anno 1849

I FATTI PIEMONTESI

*** LA DISFATTA DI NOVARA
*** LA TRISTE  USCITA DI SCENA DI CARLO ALBERTO
*** VITTORIO EMANUELE - NUOVO RE
*** MA IL "RE"  E' LUI: CAVOUR

12 MARZO - Carlo Alberto, dai deputati del  Parlamento e dalle (organizzate) dimostrazioni popolari,  cedendo alle pressioni dei demagoghi, deve fare quello che non ha mai avuto intenzione di fare seriamente: cio� dichiarare  guerra  all'Austria.  Una follia! ...... 

Per le condizioni in cui � messo l'esercito piemontese e per l'efficienza che ha ora l'esercito austriaco;  sempre sotto la guida e al comando assoluto del maresciallo Radetzky (non dimentichiamo che ha 83 anni, ma ha un glorioso passato, ricco di esperienze, ha combattuto su tutti i campi di battaglia d'Europa;  ha forgiato tre intere  generazioni di ufficiali e soldati che ha sempre con se'. Una volpe insomma, carismatica, in piena forma, che camper� altri dieci anni. A 91 anni quando Francesco Giuseppe sceso a Verona lo esoner�,  lui ci rimase molto male, s'infuri� perfino . Quella di Novara sar�  la sua ventiseiesima battaglia. La prima nel 1788 a Belgrado.

Carlo Alberto per dichiarare guerra,  i suoi consiglieri -che la vogliono ad ogni costo- gli trovano il cavillo per annullare l'armistizio per vizio di forma. Ma Carlo Alberto, forse non sentendosi all'altezza di guidare l'esercito piemontese, e non avendo un solo generale che non era stato screditato a Custoza e dintorni, nomina comandante un generale polacco Chrzanowski, che essendo straniero si trov� dinanzi a un compito impossibile: inoltre "molti ufficiali e soldati piemontesi erano senza entusiasmo perch� poco favorevoli o addirittura ostili alla guerra" (testimonianza di Gioberti, citata in A. Anzillotti, Gioberti, Firenze 1922, pag. 232).
"
Il figlio stesso di Carlo,  Vittorio Emanuele II, pur entusiasta per la guerra dello scorso anno, di fronte alle sollecitazioni di iniziarne un'altra in cos� precarie condizioni com'era in questi mesi l'esercito piemontese, l'entusiasmo lo aveva perso ; inoltre era anche dell'idea che un esercito affidato a un rivoluzionario polacco, era un pubblico e patente sfregio dell'autorit� del Re e del prestigio dell'esercito stesso. Quanto -lui che era lontano- avrebbe voluto fare per impedirlo: avrebbe voluto respingere gli avvocati chiacchieroni del potere, la demagogia imperante degli intellettuali borghesi che stavano spingendo suo padre alla catastrofe. Lui che viveva - pi� del padre- a contatto con la realt�, con una diversa visuale mentale, era convinto che il disordine demagogico era la vera causa dello sdegno dentro l'esercito. Nessuno meglio di lui sapeva queste cose, visto che non viveva nei palazzi ma dentro le caserme.  Perfino la religione e la Chiesa  -pur di raggiungere il loro scopo- era stata vituperata dai demagoghi anticlericali. E suo padre con rassegnazione fatalista subiva, lo tenevano in pugno con i loro infantili "capricci". (Francesco Cognasso, Vita di Vittorio Emanuele II,  Utet, 1942"

20-23 MARZO - Lo scontro! - L'esercito piemontese negli ultimi tempi molto indisciplinato, e come abbiamo appena letto scoraggiato e perfino sdegnato,  venne concentrato sul medio Ticino, dislocando le proprie forze in modo da fronteggiare un attacco proveniente da Pavia verso Mortara, o da Milano verso Novara.  Radetzky  scelse proprio quest'ultima direzione, ma riusc� cos� bene a mascherare le sue mosse  da ingannare i Piemontesi dov'era il vero obiettivo della sua strategia. Il comando piemontese si rese conto dell'inganno troppo tardi ed inoltre reag� senza coordinazione, concentrando tra il 21 e il 22 le sue truppe davanti a Novara, senza curare i collegamenti con le forze rimaste sulla destra del Po, lasciando cos� aperta al nemico, in caso di difficolt�, la strada per Torino.
La battaglia di Novara, ebbe inizio il 23 mattina. Si present� a sostenerla da parte austriaca  un solo generale, D'Aspr� (gi� questo avrebbe dovuto quantomeno allarmare, impensierire, far riflettere).  In entrambi i due schieramenti, il primo scontro non caus�  grandi danni, forse pensarono i piemontesi � solo il primo assaggio della battaglia, infatti il generale austriaco non � che si impegn� molto, attacc� ma poi abilmente si disimpegn�.  D'Aspr� -lo abbiamo appena letto- era solo,  e avrebbe potuto essere battuto da un tempestivo contrattacco piemontese, che lo Stato Maggiore invece si rifiut� di lanciare. Anzi un generale - Ramorino (che per questo  fu poi accusato di tradimento) avventatamente si allontan� dal luogo, alleggerendo al centro  il grosso dell'esercito, che rimase cos� quasi in stallo, in attesa degli eventi. 
Ed era proprio il comportamento che aveva previsto e che stava aspettando  Radetzky. Scattata la trappola,  gli austriaci dai lati piombarono sui piemontesi chiudendoli in una tenaglia. La Guerra  che  Carlo Alberto aveva dichiarato al Grande 'Impero Austriaco, dur� nemmeno un giorno, poche ore, e si era conclusa - senza muoversi di un palmo- con una disfatta totale dentro l'imbuto di una sacca; alle porte di casa, sul proprio terreno.
(Ramorino si era allontanato, ma anche se restava, ugual sorte sarebbe toccata a lui. Ma fu lui il capo espiatorio delle responsabilit�,  che invece erano molto pi� vaste e toccavano tutta la struttura dell'esercito; e soprattutto del comando.

