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( QUI TUTTI I RIASSUNTI )  RIASSUNTO ANNO 1849

FINE DELLA REPUBBLICA ROMANA
( Anno 1849 - Atto Quarto )

ASSEDIO DI ROMA - LA GIORNATA DEL 3 GIUGNO - II "VASCELLO" - CASA GIACOMETTI E CASA SAVORELLI - LA GIORNATA DEL 30 GIUGNO - VILLA SPADA - MORTE DI LUCIANO MANARA - ASSALTO ALLE MURA AURELIANE - CADUTA DELLA REPUBBLICA ROMANA - LA RITIRATA DI G. GARIBALDI
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L'ASSEDIO DI ROMA

Dopo i fatti -riassunti nella precedente puntata- la notte del 20 giugno 1849, dodici compagnie di soldati francesi agli ordini del colonnello NIEL assalirono i bastioni di Roma e, sorprese le sentinelle, se ne impadronirono. Erano le mura di Porta Portese, quindi Trastevere.

Sparsasi in un baleno la notizia, grande fu la costernazione nell'apprendere che il nemico era ormai dentro le mura della città.
Il MAZZINI e il ROSELLI avrebbero voluto chiamare il popolo alle armi, raccogliere tutte le forze disponibili e riconquistare alla baionetta le posizioni perdute; ma si oppose decisamente GARIBALDI dicendo e promettendo che avrebbe assalito il nemico in altre ore; se avesse creduto di poterlo fare con probabilità di successo lo avrebbe fatto anche subito, ma non si poteva fare molto affidamento su truppe stanche e sgomente.

Del contegno di Garibaldi, il MAZZINI fu molto amareggiato. Di quest'amarezza si ha un documento in una lettera da lui scritta alle 9 pomeridiane del 22 a LUCIANO MANARA, capo dello Stato Maggiore di Garibaldi:
(la riportiamo fedelmente nella sua originale sintassi)

"Odo la determinazione del generale Garibaldi di non realizzare l'assalto promesso per le cinque. Deploro altamente questa decisione e la credo funestissima al paese. Bisognava assalire questa notte, mezz'ora dopo l'assalto della breccia. Se non si poteva perché nella notte lo spirito della truppa non concedeva, bisognava mantenere l'accordo fatto con Roselli, alle 5 e mezza della mattina: cioè assalire allora. E giacché si era commesso l'errore di non assalire nell'ora prefissa, bisognava assalire alla cinque del dopopranzo, come si era nuovamente promesso.
Domattina l'attacco riuscirà impossibile; perché l'artiglieria nemica sarà collocata. Il sistema è dunque interamente cambiato; permettetemi di dirlo, rovinato. Nelle nostre circostanze non si fa difesa senza assalto. Stamani mi si fece suonare a stormo, suscitare il popolo, poi sospendere e cadere in un gesuitismo di spiegazioni che ammazza l'entusiasmo. Nel dopopranzo il popolo si era fanatizzato; 2000 erano pronti ad aggiungersi alle nostre forze, numericamente sufficienti a prendere il Casino e quanto si esigeva. Un'altra immensa moltitudine veniva in seconda linea.
Deluso una seconda volta, il popolo, si convincerà che abbiamo paura, e avrà paura pure lui. La parte avversa se n'avvantaggerà. Un municipio o altro verrà fuori alla prima seria minaccia e rifaremo Milano. Voi non avete ora né lavoranti né materiale. Quaranta giorni di lavoro hanno esaurito la vitalità operosa del popolo. Noi non avremo presto carne, né polvere, né farina. Considero Roma come caduta. Dio voglia che il nemico osa e faccia lui l'assalto; avremo così, presto una bella difesa di popolo alle barricate; vi accorreremo tutti. Più tardi non avremo nemmeno quella.
Ho l'anima ricolma d'amarezza da non potersi spiegare. Tanto valore, tanto eroismo, tutto perduto! Badate, ho la vostra relazione, non parlo a voi; vi stimo e comincio ad amarvi. Giuro che voi pensate come io penso, e con voi Roselli, calunniato da molte parti, e i buoni dello Stato Maggiore. A me rimarrà la sterile soddisfazione di non apporre il nome mio a capitolazioni che io prevedo infallibili. Ma che importa di me, importa di Roma e dell'Italia. - Mostrate pure questa lettera al Generale".

