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( QUI TUTTI I RIASSUNTI )  RIASSUNTO ANNI 1846-1847

IL "PRIMATO" DI GIOBERTI - LE "SPERANZE" DI BALBO - IL SAFFI
LA MORTE DI PAPA GREGORIO XVII


IL MAZZINI E IL GIOBERTI - IL "PRIMATO MORALE E CIVILE DEGLI ITALIANI" - LA TESI GIOBERTIANA - GLI OPPOSITORI DEL GIOBERTI - I "PROLEGOMENI AL PRIMATO" E IL "GESUITA MODERNO" - "LE SPERANZE D' ITALIA" DEL BALBO - IL PROBLEMA NAZIONALE NEGLI SCRITTI DEL TIRELLI, DEL DURANDO E DEL CAVOUR - IL D'AZEGLIO, IL CAPPONI, IL GALEOTTI E LE CONDIZIONI DELLO STATO PONTIFICIO - INDIRIZZO DEI LIBERALI DI FORLI' - MORTE DI GREGORIO XVI
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IL MAZZINI E IL GIOBERTI
IL PENSIERO GIOBERTIANO E I SUOI OPPOSITORI

Fra i tanti arrestati, il 20 maggio 1833- dopo la scoperta a Torino della cospirazione mazziniana - c'era anche l'abate VINCENZO GIOBERTI, cappellano di corte di Carlo Alberto. La sua imputazione era quella di essere l'autore (anche se figurava sotto lo pseudonimo "Demofilo") di una lettera pubblicata nel sesto fascicolo della "Giovine Italia", col titolo "Della repubblica e del cristianesimo". Essendo un ecclesiastico e per la dimostrata estraneit� all'associazione mazziniana, Gioberti non fu processato, ma i sospetti sul suo conto rimasero, e quindi lo s' "invit�" a lasciare sia la corte sia lo stesso Piemonte. Vincenzo Gioberti era nato a Torino nel 1801. Dottore in teologia nel 1823, nel 1825 nominato sacerdote.
Anche se collabor� con la rivista "Giovine Italia", non vi era iscritto; la sua affiliazione ad una societ� segreta era del 1830, ma era nelle file di quella d'orientamento liberal-moderato dei "Cavalieri della Libert�".
All'inizio del 1833 era stato appena nominato cappellano di corte.

L'esilio lo trascorse dapprima a Parigi, poi dal 1834 a Bruxelles, dedicandosi all'insegnamento e agli studi filosofici e politici. Negli uni e negli altri -era del resto un sacerdote- esaltava nella Chiesa la fonte dei valori morali e sociali essenziali al progresso dell'umanit�. Questo significa che si pronunciava contro l'iniziativa rivoluzionaria popolare sostenuta da MAZZINI; prendeva le distanze dal suo giovanile orientamento repubblicano, elaborava riflessioni sulla situazione italiana, e compilava scritti ferraginosi, ricchi d'efficaci slanci oratori, tuttavia accolti con atteggiamenti di riserva da parte dei liberali- moderati, e dagli altri pi� accesi con molti rimproveri, e i maggiori erano quelli che Gioberti non condannava mai il (ormai palese) malgoverno dello Stato della Chiesa; non trattava lo spinoso problema austriaco; e non era credibile quando voleva attribuire il ruolo propulsore ("essenziali al progresso dell'umanit�") ad un papa (c'era allora l'ottantenne Gregorio XVI !!) e soprattutto ai vescovi e cardinali tutti prigionieri di un'ottica estremamente conservatrice, reazionaria, e tutti filo-austriaci, con gli Asburgo che in quanto ad assolutismo avevano rimpiazzato i defunti Capeti.

Lasciamo queste note, e inoltriamoci negli stessi scritti del Gioberti:
(che riportiamo fedelmente e letteralmente nella sua originale sintassi)

"Voi credete - Scriveva il Gioberti nel settembre del 1834 al Mazzini (mese con l'invito ad abbandonare il Piemonte) - che uno o pi� tentativi parziali di una rivoluzione italiana possano rivolgere le sorti della penisola con le sole forze degli Italiani, senz'altro concorso, voi a quest'effetto fate grande affidamento nei fuorusciti; e quindi giudicate che ci dobbiamo appigliare a questo partito, ogni qualvolta ne venga il destro, senz'altra considerazione sulle cose d'Europa.
Io al contrario sono dell'opinione che le invasioni armate dei fuorusciti, salvo casi rarissimi e non applicabili all'odierna Italia, non possono aver buon successo, e che non riuscendo, i loro effetti siano ad ogni modo calamitosi .... Voi dite inoltre, se vi ho bene inteso, che le mosse, ancorch� sventurate, sono utili per istruire il popolo, il quale, non potendosi ormai con le parole e con i libri, si deve addottrinarlo con le azioni.
Non vi nego affatto questo genere d'utilit�, e di pi� vi confesso che, secondo la mia opinione, anzi dir�, la mia religione, ogni qual volta un disegno � effettuato, cio� divenuto un fatto, io riconosco in esso un beneficio della Provvidenza, che sa per vie incomprensibili dalla mente umana condurre a bene eziandio le calamit�. E fra i vantaggi osservabili da noi, derivanti da simili imprese, ha luogo quello che voi accennate, come pure quel rigido grido di giustizia e di vendetta che si leva dal sangue innocente contro di quelli che lo versarono. Nientemeno, siccome noi nel governarci dobbiamo pesare i beni con i mali, e l'utile con il danno, nel caso di cui discorriamo credo questo di gran lunga maggiore.
I tentativi falliti di rivoluzione indeboliscono ancor pi� le vie e spaventano i fiacchi ed i buoni, scemano il numero dei forti, avvalorano i malvagi, scoraggiano l'universale e porgono ai principi e ai governi occasione giustificata non solo d'incrudelire ma di restringere e annullare al possibile quei mezzi d'istruzione che in una civilt� rozza e debole come la nostra sono pure di tanto rilievo".

