provvedimenti a tal fine necessari. Sul terreno della diplomazia, era difficile trattare altri argomenti italiani e sottoporre altre questioni alle deliberazioni del congresso. Tuttavia parve alla Sardegna, come pure ai suoi alleati, i quali su questo argomento concorsero, dirò, con una grande spontaneità, potersi, all'occasione della sanzione di questa gran pace europea, rivolgere ad alcuni Stati d'Italia consigli di moderazione, di temperanza, di clemenza. Non ripeterò le ragioni messe in campo dai primi plenipotenziari della Francia e dell'Inghilterra, che in questa circostanza mantennero un identico linguaggio e dimostrarono eguale simpatia per le sorti dei nostri concittadini; solo dirò essere state le loro parole, tali da meritare il plauso di tutti i buoni Italiani. Se a questi consigli non vollero associarsi i plenipotenziari delle altre nazioni, lo fecero per motivi di convenienza; ma posso dire, credo, senza commettere indiscrezioni, che nessuno di questi plenipotenziari né ufficialmente né ufficiosamente prese a contrastare la validità degli argomenti di cui si erano serviti e i plenipotenziari della Francia e quelli della Gran Bretagna. Se nemmeno su questo argomento il congresso è arrivato ad un atto definitivo, è pure lecito credere che i consigli di cui discorriamo, quantunque non abbiano per sanzione un voto del congresso avvalorati come sono dall'autorità della Francia e dell'Inghilterra, stiano però per riuscire talmente potenti ed efficaci da ottenere quei risultati che da essi ci ripromettiamo. Rispetto alla questione italiana non si è -ed è vero- arrivati a gran risultati positivi; tuttavia si sono guadagnate, a mio parere, due cose, la prima che la condizione anormale ed infelice dell'Italia è stata denunziata all'Europa, non già da demagoghi, da rivoluzionari esaltati, da giornalisti appassionati, da uomini di partito italiani, ma bensì da rappresentanti delle primarie potenze dell'Europa, da statisti che siedono a capo dei loro Governi, da uomini insigni, avvezzi a consultare assai più la voce della ragione che a seguire gli impulsi del cuore. Ecco il primo fatto che io considero di grandissima utilità. Il secondo è che le stesse potenze hanno dichiarato, che è necessario, non solo nell'interesse dell'Italia ma nell'interesse europeo, cercare con qualche rimedio di alleviare i mali che affliggono l'Italia.
Non posso credere che le sentenze profferite, che i consigli predicati da nazioni, quali sono la Francia e l'Inghilterra, siano sterili. Sicuramente se da un lato abbiamo da applaudirci di questo risultato, dall'altro io debbo riconoscere che esso non è scevro d'inconvenienti e di pericoli.
E' sicuro, signori, che le negoziazioni di Parigi non hanno migliorato le nostre relazioni con l'Austria !
Noi dobbiamo confessare che i plenipotenziari della Sardegna e quelli dell'Austria, dopo essere stati seduti due mesi a fianco, dopo aver cooperato insieme alla più grande opera politica che si è compiuta in questi ultimi quarant'anni, si sono separati senza ire personali, ma con l'intima convinzione essere la politica dei due paesi più lontana ché mai dal mettersi d'accordo, essere inconciliabili i principi, dall'uno e dall'altro paese sostenuti. Questo fatto, o signori, è grave, non conviene nasconderlo; questo fatto può dar luogo a difficoltà, può suscitare pericoli, ma è una conseguenza inevitabile, fatale di quel sistema leale, liberale, deciso che il Re Vittorio Emanuele inaugurava salendo al trono, di cui il governo del Re ha sempre cercato di farsi interprete, al quale voi avete sempre prestato fermo e valido appoggio; né io credo, o signori, che la considerazione di questa difficoltà, di questo pericolo sta per farvi consigliare al governo del Re di mutare politica. La via, che abbiamo seguita in questi ultimi anni, ci ha condotti ad un gran passo: per la prima volta nella storia nostra la questione italiana è stata portata e discussa avanti ad un congresso europeo, non come le altre volte, non come al congresso di Lubiana ed al congresso di Verona, con l'animo di aggravare i mali d'Italia e di ribadire le sue catene, ma con l'alta intenzione manifestata di arrecare qualche rimedio alle sue piaghe, con il dichiarare altamente la simpatia che sentivano per essa le grandi nazioni. Terminato il Consiglio, la causa d'Italia è portata ora al tribunale della pubblica opinione, a quel tribunale, al quale, a secondo del detto memorabile dell'Imperatore dei Francesi, spetta l'ultima sentenza, la vittoria definitiva. -La lite potrà essere lunga, le peripezie saranno forse molte; ma noi, fidenti nella giustizia della nostra causa, aspettiamo con fiducia l'esito finale".

