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( QUI TUTTI I RIASSUNTI )  RIASSUNTO ANNO 1848

LA SITUAZIONE IN SICILIA - A NAPOLI - IN CALABRIA
( Anno 1848 - Atto Nono )

APERTURA DEL PARLAMENTO DI SICILIA - LO STATUTO SICILIANO - LA SITUAZIONE A NAPOLI - LA GIORNATA DEL 15 MAGGIO - PROTESTA DELLA CAMERA DEI DEPUTATI - LO STATO D'ASSEDIO A NAPOLI - RICHIAMO DELLE TRUPPE NAPOLETANE DALL'ALTA ITALIA - GUGLIELMO PEPE A VENEZIA - LA RIVOLTA CALABRESE E LA REPRESSIONE BORBONICA
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( originale del Proclama del Parlamento di Sicilia )

APERTURA DEL PARLAMENTO SICILIANO


Mentre queste cose -della puntata precedente- accadevano nello Stato Pontificio, FERDINANDO di Borbone si adoperava a fare il liberale a Napoli (lo abbiamo visto con il suo proclama nella precedente puntata), sorvegliava la condotta di Carlo Alberto, non rompeva i ponti con l'Austria, ed osservava attentamente gli avvenimenti della Sicilia.
A Palermo, il 25 marzo del 1848, nella chiesa di S. Domenico, presenti il Senato, la Suprema Corte di Giustizia, moltissimi ufficiali dell'esercito, della marina e della Guardia nazionale, numerosi vescovi, arcivescovi, abati e parroci, il corpo diplomatico e consolare e una grandissima folla, dopo la funzione divina, al rombo delle artiglierie che sparavano dalle navi e dai forti di Castellammare e della Garitta, si era aperto il Generale Parlamento di Sicilia, quindi si era costituito il governo con un presidente e sei ministri eleggibili dallo stesso presidente.

Alla presidenza era stato chiamato RUGGIERO SETTIMO, il quale aveva messo agli affari esteri e al commercio MARIANO STABILE, alla Guerra e Marina il barone RISO, alle Finanze MICHELE AMARI, all'Istruzione e ai Lavori il principe di BUTERA, al Culto e alla Giustizia GAETANO PISANI e alla direzione della Polizia PASQUALE CALVI.

Il 1° aprile il Parlamento Siciliano ordinava che:

"il Potere Esecutivo dichiarasse in nome della nazione agli altri Stati d'Italia che la Sicilia già libera ed indipendente intendeva far parte dell'unione e federazione italiana"

e il 13 aprile decretava che la dinastia borbonica era per sempre decaduta dal trono di Sicilia, che l'isola si sarebbe governata costituzionalmente e che, dopo la riforma dello Statuto, sarebbe stato chiamato sul trono un principe italiano.
FERDINANDO II protestò, il 18 aprile, contro questo decreto; ma il parlamento siciliano non tenne in nessun conto la protesta e attese alla riforma dello Statuto, che fu molto simile a quello degli altri Stati della penisola. Differiva però da questi in vari punti: difatti vi era stabilito che�

"il sovrano chiamato a reggere la Sicilia non poteva, pena la decadenza, di regnare su altri paesi; che la sovranità risiedeva nell'universalità dei cittadini; che il potere di fare leggi e di interpretarle apparteneva esclusivamente al parlamento; che il voto era universale; che al re era negata la facoltà di sciogliere o sospendere le assemblee e che i trattati non avevano effetto senza l'approvazione dei due rami del parlamento".