GARIBALDI lasciò che chi non s'intendeva di guerra parlasse di battaglia di popolo. Lui era d'avviso che oramai bisognava ridurre la difesa dentro la cinta Aureliana. E così si fece. Capisaldi della nuova linea furono la casa Savorelli, occupata dal MANARA con i suoi bersaglieri e parte della legione italiana; e villa Spada che fu occupata dal SACCHI con un'altra coorte della stessa legione, la quale perse due dozzine di uomini tra cui il tenente ZAMPIERI.
Il giorno 22, per ordine di Garibaldi, due compagnie del MEDICI tentarono da villa Spada di impadronirsi della Casa Barberini; riuscirono con un magnifico impeto a penetrarvi, ma dopo una furiosa mischia nel cortile e nelle stanze dovettero ritirarsi per il mancato appoggio dei rincalzi. Perirono in quell'azione il sergente triestino GIACOMO VENEZIAN e i milanesi MAGICI e RASNESI. Furono feriti il capitano GORINI, il giovinetto cremonese CADOLINI e il pittore GEROLAMO INDUNO.

Nei giorni che seguirono, il bombardamento si fece violentissimo e il 24 il corpo consolare mandò all'OUDINOT una vibrata protesta contro�
"un tal sistema d'attacco, che non solo mette in pericolo le vite e le proprietà dei cittadini neutrali e pacifici, ma ancor quelle delle donne e dei fanciulli innocenti".
� e pregando che si desistesse "da un ulteriore bombardamento per risparmiare la distruzione alla città dei monumenti, la quale, è considerata come sotto la protezione morale di tutti i paesi civili del mondo".

Quello stesso giorno 24, casa Giacometti, ridotta ad un rudere informe, fu abbandonata dai suoi difensori, i quali passarono nel Vascello, che resisteva sempre anche se era anche quello diventato un cumulo di macerie, tempestato notte e giorno dalle artiglierie nemiche. Sul Vascello, il 26, i Francesi concentrarono un fuoco infernale, quindi gli zuavi diedero l'assalto a quel mucchio di rovine, gloriosamente difeso da un pugno di eroi, che, infatti, li respinsero.

Il 27 si dovette abbandonare anche Casa Savorelli. Si stava avvicinando la fine, ormai tutti la sentivano, eppure nessuno dava segni di sgomento; passò il giorno 28, e il 29 era la festa di S. Pietro, fatta in sordina ma alla sera fu illuminata la cupola della Basilica per mostrare al nemico la serenità d'animo dei difensori di Roma.
Poco prima della mezzanotte si rovesciò un violento acquazzone sulla città. Rumoreggiava il tuono del temporale e rumoreggiavano le artiglierie del nemico che a sua volta stava preparando il proprio temporale: l'ultimo attacco in piena notte, con tre forti colonne agli ordini del LESPINASSE.

L'attacco fu sferrato alle due del mattino del 30. Primi ad essere assaliti furono, il bastione e la casa Merluzzo, presidiati da un piccolo distaccamento di bersaglieri al comando del tenente diciannovenne EMILIO MOROSINI; questi sebbene colti di sorpresa, fecero una disperata resistenza, ma, poi, sopraffatti dal numero abbandonarono il bastione e si dispersero. Quattro di loro però avevano visto cadere il Morosini ferito al ventre da una palla e da un colpo di baionetta, dopo una fiera mischia coi Francesi, e vollero salvarlo.

"Messo su una barella - "così narrò poi EMILIO DANDOLO" - favoriti dalla confusione, si avviarono correndo verso Villa Spada. Ma questa era già circondata! S'imbatterono quindi nei Francesi che gridarono da lontano: - Chi vive? - Prigionieri, rispose Morosini con voce fioca. Ma i nemici, temendo forse un inganno, si avventarono con la baionetta spianata. Raccontò poi uno dei bersaglieri che portavano il ferito che, trovandosi circondati e minacciati nella vita dal nemico inferocito dalla battaglia, avevano deposto la barella e tentato di salvarsi fuggendo. Ma fu visto quel povero giovinetto di tenente, alzarsi ritto sulla barella insanguinata, e messo mano alla spada che gli giaceva a lato, continuare -lui che era già morente- a difender la propria vita, finché, colpito una seconda volta nel ventre, si accasciò di nuovo sulla stessa barella a versare dell'altro sangue.
Commossi a così tanto e sventurato coraggio, i francesi lo raccolsero e lo portarono all'ambulanza di trincea. Molte narrazioni furono fatte sulla morte di questo giovane tenente. Questo solo posso io dire di sicuro: che visse altre 30 ore, rassegnato, pregando, parlando della sua famiglia e strappando le lacrime ai nemici stessi che accorrevano a frotte per vederlo come se fosse una meraviglia. Il mattino del primo luglio spirò serenamente senza soffrire".

