HOME PAGE
CRONOLOGIA

DA 20 MILIARDI
ALL' 1  A.C.
1 D.C. AL 2000
ANNO x  ANNO
PERIODI STORICI 
E TEMATICI
PERSONAGGI 
E PAESI

 

PIO IX

LA REPUBBLICA ROMANA:
UN'UTOPIA DEL 1849
CHE FARA' L'ITALIA UNITA

Alla met� del secolo la ribellione al Papato, che con la sua politica assolutista aveva creato miseria e rabbia, le idee di Mazzini accesero la grande speranza della libert�, spenta pochi mesi dopo dai fucili francesi che rimisero sul trono Pio IX. Ma quella "fiammata" di democrazia rappresent� il detonatore di un processo storico irreversibile

(di PAOLO DEOTTO)

Le cronache non ci dicono quali sentimenti manifestasse il Cardinale Giovanni Mastai Ferretti quando divenne Papa, assumendo il nome di Pio IX. Probabilmente si limitò, come prescritto dalla rigida procedura, ad accettare la nomina con la semplice pronuncia della parola latina "volo" (voglio). Ma di certo, in cuor suo, il novello Pontefice, nonché Sovrano degli Stati della Chiesa, non poteva essere molto felice.

Solo un uomo afflitto da patologica sete del potere, e non era certo il caso del Cardinale Mastai Ferretti, poteva gioire nel raccogliere la pesante eredità lasciata da Sua Santità Gregorio XVI, morto il primo giugno del 1846. Lo Stato Pontificio era, nella variegata situazione politica della penisola, quello che maggiormente pativa di arretratezze sociali, conservazione di privilegi, miseria diffusa nelle classi più deboli.

C'erano insomma tutti gli ingredienti per costituire una miscela tonante, tanto più instabile in un'Italia e un'Europa in cui il Congresso di Vienna aveva cercato di rimediare alle conseguenze del ciclone napoleonico nel modo peggiore, espresso da un efficace termine: restaurazione.

Pio IX era cosciente di questa situazione e infatti la sua politica ebbe subito una marcata impronta riformista. Ed iniziando a far nascere speranze, ma non potendo certo risolvere da solo ed immediatamente problemi che avevano radici secolari, mise involontariamente in moto il meccanismo che avrebbe portato alla creazione di una realtà che fu effimera, ma estremamente interessante: la Repubblica Romana.

La tradizione voleva che il nuovo Papa, tra i suoi primissimi atti, elargisse anche un'amnistia. Pio IX non si limitò a questo atto di clemenza: con disposizione del 24 agosto 1846 venivano creati a Roma un Consiglio dei Deputati e un Alto Consiglio, quasi un Parlamento. Si dava inoltre inizio alla costruzione di ferrovie, si sanzionava un accordo di libero scambio col Regno di Sardegna, si completava la costituzione della Guardia Civica. Ma soprattutto la concessione dello Statuto fu quella che fece parlare del Papa liberale, insieme ai primi provvedimenti che limitavano i privilegi dell'alto clero e della nobiltà, tra cui l'utilizzo di beni ecclesiastici a garanzia dell'emissione di Buoni del Tesoro e all'allentamento della censura sulla stampa.

Inoltre col pontificato di Pio IX si dava inizio ad una serie di lavori pubblici che avevano anche lo scopo di diminuire la disoccupazione, che costituiva una delle prime ragioni di una criminalità diffusissima. Era molto, moltissimo a ben guardare. Ma non era sufficiente; soprattutto, nulla poteva essere sufficiente a fermare una crisi che maturava da anni. Perché affermiamo questo? Per due ordini di ragioni. Anzitutto perché, come dicevamo sopra, proprio l'inizio di una politica più lungimirante faceva nascere le speranze, soprattutto nelle classi più deboli, di un'immediata soluzione di problemi che erano secolari; e quindi facilmente le stesse classi deboli furono poi le prime a sentirsi tradite.