Questa lettera ci mostra alcuni punti soltanto il dissenso tra il pensiero politico del Mazzini e quello del Gioberti; ma ve ne sono altri e pi� importanti. Il Mazzini � unitario e rivoluzionario, il Gioberti federalista e riformista; Mazzini � repubblicano, Gioberti sogna a capo della federazione il Pontefice; il primo rimane prigioniero del suo sogno utopistico, il secondo si tiene piuttosto a contatto con la realt�.
Quale era il suo pensiero politico VINCENZO GIOBERTI lo indic� nel suo famoso libro intitolato "Il Primato morale e civile degli Italiani", pubblicato nel 1843, che � glorificazione appassionata del genio della stirpe italica, dimostrazione della superiorit� italiana nella storia della civilt�, incitamento formidabile agli Italiani oppressi ad operare con virilit� per riacquistare la libert� e la grandezza e, infine, indica un vasto programma politico di una larga corrente di riformisti che saranno in breve tempo i seguaci del cosiddetto "neoguelfismo".

La tesi giobertiana � questa: l'Italia, che nel medioevo aveva moralmente e civilmente dominato il mondo grazie alla Chiesa Cattolica e con il Papato, doveva tornare maestra di civilt� stringendosi intorno alla Santa Sede in una federazione nazionale di Stati presieduta dal Pontefice.
Non rivolta di popoli contro i principi, ma l'accordo tra i principi e i popoli, non lotta tra Nazione e Papato, ma concordia, armonizzazione, tra quella e questo, non utopie unitarie e repubblicane, non congiure e sommosse, ma lega nazionale, e savie riforme liberali. Era una prospettiva (anche quest'utopistica) che offriva una riconciliazione nazionale da opporre alle aspirazioni rivoluzionarie dei democratici.

Concludendo l'opera sua, il Gioberti contempla, quasi rapito in estasi, l'immagine dell'Italia quale l'ha costruita con il desiderio e con l'amore di figlio:
(riportiamo qui fedelmente il passo in questione)

"E qual pi� bello spettacolo pu� affacciarsi alla mente di un Italiano, che la sua patria una, forte, potente, devota a Dio, concorde e tranquilla in se medesima, rispettata e ammirata dai popoli? Quale avvenire si pu� immaginare pi� beato? Quale felicit� pi� desiderabile? Se per creare questa famosa Italia fosse d'uopo esautorarne i suoi presenti e legittimi possessori, o ricorrere al triste partito delle rivoluzioni, o al tristissimo e vergognosissimo espediente dei soccorsi stranieri, la bont� dell'effetto non potrebbe giustificare l'iniquit� dei mezzi, e la considerazione di questi basterebbe a contaminare ed avvelenare il conseguimento del fine. Ma nessuna di queste idee torbide, nessuna di queste speranze colpevoli rattrista il mio dolce sogno. Io m'immagino la mia bella patria: una di lingua, di lettere, di religione, di genio nazionale, di pensiero scientifico, di costume cittadino, di accordo pubblico e privato fra vari stati ed abitanti, che la compongono. Me la immagino poderosa ed unanime per un'alleanza stabile e perpetua dei suoi cari principi, la quale accrescendo le forze di ciascuno di essi con il concorso di quelle di tutti, far� dei loro eserciti una sola milizia italiana, assicurer� le soglie della penisola contro gli impeti stranieri, e mediante un naviglio comune, ci render� formidabili anche sulle acque e partecipi con gli altri popoli nocchieri al dominio dell'oceano.

"Io mi rappresento la festa e la meraviglia del mare, quando una flotta italiana solcher� di nuovo le onde mediterranee, e i mobili campi del pelago usurpati da tanti secoli, ritorneranno sotto l'imperio di quella forte e generosa schiatta che ne tolse o loro diede il suo nome. Veggo (vedo - Ndr.) in questa futura Italia risorgente fissi gli occhi di Europa e del mondo; Veggo le altre nazioni prima attonite e poi ligie e devote, ricevere da essa per un moto spontaneo i principii del vero, la forma del bello, l'esempio e la norma del bene operare e dal sentire altamente. Veggo i rettori de' suoi vari stati e tutti gli ordini dei cittadini, animati da un solo spirito, concorrere fraternamente per diversi modi alla felicit� della patria, e gareggiare fra loro per accrescerla, per renderla stabile e perpetua. Veggo i nobili ed i ricchi dignitosamente affabili, cortesi, manierosi, moderati, pii, caritatevoli non apprezzare i privilegi del loro grado, se non in quanto agevolano l'acquisto di quelli dell'ingegno e dell'animo, porgendo loro pi� ampi e frequenti occasioni che esercitare ogni virt� privata e civile, di beneficare i minori, di attendere al culto e al patrocinio efficace delle buone arti, del sapere e delle lettere. Veggo i chierici secolari gareggiare con i laici di amore, per nobili studi, eziandio i profani, e di zelo per il pubblico bene: consigliare, favorire, promuovere i progressi ragionevoli e fondati, con quella riserva e moderazione che si addice alla santit� del loro ministero; abbellire con la decorosa piacevolezza dei modi la severit� dei costumi illibati; fuggire persino l'ombra dell'intolleranza, dell'avarizia, della simulazione, delle cupidigie mondane, delle brighe scolaresche, di tutto ci� che sa di gretto, di angusto, di vile, di meschino; rivolgersi per gli ospizi di carit� e di beneficenza, per gli alberghi della dottrina, frequentare gli ospedali, le carceri, i tuguri dei poveri, non meno che le scuole, i musei, le biblioteche, le radunate dei sapienti, e coltivare, insomma con pari ardore ed assennatezza tutto ci� che ammaestra, nobilita, adorna, consola e migliora in qualche modo l'umana vita... Veggo i giovani .... solleciti di rinnovare in se stessi i costumi degli antichi avi piuttosto che quelli dei propri padri; attendere indefessamente agli studi, fuggire l'ozio, la dissolutezza, i vani spettacoli, i donneschi trastulli, .... indurire, esercitare e non accarezzare il corpo, per renderlo ubbidiente all'animo, forte agli assalti, tollerante alle privazioni, e indomito ai travagli; ....Veggo gli scrittori consci del grave e sublime ministero loro commesso dal cielo, non far delle lettere strumento di lucro, di ambizione, di potenza a proprio vantaggio, ma di virt�, di cultura, di religione a pro dell'universale; ....Veggo i principi essere gli amici, i benefattori, i padri dei loro popoli .... E per effettuare tutti questi beni nel presente e assicurarli all'avvenire, io veggo i rettori d' Italia porre mano a quelle riforme civili, che sono consentite dalla prudenza e da ragion di stato, e conformi ai voti discreti della parte pi� sana della nazione�. Veggo protette, onorate, prosperanti l'agricoltura, le industrie, le imprese commerciali, le arti meccaniche, le arti nobili, le lettere, le scienze�. Veggo l'educazione e l'istruzione pubblica in fiore, e la libert� individuale di ogni cittadino cos� inviolabile e sicura sotto l'egida del principato, come sarebbe nelle migliori repubbliche�.Veggo infine la religione posta in cima di ogni cosa umana; e i principi, i popoli gareggiar fra loro di riverenza e di amore verso il romano pontefice, riconoscendolo non solo come successore di Pietro, vicario di Cristo e capo della Chiesa universale, ma come doge e gonfaloniere della confederazione italiana, arbitro fraterno e pacificatore di Europa, istitutore e incivilitore del mondo, padre spirituale del genere umano, erede e ampliatore naturale e pacifico della grandezza latina.