"Eroica fu pure la difesa di Villa Spada. Asserragliatisi nelle stanze dalle mura sbrecciate, cadenti, i bersaglieri lombardi resistettero disperatamente per alcune ore al fuoco nemico, ininterrotto, accanito, che produceva perdite dolorose; ma anche i Francesi soffrivano danni dalla fucileria dei difensori, i cecchini quasi a colpo sicuro, implacabili fulminavano dalle finestre le file nemiche, che a loro volta puntavano su queste finestre. Ad un tratto LUCIANO MANARA, essendosi avvicinato troppo ad una finestra, stramazzò a terra colpito da una palla.

"Accorse il medico - prosegue EMILIO DANDOLO - io lo interrogavo ansiosamente con lo sguardo e nel vederlo impallidire perdetti ogni speranza. Fu posto sopra una, barella, e per una finestra rovinata, cogliendo un momento di quiete, ci gettammo verso la campagna. MANARA, lasciando cadere una delle sue mani nelle mie, mi andava ripetendo: - Non abbandonarmi, resta con me. - Ed io lo seguii con il cuore straziato. Io avevo compiuto fino all'ultimo il mio dovere di soldato; ora mi rimaneva da compiere il doloroso ufficio di amico. Dopo molto aggirarci arrivammo all'ambulanza di S. Marco della Scala, dove già stavano raccolti un centinaio di feriti più gravi, che non potevano esser trasportati più oltre. Appena giunto, Manara mi disse di mandare a chiamare il dottore Agostino Bertani, suo amico, milanese. Intanto tutti i medici si affaccendavano attorno a lui, ma egli continuava dicendo: - Lasciatemi morire in pace non mi muovete. - Dietro l'assicurazione dei medici che egli aveva poche ore di vita, io mi chinai al suo orecchio e gli dissi: - Pensa al Signore. - Mi rispose: - Oh, ci penso e molto ! - Allora feci cenno ad un cappuccino che si avvicinò e che, dopo accolti i segni di contrizione del morente, gli impartì l'assoluzione. Manara volle pure essere confortato dal Viatico, ed io cercavo di prepararlo meglio che potevo al gran passaggio. Una soave dolcezza mi entrava nell'animo in vedere quel mio povero e carissimo amico così cristianamente affrontare la morte. Dopo essersi comunicato, non parlò per qualche tempo. Mi raccomandò poi di nuovo i suoi figliuoli. - Allevali tu, mi disse, nell'amore della religione e della patria. - Mi pregò di portare in Lombardia il suo corpo assieme a quello di suo fratello. Scorgendomi piangere mi domandò: - Ti rincresce ch'io muoia? - E vedendo che io non rispondevo perché soffocato dai singhiozzi, aggiunse sommessamente, ma con la più santa rassegnazione: - Anche a me� dispiace...
Chiamò vicino a sé il soldato che era stato il suo attendente e gli chiese perdono se l'aveva alcune volte fatto impazzire. Poi mi chiese notizie di Morosini (il giovane tenente della barella) mostrando desiderio di averlo presso di sé. Io sapeva già da vaghe voci che egli era prigioniero, e me ne ero anche consolato immaginandolo fuori di pericolo. Non glielo dissi però, perché troppo lo amava e poteva spaventarlo. Poco prima che morisse si levò un suo carissimo anello e me lo mise al dito egli stesso; poi, attirandomi verso di lui: - Saluterò tuo fratello per te, non è vero? - Quando arrivò il Bertani, il Manara non parlava quasi più. Solo quando si sentì rimuovere per essere medicato, si alzò un poco con le mani giunte, esclamando: - Oh, Bertani, lasciami morir presto! Soffro troppo! - Questo fu l'unico lamento che gli sfuggì di bocca. Quando sopravvennero le convulsioni dell'agonia e cominciò a scuotersi e ad aggrapparsi a chi gli stava d'attorno, io mi sentii venir meno e fui portato lontano, perché i miei singhiozzi potevano accrescere il patimento al moribondo. Allorché rinvenni e tornai al letto, lo trovai già immobile e freddo. La salma dell'eroe fu portata dai suoi bersaglieri per le vie di Roma, sotto una pioggia di fiori, fino alla chiesa di San Lorenzo in Lucina, dove il padre Ugo Bassi tenne l'elogio di uno dei più forti figli che la patria aveva perduto".
"Caduto il Manara, continuò la resistenza di villa Spada; cominciavano però a mancar le munizioni e i difensori si facevano sempre più radi. GIUSEPPE GARIBALDI, che fino allora aveva combattuto verso porta San Pancrazio e casa Savorelli, vedendo che la resistenza della linea non era più possibile, mandò ordine al Medici di abbandonare il Vascello e ritirarsi a Porta San Pancrazio. Egli invece corse a villa Spada.
Ma perché il Medici si ritirasse, il generale dovette mandargli l'ordine scritto: solo allora quel pugno di eroi si decise a lasciare il rudere glorioso; e, poiché tra le rovine era stata dimenticata una bandiera, tornarono alcuni a prenderla, ed altri ritornarono per dar fuoco alle mine, che non poterono però esplodere perché il cannone aveva distrutto gli apparecchi.
Giunto a villa Spada con una schiera di legionari e di soldati del 6° reggimento di linea del Pasi, Garibaldi si unì ai suoi i bersaglieri lombardi e li guidò in un ultimo assalto contro il nemico".

