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( QUI TUTTI I RIASSUNTI )  RIASSUNTO ANNO 1848

LA GUERRA DI "RE TENTENNA" - GLI ALTRI ALLEATI
( Anno 1848 - Atto Quinto)

CARLO ALBERTO SCENDE IN GUERRA CONTRO L'AUSTRIA - IL PROCLAMA ALLE POPOLAZIONI DEL LOMBARDO-VENETO - L'ESERCITO SARDO - PASSAGGIO DEL TICINO - IL PROCLAMA DI LODI - IL GRANDUCA DI TOSCANA INVIA TRUPPE IN LOMBARDIA - I REGOLARI E I VOLONTARI PONTIFICI AL PO - NAVI E TRUPPE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE CONTRO GLI AUSTRIACI
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(i due proclami originali di CARLO ALBERTO al Popolo Lombardo )

( il proclama di LEOPOLDO ai Toscani )

(la popolare poesia "RE TENTENNA"
.
CARLO ALBERTO SCENDE IN GUERRA
IL PROCLAMA ALLE POPOLAZIONI DEL LOMBARDO-VENETO


A parte tutte le altre buone notizie più o meno realistiche che giungevano a Torino dalle altre parti d'Italia vicine e lontane, quelle che riuscivano ad arrivare dalla vicina e confinante Lombardia, dov'era scoppiata la rivoluzione il 18 marzo, assicuravano che i Milanesi stavano veramente cacciando gli Austriaci da Milano e dalla Lombardia; e il giorno 20 marzo conquistando anche il centro (piazza Duomo ecc.) la vittoria completa non sembrava più un sogno impossibile per i rivoluzionari di Milano; pur essendoci fra i capi, dentro il Consiglio di guerra e nel Governo provvisorio che si era formato, dei contrasti fra gli elementi democratici guidati da CARLO CATTANEO, e gli elementi moderati e conservatori guidati dal podestà GABRIO CASATI. Questi ultimi fin dal primo giorno di ribellione, guardavano con favore ad un intervento delle truppe Piemontesi non tanto per simpatia sul sabaudo Carlo Alberto o perché temevano di non farcela senza l'aiuto dei piemontesi, ma per evitare che la vittoria lombarda andasse verso una rivoluzione e un governo democratico repubblicano, per nulla gradito, anzi considerato come dirà fra poco Carlo Alberto "una catastrofe per il trono in Piemonte e per il rimanente d'Italia" .
A loro volta, i democratici, temevano che l'intervento di CARLO ALBERTO avrebbe ridotto la guerra nazionale ad una semplice conquista dinastica e solo per ampliare il proprio regno sabaudo (e non era la prima volta che i Sabaudi tentavano con la Lombardia).

Queste due correnti di pensiero, questa reciproca diffidenza, pesarono poi -come vedremo più avanti- moltissimo sulla successiva condotta militare della guerra, dopo il 22 marzo, vale a dire quando i Milanesi, fino a quel momento accomunati da un unico desiderio, si erano liberati dagli austriaci da soli, con le proprie forze, vincendo la più epica battaglia, anche se non avevano ancora vinto la guerra.

Ritorniamo al 20 marzo quando il CONTE CAVOUR a Torino, dopo quelle prime quarantotto ore d'eroismo milanese, scriveva sul suo giornale "Risorgimento":
"L'ora suprema per la monarchia sarda è suonata, l'ora delle forti deliberazioni, l'ora dalla quale dipendono i fati degli imperi, le sorti dei popoli .... Una sola via è aperta per la nazione, per il governo, per il re: la guerra ! la guerra immediata senza indugi".

Ma mentre a Milano, tutto il giorno 20, 21 e 22 la lotta continuava ad essere eroica, Carlo Alberto invece indugiava; come il solito in tutte le cose sue, e non sapeva decidersi. Si consumava dalla voglia di cacciare il secolare nemico, desiderava aggiungere al suo regno le province della Lombardia, ma esitava nel prendere le armi. Per nascondere quest'esitazione, dichiarava al conte ENRICO MARTINI e al marchese CARLO D'ADDA, andati da lui prima ancora delle Cinque giornate per indurlo a varcare il Ticino, che "sarebbe intervenuto non appena fosse sorto un pretesto plausibile".
Il "re tentenna", tentennava!