"E quindi mi rappresento assembrata ai suoi piedi e benedetta dalla sua destra moderatrice la dieta d'Italia e del mondo e m'immagino rediviva in questo doppio e magnifico concilio, assiso sulle rovine dell'antica Roma, quella curia veneranda, che grava le sorti delle nazioni, e in cui il discepolo di Demostene ravvisava non una congrega di uomini, ma un consesso di immortali. Cos� mi par di vedere il bene pubblico finalmente d'accordo con il privato, e la felicit� d' Italia composta con quella degli altri popoli, sotto il patrocinio di un supremo ed unico conciliatore; e quindi spento con questa beata concordia ogni seme di guerre, di sommosse, di rivoluzioni. Laonde io mi rincuoro pensando che la nostra povera patria, devastata tante volte dai barbari e lacerata dai suoi propri figliuoli, sar� libera da questi due flagelli, e poser�, prosperando, in dignitosa pace.

"Non vi sar� pi� pericolo che un ipocrita od insolente straniero la vinca con insidiose armi, la seduca, l'aggiri con bugiarde promesse e con perfide inclinazioni, per disertarla colle sue forze medesime e metterla al giogo; tanto che ella non vedr� pi� le sue terre rosseggiare di cittadino sangue, n� i suoi impavidi e generosi figli strozzati dai capestri, bersagliati con le palle, trucidati dalle mannaie, e esulanti miseramente in estranee contrade. Ch� se pur toccher� qualche volta ai nostri nipoti di piangere, le loro lagrime non saranno inutili, e saranno alleviate dalla carit� patria e dalla speranza; perch� essi sapranno di dover combattere solamente con i barbari, e a ricevere, occorrendo, la morte dalla spada nemica, non da un ferro parricida. Questa certezza render� dolci le pi� amare separazioni, quando al grido di guerra correranno i prodi sul campo; e sparger� di soave conforto gli amplessi dei vecchi padri e delle madri, e i baci delle tenere spose e l'ultimo addio dei fratelli. E i morenti potranno beare il supremo loro sguardo nel cielo sereno della patria, o quando ci� sia negato, consolarsi almeno pensando che le stanche loro ossa avranno il compianto dei cittadini, dei congiunti, degli amici, e non giaceranno dimenticate n� illacrimate in terra straniera".

Sebbene il Gioberti non precisasse "come" si sarebbe dovuta effettuare la federazione e lasciasse insolute (perch� non lo discusse) parecchie importantissime questioni del problema nazionale, pure il suo programma gli guadagn� un gran numero di consensi, specie tra i moltissimi che stavano lontani dalle violenze, tra quelli che giudicavano pericolose le rivoluzioni, tra quelli che non avevano pi� fiducia nelle sommosse e tra tutti coloro che, pur amando la patria e desiderando la sua resurrezione, temevano uno sconvolgimento politico e un'offesa alla loro fede cattolica. Accolsero inoltre il programma giobertiano (che non chiedeva grandi sacrifici a nessuno), tutti gli amanti delle facili conquiste: il granduca LEOPOLDO II, CARLO ALBERTO che assegn� al Gioberti una pensione annua, parecchi porporati, quali il GIZZI, il CIACCHI, il TARDINI, l' OPIZZONI, l' AMAT e il MASTAI-FERRETTI (futuro Pio IX, nel '46), e infine il basso clero, che trascin� le plebi rurali, devote alla Chiesa e alle dinastie "regnanti con il "diritto divino"".