Racconta C. AUGUSTO VECCHI: "I Francesi stupivano di tanta audacia e rientrarono nel loro campo. Ma altri gli surrogavano, nell'atto che le artiglierie decimavano le nostre file. Il recinto Aureliano fu preso e ripreso con varia fortuna. Il campo era pieno di cadaveri e di feriti: e più le nostre disordinate bande si assottigliavano, e più gente il generale nemico ci cacciava addosso, impaziente degli indugi e voglioso di occupare la piazza. Garibaldi rivelava in quel giorno qual uomo egli era. Ruotando d'ogni lato la spada, faceva morder la polvere ai volenterosi nemici che si spingevano innanzi. Pareva Leonida antico alle Termopili. Pareva Ferruccio nel castello della Gavinana. Io tremava che dovesse cadere da un istante all'altro. Ma quello resisteva al destino".
Un destino che era ormai segnato per molti; per i tanti e tanti caduti da entrambe le parti. A mezzogiorno fu stipulata una reciproca breve tregua per raccogliere i propri morti e i feriti.

Intanto il MAZZINI si recava al Campidoglio e all'Assemblea, riunita fin dal mattino, diceva che oramai tre sole vie rimanevano aperte: capitolare, continuare la difesa dietro le barricate, uscire tutti (Triumvirato, Assemblea ed Esercito) e portare l'insurrezione nelle province.

Poiché l'Assemblea voleva sentire il parere di GARIBALDI, questi, chiamato, si recò
al Campidoglio. Era sporco di polvere e di sangue. Al suo apparire tutti si levarono in piedi. E lui disse con voce chiara ma commossa che oramai ogni resistenza era inutile e, dichiarato che si era giunti a questi estremi perché non si era voluto creare un dittatore come lui fin dal 9 febbraio aveva proposto e concluso:
"Usciamo dalle mura con i volenti armati. Dovunque noi saremo, là sarà Roma. Io nulla prometto. Tutto farò quanto è dato ad uomo di fare. E la Patria in noi ridotta, vivrà".

Concluse così e se ne tornò sul Gianicolo. Dopo breve discussione, l'Assemblea approvò la seguente deliberazione:
"In nome di Dio e del Popolo. L'Assemblea Costituente Romana cessa una difesa divenuta impossibile e resta al suo posto".