Il Piemonte intanto dopo le strabilianti notizie che giungevano, fremeva per l'indugio del sovrano e si temeva a Torino che potesse scoppiare una rivolta, tanta era l'agitazione. Per scongiurare questo pericolo, la sera del 23 (ed era già giunta la notizia della vittoria totale della rivoluzione milanese, e con gli austriaci in fuga già oltre Brescia) si riunì il consiglio dei ministri e fu deliberato di muovere guerra all'Austria.
Le ragioni che lo spingevano a questo passo furono manifestate in una nota del re al ministro inglese a Torino, e sono molto singolari: guardava con simpatia alla Milano ribelle (quindi rivoluzionaria, liberale, repubblicana) ma nello stesso tempo si teneva stretto e temeva pure di perdere il monarchico trono e quei diritti acquisiti con l'assolutismo dettato da Vienna ancora nella restaurazione:
(La nota la riportiamo fedelmente):

"La vicina Lombardia si è sollevata ed è a fuoco; questa condizione di cose reagisce sullo stato degli animi nelle province appartenenti alla Casa di Savoia; la simpatia svegliata dalla difesa di Milano; lo spirito di nazionalità che si fa potentissimamente sentire, nonostante le delimitazioni artificiali dei vari Stati; tutto concerne a mantenere nelle province
e nella capitale un'agitazione da far temere che da un momento all'altro possa uscire una di quelle rivoluzioni che porrebbero il trono in grave pericolo, perché non si può dissimulare che dopo i fatti di Francia, il pericolo della proclamazione di una repubblica in Lombardia possa essere vicino. Se a questa si aggiungono i moti di Parma e di Modena come del ducato di Piacenza, sul quale non può essere negato al re di Sardegna il diritto di vegliare come sopra un territorio che spetta per diritto di riversibilità, e se si aggiunga che una grande e seria esasperazione è stata eccitata in Piemonte ed in Liguria dalla conclusione di un trattato tra l'imperatore d'Austria e i duchi di Parma e di Modena, trattato che con l'apparenza di provvedere a questi piccoli Stati, li ha, di fatto, annessi alla monarchia austriaca, portando le frontiere militari di questa alla destra del Po, per protrarle poi forse fino al Mediterraneo, rompendo così l'equilibrio esistente fra le varie potenze italiane, è naturale che il pensiero dello Stato del Piemonte è tale che se da un momento all'altro, all'annuncio che la repubblica è stata proclamata in Lombardia, un moto consimile scoppierebbe negli Stati del re di Sardegna o almeno ci sarebbe qualche grave condizione da porre in pericolo il trono.
In questo stato di cose il re, forte del suo diritto per la conservazione dei suoi possedimenti, forte dei diritti che ha sul ducato di Piacenza, e dei quali non si è voluto, con manifesta violazione, tener conto, quando era stato sottoscritto il trattato del 24 dicembre 1847, è ora obbligato a prendere provvedimenti, i quali, impedendo che il moto attuale della Lombardia diventi repubblicano, eviterebbero al Piemonte e al rimanente d'Italia le catastrofi che potrebbero avere luogo se fosse proclamata una tale forma di governo".

Presa la deliberazione, Carlo Alberto volle egli stesso darne l'annunzio ai Torinesi:


"A Mezzanotte del 23 marzo - scrive Vittorio Bersezio che era presente - il popolo muto, severo, stava aspettando davanti alla reggia. Ad un tratto, il balcone della galleria d'armi si spalanca, e un torrente di luce si spande su quella folla raccolta. Migliaia e migliaia di facce si volgono all'insù, migliaia e migliaia di sguardi si fissano attenti a quel punto. Non si respira più; il cuore del Piemonte, per l'ansia, ha sospeso per un istante il suo battito. Compare pallida, ma illuminata da un sorriso novello l'alta figura del re; ai fianchi gli stanno i figli, nei quali il giovane sguardo brilla di una fiamma più viva. Carlo Alberto tiene in mano una fascia con i tre colori italiani, proprio quei tre colori condannati non molto tempo fa e temuti come simbolo di ribellione; questa fascia il re l'agita sopra il popolo. Un immenso applauso, un tuono, un uragano d'applausi scoppia da quella moltitudine: " Viva il Re, Viva l'Italia ! " È la guerra d'indipendenza, che dal trono di Casa Savoia si proclama all'Italia e al mondo".