RAMORINO GEROLAMO  (1792-1849), era un generale dell'esercito piemontese. Dopo aver servito nell'esercito napoleonico partecip� nel '21 ai moti costituzionali piemontesi; nel '31 all'insurrezione polacca e nel '34 al tentativo mazziniano in Savoia. In questa campagna ebbe il comando della V divisione dell'esercito sardo, con il compito di tenere il passaggio del Ticino davanti a Pavia, dalla forte posizione della Cava. Ramorino, convinto che gli austriaci avrebbero attaccato sulla destra del Po, contravvenne agli ordini ricevuti e port� la divisione dietro il Po tra Voghera e Stradella, lasciando alla Cava soltanto il battaglione bersaglieri di Luciano Manara. L'offensiva austriaca mosse invece proprio da Pavia e pot� dilagare nel territorio piemontese grazie alla sorpresa strategica consentita dall'iniziativa di Ramorino. Nel comportamento di Ramorino si volle vedere una delle cause della disfatta di Novara: processato pertanto quale reo di disobbedienza fu condannato a morte e fucilato.

Attimi di panico e di angoscia, poi nello stallo della trappola, alle sei di sera non rimase altro da fare a Carlo Alberto che chiedere a  Radetzky  un armistizio. La risposta non si fece attendere, ma le condizioni erano pesanti e non erano di un armistizio, ma erano le condizione di una resa incondizionata. quella  che si chiede normalmente a un vinto. N� poteva essere diversamente, era stato Carlo Alberto a non tener fede al precedente armistizio, era stato lui a  stracciarlo e poi aprire le ostilit�.

Il quartier generale di Carlo Alberto era a Momo. Qui arriv� la gravosa risposta di Radetzky. A questo punto la decisione pi� saggia e indubbiamente anche la pi� sofferta che prese in tutta la sua vita Carlo Alberto, fu quella di mandare a cercare  in mezzo ai superstiti di Novara il figlio ventottenne.  Nel cuore della notte, dopo una lunga cavalcata, Vittorio Emanuele II riceveva lo scottante scettro dal padre, che abdicava, e  gi� pronto a partire per l'esilio. Anche lui nel cuore della notte con una lunga e faticosa cavalcata (senza soste) giunse a Oporto, in Portogallo. Un atto nobile, ma molto doloroso; perch� rappresentava quella fuga nella notte, il riassuntivo gesto di un intero fallimento esistenziale, fin dall'inizio a Torino nel '21, e a Milano dai costituzionalisti  perfino maledetta. Forse il grido di traditore lo rincorse in questa famosa notte mentre galoppava allontanandosi dall'Italia, che non avrebbe pi� rivista.
 vedi 1821
L'INSURREZIONE PIEMONTESE TRADITA 
 CARLO ALBERTO - per le origini vedi anno
1817  altre note con la salita al trono  anno 1831

Insomma dopo una intera, enigmatica e ambigua  esistenza,  come re e come uomo, a Novara Carlo Alberto riconobbe di essere un soccombente; abdic�, part� per l'esilio, per poi morire pochi giorni dopo.  Non riusc� nel suo grande ambizioso progetto; sovrano di un grande regno. Ma mor� da uomo, e nonostante le ricchezze, come un misero mortale: di dolore angosciante.