Ci dobbiamo ripetere, ma questo era il concetto del Gioberti ancora nel 1848:

"�.il diritto del Principe � divino ("Unto dal Signore"), poich� risale a quella sovranit� primitiva onde venne organato ed istituito il popolo di cui regge le sorti...La sovranit� si riceve, ma non si fa e non si piglia...Ella importa la sudditanza, come un necessario correlativo; e il dire che il sovrano possa essere creato dai suoi soggetti, e trarne i diritti che lo privilegiano, include contraddizione. Insomma, il sovrano � autonomo rispetto ai sudditi, e se ricevesse da loro l'autorit� sua, non sarebbe veramente sovrano, perch� i suoi titoli ripugnerebbero alla sua origine... I sudditi dipendono dal sovrano, e non viceversa...L'obbligazione verso il sovrano dee dunque essere assoluta, altrimenti la sovranit� � nulla..."La potest� � ordinata, e da Dio procede", come allude l'Apostolo (Paul. ad rom., XII,1,2). Sapete donde nasce il pi� grave pericolo? Dal predominio della plebe, la quale promette una seconda barbarie pi� profonda di quella dei Vandali e degli Unni e un dispotismo pi� duro del napoleonico. Guai alla civilt� nostra se la moltitudine prevalesse negli Stati". - (Vincenzo Gioberti, Storia della filosofia, cap. Della politica, vol III, Tipografia Elvetica, Capolago 1849 - Prima edizione, che chi scrive, possiede).

Gli oppositori al "Primato" naturalmente non mancarono. Da un lato i governi del LombardoVeneto (austriaco), dello Stato Pontificio e delle Due Sicilie proibirono il "Primato", dall'altro attaccarono il Gioberti i mazziniani e gli anticlericali, mentre G. B. NICCOLINI, a difendere il pensiero neoghibellino, pubblicava l'"Arnaldo da Brescia" e il GIUSTI satireggiava acutamente il neoguelfismo con "Il Papato di Prete Pero" e il "Ponziamo il poi".
Ma quelli che si scagliarono pi� aspramente contro il Gioberti furono i Gesuiti, i quali coi loro attacchi provocarono una fiera risposta del filosofo torinese, che nel 1845 pubblic� i "Prolegomeni al Primato":
"Giunta � l'ora - diceva - in cui l'Italia non vuol pi� essere lo zimbello e lo scherno d'Europa, non vuol pi� cedere in potenza ed in fiore a nessuno degli Stati che la circondano".

Quindi con calda eloquenza si scagliava contro l'Austria e il re delle Due Sicilie, il cui dispotismo era inconciliabile con la libert� e la civilt�, e a quest'ultimo rimproverava il martirio dei fratelli Bandiera; assaliva vigorosamente i Gesuiti, favorevoli al dispotismo pi� per desiderio di potere temporale che non di dominio spirituale, e i pi� responsabili (come consiglieri) del malgoverno dei principi e del Papa; augurava la fratellanza del chiericato con il laicato civile ed auspicava la grandezza e la libert� della patria che non potevano mancare se concordemente volute da tutti gli Italiani.
Grandissimo fu il successo dei "Prolegomeni" che attirarono sull'autore le ire violentissime dei Gesuiti. In difesa di costoro sorsero padre FRANCESCO PELLICO, fratello di Silvio, padre ROMANO, padre LUIGI TAPARELLI, fratello di Massimo d'Azeglio, e il padre CARLO CURCI.
Dopo gli attacchi il Gioberti si mise a scrivere il "Gesuita moderno", dove con impeto e calore, ma con prolissit� e un'asprezza eccessiva, censura la dottrina e la pratica dei Gesuiti e i loro sistemi educativi che avevano favorito il distacco dell'azione dal pensiero.

CESARE BALBO e le "SPERANZE d'ITALIA"

Dal "Primato" giobertiano ebbe poi origine l'opera di CESARE BALBO, piemontese, intitolato "Le speranze d'Italia" e stampata a Parigi nel 1844. Riformista anche lui, al pari del Gioberti il Balbo respingeva l'idea dell'unit� ed accettava invece quella della confederazione, perch� tale ordinamento lo vedeva pi� conforme alla natura e alla storia d'Italia, ma non voleva che al Papa fosse data la presidenza.
Il Balbo sosteneva, che non era possibile creare una confederazione fino a che una parte d'Italia fosse sottomessa allo straniero; metteva pertanto come condizione indispensabile per raggiungere il nuovo ordinamento l'indipendenza della penisola e perci� la liberazione del Lombardo-Veneto.
Per ottenere lo sgombro dell'Austria occorreva o una sollevazione generale, o la forza unita di tutti gli stati italiani o l'intervento di qualche potenza straniera. Alla guerra per� il Balbo non pensava. Egli sperava l'indipendenza dalla caduta dell'impero ottomano, che credeva imminente, e che avrebbe fatto s� che l'Austria, espandendosi nel vicino oriente, abbandonasse volontariamente le province italiane.
Il libro si guadagn� feroci critiche, dagli unitari, dai non pochi moderati e il noto epigramma del SALVAGNOLI:
Italia mia, non � s' io scorgo il vero,
di chi ti offende il di fensor men fero;
grida il Gioberti che tu se' una rapa
se tutta non ti dai in braccio al Papa;
e il Balbo grida: dai Tedeschi lurchi
liberar non ti possono che i Turchi.

Tuttavia ebbe in compenso il plauso di moltissimi per quella voce d'indipendenza che l'autore la tirava fuori da un petto generoso e che lanciava forte a tutti i fratelli d'Italia.

Pi� che le idee esposte nel "Primato" e nelle "Speranze" la cosa pi� importante era che il fondamento delle due opere, cio� "il problema italiano" lo si discuteva liberamente e pubblicamente. LUIGI TIRELLI pubblicava a Parigi nel 1846 i "Pensieri di un anonimo lombardo", in cui agitava l'idea dell'indipendenza da conseguirsi con le armi e proponeva che l'Italia fosse divisa in tre regni costituzionali indipendenti:

1� Regno dell'Alta Italia, costituito dagli Stati Sardi, dal Lombardo-Veneto e dal ducato di Parma;
2� Regno dell'Italia Centrale, formato dal ducato di Modena, dal Granducato di Toscana e dallo Stato Pontificio;
3� Regno dell'Italia Meridionale costituito dalle Due Sicilie e dai territori papali oltre il Tevere e il Teverone. La citt� di Roma doveva esser libera, sotto la protezione dei tre regni e sede del Pontefice, principe indipendente; i tre stati dovevano avere "eguale costituzione", "unione doganale" ed essere "confederati".