Il giorno seguente -il 24- apparve il famoso proclama dovuto, pare, alla penna di FEDERICO SCLOPIS:

"Popoli della Lombardia e della Venezia ! I destini d'Italia si maturano; sorti più felici arridono agli intrepidi difensori dei conculcati diritti. Per amore di stirpe, per intelligenza di tempi, per comunanza di voti, noi ci associamo primi a quell'unanime ammirazione che vi tributa l'Italia. Popoli della Lombardia e della Venezia ! Le nostre armi che già si concentravano sulla vostra frontiera quando voi anticipaste la liberazione della gloriosa Milano, vengono ora a porgervi nelle ulteriori prove quell'aiuto che il fratello aspetta dal fratello, l'amico dall'amico. Asseconderemo i vostri giusti desideri affidandoci all'aiuto di quel Dio che ha dato all'Italia Pio IX, di quel Dio che con così meravigliosi impulsi pose l'Italia in grado di fare da sé. E per meglio dimostrare con segni esteriori il sentimento dell'unione italiana, vogliamo che le nostre truppe, entrando nel territorio della Lombardia e della Venezia, portino lo scudo di Savoia sovrapposto alla bandiera tricolore italiana. -Carlo Alberto".

Era la guerra! L'esercito piemontese vi entrava con scarse forze, ma abbastanza buone, d'artiglieria e cavalleria, con fanterie valorose, ma le provinciali, erano poco saldamente costituite, con alcuni prodi ufficiali ma poco colti, e generali non abituati al comando.
Si componeva di due corpi d'armata e di una divisione di riserva di dodicimila uomini. I corpi d'armata, forti di ventiquattromila soldati ciascuno erano comandati, il primo dal generale BAVA, il secondo dal generale DE SONNAZ; la riserva dal DUCA DI SAVOIA; l'artiglieria dal DUCA DI GENOVA; il Genio dal generale CHIODO; capo di Stato Maggiore era il generale conte di SALASCO; intendente generale il colonnello APPIANI; comandante supremo il Re che aveva per aiutanti di campo i generali BRICHERASIO, Di FORAG, LAZZARI e ROBILLANT.
I primi a passare il Ticino furono i quattromila uomini della brigata Bes, avanguardia del II Corpo. In quello stesso giorno, 25 marzo, il Governo provvisorio di Milano nominava capo del dipartimento delle armi il vecchio generale napoleonico TEODORO LECHI e faceva appello agli Svizzeri, ai Polacchi e ai volontari d'ogni nazione e d'ogni regno e ducato italiano perché accorressero a combattere contro gli Austriaci.
Questa desiderio nel chiamare volontari era mal vista dai liberali moderati-conservatori del Casati, perché temevano che (ma erano proprio questi i più stimolati ad accorrere in Lombardia) l'arrivo di repubblicani avrebbero rinforzato la tendenza del Governo provvisorio verso una Repubblica democratica.

Il giorno 26 marzo la brigata Bes entrava a Milano e il Governo, in un proclama, diceva:
"Ormai la vittoria è certissima, l'indipendenza è assicurata, i miserabili avanzi dell'esercito austriaco si dilegueranno come larve a fronte dei nostri valorosi che li inseguono, e delle prodi truppe piemontesi che oggi stesso giungono per unirsi a noi".


Il giorno 27 marzo un'altra brigata giungeva a Pavia e il 29 faceva il suo ingresso CARLO ALBERTO, il quale al conte BORROMEO e ad ANTONIO BERETTA, inviati dal Governo provvisorio milanese a rendergli omaggio, dichiarava di non volere entrare a Milano non prima di avere sconfitti gli Austriaci perché non voleva presentarsi ad una popolazione così tanto valorosa se non dopo una vittoria e quindi meritarsi anche lui il titolo di valoroso.