In secondo luogo perché gli stessi provvedimenti economici, pur presi con buone finalità, spesso si trasformarono in un boomerang. Valga l'esempio dei lavori pubblici: concepiti per lottare contro la disoccupazione, il loro onere ricadeva però sui Comuni, che fino ad un certo punto poterono indebitarsi, ma poi dovettero far ricorso alla leva fiscale per ripianare i conti; né il Papa, per quanto riformista, aveva potuto o voluto riformare completamente un sistema fiscale inquinato da mille privilegi ed immunità, che vedeva ad esempio l'esenzione da tributi per l'alto clero e il patriziato, che erano però i detentori della quasi totalità delle grandi proprietà terriere. Lo stesso discorso può valere per diversi provvedimenti di calmieramento dei prezzi, e in genere per una politica economica e finanziaria che, non riuscendo ad agire sulle radici malate del sistema, adottava misure slegate tra loro e spesso dettate solo dalla necessità di porre rimedio temporaneo a problemi che erano invece ciclici, quali la mancanza del grano.


Infine, ci sembra che si debba fare una considerazione che già si faceva studiando eventi di quel periodo esplosivo che fu il quarantotto: si è spesso parlato, nell'oleografia risorgimentale, di tiranni, di sovrani dispotici, di aneliti alla libertà schiacciati dall'oscurantismo, ora borbonico, ora austriaco, ora papalino.

Troppo facilmente si dimentica però che mai, nella Storia, il potere agisce contro sé stesso. Il Potere, anche il più illuminato, ha comunque un'imprescindibile necessità, che è la propria conservazione; ed è sulla base di questa necessità fisiologica che si operano le scelte politiche, che potranno poi essere buone o cattive, ma non potranno mai essere completamente autolesioniste.

In questa situazione prendevano sempre più forza le correnti politiche dei democratici e dei radicali, che si contrapponevano ai liberali. Questi propugnavano una graduale innovazione delle strutture dello Stato, senza però mettere in discussione l'autorità costituita. Quelli invece, che trovavano nel messaggio della Giovine Italia di Mazzini la loro base ideologica, lottavano per un capovolgimento radicale della realtà politica, che vedesse finalmente la sovranità esercitata da masse popolari elevate moralmente e socialmente; e lo sbocco naturale di una concezione politica di questo tipo non poteva essere che repubblicano.

Dicevamo dunque che una politica riformatrice, ma impossibilitata a risolvere tutto per tutti, fece nascere troppe speranze e quindi fece poi gridare molti al tradimento, unendo nello scontento i contadini, ancora relegati in un ruolo feudale, alle nuove classi emergenti della piccola borghesia di artigiani, commercianti, professionisti.

Se i primi aspiravano semplicemente a condizioni di vita più umane e a non dover lottare quotidianamente contro la fame, gli altri cercavano un loro spazio, non ancora pienamente garantito dai primi organismi rappresentativi che pur Pio IX aveva voluto. La nomina a Segretario di Stato prima del Cardinale Gizzi e poi del Ferretti, entrambi amici delle riforme, non bastò a placare gli animi. Il 15 novembre del 1848 Pellegrino Rossi, Ministro dell'Interno, veniva assassinato; il giorno successivo a Roma scoppiava una disordinata rivolta.

Le richieste dei manifestanti erano la chiara espressione delle molte anime del malcontento: si andava dalle semplici richieste di ulteriori riforme sociali e di abolizione di privilegi, alle aspirazioni ad una partecipazione alla guerra contro l'Austria, alla costituzione di un ministero democratico, alla formazione di una Costituente Italiana. Il Papa, chiuso nel palazzo del Quirinale, rifiuta di piegarsi alla violenza; gli Svizzeri, sempre più pressati da una folla che ha perso il controllo di sé stessa, fanno fuoco, ma i rivoltosi, dopo un primo sbandamento, si riorganizzano; tra loro ci sono anche numerosi soldati e guardie civiche e la parola passa definitivamente alle armi, con ripetuti tentativi di assalto al Palazzo, finché Pio IX, per evitare ulteriori spargimenti di sangue, ordina al Cardinale Sogliano di mettersi d'accordo con Giuseppe Galletti, una delle figure liberali più care al popolo, per la costituzione di un nuovo governo.

L'annuncio che il Papa ha ceduto placa gli animi; ma Pio IX si sente ferito nella sua dignità e autorità e decide di abbandonare Roma, come estrema forma di protesta; il 25 novembre si trasferisce a Gaeta, nel regno di Napoli. lasciando a Galletti, Ministro dell'Interno, l'impegno a garantire l'ordine e la quiete.