Carlo aveva appena compiuto cinquant'anni: il 28 luglio a Oporto moriva di crepacuore. Questa volta, nella minuscola cittadina, nei momenti di profondo abbattimento e di sfiducia negli uomini, le contraddizioni  in cui era vissuto fin dal suo rientro a Torino, forse gli apparvero pi� nitide. A questi ricordi colmi di tante crisi e turbamenti giovanili, aggiunse i tormenti psicologici  di vent'anni di regno. In poco pi� di cento giorni,  probabilmente ripass� in rassegna tutta la sua vita, e forse si affatic� molto a fare un bilancio, poi giunto alla fine si accorse quasi certamente che era vissuto senza mantener fede ad un ideale;  ebbe forse vergogna, e si scelse la fine migliore: morire di dolore! Una fine che ci appare come il riscatto di una vita enigmatica; una signora morte che si portava via un re molto orgoglioso, ma che ci restituiva un uomo umile, soffocato dal dolore di un'esistenza vuota. Quindi pi� umano. Fino al punto che, vissuto e uscito dalla scena storica con attorno tanto odio, inizi� a guadagnarsi tanta stima, affetto, simpatia, anche da chi lo aveva odiato. 
Fu l'ultima onorevole, intelligente, ammirevole e anche commovente uscita di scena di un Savoia in Italia.
A dire il vero la "leggenda del "martire di Oporto" fu poi costruita retrospettivamente da quegli stessi individui che avevano contribuito a portarlo alla rovina; oltre che (questo � comprensibile)  dagli eredi della sua dinastia che poi "governarono" ininterrottamente (?) fino al 1945 l'Italia.

Intelligente perch� pur non avendola mai manifestata- in cuor suo l'improvvisa  abdicazione, Carlo Alberto mirava a creare una situazione completamente nuova, pi� favorevole alle trattative,  con un uomo -suo figlio- che conosceva bene, che vedeva poco, ma era sicuro che avrebbe impugnato bene le redini meglio di quanto aveva fatto lui che era cresciuto in due mondi incompatibili fra di loro  e non era mai riuscito  ad appartenere n� all'uno n� all'altro. L'ottusa tradizione dinastica gli stronc� quegli ideali che lui (ex bonapartista) aveva dovuto soffocare, ma che aveva ultimamente visto riflesso in suo figlio.

Carlo Alberto, l'esuberante primogenito Vittorio Emanuele, lo aveva sempre tenuto lontano da ogni faccenda,  lontano dal "palazzo", mai a contatto con i suoi  ministri borghesi pretenziosi, demagoghi, gonfi di boria, di cui lui era il re ma anche il loro schiavo. Il figlio non lo aveva infatti mai fatto partecipe dell'attivit� politica interna. Non lo aveva mai associato in una decisione. Un motivo c'era, aveva cominciato a vedere  nel figlio ricomparire qualche cosa degli irrequieti Carignano, quello che era stato lui quand'era cadetto a fianco di Napoleone; quello che tornato a Torino fu subito considerato un ribelle, poi nel '21 addirittura un "traditore" della dinastia sabauda conservatrice, poi, scherzo del destino o per debole carattere, contemporaneamente  "traditore" dei liberali.  Una vita d'inferno in due mondi dove in uno c'era il dovere dinastico nell'altro il volere idealistico. Che non seppe mai separare,  entrare in uno abbandonando l'altro.

Il figlio, Carlo Alberto non lo aveva pi� disturbato, lo voleva conservare puro e libero (e quindi anche grezzo) da ogni impegno, da ogni compromesso della politica  e del "Palazzo", fin quando sarebbe arrivato il giorno fatidico. 
Lui che nella vita non era riuscito a tener fede  a un suo ideale; lui che aveva avuto tante crisi, tanti  turbamenti giovanili, tormenti spirituali,  moltiplicati poi in quasi venti anni di regno ne era rimasto schiacciato.  Arrivato all'ultimo giorno di regno,  quella che a molti sembr� solo una lucida intuizione, non era null'altro che una scelta da alcuni anni gi� meditata, ma che aspettava solo il giorno fatico per realizzarla. E quel giorno arriv� a Novara, proprio nella citt� dove  lo zio tanti anni prima lo aveva esiliato e persino umiliato, bandito dal palazzo sabaudo per aver concesso il "ribelle bonapartista" -durante una sua assenza- una Costituzione liberale ai piemontesi.  In anticipo di venti anni.
Ora ci avrebbe pensato suo figlio.