Il 31 marzo Carlo Alberto trasferì il suo quartier generale a Lodi e quel giorno stesso lanciò un proclama agli Italiani della Lombardia, della Venezia, di Piacenza e Reggio, che diceva:

"Chiamato da quei vostri Concittadini nelle cui mani una ben meritata fiducia ha riposto la temporanea direzione della cosa pubblica, e soprattutto spinto visibilmente dalla mano di Dio, il quale, condonando alle tante sciagure sofferte da questa nostra Italia le colpe antiche, ha voluto ora resuscitarla a nuova, gloriosissima vita, io vengo tra voi alla testa del mio esercito, assecondando così i più intimi impulsi del mio cuore; io vengo tra voi non curando di stabilire alcun patto; vengo solo per compiere la grand'opera che il vostro stupendo valore ha così felicemente incominciata. Italiani ! In breve la nostra Patria sarà sgombra dallo straniero. E benedetta le mille volte la Divina Provvidenza che volle serbarmi un così bel giorno, che volle che la mia spada potesse adoperarsi a procacciare il trionfo della più santa di tutte le cause. Italiani! la nostra vittoria è certa; le mie armi, abbreviando la lotta ricondurranno tra voi quella sicurezza che vi permetterà di attendere con animo sereno e tranquillo a riordinare il vostro interno reggimento; il voto della Nazione potrà esprimersi veracemente e liberamente; in quest'ora solenne vi muovano soprattutto la carità della patria e l'abominio delle antiche divisioni, delle antiche discordie, che aprirono le porte d'Italia allo straniero; invocate dall'alto le celesti ispirazioni; e che l'angelico spirito di Pio IX scorra sopra di voi: Italia sarà !".

La vittoria è certa, diceva Carlo Alberto, lo stesso dicevano i membri del Governo provvisorio di Milano; questa era la convinzione di tutti gli italiani e, senza dubbio, l'Austria sarebbe stata cacciata allora dall'Italia se i principi della penisola avessero inviato tutte le forze di cui potevano disporre e i Lombardi e i Veneti avessero tempestivamente mandato in campo tutti gli uomini validi.

Di questo ora dobbiamo parlare: dell'atteggiamento degli altri sovrani italiani e degli aiuti militari e degli uomini mandati in soccorso in Lombardia. Fin dal 21 marzo i Fiorentini avevano chiesto al gonfaloniere RICASOLI di correre in aiuto dei fratelli di Milano. La sera di quel giorno il Granduca pubblicò un patriottico proclama, che fece esplodere l'entusiasmo della cittadinanza:

"Toscani ! - diceva il manifesto - L'ora del completo risorgimento d'Italia è giunta improvvisa, né può, chi davvero ama questa nostra patria comune, ricusarle il soccorso che reclama. Io vi promisi l'altra volta di assecondare lo slancio dei vostri cuori in circostanze opportune, ed eccomi a mantenere la parola. Ho dati gli ordini necessari perché le truppe regolari marcino senza indugio alle frontiere su due colonne, una per Pietrasanta, l'altra per S. Marcello. Le città e la capitale stessa sono affidate alla Civica sedentaria. I volontari che desiderano seguire le regolari milizie, riceveranno un'organizzazione istantanea, e sotto esperti ufficiali potranno partire. Duole che l'egregio Collegno, cui un'improvvisa infermità tolse la possibilità di spinger più innanzi l'ordinamento dei volontari, non possa oggi esser con loro. In mezzo allo slancio dei nostri cuori per la santa causa d'Italia non dimenticate la moderazione che abbellisce ogni impresa. Io veglio con il mio governo agli altri bisogni del paese, e intanto affretto con le mie premure le conclusioni di una potente Lega Italiana, che ho sempre vagheggiato e della quale pendono le trattative. Il generale comandante le truppe regolari, il prefetto ed il gonfaloniere di Firenze formano una commissione incaricata del movimento immediato della colonna verso San Marcello. Il governatore, il gonfaloniere di Livorno e il colonnello LAUGIER sono incaricati del movimento immediato della colonna verso Pietrasanta. Viva l'Italia Costituzionale !".