Riformata la costituzione, furono mandati ambasciatori alle corti di Roma, di Firenze, e di Torino per ottenere il riconoscimento del Regno di Sicilia, promuovere qualunque forma di lega utile all'indipendenza italiana e vedere quale delle due corti della Toscana e della Sardegna fosse meglio disposta ad inviare un principe sul trono dell'isola.
Napoli intanto "poteva dirsi in piena anarchia, poiché ogni freno era rotto ai desideri più audaci e alle passioni più torbide. Alle confuse notizie di Parigi, la parola costituzione andava prendendo significati e sviluppi inattesi, non tanto nella metropoli dove, per la povertà delle industrie, mancava un numeroso artigianato, quanto nelle campagne dove i contadini, guadagnati alla causa della rivoluzione, tentavano apertamente di scavalcare i proprietari che l'avevano promossa e, non rispettando più né i vecchi né i nuovi istituti tra loro in lotta violenta, rifiutandosi di pagare le tasse, invadevano le terre signorili e demaniali, minacciavano la guerra sociale.
D'altra parte, nella metropoli, il ceto medio, costituito in massima parte da impiegati, di professionisti e di letterati, divisi e suddivisi da ambizioni e animosità personali, in infinite tendenze diverse, nel trapasso dalla dinastica costituzione a quella repubblicana unitaria, dava la caccia ai pubblici uffici, di cui il numero era straordinariamente cresciuto; si agitava nei circoli, inveiva nelle gazzette, tumultuava nelle piazze ora contro i gesuiti che dovettero essere espulsi, ora contro l'Austria e per la partecipazione alla guerra, ora contro questo o quel ministro per la riforma dello Statuto, vale a dire per l'abolizione della Camera dei Pari e del censo stabilito per l'elettorato.
Intanto le finanze pubbliche andavano alla rovina, poiché il prestito forzoso di tre milioni di ducati ne aveva raccolti appena 7000 mila ! Così, nel generale disgusto, riprendevano coraggio i legittimisti, appoggiati alla Corte, all'esercito e alla plebe, ma anche dall'altra parte, si facevano più arditi i democratici, i partigiani della guerra ad ogni costo, i sospettosi del Re e dei moderati, ma non del tutto tranquilli neppure di fronte a coloro che avrebbero voluto imitare in Napoli le gesta dei rivoluzionari parigini"
(Lemmi).

Tra il 18 aprile e il 2 maggio si fecero le elezioni politiche e la grande maggioranza dei seggi fu conquistata dai liberali. Di lì a qualche giorno, mentre si diffondeva la notizia dell'allocuzione papale del 29 aprile, si dimisero tre ministri: l' IMBRIANI, il RUGGERO e il MANNO, i quali, non credendo alla sincerità del Borbone, non volevano nelle sue mani essere gli strumenti di un'ipocrita politica.
L'apertura del Parlamento fu fissata per il 15 maggio.

LA GIORNATA DEL 15 MAGGIO A NAPOLI

Il 13 FERDINANDO lanciava questo proclama:

"L'apertura del Parlamento nazionale essendo l'atto più solenne della vita politica di un popolo, non c'è da meravigliarsi se nel suo avvicinarsi, tutte le passioni si esaltano e si agitano, e se i nemici della libertà, d'accordo con i nemici dell'ordine, spargano voci sconfortanti e perturbatrici, ed alterando la pace interna rendano un involontario servizio ai nemici d'Italia. Il governo, incaricato di tutelare le legali libertà e l'indipendenza nazionale, crede in quest'occasione di assicurare i buoni, che sarà più che mai fermo nella politica annunciata nel suo programma e professata costantemente in tutti i suoi atti. L'idea dell'indipendenza italiana, è l'idea predominante del ministero, come dev'essere ed è in effetti quella di tutti i buoni Italiani e di tutti i veri e sinceri amanti della patria. Le faziose macchinazioni, non sono che di pochissimi.
Costituito il Parlamento, i desideri della nazione saranno legalmente soddisfatti e le sarà assicurato il suo vero progresso civile e politico. E che sia questo il desiderio del governo medesimo, lo ha mostrato il programma sopra citato, quando annunciava lo svolgimento dello Statuto da farsi dal potere costituito, massime per la parte che riguarda la Camera dei Pari, la quale composta di uomini additati con il maggior numero dal suffragio, ha realmente indizio di fiducia pubblica da non lasciar dubitare che concorrerà alacremente alle utili riforme".

Nel giorno stesso in cui era lanciato questo proclama, nel "Giornale Costituzionale" si annunciava la nomina di cinquanta Pari e si davano le disposizioni per l'apertura del Parlamento che doveva avvenire il giorno 15 maggio nella chiesa di San Lorenzo.