Il Triumvirato si rifiutò di sottoscrivere quel decreto e diede le dimissioni, mandando al popolo il seguente appello:

"Una nube sorge oggi tra il vostro avvenire e voi. E' nube di un'ora. Durate costanti nella coscienza del vostro diritto e nella fede per la quale morirono, apostoli armati, molti dei migliori tra voi. Dio, che ha raccolto il loro sangue sta mallevadore per voi. Dio vuole che Roma sia libera e grande; e sarà. La vostra non è disfatta; è vittoria di martiri, ai quali il sepolcro è scala di cielo. Quando il cielo splenderà raggiante di risurrezione per voi, quando, tra brev'ora, il prezzo del sacrificio che incontraste lietamente per l'onore vi sarà pagato, possiate allora ricordarvi degli uomini che vissero per mesi della vostra vita, soffrono oggi dei vostri dolori e combatteranno occorrendo, domani, misti nei vostri ranghi, le nuove vostre battaglie".

Nuovi triunviri furono eletti AURELIO SALICETI, LICEO MARANI, ALESSANDRO CALANDRELLI. Nel tardo pomeriggio una deputazione del Municipio si recò dall'OUDINOT per conoscere le condizioni che il generale francese intendeva imporre alla città; ma i patti erano tali che furono sdegnosamente rifiutati. Allora il Triumvirato deliberò di lasciare che, senza condizioni, i Francesi entrassero nella città. L'Assemblea, dal canto suo decretò sussidi alle famiglie dei caduti, mise a disposizione centomila scudi perché si pagasse il soldo di un mese a tutti i combattenti e, il 2 luglio, deliberò che si facessero solenni funerali ai morti per la Patria.
La mattina di quel giorno stesso Garibaldi aveva convocato le sue truppe in piazza San Pietro. Quando giunse a cavallo, la folla immensa che si accalcava davanti la Basilica lo accolse con entusiastici applausi, poi, fra un silenzio religioso, parlò:

"Io esco da Roma: chi vuol continuare la guerra contro lo straniero, venga con me. Da chi mi segue io pretendo amore gagliardia di patria, prove di cuore arditissime. Non prometto paghe, non ozi molli. Acqua e pane quando se ne avrà. Chi non sia tanto rimanga. Varcata la porta di Roma, un passo fatto indietro sarà un passo di morte".

Tutti acclamarono il generale, che poi diede convegno ai volontari in piazza S. Giovanni in Laterano per le ore 18. All'ora stabilita si trovarono radunati circa quattromila uomini con ottocento cavalli e un cannone: vi erano garibaldini, bersaglieri lombardi, lancieri del Masina, studenti, finanzieri e dragoni pontifici; vi erano CICERUACCHIO con i suoi due figli, il padre UGO BASSI con la camicia rossa e il Crocefisso sul petto, ANITA, nella divisa della legione italiana, e poi il SACCHI, MONTANARI, LIVRAGHI, MAROCCHETTI, BUONO, CERANO, CHIASSI, CENALDÍ, ISNARDI e molti altri dei più fidi compagni del Generale. Alle ore 20 la colonna si metteva in marcia e poco dopo Roma, non più libera era dietro di loro.

Il giorno seguente verso mezzogiorno grossi drappelli di fanteria francese scesero dal Gianicolo e occuparono Trastevere, Castel S. Angelo, il Pincio e porta Flaminia. Verso le 4 pomeridiane, davanti a un'immensa folla di popolo il generale GIUSEPPE GALLETTI, presidente dell'Assemblea, dal balcone del Campidoglio lesse la nuova costituzione della Repubblica Romana. Qualche ora dopo il generale OUDINOT faceva il suo arrogante ingresso in città alla testa di dodicimila uomini, accolto dal popolo con grida di "Viva la Repubblica Romana! Viva l'Italia!" mentre una dimostrazione popolare percorreva le vie capitanata dal CERNUSCHI e qua e là non pochi reazionari erano bastonati o uccisi e moltissimi francesi, che volevano insolentir con le donne, trovavano la morte sotto i coltelli dei loro, padri, mariti, fidanzati, fratelli, popolani ma indignati.