VITTORIO EMANUELE non perdette tempo. Il giorno dopo inizi� la sua improba impresa chiedendo di trattare  le dure condizioni imposte nell'armistizio personalmente con Radetzky. L'anzianissimo maresciallo con curiosit� e quasi paternamente acconsent� al colloquio di questo giovane a lui sconosciuto principe divenuto all'improvviso re,  in una notte che fu per il Savoia molto drammatica. Con il giovane il vecchio maresciallo simpatizz� subito,  ma sulle condizioni rimase fermo. Cerc� nel colloquio di trascinarlo nella scia del governo di Vienna.  Ma il giovane esuberante principe (pi� per carattere che non per razionalit� politica) fu molto abile nel rivendicare la sua piena libert� d'azione pur evitando discussioni sopra punti molto delicati, che del resto a digiuno com'era di questioni politica interna ed estera, certo non poteva sostenere. Gli espresse solo l'intenzione di impugnare fortemente le redini del governo e di domare quel partito democratico che -disse- "odiava". Convinse  Radetzky,  affermando che avrebbe iniziato una dura politica reazionaria per ritornare al regime assolutista, al pari degli altri principi italiani. Radetzky forse affascinato da quell'atletico  giovane che sprizzava orgoglio,  acconsenti a modificare in parte le pesanti condizioni, a patto che si attenesse ai trattati di Vienna del 1815. Ma non riusc� a fargli stracciare quel documento dell'annessione della Lombardia, n� a imporgli un proclama da fare ai cittadini per sconfessare che quel documento fatto da  suo padre non valeva pi� nulla.  Il giovane principe gli fece notare che sarebbe stata una umiliazione rinnegare davanti ai cittadini quel proclama, lui avrebbe perso prestigio e autorit� prima ancora di esserne investito, avrebbe fatto solo la figura di un burattino nelle sue mani. Insomma anche qui convinse Radetzky. Anche perch� non era poi cos� molto importante formalizzare un rieditto, gli austriaci palesemente avevano rioccupato la citt� e tutta la Lombardia.

Uscito a testa alta dal quartier generale di Radetzky, il nuove re ora doveva affrontare i problemi interni. Di non facile soluzione. Ma anche qui fu abbastanza abile, istintivo. Pubblic� il proclama della pace alla nazione sotto la sua sola responsabilit�, con la sola sua firma. Non vi figurava nessun nome del governo. La monarchia riprendeva contatto direttamente col popolo, le cui reazioni potevano essere imprevedibili se si agiva diversamente. Far firmare una pace proprio da chi (governo  di demagoghi) aveva voluto una guerra cos� sciagurata  sarebbe stato anche grottesco.

La notte del 26 marzo Vittorio Emanuele ricomparve a Torino; il 27 mattina licenziava i ministri per comporre un nuovo ministero. Del resto Radetzky, quasi parlandogli da padre, gli aveva fatto notare che i suoi veri nemici erano i suoi maligni ministri. Vittorio Emanuele aveva risposto "Domani ci sar� un altro ministero, ed � con questi nuovi ministri che io mi consiglier� e guider� lo Stato".
A Torino fu ancora pi� chiaro; con i rappresentanti della demagogia, i Sineo, i Lanza, i Rattazzi, i Cadorna, i Buffa, egli non  voleva pi� avere a che fare. Lui li sfid� tutti; ma purtroppo tutti sfidarono lui.

I deputati lo accusarono di alto tradimento,  per aver firmato l'armistizio e il proclama senza chiedere loro licenza. Poi si scatenarono in  una vera e propria  insurrezione dentro la Camera. Focosi discorsi, vibranti imprecazioni, teatrali lacrime, deliri patriottici, parole  rintronanti ma vuote, ci fu insomma di tutto. I "suoi nemici" dichiararono incostituzionale tutto quello che aveva fatto; l'armistizio, la cessione della Lombardia e del Veneto, gli oneri finanziari (75 milioni di franchi di indenizzi) ecc. Qualcuno disse che nell'accomiatarsi da Radetzky,  il "traditore" lo aveva perfino abbracciato e questo era la prova del complotto; cio� che aveva "venduto" il Piemonte all'Austria. Altri pi� moderati lo accusarono di inesperienza politica,  che doveva far ritorno nelle caserme da dove era venuto. L'assemblea propose la seduta parlamentare permanente ed inizi� a discutere alcuni urgenti provvedimenti "perch� la patria era in pericolo".
Tutta demagogia anche questa: dimenticavano che il Lombardo-Veneto era stato perso gi� a Custoza, dimenticavano che gli austriaci erano dentro i confini del Piemonte (ad Alessandria) e dimenticavano che l'intera economia piemontese era in mano austriaca. Con "questi austriaci" - per un po' di tempo-  bisognava convivere se si voleva campare (dal 1846 gli austriaci avevano messo un tassa enorme sull'importazione in Lombardia dei vini piemontesi. Bloccando quella che era una delle pi� importanti risorse del Piemonte).

Quando dopo le sedute infuocate una commissione di deputati si rec� dal Re a riferire quello che stava avvenendo in Parlamento e quindi latori delle proteste, Vittorio Emanuele rispose secco. "Anch'io desidero la guerra, ma per farla  cari signori mi dovete fornire un vero esercito combattente, non un esercito  che a Novara si � squagliato in un giorno".  Insomma tornate dai vostri amici e preparatene uno se siete capaci, poi ne riparleremo. "Contro gli austriaci ci vogliono uomini, fucili e soldi, e dalla vostra seduta permanente le tre cose non nascono sotto i banchi, dove voi fate solo chiacchiere".