Il discorso del CAVOUR riscosse gli applausi di tutta la Camera eccettuate l'estrema destra e l'estrema sinistra in nome delle quali parlarono il BROFFERIO e il SOLARO della MARGHERITA. Per tutti gli altri, a difesa del governo, parlò il MAMIANI con grande eloquenza:

"Il Conte di Cavour con felice ardimento ispiratogli da un alto e primitivo diritto, assumeva là, nelle conferenze, l'ufficio pietoso di rappresentare e patrocinare tutte le oppresse popolazioni italiane: e quell'ufficio, purtroppo nuovo e insperato a quelle misere popolazioni, non trovò al congresso che poca e parziale contraddizione, e al di fuori trovò l'opinione più illuminata d'Europa che lo applaudiva e gli dava conferma e anticipazione preziosa: onde esso è uno di quei sacri diritti che vanno da sé medesimi a registrarsi nel codice comune e universale delle genti. Però sciogliamoci da ogni timore e apprensione, e crediamo saldamente che quel nobile ufficio di rappresentanza e di patrocinio non fuggirà più dalle mani del nostro principe e del nostro governo; e quando alcuno richiedesse ai ministri di profferire la carta del geloso mandato e le altre consuete rubriche e legalità, risponderanno autorevolmente che essi il prezioso chirografo ricevevano dalle mani stesse della natura, e fu scritto e fu segnato dal sangue dei Piemontesi nobilmente caduti nelle valli lombarde e sotto le mura di Sebastopoli".

Il 7 maggio l'on. CARLO CADORNA, soddisfatto della risposta data dal Cavour ad una sua interrogazione sulle pretese trattative tra Torino e Roma, presentò un ordine del giorno, per il quale "la Camera, udite le spiegazioni date dal Presidente del Consiglio, approvava la politica nazionale del governo del Re e la condotta dei plenipotenziari sardi al congresso di Parigi invitando il governo del Re a perseverare in tale politica", ordine del giorno che fu approvato quasi all'unanimità.

Il giorno 10 si discusse al Senato intorno al trattato di Parigi. Fu una seconda, clamorosa vittoria del Cavour. Avendo il CASTAGNETTO fatto alcune osservazioni alle ultime parole del discorso alla Camera del Cavour, non solo rispose come solo lui sapeva rispondere, ma anche il vecchio senatore MUSIO pronunziò parole che commossero l'alta assemblea:

"Io altamente e di cuore applaudo alle gloriose gesta, ai fatti illustri che rendono il nostro Stato più caro in Italia, più riverito in Europa; io spero vicino il giorno in cui noi tutti
avremo la consolazione di vedere felicemente compiuto un avvenire così felicemente iniziato; io spero che, siccome una è la terra, una è l'origine, una è la lingua, uno è il sangue, uno pure sarà il comune destino degli Italiani, uno il destino dei loro sacrifici, del loro coraggio, delle loro glorie e della loro libertà".