La popolazione romana, che aveva letto i bellissimi proclami del Mazzini, lesse ora un odioso manifesto del generale francese:


"Abitanti di Roma ! L'esercito mandato dalla Repubblica francese sul vostro territorio ha per fine di restituire l'ordine desiderato dalle popolazioni. Pochi faziosi e traviati ci hanno costretto a dare l'assalto alle vostre mura; ci siamo impadroniti della città; adempiremo al debito nostro. Fra le testimonianze di simpatia che ci hanno accolto dove erano incontestabili i sensi del vero popolo romano, si sono levati alcuni rumori ostili che ci hanno condotto nella necessità di reprimerli immediatamente. Ripiglino animo, le genti per bene, ed i veri amici della libertà; i nemici dell'ordine e della società sappiano che se mai si rinnovassero dimostrazioni aggressive provocate da una fazione straniera, essi saranno severamente puniti. Per garantire efficacemente la pubblica sicurezza io prendo le seguenti misure: ogni potestà è temporaneamente accentrata in mano dell'autorità militare, la quale immediatamente invocherà il concorso dell'autorità municipale.
L'Assemblea e il governo che il regno violento ed oppressivo incominciò e finì con un'empia guerra contro una nazione amica delle popolazioni romane, hanno cessato di esistere. I Circoli e le società politiche sono chiusi; proibite temporaneamente ogni pubblicazione per le stampe e ogni affissione non permessa dall'autorità militare. I delitti contro le persone e contro le proprietà, saranno puniti dai tribunali militari. Il generale di divisione ROSTOLAN è nominato Governatore di Roma: il generale di brigata SAUVAN comandante, il colonnello SOL maggiore di piazza".
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La sera del 4 luglio un battaglione di Cacciatori francesi occupò il Campidoglio e invitò l'Assemblea ad uscire. Allora il FILOPANTI dettò la seguente protesta che fu firmata da tutti i deputati:


"In nome di Dio e del Popolo degli Stati romani che liberamente ci ha eletti suoi rappresentanti; in nome dell'articolo V della costituzione francese, l'Assemblea Costituente Romana protesta in faccia all'Italia, alla Francia e al mondo civile, contro la violenta invasione delle armi francesi nella sua residenza, avvenuta oggi 4 luglio 1848 alle ore sette pomeridiane".
FINIVA COSÌ LA REPUBBLICA ROMANA

Giuseppe Garibaldi, uscito da Roma, prima si diresse su Valmontone, poi, per ingannare i nemici - Francesi, Spagnoli, Borbonici ed Austriaci - andò a Tivoli e finse di volersi portare negli Abruzzi; ma giunto, il 4 luglio, a Monterotondo, si recò con un largo giro a Terni, dove l'8 mattina si riunì con novecento volontari capitanati dall'inglese FORBES.

Perduta la speranza di sollevare le popolazioni e stabilito di raggiungere un porto dell'Adriatico ed imbarcarsi per Venezia, mosse, per Cesi, Todi, Orvieto, Ficulle e Città della Pieve verso la Toscana. Il 17 era a Cetona, il 20 a Montepulciano, il 23 ad Arezzo che gli chiuse come Orvieto le porte, il 24 a Citerna, il 26 a San Giustino, il 28 a Mercatello, il 29 a S. Angelo in Vado e a Macerata Feltria.
Era una colonna di un migliaio circa di uomini, perché molti lungo la faticosa via si erano fermati o allontanati, stanchi di quella marcia senza una meta e meno ancora uno scopo, guardati con diffidenza dalle popolazioni, perseguitati come selvaggina dai nemici, che più di una volta ingaggiarono con loro degli scontri. Uno di questi, avvenuto il 29 luglio, causò altre dispersioni di uomini. I rimasti al seguito di Garibaldi, quasi accerchiati da ogni parte dagli Austriaci, si gettarono, il 31 luglio, nel territorio della Repubblica di S. Marino, chiedendo ed ottenendo asilo.
"Soldati, - disse il Garibaldi, rivolgendo ai suoi compagni l'ultimo suo ordine del giorno - noi siamo su una terra di rifugio e dobbiamo tenere il migliore contegno possibile ai generosi ospiti. In tal modo avremo meritato la considerazione dovuta alla nostra disgrazia. Militi, io vi sciolgo dall'impegno di accompagnarmi; tornate pure alle vostre case, ma ricordatevi che l'Italia non deve rimanere nel servaggio e nella menzogna".