Il nuovo Governo, nato dal tumulto del 16 novembre del 48, presieduto da monsignor Carlo Emanuele Muzzarelli, una figura allora non rara di prete liberaleggiante, e comprendente diverse personalità di convinzioni riformiste, si scontrò subito con la difficile situazione delle finanze dello Stato, dovendo provvedere all'emissione di Buoni del Tesoro per reperire non solo la liquidità necessaria alla gestione ordinaria, ma anche i mezzi di pagamento degli interessi delle emissioni precedenti. La lotta contro la disoccupazione, alcune riforme del commercio (la limitazione della possibilità dell'arresto per debiti, l'ammissione - finalmente - del prestito ad interessi, che veniva praticato sottobanco, essendo ancora considerato usura dalla Chiesa, col risultato di dare spazio ai veri usurai) e altre misure sulle proprietà dei terreni e sull'elettorato attivo e passivo nei Municipi palesavano comunque il carattere "borghese" del nuovo Governo, che poteva rappresentare un primo momento di transizione verso rinnovamenti più profondi, ma non dava soddisfazione ai movimenti radicali, che ora, partito il Papa, si sentivano più liberi di agire.

Si venne così a creare, attorno al Governo Muzzarelli, una situazione curiosa: considerato rivoluzionario dalle personalità del cosiddetto partito clericale (clero e patrizi), che via via abbandonavano Roma per raggiungere il Papa a Gaeta, era però considerato ancora troppo moderato dai radicali. Consideriamo che gli eventi che stiamo studiando avvenivano in quel tumulto generalizzato che fu il 1848. Le rivolte a Parigi, Vienna, Berlino, sintomi gravi e preoccupanti di un malessere che comunque covava nel Vecchio Continente, che stava ancora cercando i suoi equilibri, illusoriamente ristabiliti dal Congresso di Vienna, erano state seguite dagli eventi milanesi delle Cinque Giornate.

La sconfitta di Carlo Alberto nel conflitto contro l'Austria aveva dimostrato che quest'ultima, favorita dall'inettitudine dell'avversario, aveva comunque grossi problemi (il grande impero asburgico non era compatto come un tempo e la forza d'urto dell'esercito era diventata meno impetuosa), vista la relativa facilità con cui i rivoltosi milanesi avevano avuto, inizialmente, ragione delle truppe imperiali.

Ce n'era dunque più che a sufficienza per sconvolgere tutti, per far perdere un po' a tutti il senso della realtà: ai radicali, che spinti da legittimi desideri di redenzione popolare, pensavano che il mondo si fosse all'improvviso capovolto, e che tutto fosse fattibile subito; ai liberali, che, più concreti sul piano della politica quotidiana, non sapevano però come contenere l'onda del malcontento che comunque cresceva; ai regnanti, che vedendo minacciata alla base la loro stessa esistenza, reagivano in conseguenza, con misure che, se dettate da una pur comprensibile emotività, si traducevano in boomerang.

Si stava vivendo insomma uno di quei momenti storici in cui si verifica la peggiore delle contingenze: tutte le parti in conflitto hanno, a ben guardare, ragione e manca chi, super partes, sappia discernere invece una ragione oggettiva. I comportamenti di tutti divengono così eccessivi e pericolosi. E così anche Pio IX, il Papa che inizialmente aveva suscitato tante speranze di rinnovamento, reagì in modo intempestivo, dando fiato ai suoi avversari: da Gaeta dichiarò di nessun valore e di nessuna legalità tutti gli atti del nuovo Governo, che pur lui stesso aveva ordinato di costituire, e nominò una Commissione Governativa, presieduta dal cardinale Castracane, una sorta di governo in esilio.

Vano fu il tentativo di due deputati romani e di tre componenti della municipalità di convincere Pio IX a rientrare a Roma: non fu concesso loro neppure di varcare il confine napoletano. Questo atteggiamento del Papa, che non riusciva a liberarsi dallo choc dell'assalto al Quirinale, fu di enorme e involontario aiuto all'attività dei Circoli Popolari e di quanti, principalmente i mazziniani, reclamavano la convocazione di una Assemblea Costituente, giustificata dal fatto che l'autorità dello Stato, il Papa, si era volontariamente ritirata e che quindi i tentativi del Governo di porsi in continuità col vecchio regime non avevano più ragione di essere.