Il 27 sera chiam� la Guardia Nazionale a giurargli fedelt�, il 29 si rec� al Parlamento a giurare a sua volta sulla Costituzione. Pronunci� un breve discorso in cui riconferm� i concetti fondamentali del suo programma. Poi firm� un decreto di proroga della Camera, ma pochi giorni dopo la sciolse. Con una motivazione molto semplice. "Mi dispiace tanto, ma non posso collaborare con chi mi ha accusato di tradimento. Devo fare appello a dei leali collaboratori, quindi signori si cambia."

Le violente contestazioni non cessarono. La campagna di stampa che si scaten� nei suoi confronti fu impietosa, sprezzante e di pessimo gusto. Nei circoli e nei caff� veniva messo in ridicolo indicandolo come il bamboccio di Radetzky . Per quasi un mese Vittorio Emanuele assistette in silenzio alla penosa gazzarra demagogica. Intanto per cautelarsi inizi� a utilizzare le relazioni austriache della consorte, Maria Adelaide. Che furono utili per sospendere l'occupazione di Alessandria, ma anche  per umanizzare gli incontri con gli asburgici severi funzionari di Vienna.
Il Re riusc� quindi ad essere energico e nello stesso tempo conciliante con i conservatori filo-austriaci ma anche  con i demagoghi interventisti, mazziniani, garibaldini ecc . Rimase per� quasi solo, gli uni e gli altri facevano chiacchiere, stampavano articoli, ma  non si esponevano troppo nel proporre qualcosa di concreto. Ma ormai Vittorio Emanuele aveva tracciato la sua politica che non modificher� pi�. Poi trov� subito  in Massimo D'Azeglio un prezioso e valido alleato, era  il solo uomo politico che era passato attraverso la crisi senza esserne intaccato come reputazione. Il re era soddisfatto di avere al suo fianco quel gentiluomo letterato ed artista, cattolico e volteriano, circondato da una splendida popolarit� ma conservatosi semplice. 
Si piacquero  e si trovarono perfettamente d'accordo che linea seguire. Impossibile era fare la guerra che volevano i demagoghi, ma era anche inaccettabile la pace disonorata che voleva l'Austria.
Su un'altra cosa si trovarono d'accordo: "soltanto nello Statuto, niente fuori dello Statuto"; quello era di suo padre, ed era sacro; anche se di Costituzioni di altri paesi non sapeva nulla, e sui diritti e doveri di un Re costituzionale non aveva idee chiare.
Nell' educazione giovanile aveva appreso la rigida coscienza dei doveri della dinastia, in quella  militare i doveri di soldato. Sapeva e distingueva solo una cosa: che la monarchia  voleva dire ordine, e che la repubblica era anarchia, disordine, rivolte, rivoluzioni da domare.

Vittorio Emanuele  e il suo ministro erano nell'ignoranza assoluta di quello che fosse un ingranaggio parlamentare: e come fare a dominarlo se non lo si conosceva?
Probabilmente appena incoronato, quando gli ripeterono la frase che "il re regna ma non governa" non � che la cap� molto. Si chiese forse "e allora io cosa ci sto a fare qui?"
Letture politiche Vittorio Emanuele -lui sempre in caserma- non le aveva mai fatte. Il desiderio di informarsi attraverso i libri non risulta che il Re lo avesse. E anche dopo il 23 marzo pochi libri lesse, e lasci� questa avversione anche al figlio, il suo successore, Umberto; lui addirittura  si vantava di non aver mai letto un libro nella sua vita. Era per volont� divina se regnavano, quindi non era necessaria la cultura.

Vittorio, dunque si lasci� guidare solo dal buonsenso e dall'istinto, del resto aveva gusti e sentimenti popolareschi. Ma essendo un realista, voleva  fare, voleva governare, se necessario anche duramente (su Genova non indugi�), e possibilmente togliendosi di torno le canaglie e i demagoghi. In caserma non si agisce con la demagogia; si giura una volta sola e si va fino in fondo. Questo pensava.

Sullo Statuto di suo padre non ebbe tentennamenti, giur� di rimanere fedele a questa Costituzione (lo Statuto Albertino - con varie tracce - francesi- belghe-inglesi). Vittorio Emanuele non  fu molto difficile a mantenere questo impegno. Era stata concessa da un monarca che era stato sempre autocratico; infatti questa costituzione non era affatto democratica perch� chi la estese non incluse il popolo ma solo il 2,5 per cento della popolazione; quindi non redatta da un'assemblea eletta dal popolo n� venne sottomessa all'approvazione dei suoi rappresentanti; anche se fu data "per grazia di Dio e volont� della nazione".
Unica cosa positiva: non venne stabilita nessuna speciale procedura per emendare lo Statuto; avrebbe potuto essere emendato successivamente da normali leggi, approvate dalle due camere (!?). Fu proprio per questo, che quando se ne present� l'occasione, fu possibile sottoporlo a ripetuti ampliamenti in modo da estenderlo progressivamente a tutta Italia; per introdurre altri sistemi elettorali,  per liberalizzare o costringere all'immobilit� lo stato in tanti altri modi: quindi in bene ma anche in peggio; perch� alcune parti si potevano utilizzare ma molte altre ignorare.
 