Il governo sammarinese si offerse come mediatore presso gli Austriaci ed ottenne che i volontari, deposte le armi, se ne tornassero alle loro case; Garibaldi e la moglie Anita avrebbero dovuto (o voluto) imbarcarsi per l'America. Ma poiché nessuna garanzia era stata data e d'altro canto i patti dovevano prima esser sottoscritti dal generale Gorzowsky, governatore di Bologna, e poi eseguiti sotto il controllo di una scorta austriaca, il generale decise di non accettarli.
Seguito da circa duecentocinquanta compagni e da Anita, la quale, sebbene incinta ed ammalata, volle seguire il marito, nella notte dal 31 luglio al 1° agosto Garibaldi lasciò S. Marino e, dopo aver marciato il resto della notte e tutto il giorno successivo, giunse, a Gatteo, e a Cesenatico disarmò il presidio austriaco e, imbarcatosi con i suoi su tredici bragozzi da pesca, salpò, all'alba del 2 agosto, alla volta di Venezia.

Dopo aver bordeggiato per tutto il giorno, i bragozzi furono sorpresi dalla flotta austriaca che si trovava alla Punta di Goro. Otto legni si arresero gli altri cinque tra cui quello su cui si trovava Garibaldi, riuscirono a fuggire e la mattina del 3 agosto approdarono tra Migliavacca e Volano. Qui i fuggitivi, per trovar più facilmente la possibilità di mettersi in salvo, si divisero in gruppi e presero vie diverse.
CICERUACCHIO e i suoi due figli Luigi e Lorenzo, GAETANO FRATERNALI, PAOLO BACCIGALUPI, FRANCESCO LAUDADIO, LUIGI ROSSI, romani, e il capitano LORENZO PARODI e il cappellano STEFANO RAMORINO, genovesi, catturati dagli Austriaci a Ca' Tiepolo nella tenuta Papadopoli, furono fucilati il 10 agosto e sepolti; il capitano GIOVANNI LURAGHI, milanese, e il padre UGO BASSI di Cento, furono fatti prigionieri a Comacchio e condotti a Bologna, dove furono anche loro fucilati l'8 agosto.

GARIBALDI, ANITA e il capitano G. B. CUGLIOLO, detto Leggiero, soccorsi dal colonnello garibaldino NINO BÓNNET, di Comacchio, riuscirono a sfuggire agli Austriaci; ma la povera Anita, trasportata a braccia da una cascina all'altra, la sera del 4 agosto cessò di vivere nella fattoria Guiccioli presso le Mandriole e il generale non poté neppure adagiarla nella fossa; travestito da contadino, dovette continuare la fuga prima fino a S. Alberto, poi nella pineta, e da qui il 9 agosto si trasferì a Ravenna.

Aiutato abilmente da amici ed ammiratori, passò a Cervia, poi a Forlì, donde partì con il Leggiero il 16 agosto. Il 19 era a Modigliana, dove s'incontrò con don GIOVANILI VERITÀ, e una settimana dopo giunse a Prato. Il 2 settembre da Cala Martina, sopra la barca di PAOLO AZZARINI partirono alla volta della Liguria e sbarcarono il 5 a Portovenere.
A Chiavari Garibaldi fu arrestato e condotto a Genova, poi fu rimesso in libertà a patto di abbandonare lo Stato sardo. Il generale andò a Nizza ad abbracciare la vecchia madre, quindi a Tunisi. Avendogli il Bey rifiutato il permesso di soggiornare in Tunisia, andò nell'isola della Maddalena, poi a Gibilterra e a Tangeri, aiutato qui generosamente dal console sardo G. B. CARPANETO; infine nel giugno s'imbarcò per l'America, dove con tante speranze era partito due anni prima.
Ma era solo un'altra breve parentesi della sua vita movimentata. Presto lo rivedremo ancora in Italia a prendersi la rivincita sui Francesi. Anzi, alla fine della sua carriera - dimenticando gli arresti, le condanne, le pallottole francesi, e dimenticando pure che gli avevano preso la sua Nizza, lo troveremo alleato proprio di Napoleone III, nella sua ultima disperata guerra combattuta tutta da solo, contro la Prussia, abbandonato a tutti. A credere in lui -controcorrente- solo Garibaldi. Ne riparleremo più avanti.

Un altro assedio memorabile fu quello di VENEZIA
GLI ULTIMI GIORNI DELLA REPUBBLICA VENETA - LA RESA

anno 1849 - Atto Quinto

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