Il 12 dicembre le Assemblee nominarono una Giunta di Stato che avrebbe dovuto rappresentare il sostitutivo provvisorio del potere sovrano; ma si scivolava irresistibilmente verso la Costituente e anche un ampio rimpasto di Governo, il 23 dicembre, non fu che un tampone ad una situazione che sfuggiva di mano ai liberali, che non potevano essere al tempo stesso governanti in nome del Papa e gestori di una situazione politica in cui ormai si negava la legittimità stessa del potere papalino. Il 26 dicembre il Governo fece approvare dai deputati la convocazione in Roma della Costituente degli Stati Romani; due giorni dopo il Parlamento era sciolto e le nuove elezioni, le prime a suffragio diretto e universale, erano indette per il 21 gennaio 1849.

Il Papa, da Gaeta, emanando un divieto a tutti i buoni cristiani di partecipare alle elezioni, definite atto sacrilego, diede il colpo definitivo al partito dei moderati, che forse avrebbe potuto, disponendo di un discreto seguito, indirizzare i lavori della Costituente in senso non rivoluzionario. Infatti chi disertò le urne? Proprio coloro che, ancora sensibili all'autorità pontificia o memori delle aperture che Pio IX aveva dimostrato all'inizio del suo regno, sentivano in coscienza di dover rispettare il divieto; ma in tal modo la Costituente (alla cui elezione aveva partecipato comunque un rilevante numero di elettori, superiore in ogni parte degli Stati al cinquanta per cento, con punte del settanta) divenne di fatto un'assemblea rivoluzionaria.

E sono i fatti a dimostrarlo: il 5 febbraio (siamo ormai nel 1849) si inaugurava in Roma, con un discorso di Armellini, la Costituente, che dopo soli quattro giorni di lavori, con 120 voti favorevoli, 10 contrari e 12 astenuti, proclamava: "Il Papato è decaduto di fatto e di diritto dal governo temporale dello Stato Romano. Il Pontefice avrà tutte le guarentigie necessarie per l'indipendenza nell'esercizio della sua potestà spirituale. La forma del governo dello Stato Romano sarà la democrazia pura, e prenderà il glorioso nome di Repubblica Romana. La Repubblica Romana avrà col resto d'Italia le relazioni che esige la nazionalità comune".

Era il 9 febbraio 1949. Si iniziava un'avventura che sarebbe durata poco, esattamente sino al 4 luglio di quello stesso anno. In meno di cinque mesi la Repubblica Romana volle fare la strada per la quale sarebbero serviti anni, né seppe essere esente dalle suggestioni del massimalismo; non è esatto dire che da sola decretò la sua fine, ma di certo l'esaltazione del nuovo fece perdere i contatti con la realtà ed accelerò una fine che era comunque inevitabile. E vedremo ora di spiegare queste nostre affermazioni.

Proclamata la Repubblica, bisognava darle un governo e l'Assemblea scelse per la forma del Triumvirato, affidando il potere esecutivo ad Armellini, Montecchi e Saliceti, avvocati i primi due, professore di diritto e mazziniano convinto il terzo. Il Triumvirato era affiancato da un Ministero, a capo del quale fu nominato ancora monsignor Muzzarelli, e che ebbe agli interni Aurelio Saffi, il forlivese già protagonista del moti del '31.

Ora che la struttura legislativa ed esecutiva era completata, la nuova Repubblica iniziava effettivamente la sua vita, scontrandosi col più incancrenito problema ereditato dallo Stato Pontificio: la situazione disastrosa delle finanze pubbliche, che portava con sé anche la sfiducia verso i Buoni del Tesoro e verso le banconote, e i mille problemi pratici di fronte ai quali si trovavano soprattutto operai e manovali che, pagati abitualmente con danaro cartaceo, spesso non riuscivano a spenderlo per le necessità quotidiane, perché se lo vedevano respinto dai commercianti che pretendevano la moneta sonante. Né d'altra parte i nuovi organi di governo repubblicano avevano la bacchetta magica; la proposta di dichiarare tout court decaduto il debito pubblico dello stato non aveva avuto seguito, anche per le conseguenze disastrose che una simile misura avrebbe avuto nei confronti del già esiguo credito che la Repubblica Romana poteva ottenere dall'estero.