Inoltre MASSIMO D' AZEGLIO presentò un ordine del giorno esprimendo fiducia e piena soddisfazione per l'opera dei ministri, a cui il generale ALBERTO LA MARMORA volle che si aggiungessero parole di riconoscenza per l'esercito e per la flotta:
"Il Senato, convinto delle felici conseguenze, che dovrà portare il trattato di Parigi, sì per promuovere la civiltà universale, come per stabilire nelle sue vere basi l'ordine e la tranquillità della penisola italiana; riconoscendo altresì l'onorevole parte che ebbe ad ottenere questo desiderato effetto la politica del governo del Re, unita all'opera dei suoi plenipotenziari al congresso, esprime un voto di piena soddisfazione; il Senato dichiara la sua alta soddisfazione all'esercito, al suo capo ed alla marina che hanno ben meritato del paese e della nazione, e rende altamente omaggio alla memoria di coloro che spesero la vita a pro della patria".

Queste dimostrazioni patriottiche della Camera dei Deputati e del Senato trovavano eco nel paese, che mostrava tutto il suo amor di patria accogliendo entusiasticamente le truppe reduci dalla Crimea. Queste il 15 giugno ricevettero le medaglie mandate dalla Regina d'Inghilterra Vittoria e le ricompense al valore dalle mani del Re che, passate in rivista le truppe, rivolse loro le seguenti parole:

"Ufficiali, sottufficiali e soldati ! È trascorso appena un anno da quando io vi salutavo dolente di non esservi compagno nella memorabile impresa. Ora lieto vi rivedo e vi dico: Voi rispondeste degnamente alle mie aspettative, alla speranza del paese, alla fiducia dei nostri potenti alleati, che oggi ve ne danno una solenne testimonianza. Fermi nelle calamità che afflissero un'eletta parte di voi, impavidi nei cimenti della guerra, disciplinati sempre, voi cresceste di potenza e di fama questa forte e prediletta parte d'Italia. Riprendo le bandiere che io vi consegnavo, e che riportate vittoriose dall'Oriente. Le conserverò come ricordo delle vostre fatiche e come un pegno sicuro che quando l'onore e gli interessi della nazione m'imponessero di rendervele, esse sarebbero da voi sui campi di guerra dovunque, sempre, ed in ugual modo difese e da nuove glorie illustrate".

Giunsero da tutte le parti d'Italia congratulazioni e doni ai reduci di Crimea; e a colui che aveva voluto la partecipazione del Piemonte a quella lontana guerra pervennero attestazioni di plauso e di riconoscenza. I patrioti toscani gli inviarono un suo busto di marmo con il verso "Colui che la difese a viso aperto" e i romagnoli gli fecero coniare una medaglia con il motto: "Che fan qui tante peregrine spade?". Anche La Marmora ricevette un dono significativo dai napoletani: una spada d'onore con sulla lama i versi "L'antico valore negli italici cor non è ancor morto". Inoltre i lombardi raccolsero somme per innalzare a Torino un monumento all'esercito piemontese e da italiani di ogni regione furono date somme per offrire alla fortezza d'Alessandria cento cannoni.
Tutto ciò denotava un risveglio della coscienza nazionale e mostrava anche che gli occhi della maggior parte degli Italiani erano fissi sul Piemonte.
Il Regno di Sardegna era ormai considerato dai patrioti come il solo e vero paladino dell'Indipendenza d'Italia, e le speranze erano riposte nel sovrano sabaudo VITTORIO EMANUELE, e nel suo ministro CAVOUR.

Ma prima di arrivare alla fatidica data del 1859, cioè all'"Ultimatum" austriaco
dobbiamo passare in rassegna altri umori in Italia:
le campagne contro i Borboni, altre fallite insurrezioni mazziniane
le polemiche tra Mazzini e Cavour
il Convegno di Ploimberes
e la quindicenne figlia del Re, "sacrificata" a "Plon Plon".

E accennare anche all' "Idea Unitaria"

è sempre il periodo anni 1856 - 1859 > > >

 

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