Discorrendo dei modi pratici per conseguire l'indipendenza, il Tirelli consigliava che si destasse il sentimento nazionale e s'influisse sullo spirito pubblico togliendo o diminuendo quegli ostacoli che il momento dell'esecuzione del disegno potevano produrre, specie nel Lombardo Veneto, reazioni interne, promuovendo direttamente la buon'armonia fra le popolazioni dei vari stati italiani e spegnendo gli odi municipali, e agendo sulle popolazioni e in modo speciale sulla giovent� con l'educazione morale e intellettuale. Inoltre proponeva la pubblicazione di un giornale nazionale, che mostrasse all'Europa le condizioni ed i bisogni dell'Italia, e fosse strumento efficace di propaganda, di educazione e di preparazione, ed una banca nazionale che raccogliesse i mezzi per effettuare l'impresa dell'indipendenza.
Alla discussione prendeva parte il piemontese GIACOMO DURANDO reduce dalle guerre del Portogallo e della Spagna, con un "Saggio politico e militare della Nazionalit� italiana". Egli considerava allora un sogno irraggiungibile l'unit�, e proponeva che del territorio italiano si creassero due grandi stati: il Regno Italia Settentrionale e il Regno Italia Meridionale, formati il primo dalla regione Eridania, il secondo dall'Appenninica. Lasciava al Papa Roma con una piccola zona circostante. La regione insulare la destinava alla Santa Sede o a qualche altro principe.

IL PROBLEMA NAZIONALE NEGLI SCRITTI DEL CAVOUR

Chi, senza esporre progetti o fare proposte sul futuro ordinamento della penisola, e discorreva con grande equilibrio di idee e anche lui con profondo amor di patria era il conte CAMILLO BENSO di CAVOUR, che nel maggio del 1846 pubblicava un importantissimo articolo sulla "Revue Nouvelle" di Parigi intorno sull'agitata questione ferroviaria. Egli affermava che:
"....le forze materiali di cui dispongono i governi saranno impotenti a mantenere sotto il giogo le nazioni oppresse, quando l'ora della liberazione sar� suonata"; parlando dei mali d'Italia, affermava: "e Noi crediamo di poter stabilire come cosa certa che la prima causa se ne debba attribuire all'influenza politica, che gli stranieri fra noi esercitano da qualche secolo e che i principali ostacoli, i quali si oppongono a che noi possiamo affrancarci da questa funesta influenza sono anzitutto le divisioni intestine, le rivalit�, direi quasi le antipatie che dividono le une contro le altre le varie frazioni della grande famiglia italiana; e poi la diffidenza che esiste tra i principi nazionali e la parte pi� energica della popolazione. Questa parte � evidentemente quella di un desiderio sovente smodato di progresso, un sentimento pi� vivo della nazionalit�, un amore pi� ardente della patria rendono l'ausiliaria indispensabile, se non il principale strumento di ogni tentativo di emancipazione".

Scrivendo dell'avvenire d'Italia, cos� il Cavour si esprimeva:
"Questo avvenire, che noi invochiamo con tutti i nostri voti, � la conquista della indipendenza nazionale, bene supremo che l'Italia non potrebbe attendere che dalla concordia degli sforzi di tutti i suoi figli: bene senza il quale essa non pu� sperare alcun miglioramento reale o durevole nella sua condizione politica, n� camminare con passo sicuro sulla via del progresso".
"Perch� un popolo possa elevarsi ad un alto grado di civilt� occorre
- secondo il Cavour - che il sentimento della sua nazionalit� sia fortemente sviluppato" e con piacere Cavour constatava essere questo sentimento divenuto generale. "Ogni giorno - scriveva - aumenta ed � gi� cos� forte da tenere, nonostante le differenze che li distinguono uniti tutti i partiti in Italia. Quel sentimento non � pi� esclusiva propriet�, n� di una setta, n� degli uomini professanti esaltate dottrine".

IL GIOBERTI E GLI "ULTIMI CASI DI ROMAGNA"

Poich� quella dello stato Pontificio appariva la parte pi� difficile del problema nazionale, era principalmente a questa parte che si rivolgeva l'attenzione degli scrittori. Alla pubblicazione del "Manifesto di Rimini" seguiva - come abbiamo visto - quella "Degli ultimi casi di Romagna" in cui il d'Azeglio condannava entrambi: il malgoverno del Papa e la rivolta dei liberali.
La sostanza dello scritto del d'Azeglio � tutta in questa conclusione:
(un concetto che � rimasto sempre valido, nel tempo, e lo � tuttora):
(Lo riportiamo fedelmente e letteralmente nella sua originaria sintassi)

"Il coraggio delle congiure, delle sommosse, il coraggio fisico, per cos� dire, manesco, l'abbiamo noi Italiani, come tutti gli uomini d'immaginazione e di sangue caldo. Ma ci manca, o l'abbiamo in minor grado, il coraggio morale, il coraggio civile. A questo, a raccomandarlo, a dirlo il pi� utile, anzi il solo, per ora almeno veramente utile, il solo necessario, tende tutto il mio ragionamento, del quale si pu� in poche parole riassumere il senso, dicendo: doversi usare noi Italiani prima il coraggio civile per ottenere dai nostri governi miglioramenti, istituzioni e temperate libert�; poi il coraggio militare per ottenere l'indipendenza, quando ce ne vorr� Iddio concedere l'occasione. Protestare, contro l'ingiustizia, contro tutte le ingiustizie apertamente, pubblicamente, in tutti i modi, in tutte le occasioni possibili, �, a parer mio, la formula che esprime la maggior necessit� della nostra epoca in Italia, il mezzo pi� utile e la pi� potente azione al presente. La prima, la maggiore protesta, quella che non dobbiamo stancarci giammai di fare, che deve risuonare in tutte le lingue, uscire da tutte le penne, debba essere contro l'occupazione straniera, in favore del pieno possesso del nostro suolo, della nostra nazionalit� e indipendenza."