La vigilia della cerimonia, nelle sale comunali di Monte Oliveto, si raccolsero in seduta preparatoria, i deputati presenti a Napoli sotto la presidenza del CAGNAZZI. La formula del giuramento, che il giorno dopo doveva esser prestato dal sovrano e dai deputati, fu il primo argomento di discussione. Dopo accese discussioni l'assemblea, ritenendo insufficiente la seguente formula decretata per i deputati:

"Io giuro di professare, e di far professare la religione cattolica apostolica romana; giuro fedeltà al Re del Regno delle due Sicilie; giuro di osservare la costituzione concessa dal re il 10 febbraio", stabilì di modificare la formula vecchia in una nuova in cui si giurasse di "osservare, e mantenere lo Statuto politico della Nazione con tutte le riforme e le modifiche stabilite dalla Rappresentanza nazionale, massimamente per ciò che riguardava la Camera dei Pari".

Questa formula fu inviata al ministero il quale l'accettò e la sottopose all'approvazione del re; ma Ferdinando la rifiutò e respinse nello stesso tempo le dimissioni date dai ministri.

"La concitazione degli animi - "scrive il Settembrini nelle Ricordanze" - era grande e cresceva ad ogni ora, e pareva il montare della marea. I deputati raccolti nella gran sala di Monte Oliveto, consigliavano, parlavano, mandavano messaggi al Ministero e il ministero mandava ora questo ora quel ministro ai deputati con una nuova formula che però non era accettata. Nelle vie tutti parlavano, discutevano, ed era un andare, un venire, e talora grida e minacce".

Fu impartito allora l'ordine alle truppe di uscire dalle caserme e di occupare le piazze e i punti strategici della città; ma la presenza dei soldati parve una provocazione e i più arrabbiati dei cittadini risposero erigendo numerose barricate. FERDINANDO II, di fronte al contegno minaccioso dei liberali nella notte dal 14 al 15 maggio, comunicò ai deputati una nuova formula cosi concepita:
"Prometto e giuro innanzi a Dio fedeltà al re costituzionale Ferdinando II. Prometto e giuro di compiere con il massimo zelo e con la massima probità ed onoratezza le funzioni del mio mandato. Prometto e giuro di essere fedele alla costituzione quale sarà svolta e modificata dalle due Camere d'accordo con il re, massimamente intorno alla Camera dei Pari, come è detto nell'articolo V del programma del 3 aprile".

I deputati accettarono la formula e la mattina del 15 fu lanciato alla cittadinanza il seguente manifesto:

"La Camera dei Deputati, provvisoriamente riunita, reputa suo debito di rendere quelle grazie ché può maggiori alla gloriosa e intrepida guardia nazionale di questa città e a questo generoso popolo per la dignitosa e civile attitudine che hanno preso per tutelare e garantire la nazionale rappresentanza. Ma essendo l'intento, che tendeva al maggior benessere della Nazione, stato pienamente conseguito, -essa crede dover invitare la guardia nazionale a far scomparire dalla città ogni ostilità con il disfare le barricate, in modo che si possa inaugurare l'atto solennissimo dell'apertura del Parlamento, senz'alcuna, sebbene gloriosa, pur spiacevole ricordanza".

Ma questa voce della Camera non fu ascoltata e l'agitazione saliva, fomentata dai più
esaltati, specie da GIOVANNI LA CECILIA, il quale diceva che non si doveva cedere se prima il re non aboliva la Camera dei Pari e non consegnava i castelli della Guardia nazionale.
A nulla valse un'ordinanza del sovrano che fissava per le due pomeridiane di quel giorno l'apertura del Parlamento e confermava la formula concordata con i deputati; a nulla valsero le parole del generale della Guardia GABRIELE PEPE che esortava i cittadini armati a tornare alle loro case; gli animi oramai erano troppo infiammati e ad eccitarli ancora di più si spargeva la voce che dalle province marciavano sulla capitale schiere di guardie nazionali per difendere l'assemblea dei rappresentanti.
Due fucilate, sparate verso il mezzogiorno, presso la chiesa di S. Ferdinando, furono come il segnale della lotta. Sulla reggia fu issata la bandiera rossa e subito le artiglierie cominciarono a tuonare dai fortini, mentre altri pezzi fulminavano diciassette barricate innalzate nella sola via Toledo e altre sessantadue nelle altre strade.