Mussolini dal '22 in poi fece la seconda scelta. Anche se resta il legittimo dubbio che Mussolini potesse veramente fare qualche cambiamento. Documenti alla mano, Denis Mack Smith (il grande storico) (
in "I Savoia") dimostra che i Re d'Italia ebbero significativi poteri costituzionali e li esercitarono costantemente, malgrado la riluttanza ad assumere in prima persona la responsabilit� delle loro azioni. Furono sempre compartecipi - in modo attivo o passivo- delle decisioni prese dai loro Governi e spesso -anzi- scavalcarono ministri e Parlamento per imporre arbitrarie decisioni. E di alcune scelte fondamentali della nostra storia d'Italia, come l'ingresso nelle due guerre mondiali o l'inizio e la fine del fascismo, emergono pesanti responsabilit� personali di Vittorio Emanuele III.

Torniamo ai demagoghi, e alla  inaccettabile  pace disonorata.  Insieme re e governo, riuscirono a mitigare gli animi dei primi e anche le condizioni della seconda. Dall' Austria riuscirono perfino a far togliere la famigerata tassa sui vini, che per due anni aveva penalizzato  la pi� importante risorsa economica del Piemonte. Il 6 agosto i piemontesi firmarono il trattato di pacificazione con l'Austria, sei giorni dopo ci furono le amnistie, infine il 20 settembre si scambiarono i due paesi le ratifiche. La pace era dunque ristabilita.

Con una dose di lealt� nei confronti degli italiani? Citiamo il Rapporto del nunzio pontificio del 13 aprile 1849, P.Pirri, Pio XI e Vittorio Emanuele II dal loro carteggio privato, 2 voll., Roma 1944.61, vol. 1, p.24) "Il re ratific� il trattato con l'Austria giungendo persino a proporre che le sue truppe aiutassero gli austriaci e i francesi a combattere contro Garibaldi a Roma".

E pochi giorni dopo alla repressione promessa a Radetzky, Vittorio Emanuele  tenne fede: a Genova  scoppiata una rivolta repubblicana antimonarchica (si era perfino impossessata della citt�) il re non indugi� a far marciare sulla citt� il generale La Marmora, ad assediarla, costringerla alla resa, a ristabilire l'ordine con la forza, arrestare e condannare a morte elementi legati alle societ� segrete mazziniane. (dieci condanne a morte il 24 luglio).

Poi non dobbiamo dimenticare che D'Azeglio inizia la collaborazione con il re ma � appoggiato da un non comune personaggio che s'incunea prepotentemente nella politica piemontese con uno smaccato appoggio alla monarchia sabauda. Piomba il "tornado" CAVOUR, un conservatore liberaleggiante in politica, ma doppiamente potente: per le tante propriet� messe insieme  in un certo modo, e con suo padre capo della implacabile  polizia Sabauda. Cavour era stato giornalista, si occupava della sua grande azienda agricola, aveva interessi nel campo bancario, nelle costruzioni ferroviarie, nelle nuove tecniche agricole come i nuovissimi fertilizzanti chimici; e di altre mille cose  trattate spesso con molta impudenza. Attivit� che il nobile rampollo aveva portato avanti da alcuni anni in un modo piuttosto spregiudicato; metodi che gli avevano attirato molte antipatie (e disprezzo) di colleghi dello stesso suo lignaggio, antipatie che si erano poi accavallate a quelle di altre categorie non  nobili che consideravano il suo modo di agire tipico del cinico, dello speculatore, dell'arrivista; spietato e privo di scrupoli (Cavour in certe occasioni  non esit� a scavare nella vita privata dei suoi avversari e anche del re stesso).

Se poi consideriamo che Cavour, con i suoi viaggi un Inghilterra, aveva  visto all'opera -e ammirava- i "connubi"  dei conservatori e dei progressisti  (entrambi flessibili a secondo le pragmatiche circostanze) il D'Azeglio nei suoi confronti  appariva un dilettante della politica; e altrettanta incompetenza lo scrittore aveva in economia, che era poi il pi� grosso problema da risolvere nel regno sabaudo. Inoltre di tattica e abilit� parlamentare D'Azeglio non aveva nessuna malizia. Era un puro, un artista, un placido uomo solitario; cio� un carattere (sebbene appartenessero entrambi alla vecchia aristocrazia) contrapposto a quello di Cavour, che invece era frenetico, autoritario, realistico, guardingo, infine machiavellico. 
Negli affari e poi nella politica si aveva paura a seguire la sua audacia, e non si aveva la forza di ostacolarlo.
Anche perch� era spavaldo e ottimista nei  problemi finanziari (che non risolse mai, i suoi si).