Così il 21 febbraio l'Assemblea votò un provvedimento che suscitò enorme scalpore: l'incameramento dei beni ecclesiastici. Si trattava di somme ingenti, tra beni immobili, mobili, depositi in danaro, arredi sacri preziosi, il cui valore complessivo si calcolava attorno ai 120 milioni di scudi. Ma non era ancora una cifra sufficiente e si dovettero attuare altre misure, prima delle quali un prestito forzoso che obbligava tutti coloro che disponevano di una rendita superiore ai 2000 scudi annui a cederne una percentuale (variante da un quinto fino a due terzi per le rendite più ingenti) allo Stato, seppur sotto forma di prestito. Inoltre si istituiva il corso forzoso per la moneta cartacea, prevedendo pene severe per chi rifiutava in pagamento Buoni del Tesoro o banconote della Banca Romana.

Questa serie di misure, di carattere chiaramente eccezionale, erano rese necessarie non solo dalla situazione finanziaria generale, ma anche dall'addensarsi di minacce attorno alla neonata Repubblica: il Papa da Gaeta invocava l'aiuto delle potenze cattoliche per ristabilire l'autorità legittima su Roma e, se il vagheggiamento dell'Assemblea di partecipare alla lotta per la liberazione d'Italia si scontrava col disastro militare subìto da Carlo Alberto a Novara, pur tuttavia la Repubblica doveva prevedere un aumento delle spese militari per tutelare sé stessa contro un attacco dall'esterno che si faceva di giorno in giorno più probabile. Ma anche all'interno le cose non funzionavano benissimo. Le misure economiche e finanziarie che abbiamo illustrato sopra erano inevitabili, ma diedero anche fiato a quanti accentuavano ad arte un anticlericalismo che, seppur presente in molti dei nuovi governanti, tuttavia non si era tradotto in misure contro la libertà di culto.

Il prestito forzoso ovviamente non piaceva, e fu attuato solo parzialmente, tra mille difficoltà. Insomma, la Repubblica si trovava a fare i conti con una realtà che la superava, iniziando a dover prendere misure che avrebbero in parte alienato proprio quel consenso popolare che era alla base della sua stessa ragion d'essere. L'incameramento dei beni ecclesiastici era senza dubbio un provvedimento violento, ma inevitabile, come il prestito, come il corso forzoso.

Ma dicevamo all'inizio di questo nostro studio che spesso nella Storia la situazione peggiore è quella in cui tutte le parti in contesa hanno ragione; e questa situazione ci sembra che confermi la nostra affermazione. Gli uomini della Repubblica Romana si trovarono a gestire una situazione che era, semplicemente, ingestibile. Forse, ma la Storia non si fa con i forse e i se, la strada da seguire sarebbe stata quella iniziale di un governo liberale moderato, ma lo stesso atteggiamento del Papa, autoconsegnatosi a Gaeta, contribuì, come abbiamo visto, a dare fiato ai massimalisti.

Il cambiamento al vertice della Repubblica, con Montecchi e Saliceti che lasciarono il Triumvirato, sostituiti da Saffi e Mazzini, non portò a benefici concreti. Piuttosto l'arrivo di Mazzini, che tanta parte aveva avuto, indirettamente, nella strada che portò alla proclamazione della Repubblica, diede definitivamente ad essa un carattere utopistico, che forse fu l'aspetto più positivo di questa esperienza politica.

Infatti, mentre la Repubblica Romana languiva al suo interno travagliata da problemi economici insuperabili e mentre attorno ad essa si ammassavano le truppe francesi e napoletane, il Triumvirato poneva mano a provvedimenti che potevano apparire quanto meno non tempestivi, di fronte a ben più gravi urgenze.

Prenderemo come esempio per tutti la decisione adottata il 15 aprile di sequestrare beni immobili ecclesiastici per farne abitazioni per le classi più umili, da sempre avvezze a vivere in veri e propri tuguri malsani. Si potrebbe obiettare che quando la situazione è di patria in pericolo un governo deve anzitutto occuparsi di difendere la patria, e quindi dedicarsi ai problemi militari. Ma noi crediamo che la questione vada posta in termini diversi. Giuseppe Mazzini può apparire senza dubbio una figura poco amabile, perennemente chiuso nel suo aspetto di corrucciato asceta. Ma nessuno gli può disconoscere una viva intelligenza, una notevole acutezza d'analisi nella comprensione della realtà.