( vedi le immagini delle barricate a Napoli - presenti solo sul CD )
(i possessori cliccano QUI )

Parecchi palazzi, fra cui quello Gravina, furono distrutti, le truppe svizzere e le napoletane, guidate quest'ultime dal maggiore NUNZIANTE e da RAFFAELE CARASCOSA, fratello del generale, protette dai cannoni dei fortini e affiancate da alcune batterie da campagna, diedero l'assalto alle barricate, le espugnarono una dopo l'altra, quindi assalirono le case sospette, che più tardi furono saccheggiate dalla plebaglia (chissà da chi ingaggiata) che percorreva le vie della città al grido di "Viva il re ! Mora la Nazione !".

Non si seppe mai il numero dei morti di quella terribile giornata: chi disse duecento, chi duemila. Fra questi il giovine LUIGI LA VISTA, discepolo del DE SANCTIS. I prigionieri furono seicento, fra i quali FRANCESCO DE SANCTIS, DOMENICO MORELLI, PASQUALE VILLARI.
All'inizio della lotta i deputati riuniti a Monte Oliveto avevano costituito un comitato di salute pubblica, presieduto dal venerando CAGNAZZI e formato dei deputati ZUFFETTA, GIARDINI, BELALLI, LANZA, PETRUCELLI. Ma non riuscì a far nulla: la battaglia ebbe il suo corso e la strage ne fu il coronamento. L'ammiraglio francese BAUDIN, che avrebbe potuto farla cessare, si rifiutò d'inframmettersi.

Quando la resistenza dei liberali fu vinta, un capitano degli svizzeri si presentò a Monte Oliveto ai deputati, intimando in nome del re, di sciogliersi. I deputati obbedirono, ma prima distesero e mandarono al sovrano la seguente protesta dettata da PASQUALE STANISLAO MANCINI:

"La camera dei deputati riunita nelle sue sedute preparatorie in Monte Oliveto, mentre oggi 15 maggio 1848, era intenta ai suoi lavori e all'adempimento del suo mandato, si vedeva aggredita con inaudita infamia dalla violenza delle armi regie nelle persone inviolabili dei suoi componenti nelle quali è la sovrana rappresentanza della Nazione; protesta davanti alla nazione medesima, davanti all'Italia, l'opera del cui provvidenziale risorgimento si vuol turbare con un nefando eccesso; davanti a tutta l'Europa civile, oggi ridesta allo spirito di libertà, contro quest'atto di cieco ed incorreggibile dispotismo, e dichiara che essa sospende le sue sedute, solo perché costretta dalla forza brutale; ma, lungi dall'abbandonare l'adempimento dei suoi solenni doveri, non fa che sciogliersi per riunirsi di nuovo dove ed appena potrà, al fine di prendere quelle deliberazioni che sono acclamate dai diritti del popolo, dalla gravità della situazione e dai principi della inculcata umanità e dignità nazionale".

Il giorno dopo, FERDINANDO II licenziò il ministero, che aveva dato le dimissioni, e ne formò uno nuovo. La presidenza fu data a GENNARO SPINELLI principe di Cariati, che tenne per sé gli Esteri; all'interno con l'interim dell'Istruzione fu messo FRANCESCO PAOLO BOZZELLI, all'Agricoltura e Commercio e l'interim agli Affari Ecclesiastici il maresciallo di campo FRANCESCO PINTO principe di Ischitella, alle Finanze con l'interim della Grazia e Giustizia FRANCESCO PAOLO RUGGIERO, ai Lavori Pubblici il generale RAFFAELE CARASCOSA.
Lo stesso giorno 16 maggio il re ordinò lo scioglimento della Guardia nazionale napoletana e, nell'annunciare il provvedimento, il governo, sapendo di mentire, affermava che...

"una parte di quella guardia nazionale, istituita per tutelare la sicurezza e la tranquillità
delle famiglie, aveva non solo dato mano a sì miserevole perturbazione, ma aveva essa medesima cominciato un attacco contro le reali milizie, le quali, vedendo dei compagni cadere sotto l'inatteso fuoco di armi fratricide, dovettero usare il sacro diritto della difesa; e per un movimento di giusta indignazione, che non era in potere di alcuno di reprimere, lanciarsi tutte a respingere la forza con la forza".