Cavour non riusc� subito ad entrare nel nuovo governo, ma quando  ci entr� l'anno dopo, sal� in cattedra. I  metodi che cominci� ad usare furono drastici e originali. D'Azeglio si sent�  trascurato, incompreso, messo da parte; era ormai lontano dalle nuove sfrontate correnti dominanti. Ne fu rattristato, indignato, e pur cos� paziente D'Azeglio disse "Non ne posso pi�!" Lasci� la politica quando Cavour inizi� gli spregiudicati  "connubi".  Era entrato come ministro dell'Agricoltura e del Commercio, ma tutta la politica del governo in brevissimo tempo si era imperniata nella sua azione.
Si disse che Cavour non era un despota ma solo un benevole dittatore; ma una cosa � certa: tutta la politica dei prossimi anni �  interamente  una spregiudicata costruzione di Cavour. Divenne un emulo di Metternick. 
I suoi metodi? : "I vari gabinetti, si formano e cadono a secondo degli accordi e degli intrighi di palazzo, praticamente senza alcun rapporto con ci� che succede in Parlamento" (Bayle St. John, The Subalpine Kingdom, London 1856, vol II, pag 57-58).

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Spesso si serv� di funzionari governativi per garantirsi che i candidati d'opposizione non fossero eletti in Parlamento. Riconosceva in questa pratica una componente necessaria del suo sistema; e non si arrest� neppure di fronte a provvedimenti illegali quando volle sopprimere dei giornali dell'opposizione" (C. Cavour, Lettere edite e inedite, a cura di L. Chiala, 7 vol., Torino 1883-87, vol, VI, pag. 130) 

L'unit� d'Italia Cavour era  l'ultimo italiano a volerla. Questa idea restava ai suoi occhi un assurdo. In una lettera privata - accennando alle idee del capopopolo veneto-  scrisse sarcasticamente che Daniele Manin parlava  di "unit� d'Italia ed altre... corbellerie del genere".  E nei riguardo di Mazzini, quando  il "mistico agitatore" fu nuovamente condannato a morte, Cavour invit� in Piemonte la polizia francese perch� contribuissero a catturarlo. ( Ibid, vol. II, pag. 372).

"All' armistizio di Villafranca, nel 1859, Cavour da Torino -a cose fatte- giunse trafelato a notte alta  al Q.G. di  Momzambano. Nel tempestoso colloquio notturno,  per le condizioni del trattato accettate da Vittorio Emanuele,  perse ogni ritegno e rispetto nei riguardi di Napoleone III, ma anche di fronte al suo stesso sovrano. Cavour era fuori di se' dal furore, e fu tale da chiedere le proprie dimissioni, che il Re imperturbabile accett�.  Nella sua indignazione egli arriva a dire al re che anche lui dovrebbe dimettersi, abdicare. Allorch� Vittorio Emanuele rispose che, in fin dei conti il Re era lui e che quello era affar suo, Cavour, perde le staffe, e lasciandosi del tutto andare, diventa perfino insolente "il Re?  Gli italiani non guardano il Re, ma a me, il vero Re sono io". Vittorio Emanuele, pur offeso, mantenendo una calma glaciale si rivolse a Nigra "Si � fatto molto tardi, portatelo a dormire!"
Il giorno dopo, presente Kossuth e Petri (uomini di fiducia di Napoleone III) Cavour prosegue con loro la propria furia e l' indignazione: "Il vostro imperatore mi ha disonorato. Mi aveva dato la sua parola che avremmo cacciato tutti gli  austriaci dall'Italia. E adesso si prende il premio (Nizza e la Savoia) e ci pianta in asso a mezza strada. E' terribile, terribile...Alla pace non si verr�!...Io mi far� cospiratore. Rivoluzionario. Questo trattato di pace non si dovr� attuare. No! Mille volte no! Mai!, mai"  (Memoriale di Luigi Kossuth, Meine Schriften aus der Emigration. Presburgo, 1880, vol. 1, pagg.518-519).