I movimenti delle truppe granducali non furono così celeri come annunciato nel proclama e i volontari non affluirono così numerosi come si sperava, per colpa delle stesse autorità le quali facevano credere che non ce ne fosse bisogno perché già in esubero. Il contingente alla fine offerto dalla Toscana fu di settemila e settecento uomini, fra cui tremila volontari, che partirono in due scaglioni il 3 e il 6 aprile, comandati dal generale ULISSE D'ARCO FERRARI e furono collocati alla destra sull'Oglio.

Maggior numero di truppe le diede invece lo Stato Pontificio. II governo decretò la costituzione di un esercito d'operazione composto di quattro reggimenti di fanteria italiana, dei reggimenti svizzeri, di due reggimenti di cavalleria, di tre batterie da campagna, di due compagnie del Genio e di una di artificieri, e nominò il piemontese generale GIOVANNI DURANDO capo supremo con l'ordine di mettersi in comunicazione con Carlo Alberto e di operare con lui in concordia, e affidò la costituzione e il comando dei corpi volontari al generale FERRARI.

Fu grande fu l'entusiasmo di quei giorni. "Chi d'oltr'Alpe e d'oltre mare scese in Italia - scrive il Farini - vide le nostre città mutate in famiglie che un comune affetto consola e riscalda, e chi era atto alle armi riversarsi nei campi di guerra, e le donne animare i mariti ed i figliuoli, e i preti benedire le bandiere, e all'altare della patria i cittadini recare doni; vide molti esempi di generosità e di sacrificio. Il Papa e le Congregazioni religiose fecero ricchi donativi, i principi romani gareggiarono di liberalità con i cittadini; tutti pagarono lieti e spontanei il tributo alla patria; il popolo, se non nella ricchezza, i doni li cumulò nel fervore dell'affetto; anche il mendico stese la mano ai passanti questuando per l'Italia; le gentildonne si spogliarono dei preziosi ornamenti; le popolane di quei pegni d'amore e di fede che ricordano i più felici momenti della vita a chi sulla terra non gode altre felicità. Una giovane popolana a Bologna, non avendo gemme, donò il tesoro della sua bella chioma. Cardinali e principi donarono cavalli per le artiglierie; e per il campo partirono principi, duchi, nobili, cittadini e popolani affratellati, partirono due nipoti del Papa; ....le città erano in festa,... le insegne pontificie erano maritate ai colori nazionali; e la croce era in cima alla bandiera d'Italia".

Il generale DURANDO, che aveva per aiutanti di campo MASSIMO D'AZEGLIO e il conte AVOGADRO di Casanuova, e comandava settemilacinquecento uomini dell'esercito regolare, partì da Roma il 24 marzo. Regolari e volontari presero l'insegna della croce dopo il seguente ordine del giorno del Durando:

"La nobile terra lombarda che fu già glorioso teatro di guerra d'indipendenza, quando Alessandro III benediceva i giuramenti di Pontida, è ora calcata da nuovi prodi con i quali stiamo per dividere pericoli e vittorie.
Anch'essi, anche noi siamo benedetti dalla destra di un gran Pontefice, come furono quei nostri antichi progenitori. Egli santo, egli giusto, egli mansueto sopra tutti gli uomini, conobbe pure che contro chi calpesta ogni diritto, ogni legge divina ed umana, la ragion estrema delle armi, è la sola giusta, è la sola possibile. Quell'uomo di Dio, che aveva pianto sulle stragi, sugli assassini del 3 gennaio, ma sperato insieme che fossero solo effetto di una brutale passeggero eccesso di soldati sfrenati, ha potuto ora conoscere che l'Italia, ove non sappia difendersi, è condannata dal governo dell'Austria al saccheggio, agli stupri, alle crudeltà di una milizia selvaggia, agli incendi, all'assassinio, alla sua totale rovina; ha visto Radetzky muovere guerra alla Croce di Cristo, abbattere le porte del santuario, spingerci dentro il cavallo e profanare l'altare, violare le ceneri dei nostri con le immonde turbe dei suoi croati. Il Sommo Pontefice ha benedetto le vostre spade, che, unite a quelle di Carlo Alberto, devono concordi muovere allo sterminio dei nemici di Dio e dell'Italia e di quelli che oltraggiarono Pio IX, profanarono le chiese di Mantova, assassinarono i fratelli lombardi e si posero con la loro iniquità fuori da ogni legge. Una tal guerra della civiltà contro la barbarie, è perciò una guerra non solo nazionale, ma altamente cristiana. E' convenevole dunque ed ho stabilito che ad essa tutti muoviamo fregiati della Croce di Cristo. Quanti appartengono al corpo d'operazione la porteranno sul cuore. Con essa ed in essa noi saremo vincitori, come furono i nostri padri. Sia il nostro grido di guerra: Dio lo vuole".