E' pensabile che Mazzini sperasse realmente in una Repubblica Romana che si sarebbe affermata, che avrebbe saputo difendersi dai suoi nemici esterni? E' pensabile che egli credesse davvero che i tempi erano già maturi, soprattutto dopo il fallimento di tutte le altre piccole rivoluzioni italiane, per una vera esperienza di partecipazione popolare e di democrazia? Non lo crediamo; piuttosto ci sembra più in linea col personaggio (il quale, seppur giunto al vertice solo negli ultimi tre mesi di vita della Repubblica, ne divenne il simbolo), un atteggiamento che, pur nella coscienza che il disastro era alle porte, voleva salvare il valore morale dell'esperienza. Non scordiamoci che la Repubblica Romana fu il primo stato europeo (seppur non riconosciuto da nessuno) a proclamare che la credenza religiosa era libera, né poteva essere una discriminante per l'esercizio dei diritti civili e politici.

Tutti gli altri Stati riconoscevano la religione cattolica come culto dello Stato, e lo stesso Statuto concesso da Pio IX stabiliva comunque che le pubbliche carriere, come l'elettorato passivo, erano consentite solo ai cittadini di fede cattolica. Così, tornando al discorso di prima, la logica avrebbe voluto che si provvedesse anzitutto a misure militari; dopo ci sarebbe stato il tempo per occuparsi anche delle case dei poveri.

Ma abbiamo visto che c'erano da salvare dei valori morali, e noi crediamo che questa fu la grande scommessa e la grande utopia di Mazzini, che proclamava: "La Repubblica è anzitutto principio d'amore, di maggior incivilimento, di progresso fraterno con tutti e per tutti, di miglioramento morale, intellettuale, economico per l'universalità dei cittadini... è il principio del bene su quello del male, del diritto comune sull'arbitrio di pochi, della Santa Eguaglianza sul Privilegio e il Dispotismo... "

Un'ultima parola vorremmo spenderla sull'accusa di anticlericalismo: è vero che lo stesso Mazzini esagerò proclamando che il Papa aveva scavato un abisso incolmabile tra la Chiesa e i credenti. Ma è anche vero che la politica della Repubblica Romana non fu anticlericale o antireligiosa, né mai, nei brevi mesi della sua esistenza, essa ostacolò in alcun modo la professione della religione. Fu una politica rivoluzionaria in uno Stato in cui l'autorità era rappresentata da uomini di Chiesa, in cui la ricchezza era detenuta dalla Chiesa.

L' anomalia dello Stato Pontificio, monarchia non dinastica in cui si frammischiavano inevitabilmente religione e politica, spiritualità ed interessi materiali, rendeva inevitabili certi eventi; ed oggi la stessa chiesa riconosce come provvidenziale il fatto di aver perso la potestà temporale. L'avventura della Repubblica Romana si concluse definitivamente il 4 luglio 1849, quando le truppe francesi, al comando del generale Oudinot, invasero le sale dell'Assemblea, ordinandone lo scioglimento. Nelle due settimane di bombardamenti e combattimenti che precedettero la fine la partecipazione popolare fu scarsa, disorganizzata, e numerose furono le diserzioni.

Come tante altre volte vedremo nella Storia nazionale, rifulsero alcune figure, Luciano Manara, Giuseppe Garibaldi e altri, ma i romani, per lo più restarono alla finestra. L'utopia era finita, le baionette avevano riportato ordine. Quanto poi sia restato, nei tempi successivi e al giorno d'oggi, del messaggio morale insito nell'avventura della Repubblica Romana, ognuno lo valuti da sé.

di PAOLO DEOTTO

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:
Storia del mondo Moderno, vol. X, di AA.VV., Cambridge University Press - Garzanti Editore, 1970
Una rivoluzione sociale: la repubblica romana del 1849, di Domenico Demarco - Mario Fiorentino Editore, Napoli 1944
La Repubblica Romana, di Giuseppe Beghelli - Mondadori editore, 1951
Cattaneo, un federalista per gli italiani, di Romano Bracalini - Mondadori 1995
Mazzini, di Gaetano Salvemini (1905) nel volume Gaetano Salvemini - editore Feltrinelli 1961 (pag. 145 e seg.)

Ringrazio per l'articolo
concessomi gratuitamente
dal direttore di


< < PIO IX IL PAPA BEATAMENTE ILLIBERALE

< <  ANNO 1848


 ALLA PAGINA PRECEDENTE

TORNA A CRONOLOGIA