Inoltre, fu dichiarato a Napoli lo stato d'assedio, e fu istituita una Commissione con l'incarico d'inquisire i reati commessi contro la sicurezza interna dello Stato dal 10 maggio in poi e che il 17 era stata dichiarata sciolta la Camera dei deputati perché si era assunto un potere arbitrario illegittimo e sovversivo d'ogni principio d'ordine civile. Lo Statuto però non fu abolito e il 24 maggio furono indetti i comizi elettorali per il 15 giugno e fu decretata l'apertura del parlamento il 1° luglio.

"Profondamento addolorati - diceva il sovrano nel proclama che convocava i comizi - dall'orribile giornata del 15 maggio, il nostro più vivo desiderio è di raddolcire quanto umanamente si può le conseguenze. La nostra fermissima ed immutabile volontà è di mantenere la costituzione del 10 febbraio pura ed immacolata di ogni eccesso, la quale essendo la sola compatibile con veri e presenti bisogni di questa parte d'Italia, sarà l'arca sacrosanta sulla quale devono appoggiarsi le sorti dei nostri amatissimi popoli e della nostra Corona. Le Camere legislative saranno fra breve riconvocate; e la sapienza, la fermezza e la prudenza, che attendiamo da loro saranno per aiutarci vigorosamente in tutte quelle parti della cosa pubblica, le quali hanno bisogno di leggi ed utili riordinamenti. Ripigliate dunque tutte le vostre consuete occupazioni; fidatevi con effusione d'animo della nostra lealtà, della nostra religione e del nostro sacro e spontaneo giuramento, e vivete nella pienissima certezza che la più incessante preoccupazione dell'animo nostro è di abolire al più presto, insieme con lo stato eccezionale e passeggero in cui ci troviamo, e anche per quanto sarà possibile la memoria della funesta sventura che ci ha colpiti".

RICHIAMO DELLE TRUPPE NAPOLETANE DALL'ALTA ITALIA
GUGLIELMO PEPE ALLA DIFESA DI VENEZIA

La conseguenza dei fatti del 15 maggio fu anche causa del richiamo delle truppe inviate, agli ordini del generale GUGLIELMO PEPE, sul Po, e della flotta inviata nell'alto Adriatico. Al generale Pepe si ordinava di mandare per via di mare da Rimini a Manfredonia, una parte della fanteria napoletana e di riunire ad Ancona tutte le altre truppe, compreso il reggimento che si trovava già sul Mincio, e di avviarle verso gli Abruzzi. Ai volontari si dava facoltà di unirsi all'esercito pontificio del DURANDO, che era fermo sul confine.

Primo pensiero di GUGLIELMO PEPE fu di non ubbidire agli ordini del governo napoletano e di passare il Po con le truppe; ma, temendo di non esser seguito, il 22 maggio cedette il comando al generale STATELLA, manifestando il proposito di arruolarsi nello Stato Maggiore di Carlo Alberto. Quello stesso giorno però, spinto dalle esortazioni dei patrioti bolognesi, il Pepe riprese il comando e scrisse a Napoli che era fermamente deciso a non rimandare o ricondurre nel regno le truppe, perché non voleva disonorare le armi napoletane.
Il governo di Napoli ordinò ancora alle truppe di ritornare, minacciando agli ufficiali di toglier loro il grado e lo stipendio; e la prima divisione, obbedendo, si mise sulla via del ritorno. Pepe cercò di trattenerla e pubblicò pure il seguente ordine del giorno:

"Un numero molto considerevole di sotto-ufficiali e soldati della 1a divisione sedotti da agenti austriaci o da pochi sciagurati delle Due Sicilie di basso e turpe animo e nemici veri della Nazione e del Re Costituzionale, hanno osato abbandonar le bandiere. È cosa deplorabile cosa che sono andati con loro anche molti ufficiali, gli uni per malvagità, gli altri forse per la speranza di poter mantenere un qualche ordine tra i rivoltosi. Ad ogni modo io dichiaro che gli ufficiali, sottufficiali e soldati, i quali nello spazio di tre giorni non ritorneranno a Ferrara, saranno considerati come disertori alla presenza del nemico".