"Vengono dopo quelle dirette contro le ingiustizie e gli abusi ed i mali ordini se non altro dei nostri governi. Non proteste a mano armata, come vollero farle a Rimini; perch� una protesta a quel modo, a volerla fare ora in Italia, occorrerebbe una buona posizione militare, duecentomila uomini e duecento pezzi di batteria; fatta invece con pochi fucili daremo motivo all'Europa di burlarsi di noi; perch� tutti sanno che le poche e deboli armi non bastano a dare l'autorit� della forza e tolgono o diminuiscono quella della ragione. Quando, in una nazione, tutti riconoscono giusta una cosa, e la vogliono, la cosa � fatta; ed in Italia il lavoro pi� importante per la nostra rigenerazione si pu� fare con le mani in tasca. Le vie aperte al coraggio civile, i modi del protestare sono infiniti, ma non � mia intenzione proporli ed esaminarli ad uno ad uno in questo scritto. Soltanto -dico- che quanto maggiore sar� in Italia il numero di coloro che saggiamente e pubblicamente discuteranno le cose nostre, che protesteranno in qualunque modo contro le ingiustizie che ci sono usate, tanto pi� rapidamente e felicemente progrediremo nella via della rigenerazione. Questa congiura al chiaro giorno, con il proprio nome scritto in fronte ad ognuno, � la sola utile, la sola degna di noi e del favore dell'opinione, e a questo modo anch' io di gran cuore mi dichiaro congiurato al cospetto di tutti, anch'io a questo modo conforto ogni buon Italiano a congiurare.
In virt� di questo modo, ogni Italiano non ha bisogno n� di accordi nascosti, n� di tenebrosi ritrovi, n� di giuramenti segreti; ogni Italiano pu� dar la mano all'Italiano da un capo all'altro della penisola senza neppure conoscerlo; ognuno pu� metter le sue forze in comune per l'opera comune. Un opera nota a tutti per i mezzi come per il fine e perci� leale; opera santificata dalla giustizia, protetta dall'opinione ed accompagnata dai voti di tutte le nazioni civili e di quanti sono al mondo uomini onesti e di buona fede; opera, che condotta per la via della verit� e della virt�, ci potr� meritare la benedizione di Dio, il quale, volgendo finalmente uno sguardo anche a noi, vedr� forse che, se furono grandi le antiche colpe d'Italia, � pure duro gi� da molti secoli il suo castigo".


Anche GINO CAPPONI traeva occasioni dai moti di Rimini per trattare "Sulle attuali condizioni della Romagna" in un articolo pubblicato in un giornale italiano di Parigi, in cui e premettendo che riteneva impossibile la pacificazione nello Stato Pontificio fino a che non si togliesse il potere di mano agli ecclesiastici, dimostrava che il "Pontefice doveva "regnare" non "governare" e concludeva con il dire che "�se il Papa se non si decide a cambiar ministri, istituzioni e leggi, tempo necessariamente verr� il tempo in cui la forza cieca di eventi improvvisi glielo imporranno: meglio render pi� venerabile la tiara con giuste concessioni ai sudditi che macchiarla di sangue e sporcarla di fango".

Un altro scrittore che si occup� dello Stato Pontificio fu LEOPOLDO GALEOTTI, il quale nel 1846 pubblic� a Parigi un libro "Della sovranit� e del Governo temporale dei Papi"; sosteneva che "il governo temporale della Chiesa si era guastato allorch� era caduto nelle mani del clero; occorreva quindi secolarizzarlo, sviluppando largamente le autonomie comunali e provinciali".

Da questa breve rassegna di scritti politici, venuti fuori nella prima met� del quarto decennio del secolo XIX, si pu� vedere come l'idea unitaria proclamata solennemente dal Mazzini perdeva terreno. Il grande esule aveva nel 1831 scritto:

"Senza unit� non vi � veramente nazione; perch� senza unit� non vi � forza; perch� il feudalismo, oltre che porre l'Italia sotto l'influenza necessaria di una o l'altra delle nazioni vicine, ridarebbe vita alle rivalit� locali oggi mai spente; perch� la serie progressiva dei mutamenti europei guida inevitabilmente le societ� Europee a costituirsi in vaste masse unitarie"; a distanza di circa tre lustri, dopo tante dolorose vicende, l'opinione pubblica si orientava verso il federalismo e, spinta dalle suadenti parole del Gioberti, guardava al Pontefice.

PROCLAMA DEI LIBERALI DI FORL� (del SAFFI)

I1 Papa sognato dal Gioberti non era certamente GREGORIO XVI. Tuttavia pur non essendo propenso a riforme, rimase molto scosso dalle frequenti agitazioni dei suoi sudditi, dalle relazioni dei suoi legati sulla fedelt� delle popolazioni, dalle accuse che venivano mosse da ogni parte al suo governo e dalle cose narrate dal d'Azeglio, e invi� nelle Legazioni i prelati JANNI e RUFFINI affinch� osservassero l'andamento dei processi criminali, si rendessero conto dei bisogni dei sudditi e suggerissero gli opportuni rimedi. Ma la missione dei due prelati si ridusse ad una passeggiata oziosa; le lagnanze della popolazione continuarono e i liberali di Forl� misero fuori un proclama, scritto dal conte AURELIO SAFFI, che rivelava i sentimenti delle popolazioni della Romagna ed era un significativo ammonimento al governo pontificio.