Questo grido ricordava quello papale, quando fu promossa la prima Crociata, contro gli infedeli; ma gli Austriaci erano in questi anni, non solo i più fedeli al papa, ma anche con il loro esercito gli angeli custodi dello Stato Pontificio.

Infatti, al Pontefice non piacque questo linguaggio del DURANDO e subito nel giornale ufficiale fu pubblicata una nota in cui si diceva che
"il Papa, quando vuol fare dichiarazione di sentimento, parla "ex ....se" e non mai per bocca".
I suoi sentimenti Pio IX volle mostrarli il 30 marzo in un'allocuzione che iniziava con questa frase:

"ai popoli d'Italia salute e benedizione"
"dichiarava non essere opera umana gli avvenimenti degli ultimi due mesi, ma di Dio", si rallegrava che� "in una parte d'Italia si prevennero con i conforti della Religione i pericoli dei cimenti e con gli atti di carità si fece palese la nobiltà degli animi", si doleva "per offese in altri luoghi recate a ministri di questa religione medesima", esortava a bene usare la vittoria, e ricordava che "ogni stabilità ed ogni prosperità, ha per prima ragione civile la concordia; che Dio solo è quegli, che rende unanimi gli abitatori di una casa medesima" e terminava "Possano le nostre preghiere ascendere nel cospetto del Signore, e far discendere sopra di voi quello spirito di consiglio, di forza e di sapienza, di cui è principio il temere Iddio, affinché gli occhi nostri vedano la pace sopra tutta questa terra d'Italia, che se nella nostra città universale per tutto il mondo cattolico non possiamo chiamare la più diletta, Dio volle però che fosse a Noi la più vicina".

II 26 marzo partì da Roma il generale FERRARI con i volontari. Salutandoli, Pio IX li accompagnò con queste parole:

"Come Capo della Chiesa, io sono in pace con tutto l'universo; ma come principe italiano io ho il diritto di difendere la mia patria italiana".
I volontari erano soltanto duemilatrecento perché si erano sospese le iscrizioni per mancanza di armi, ma lungo la via il numero aumentò e a Bologna ne contava già dodicimila. Oltre ai volontari del Ferrari lo Stato Pontificio fornì un corpo di milleduecento volontari, metà dei quali studenti, al comando di LIVIO ZAMBECCARI. Questo corpo ebbe dal Durando l'incarico di coprire la posizione di Francolino sul Po; il Durando, prima rimase ai confini dello Stato, poi li varcò ed andò ad accamparsi ad Ostiglia e a Governolo.

Anche il regno delle Due Sicilie diede il suo contributo di volontari e di regolari alla guerra per l'indipendenza. I Siciliani, essendo in guerra con Ferdinando, non riuscirono a mandare che un centinaio di uomini, comandati da GIUSEPPE LA MASA; i volontari napoletani furono invece molto di più: il 29 marzo partirono per Genova i primi centosettantadue, arruolati e condotti dalla principessa CRISTINA BELGIOIOSO; altrettanti ne partirono il 3 aprile sotto il comando del maggiore BELLINI. Il 5 aprile s'imbarcarono le prime
truppe regolari e cioè il 1° battaglione del 10° reggimento di fanteria comandato dal colonnello RODRIGUEZ; dieci giorni dopo, seguirono il 2° battaglione e settecento volontari capitanati da CESARE ROSSAROLL.
Il 29 marzo era giunto a Napoli, dopo ventisette anni d'esilio, il generale GUGLIELMO PEPE, e quel giorno stesso si era dimesso il ministero CARIATI, per le proteste fatte dall'ambasciatore austriaco SCHWARTZENBERG a causa dell'invio dei volontari contro l'Austria e dell'oltraggio fatto, il 25 marzo, dal popolo napoletano allo stemma imperiale.
Il re affidò l'incarico al PEPE di comporre il nuovo ministero, ma, quando udì le condizioni del generale, il quale voleva concedere facoltà costituenti alla Camera dei rappresentanti; istituire il suffragio universale a due gradi per le elezioni politiche; inviare in Lombardia le truppe stanziali e affidare alla Guardia nazionale la custodia delle fortezze, Ferdinando gli tolse il mandato.