Ma a nulla valse per far tornare indietro la 1a divisione. La 2a divisione parve credere al Pepe, il quale affermava di avere ricevuto contrordine dal re; e l'8 giugno il 2° e il 3° battaglione di volontari, comandati da FRANCESCO MATARAZZO e da ROCCO VACCARO, passarono il Po con una batteria di artiglieria; ma il 10 giugno, quando il generale ordinò alle truppe di concentrarsi a Rovigo, soltanto il 2° battaglione di cacciatori, la 6a compagnia zappatori e pochi altri ufficiali e soldati si portarono sulla sinistra del fiume; gli altri si sbandarono, poi riuniti sotto il comando del generale FILIPPO KLEIN, presero la via del Tronto e degli Abruzzi.
Con i pochi fedeli rimastigli GUGLIELMO PEPE si portò a Venezia e qui DANIELE MANIN gli conferì il comando di tutte le truppe di terra che difendevano la città.

LA RIVOLTA CALABRESE

I fatti del 15 maggio a Napoli, oltre che il richiamo delle truppe e della flotta, provocarono viva agitazione nelle province del Regno, specie nelle Calabrie. Verso la fine di maggio in questa regione si costituirono comitati di pubblica sicurezza; a Cosenza si formò un governo provvisorio, del quale si misero a capo i deputati RAFFAELE VALENTINO, GIUSEPPE RICCIARDI, DOMENICO MAURO ed EUGENIO DE RISO, che lanciarono il seguente manifesto mentre si chiedevano aiuti alla Sicilia e si iniziavano a raccogliere uomini armati:

"I gravi fatti di Napoli del15 maggio e gli atti distruttivi di quella Costituzione hanno rotto ogni patto fra il principe ed il popolo. Noi però, vostri rappresentanti, capi del movimento delle Calabrie, rafforzati dallo spontaneo soccorso dei nostri generosi fratelli della Sicilia, rincuorati dall'unanime grido d'indignazione e di sdegno che si è levato contro il pessimo dei governi, nonché nelle altre province nell'Italia tutta; certi d'essere interpreti fedeli del pubblico voto; memori della solenne promessa fatta dai dimissionari parlamentari nella loro nobile protesta del 15 maggio di riunirsi nuovamente, crediamo debito nostro invitare i nostri colleghi a convenire il 15 giugno a Cosenza per riprendere le deliberazioni interrotte a Napoli dalla forza brutale, e porre sotto l'egida dell'Assemblea nazionale i sacri diritti del popolo napoletano. Mandatari della Nazione, chiamiamo intorno a noi, e invochiamo a sostegno della libertà nazionale la fede e lo zelo delle milizie civili; le quali nel sostenere in modo efficace la santa causa, a tutelare la quale siamo stati forzati a ricorrere alla suprema ragione delle armi, sapranno mantenere la sicurezza dei cittadini e il rispetto alle proprietà, senza di cui non ci può essere libertà vera".

La Sicilia rispose all'appello dei Calabresi inviando il 12 giugno da Milazzo un corpo di seicento uomini con una batteria da campagna. Comandavano la minuscola schiera i colonnelli RIBOTTI e LONGO, i quali, giunti a Cosenza, presero sotto di loro quelle poche migliaia di uomini che erano state raccolte nella regione. Il Ribotti fu nominato capo supremo di tutte le forze degli insorti.
A reprimere l'insurrezione calabrese il Governo di Napoli inviò tre corpi di truppe: il primo, di quattromila uomini, al comando del generale FERDINANDO NUNZIANTE, lasciò la capitale il 4 giugno e, sbarcato al Pizzo, si accampò a Monteleone; il secondo, di duemila uomini, agli ordini del brigadiere BUSACCA, partì il 10 e, sbarcato a Sapri, si mise in marcia verso Castrovillari, dove doveva raggiungerlo il terzo corpo di duemila soldati, la massima parte a cavallo, guidati dal brigadiere LANZA.
Il Ribotti fece del suo meglio per tener testa ai regi, ma le numerose diserzioni dei Calabresi, la maggior disciplina e il migliore armamento del nemico ebbero ragione della resistenza degli insorti. II 2 luglio il Ribotti con i suoi Siciliani, il governo provvisorio e i principali autori del moto si ritirarono a Tiriolo; il 7 luglio i regi, che nella loro avanzata avevano lasciato tracce della loro ferocia, s'impadronirono di Cosenza.
Il Ribotti, temendo di essere circondato a Tiriolo, chiese al Nunziante, per mezzo del vescovo di Nicastro, di concedergli il ritiro in Sicilia, ma il generale borbonico rispose intimandogli la resa a discrezione. I siciliani decisi a non cadere nelle mani del nemico, guadagnarono la spiaggia ionica e sopra due brigantini presero il mare. Erano giunti l'11 luglio presso Corfù quando il tenente di vascello SALAZAR della Marina Napoletana, che con una nave inseguiva i fuggiaschi, ebbe nell'avvicinarsi l'"infelice-felice" idea di issare una bandiera inglese; con quest'indegno inganno riuscì prima a fermarli poi con le armi spianate a catturarli tutti
I prigionieri in parte furono condotti a Reggio, parte a Castel Sant' Elmo e a Nisida e sarebbero andati sicuramente tutti sul patibolo, se l'ammiraglio inglese PARKER, venuto a conoscenza dell'indegno inganno, in nome del suo governo, non avesse dichiarato al governo napoletano "che avrebbe visto con profondo dispiacere qualunque atto di severità associato all'abuso della bandiera britannica".