Cavour cospiratore? Rivoluzionario? Lo avrebbe fatto. In Parlamento si alle� con la sinistra, con la destra, con i democratici, con i ribelli, con tutti. Us� Garibaldi, il Re, i nemici come amici, gli amici li trasform� in nemici di amici, accese tante micce per scatenare una guerra, minacci� un po' tutti, e s'invent� le "annessioni" che volevano dire "sottomissioni",  il tutto per dare una soluzione monarchica all'unit� italiana, o forse se fosse vissuto,  (la impudente frase di sopra era gi� chiara)  farne un Regno personale (Lo Statuto cos� com'era lo permetteva - vedi poi Mussolini) e non una nazione. La Chiesa gli fu ostile, ma lui cammin� diritto, imperturbabile; si disse coerente con la tradizione liberale (tutta sua per�, dicono i nemici. Gli inglesi non erano per nulla d'accordo. Ne erano perfino inorriditi)
 Mor� a soli 50 anni, alcuni storici dicono di sifilide. Regn� per 13 anni, sconvolgendo l'Italia. Se "Regnava" per altri 20, avrebbe sconvolto l'Europa. Lui lo aveva del resto promesso!
"Francesco Giuseppe nei colloqui  di Villafranca con Vittorio Emanuele - evita  di nominarlo  e ha pure incaricato il Principe D'Assia di comunicare al Savoia di evitare nei colloqui di pronunciare il nome di Cavour". Nutre il disprezzo che nutriva per Metternick.
(Memorie del principe  Alessandro D'Assia -  17 vol, Diari, Doc. Castello di Walchen).

 La sua filosofia: "Non dovevano ripetersi "quarantottate" che avrebbero allarmato i conservatori; ci� che occorreva era una guerra regolare, non una rivoluzione popolare. Cavour guardava lontano, mirando a coinvolgere se necessario, persino la Russia e gli Stati Uniti in un conflitto mondiale; "l'Italia avrebbe un giorno conquistato il mondo" e  affermava: "noi metteremo a ferro e fuoco l'Europa". - "Gli inglesi erano addirittura inorriditi dal fatto che Cavour, senza essere attaccato da nessuna potenza straniera, e senza che fosse in gioco alcun punto d'onore" cercasse in modo cos� deliberato di provocare un grande conflitto europeo, un conflitto da cui tutti gli altri sarebbero stati verosimilmente danneggiati" (C. Cavour,  Lettere edite e inedite, a cura di L.Chiala, Torino 1883-87, vol, VI, pag. 307 -  G. Massari, Diario delle cento voci, Bologna 1959, pag. 116, 140, 142, 147,148, 206. - D. Mack Smith, Univ. Cambridge, Storia del Mondo Moderno, Garzanti, 1970-82,  X vol, pag.734 ) .

(Avrebbe anticipato di mezzo secolo  quello che accadde nel 1914-18).

Infatti si scrisse dopo il 1918: ".... da un altro punto di vista tutti i belligeranti europei nell'incapacit� di mettersi d'accordo, uscirono dal conflitto tutti sconfitti in quanto la guerra segn� - se non la caus� direttamente - uno spostamento della potenza internazionale dall'Europa all'America da un lato, alla Russia sovietica dall'altro"

Lo vedremo negli anni che seguono la sua politica. Da alcuni erroneamente definita "prussiana". Ma
FEDERICO  II  IL GRANDE costru� con il rigore e la disciplina una Prussia non solo potente nell'esercito e nell'economia, ma fece nascere la grande nazione tedesca;  non annettendosi i piccoli staterelli, ma semmai erano le stesse popolazioni a chiedere di diventare prussiani; e questo senza truffaldini plebisciti. Durante tutta l'esistenza di Federico, la Prussia  divenne l'Eldorado dell'Europa. Vi accorrevano tutti, contadini, artigiani, gesuiti, ebrei, affaristi, industriali, tecnici di ogni genere.  E soprattutto insegnanti quando, primo in Europa, Federico apr�' le scuole di stato in ogni paese e citt�, rese obbligatoria la frequenza scolastica a tutti, a ricchi e poveri, amici o nemici, luterani o protestanti, ebrei o cattolici. Quando prese in mano il piccolo regno contava due milioni di abitanti, alla unificazione del prossimo '66 ne contava 50 milioni. 
E in quanto a impiego dell'esercito, non lo us� certamente  all'interno del paese che voleva unire, ligio al suo motto che ripeteva agli insolenti nobili "non trattate i vostri  sudditi come animali,  che cosa vi potete aspettare in caso di bisogno, ubbidiranno e agiranno come animali, cio� male".

Con l'appoggio di Cavour   Vittorio Emanuele (cos� opportunistico) l'"annessione" la ottenne, ma non certo riservando un buon trattamento ai "sottoposti". Come nel Sud considerati tutti "briganti" o nel Veneto del tutto dimenticato, quasi temendo di farlo diventare un pericoloso concorrente del Piemonte; economico (sotto gli austriaci c'era stata un forte accelerazione) e politico (il glorioso passato  della orgogliosa indipendentista Serenissima covava) (e cova ancora oggi!))

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