Il 3 aprile fu costituito il nuovo ministero con lo storico CARLO TROYA alla presidenza, VINCENZO degli UBERTI ai Lavori Pubblici, LUIGI DRAGONETTI agli Esteri, RAFFAELE CONFORTI all'Interno, GIOVANNI VIGNALE alla Giustizia, il conte PIETRO FERRETTI alle Finanze, il brigadiere RAFFAELE DEL GIUDICE alla Guerra e Marina, ANTONIO SCIALOIA all'Agricoltura e Commercio, PAOLO EMILIO IMBRIANI alla Pubblica Istruzione, e FRANCESCO PAOLO RUGGERO agli Affari Ecclesiastici.
Questo ministero, gradito al sovrano e ai liberali di ogni grado, si proponeva fra l'altro di inviare immediatamente commissari per la Lega Italiana, di mettere a disposizione di questa un forte contingente di truppe, di aggiungere alla bandiera borbonica i tre colori dell'Italia, e di affrettare l'armamento della Guardia nazionale.
Poi si mise mano ai preparativi, e si mandò a Torino PIER SILVESTRO LEOPARDI per trattare sui compensi che a guerra finita sarebbero toccati a Ferdinando II; s'inviarono il 5 aprile, come si è detto, le prime truppe regolari e, mentre si allestiva il grosso della spedizione, il re del Regno Due Sicilie, proprio lui, ERDINANDO II di BORBONE, emanò il 7 aprile dell'anno 1848, un proclama atipico, bellicoso e decisamente antiaustriaco

"Miei amatissimi popoli".

"Il vostro re divide con voi quel vivo interesse che la causa italiana che è desta in tutti gli animi; ed è deliberato contribuire alla sua salvezza e vittoria con tutte le forze materiali che la nostra particolare posizione in una parte del regno ne lascia disponibili. Benché non ancora confermata con certi ed invariabili patti, noi consideriamo come esistente di fatto la Lega italiana, giacché l'universale consenso dei principi e dei popoli della penisola ce la fa guardare come già conclusa, essendo prossimo a riunirsi in Roma il congresso che noi fummo i primi a proporre e siamo per essere i primi a mandarvi i rappresentanti di questa parte della gran famiglia italiana.
Già per noi si è, fatta una spedizione per via mare, e già una divisione si è messa in movimento lungo la marina dell'Adriatico per operare di concerto con l'esercito dell'Italia centrale. Le sorti della comune patria vanno a decidersi nei piani della Lombardia, ed ogni principe e popolo della penisola è in debito di accorrere a prendere parte alla lotta che ne deve assicurare l'indipendenza, la libertà, la gloria.
Noi, benché premuti da altre particolari necessità che tengono occupata una bella parte del nostro esercito, intendiamo concorrervi con tutte le nostre forze di terra e di mare, con i nostri arsenali e con i tesori della nazione. I nostri fratelli ci attendono sul campo dell'onore, e noi lì non mancheremo, ove si dovrà combattere per il grande interesse della nazionalità italiana.
Popoli delle Due Sicilie, stringetevi al vostro principe. Restiamo uniti per essere forti e temuti e prepariamoci alla battaglia con la calma che nasce dal sentimento della forza e del coraggio.
Confidiamo nel valore dell'esercito per aver quella parte nella magnanima impresa, che si conviene al maggior principato della penisola. Per spiegare tutto il vigore al di fuori abbiamo bisogno di concordia e di pace nell'interno, e noi contiamo sull'ottimo spirito della nostra bella Guardia Nazionale e sull'amore del nostro popolo per la conservazione dell'ordine e l'osservanza della legge; come esso dovrà contar sempre sulla nostra lealtà e sul nostro amore alle libere istituzioni che abbiamo solennemente giurato e che intendiamo mantenere a costo d'ogni maggiore sacrificio.
Unione, abnegazione e fermezza; e l'indipendenza della nostra bellissima Italia sarà conseguita. Questo sia l'unico nostro pensiero, una sì generosa passione faccia tacere tutte le altre meno nobili; ventiquattro milioni d'Italiani di certo avranno una patria potente, un comune e ricchissimo patrimonio di gloria, ed una nazionalità rispettata che peserà molto sulle bilance politiche del mondo".