Per l'intervento inglese i prigionieri ebbero salva la vita, ma i più -con la scusa del processo da farsi- languirono molto tempo in carcere prima di ottenere la libertà. Il RIBOTTI solo nel 1854 uscì da, Castel Sant' Elmo; Longo, Delli Franci, Guiccioni, Angarà, che erano stasi ufficiali nell'esercito borbonico, furono sottoposti come disertori al giudizio del tribunale militare. Il Guiccioni fu messo in libertà provvisoria, l'Angarà fu rinviato alla Gran Corte Criminale, il Longo e il Delli Franci furono condannati a morte, ma la pena fu poi commutata dal re in quella dell'ergastolo perpetuo.

Gli inglesi (per i loro interessati motivi, che abbiamo qualche volta accennato, ma nei particolari mai approfonditi, iniziarono nuovamente una campagna diffamatoria sui Borboni, e torneranno a schierarsi contro il Regno delle Due Sicilie, operando in quella politica occulta, settaria e complottista, la cui natura non va ricercata sui campi di battaglia o negli atti ufficiali del Risorgimento italiano, ma piuttosto, negli accordi segreti, per infliggere un colpo decisivo al papato. E' ricordiamoci l'epoca dell'onnipresente lord Palmeston (alias Henry John Temple), gran maestro della Massoneria e fondatore dell'Ordine ebraico di Sion; l'uomo che avrebbe in sostanza dominato la politica estera britannica (e, in un certo senso europea) fino all'anno 1865; oltre che grande finanziatore dell'impresa garibaldina, per preparare il terreno della caduta di Roma, vendicare l'affronto loro inflitto dai Borboni nella controversia internazionale sul monopolio del commercio dello zolfo siciliano (allora unico al mondo, usato per le fonderie), e contribuire alla nascita di una forte nazione che potesse fare da contrappeso alla potenza francese e austriaca in quell'ambita fascia meridionale del continente.
E va dato atto a Cavour, Mazzini e Garibaldi (che a Londra godevano di potenti appoggi) di essere stati abili nello sfruttare in chiave antiborbonica e antipapale i sentimenti anticattolici dominanti in Inghilterra.
Qualcuno si è spinto molto più in là nell'analizzare oggi i fatti di questi periodi, affermando che il cosiddetto Risorgimento "è stato solo un capitolo della storia dell'imperialismo britannico". (Massimo de Leonardis, XXI Convegno Naz. Civitella del Tronto 1991)


L'intervento degli inglesi lo ritroveremo anche nel prossimo capitolo
quando lord Palmeston voleva agire da intermediario
e far finire la contesa Austria-Carlo Alberto già a Verona.
E parleremo della politica di Carlo Alberto, da Milano a Verona, e dei plebisciti
nelle successive pagine
Anno 1848 - Atto Decimo > > >

Fonti, citazioni, e testi
Prof.
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - (i 5 vol.) Nerbini
P.COLLETTA - Storia (Napoleonica) del Reame di Napoli 1734-1825- 1834
A. VANNUCCI - I Martiri della Libertà - Dal 1794 al 1848 - Lemonnier 1848
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
CRONOLOGIA UNIVERSALE - Utet 
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
+ ALTRI VARI DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE  

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