" Il popolo - questo il contenuto che qui riportiamo fedelmente - non � pi� oggigiorno una massa ignorante e passiva, non � pi� materia maneggiabile a grado di privilegiati e sovrani. Un mezzo ceto, numeroso, illuminato, potente, depositario delle opinioni civili, delle arti delle scienze; un popolo che tende dappertutto a sollevarsi alle prerogative e ai diritti morali, costituiscono nelle attuali societ� una forza che si va ogni giorno di pi� emancipando dalla obbedienza passiva e forma della pubblica opinione un terribile sindacato al potere; la civile uguaglianza dinnanzi alla legge; il diritto politico del cittadino a sorvegliare per mezzo di abili rappresentanti gli interessi comuni; il dovere, di ogni nazione di rivendicare se stessa da tutto ci� che tende a dividerla, offendendone il buon senso materiale e la morale dignit�; il buon ordinamento degli studi necessari a tutti i pi� nobili perfezionamenti della societ� con i quali la pubblica opinione si alimenta e progredisce; lo sviluppo della libert� commerciale; le istituzioni animatrici della produzione agricola e manifatturiera, le previdenze opportune a sollevare le classi inferiori dall' abiezione in cui vivono, educandole alla moralit� degli affetti domestici: tutto questo forma presso a poco il programma del liberalismo. Non si tratta di sovvertire la societ�, ma semmai di migliorarla; n� si vuole annientare il sentimento dei doveri religiosi, morali e civili, ma di avvalorare negli animi la dignit� e garantirne l'osservanza. Ci� non si ottiene dai popoli con l'avvilirli e renderli poveri e schiavi, sebbene con il sottrarli, per quanto � possibile, alle necessit� materiali ed elevarli alla vita dello spirito e all'intelligenza dei rapporti e doveri sociali .... Ora domanderemo a voi: che cosa fa il governo pontificio, non gi� un fatto di riforme politiche, che potrebbe parere un sogno il pretendere una costituzione dal Papa, ma almeno a favore di quegl'interessi economici e civili, che, senza scemare menomamente il potere, assicurano anzi, con il benessere e la tranquillit� dei sudditi, l'esistenza d'un governo?".

Enumerati i danni recati ai popoli dall'opposizione del governo ai miglioramenti economici,
cos� il Saffi continuava:

"Nondimeno, o signori, se i danni si fermassero qui, i popoli curverebbero forse le spalle e pazienterebbero. Ma vi e assai di peggio. C'� la polizia con le sue vessazioni politiche; ci sono i commessi, i carabinieri, i volontari con i loro atti arbitrari, violenti, provocanti l'ira del popolo .... Nelle nostre citt� si sono uditi vescovi predicare la guerra civile, la crociata contro i liberali; si sono visti preti mescolarsi alle misere ire di parte, eccitare le canaglie a furibonde passioni .... Per quanto riguarda il governo si studi di scoprire il vero senso dei moti popolari dello Stato, il fatto � che questi moti, e in particolare quelli recenti, non significano altro che un bisogno di riforme economiche e civili. Le domande espresse nel manifesto pubblicato a Rimini non erano n� eccessivamente ardite n� contrarie a quelle norme di ragione civile che molti governi, anche assoluti, oggi hanno adottato.
Ebbene che cosa hanno fatto i nostri reggitori dal moto di Rimini in poi? Hanno ancora di pi� premuto la mano sui sudditi; hanno sparso nuovi semi di malcontento non solo nelle quattro Legazioni, ma anche nelle Marche e nell'Umbria con arresti e persecuzioni; non hanno ascoltato nessuna delle tante domande, e in compenso ai mali passati e presenti hanno mandato voi, o signori, non a raccogliere i voti delle popolazioni, non a studiarne i bisogni, come fingono di credere alcuni giornali, ma a spazzare la polvere degli archivi, a sfogliare processi, a banchettare e a ricevere con superba vanit� il vile tributo dell'adulazione di pochi adepti; mentre i gravi disordini, gli errori amministrativi di ogni genere, gli arbitrii e le provocazioni, le vere e profonde cagioni del nostro malessere rimangono intatte".

"Signori ! noi vi vogliamo dire tutta la verit�. Non crediate che qui si congiuri e si tramino oscure insidie al potere. Forse i cattivi procedimenti dei nostri rettori andavano muovendo, ora qua ora l�, reazioni e tumulti; ma le questioni che abbiamo con il governo hanno per noi un interesse secondario, e la principale � la questione italiana. Sarebbe inutile perdere tempo e operare nella prima, prima che la seconda maturi. Il giorno che i nostri fratelli italiani crederanno di poter combattere lo straniero, noi li seguiremo con l'energia di un popolo stanco e indignato; e allora, o signori, tutte le ragioni tra la Corte romana e i sudditi saranno in breve pareggiate.
Signori ! Questo giorno pu� essere lontano ma potrebbe anche essere molto vicino .... Una grande mutazione si va compiendo nello spirito del popolo italiano; egli sente il suo avvenire, si riscuote alle memorie gloriose del suo passato, si va educando ai sacrifici, ai martirii, e le vessazioni non fanno che ritemprare ancora di pi� gli animi, in modo che noi dobbiamo essere pronti a chi ci fa del male. La vita italiana di oggi si � dunque elevata al sentimento della nazionalit�. Valga l'ammonizione !"
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MORTE DI GREGORIO XVI


Poco pi� di un mese dopo, e precisamente il 10 luglio del 1846, cessava di vivere l'ottantenne GREGORIO XVI. Abbandonato prima di morire dai familiari e perfino dal suo favorito GAETANO MORONI, che da barbiere lo aveva elevato al grado di primo aiutante di camera apostolica, non fu compianto dopo morto, anzi fu oggetto di frizzi, di motteggi e di versi satirici.
Era la sorte che si meritava non come uomo e Capo della Chiesa, ma come sovrano. Gregorio lasciava lo Stato in condizioni deplorevoli:

"Le sette liberali - sono parole del FARINI - male frenavano il livore e la vendetta; i Sanfedisti prepotenti facevano sacco nella stoltezza. Quella parte dei liberali che diceva di essere moderata faceva proponimento di combattere il cattivo governo con l'opposizione e la resistenza legale, con la stampa, con il civile coraggio; la parte onesta e saggia dei papalini riconosceva la necessit� di fare qualche riforma. Truppe indigene poche, mal disciplinate, mal pagate, mal fidate, buoni e fermi i reggimenti esteri; ma invidiati dai soldati nostri e di grave peso all'erario. Commercio povero, grande industria nessuna; contrabbando ordinato e forte pi� del fisco. La polizia arbitraria e vessatrice ai liberali; citt� e campagne mal ridotte, e insicure dalle bande no represse dei malandrini.
Nessuna statistica, tutti gli uffici male ordinati. Tasse e balzelli gravi e mal ripartiti, perch� a carico quasi solo della propriet�: odiossissima in alcuni paesi delle Marche e dell'Umbria la tassa del Macinato. L'aumento della pubblica ricchezza contrastato dalle non buone leggi civili ed economiche, dalla proibizione delle strade ferrate per gli ostacoli e l'immobilit� dei grandi possidenti. Mancanza di codici: disuguaglianza dei cittadini davanti alla legge. Immunit� e privilegi molti: l'amministrazione della giustizia intralciata, lenta, dispendiosa, dubbia. Debito pubblico di trentasette-trentotto milioni di scudi: deficit annuo di mezzo milione almeno; nessun sindacato; nessun rendiconto dell'amministrazione del tesoro. Istruzione ed educazione insufficiente in tutto, perfino in religione: una buccia, non la sostanza.

"Alla civile giovent� non era aperta la carriera delle armi, perch� disonorata, perch� oziosa e perch� dai mercenari contaminata; non in quella della diplomazia, privilegio degli ecclesiastici; non in quella della politica dell'amministrazione, della magistratura, perch� i soli ecclesiastici potevano toccare la m�ta dei gradi ed onori supremi. Censura sulla stampa e sui giornali e libri, sull'estera ancora pi� severa. Migliaia e migliaia di cittadini ammoniti, ai quali era interdetto qualsiasi ufficio onorevole o lucrativo, sia di governo sia di municipio. Grandissimo il numero delle famiglie che dopo il 1831 erano state perseguitate per cause politiche dal Governo e dai Sanfedisti. Duemila forse gli esuli i proscritti e i condannati politici. Le commissioni militari permanenti. Gli aiuti ed incrementi della civilt� avversati o negletti. L'alta nobilt� romana, duchi e principi, reverenti al papato, alla cui istituzione deve la sua fortuna, i suoi gradi, i suoi privilegi antichi, tuttavia mai amica dell'assoluto predominio della casta sacerdotale; n� operosa, n� affascinata dalle dottrine o dalle virt�. La nobilt� di provincia, ancora peggio, o avversa o nemica al Governo Pontificio, o indifferente. Non erano pochi in provincia i nobili cospiratori (basta vedere le condanne, e i nomi che abbiamo riportato in questi ultimi anni - Ndr.).
Poca in Roma la borghesia indipendente per fortuna e stato, e quanta di essa non ligia al Governo; molti i clienti e i servitori di cardinali e prelati, molti i trafficanti di abusi: copiosa la curia linguacciuta e doppia; massa molle, voluttuosa, slombata, servile ai dominatori; ma senz'anima, senza fede, senza gagliardia. Gli artigiani e la minuta gente a Roma forse devota al Pontefice; ma poco al principe, nulla al Governo; orgogliosa del nome romano, selvatica, rissosa. Popolani di provincia mescolati alle sette, audaci nelle fazioni. I contadini quieti in tutto; devoti al Capo della Religione, rispettosi al sacerdozio, scontenti del pagar troppo. Il clero minore, sia della capitale, sia delle province, semplice, poco istruito, sempre mugugnante degli abusi romani e del governo cattivo. Quella parte pi� straniera che romana, che vive e lussureggia, o spera di vivere e lussureggiare di abusi, di poteri, di onori; simulatrice, ipocrita, settaria, e faziosa all'occorrenza. Non forte insomma il Governo dell'amore dei sudditi e della pubblica opinione. Fuori: rimbrotti acerbi, sarcasmi, fama pessima, persuasione di nuove agitazioni e della necessit� di fronte a sostanziali riforme. I diplomatici paurosi d'insurrezioni e rivolte".( FARINI)

Dopo la morte di Gregorio XVI, chi sarebbe stato il nuovo pontefice?
E quale politica avrebbe seguito?

Leggeremo nel successivo capitolo, questo e quest'altro > > >


ELEZIONE DI PIO IX - L' "EDITTO DEL PERDONO" - LE DIMOSTRAZIONI - LE RIFORME - LA LIBERTÀ DI STAMPA E IL GIORNALISMO - I CIRCOLI - IL CONSIGLIO DEI MINISTRI - PROVVEDIMENTI DEL CARDINAL FERRETTI - OCCUPAZIONE AUSTRIACA DI FERRARA - LA CONSULTA - I PRELIMINARI DELLA LEGA DOGANALE - COMPONIMENTO DEL DISSIDIO AUSTRO-PONTIFICIO

Fonti, citazioni, e testi
Prof.
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - (i 5 vol.) Nerbini
P.COLLETTA - Storia (Napoleonica) del Reame di Napoli 1734-1825- 1834
A. VANNUCCI - I Martiri della Libertà - Dal 1794 al 1848 - Lemonnier 1848
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
CRONOLOGIA UNIVERSALE - Utet 
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
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