Mentre FERDINANDO usava questo linguaggio, non tagliava, come avrebbe dovuto, i ponti con l'Austria, lasciava a Vienna il suo ambasciatore e, partito lo SCHWARTZENBERG, permise che rimanesse come incaricato d'affari presso l'imperatore il conte LEIBZELTERN, pur conoscendo i maneggi di costui a danno dell'impresa dell'indipendenza.
GUGLIELMO PEPE consigliò FERDIANNDO di mettersi alla testa di sessantamila uomini e correre in Veneto a dettare patti all'Austria per controbilanciare l'influenza di CARLO ALBERTO e di PIO IX.
Lui invece avrebbe sarebbe andato in Sicilia, a ridurla all'obbedienza.
Ma Ferdinando, il quale più che alla guerra contro l'Austria pensava a riavere l'isola, volle tenere per sé quest'ultima impresa e la maggior parte delle truppe e destinò al corpo di spedizione in Lombardia circa sedicimila uomini; e GUGLIELMO PEPE ebbe il supremo comando di questo corpo, composto di due divisioni; una comandata dal tenente generale GIOVANNI STATELLA e l'altra dal brigadiere CARLO NICCOLETTI. Queste truppe, che ci si riprometteva di portare a quarantamila gli uomini, dopo trattative con il Pontefice, che cedette il passo per le Marche solo quando gli fu assicurato che non avrebbero passato il Po, cominciarono a giungere ad Ancona il 30 aprile.
Il Pepe partì da Napoli il 4 maggio con l'istruzione "di limitarsi ad unire le truppe sulla sponda destra del Po, ed attender là gli ordini del Governo sull'eventuale parte attiva che avrebbe dovuto prendere in quella guerra mirata a liberare l'Italia dallo straniero".
Intanto una flotta borbonica, capitanata dal DE COSA era partita per l'alto Adriatico per unirsi alla flotta sarda dell'Albini.

Per completare la rassegna delle altre forze destinate a cooperare con l'esercito sabaudo di Carlo Alberto, aggiungiamo che i ducati fornirono duemila uomini circa comandati dai colonnelli CUCCHIARI e FONTANA; che la Lombardia mise in campo trentaduemila uomini, dei quali ottomila rimasero a Milano, undicimila andarono sul Mincio alla fine di giugno, settemila combatterono organizzati in corpi di volontari nelle valli dell'Adda, dell'Oglio e del Chiese e seimila furono inviati ai battaglioni piemontesi di deposito per essere istruiti; e che altri modesti corpi di volontari costituì pure il Veneto.
A questi vanno aggiunti i cento e più volontari mandati dall'Associazione nazionale italiana fondata dagli esuli per iniziativa del MAZZINI. Questi volontari, che erano comandanti dal colonnello AUTONINI, sbarcarono a Genova sulla fine di aprile e si recarono a Pavia, ingrossarono diverse decine di giovani che avevano partecipato alle Cinque Giornate di Milano e passarono in territorio veneto.


Ora con la prossima puntata, entriamo nel vivo della battaglia
l'esercito del re piemontese marcia sul Mincio
ci aspettano le battaglie di Pastrengo, Peschiera, Goito
e le autodifese delle città venete
Anno 1848 - Atto Sesto > > >

Fonti, citazioni, e testi
Prof.
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - (i 5 vol.) Nerbini
P.COLLETTA - Storia (Napoleonica) del Reame di Napoli 1734-1825- 1834
A. VANNUCCI - I Martiri della Libertà - Dal 1794 al 1848 - Lemonnier 1848
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
CRONOLOGIA UNIVERSALE - Utet 
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
+ ALTRI VARI DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE  

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